COMMISSIONI RIUNITE
III (AFFARI ESTERI E COMUNITARI) - XIV (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA) DELLA CAMERA DEI DEPUTATI E 3a (AFFARI ESTERI, EMIGRAZIONE) - 14a (POLITICHE DELL'UNIONE EUROPEA) DEL SENATO DELLA REPUBBLICA

Resoconto stenografico

AUDIZIONE


Seduta di giovedì 9 novembre 2006


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
DELLA XIV COMMISSIONE
DELLA CAMERA DEI DEPUTATI
FRANCA BIMBI

La seduta comincia alle 14,45.

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso e la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.

Audizione del Presidente del Parlamento europeo, Josep Borrell Fontelles.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione del Presidente del Parlamento europeo, Josep Borrell Fontelles, che ringrazio per la partecipazione all'odierna seduta.
Siamo molto onorati di audire il Presidente del Parlamento europeo, particolarmente in questo momento, molto importante anche per il ruolo dello stesso Parlamento europeo.

MARCO BOATO. Mi scusi, presidente, mi chiedo se non sia possibile chiedere un breve rinvio dell'inizio dei lavori dell'Assemblea onde disporre di un tempo adeguato per l'audizione. Se la richiesta venisse formulata dai presidenti delle Commissioni...

PRESIDENTE. Abbiamo già cercato di operare in questo senso, onorevole Boato.
Do la parola al nostro ospite.

JOSEP BORRELL FONTELLES, Presidente del Parlamento europeo. Molte grazie e buonasera a tutti. Il mio italiano non è perfetto, quindi, se me lo consentite, proseguirò l'intervento in lingua castigliana. Potrete capire quasi senza traduzione, perché sarà più facile da comprendere di quanto lo sarebbe se provassi a parlare nella vostra bella lingua. Sicuramente, Manzoni non mi perdonerebbe gli errori di pronuncia, che diversamente commetterei.
Cari colleghi, signora presidente, signor presidente, è per me motivo di grande soddisfazione potermi esprimere in questa sede, a Montecitorio, che mi ricorda la precedente presidenza italiana dell'UE. Allora ero presidente della Commissione affari europei del Parlamento spagnolo e lì cominciai a conoscere buoni amici, che poi ritrovai alla Convenzione e con i quali ebbi occasione di lavorare. Riconosco qui tanti visi di vecchi compagni di lavoro su un testo che, se tutto fosse andato come previsto, sarebbe entrato in vigore mercoledì scorso e oggi le bandiere dell'Unione sventolebbero su tutte le aste per festeggiare. Però, oggi non ci sono bandiere che garriscono, perché le cose non sono andate come pensavamo e siamo in una situazione di impasse.
Il 29 ottobre di due anni fa in Campidoglio per la firma del progetto di Costituzione, rammentai che da Roma 1957 a Roma 2004 avevamo percorso una lunga strada, avevamo costruito l'Atto unico, rilanciato il mercato interno, creato l'euro e riunificato l'Europa; una lunga strada, nel corso della quale avevamo raggiunto tanti obiettivi e con quel Trattato avevamo cercato di riepilogare quanto fatto per dare nuovi impulsi a quello che ci rimaneva da fare. Lo avevamo chiamato Costituzione,


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forse in un atto di volontarismo politico, perché con quella parola volevamo sottolineare la volontà di far emergere un popolo europeo.
Ricordo che c'era il ministro degli interni Amato, anch'egli sodale in Convenzione, che pensava di partorire una figlia, la Costituzione, mentre si trattava di un figlio, un Trattato, perché l'esigenza dell'unanimità per modificarlo gli faceva perdere una parte del suo carattere costituzionale. Siamo in un impasse; la Finlandia ratificherà, ma credo che sarà l'ultimo paese a farlo. Purtroppo non ravviso, tra i paesi che ancora non hanno proceduto alla ratifica, la minima intenzione di provarci; scelta da deplorare perché sarebbero giuridicamente tenuti a farlo.
La firma di Roma del 29 ottobre ha infatti un valore. Viviamo in uno stato di diritto e i Governi assumono responsabilità. Come diceva Junker a Bruges qualche giorno fa, è obbligo giuridico provare a ratificare. Tutti dovremmo sapere qual è l'opinione di tutti gli altri. Non è la stessa cosa se ad esser contrari sono solo due, oppure un numero maggiore. Francamente, questo non succederà. Ad esempio, un paese come la Danimarca ha comunicato che non proverà neanche a ratificare, altri non lo dichiarano, ma sappiamo che non lo faranno.
Ci chiediamo come poter uscire da tale situazione; possiamo protrarre il periodo di riflessione, certo, ma questo comincia ad essere troppo lungo e non si intravede il risultato. Ci chiediamo se occorra la ragione o la forza degli eventi, ovvero se ci soccorrerà la nostra capacità, o sarà invece l'azione degli altri a costringerci a reagire.
A questo proposito, desidero leggere delle parole pronunciate da un illustre visitatore del Parlamento europeo che disse: «L'Europa è giunta ad un punto dove se non la ragione, sarà la forza degli eventi ad imprimere la spinta risolutiva dell'unità o del fatale declino. È assediata da sfide che potrebbero presto risultare intollerabili nella sua attuale frammentazione. Attardarsi in sacri egoismi o in calcoli meschini o in fragili compromessi potrebbe rivelarsi domani sterile esercizio e gioco a somma zero. È giunto dunque il momento di agire».
Avrete riconosciuto nel mio pessimo italiano le parole di un italiano, Sandro Pertini, Presidente della Repubblica che si espresse con queste parole vent'anni fa, l'11 giugno 1985. La Spagna allora non faceva ancora parte dell'Unione, ed ero ancora ministro di un governo che non apparteneva all'Unione. Ebbene, già allora un Presidente della Repubblica italiana diceva ai parlamentari europei che, se non la ragione, la forza degli eventi ci avrebbe costretto a reagire per evitare il rischio della decadenza.
Tre anni dopo, Delors pubblicava il Libro bianco sul mercato interno e in quell'Assemblea c'era Altiero Spinelli, instancabile militante a favore delle istituzioni federali, che aveva approntato un progetto costituzionale ambizioso. Quando Pertini pronunciava queste parole, ci suggeriva di confrontare i nostri progetti con la meta fondamentale costituita dall'unione politica. Unione politica significa approfondimento dell'integrazione, e in questi vent'anni abbiamo fatto molto di più nell'allargamento che non nell'integrazione, tanto che questo squilibrio oggi è palese anche a chi non vorrebbe riconoscerlo.
L'appello a integrarci di vent'anni fa oggi è diventato perentorio, è impellente, perché a Nizza era chiaro che esisteva un triplice problema di legittimità, dimensione ed efficienza ed oggi è chiaro che questi tre problemi si alimentano a vicenda, poiché la mancanza di efficienza, dovuta ad una dimensione incompatibile con l'unanimità, delegittima. È quindi importante che l'Unione dia risultati per dimostrare che è necessaria ed utile, ma i risultati, le buone politiche e i progetti sono frutto di istituzioni.
Sappiamo bene che le politiche non crescono sugli alberi, ma derivano da buoni meccanismi istituzionali. Per questo motivo dobbiamo ravvivare la Costituzione, non come esercizio intellettuale per l'obiettivo estetico di riunire in un unico testo 50 anni di costruzione europea. Non


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si tratta di un obiettivo estetico, ma di un'esigenza urgente: sin dal 1997, ad Amsterdam, esigiamo una riforma delle nostre istituzioni, che non siamo ancora riusciti ad avere. Ieri la Commissione ha emanato un parere critico sulla Turchia, affermando inoltre che non saranno possibili nuovi allargamenti se prima non riformiamo le istituzioni.
Il Parlamento lo aveva affermato alcuni mesi fa, scandalizzando e suscitando critiche. Sono lieto che oggi la stessa Commissione riconosca l'impossibilità di elevare i piani dell'edificio senza interrogarsi sulla solidità delle fondamenta. Non si può continuare a decidere all'unanimità a 27, ancor più eterogenei oggi di quanto non fossero ieri i 6 o i 15.
Oggi, gli europei dubitano dell'autorevolezza dell'Europa che è stata costruita, come dubitano anche dei suoi obiettivi. Eppure dovrebbe essere evidente - cito ancora una volta il Presidente Pertini - che sono gli eventi a definire la necessità del progetto europeo. Oggi gli eventi sono rappresentati da globalizzazione, migrazioni, innovazione tecnologica, cambiamento del clima, terrorismo internazionale, invecchiamento demografico, scarsità e dipendenza energetica.
Non occorre aggiungere altro a questa già lunga lista di problemi, ai quali nessun paese europeo sarà in grado di far fronte da solo, perché anche il più grande si rivela troppo piccolo, il più forte a sua volta troppo debole per riuscire ad affrontare con le sue forze il declino demografico, la dipendenza energetica, il cambiamento del clima, la concorrenza dei paesi a basso salario, la corsa tecnologica, le migrazioni.
Nel XX secolo abbiamo conosciuto la globalizzazione della guerra; nel XXI secolo conosceremo la guerra della globalizzazione. Nel XX secolo la guerra fu globalizzata, divenne mondiale: l'Europa fu lì lì per suicidarsi. Domani visiterò Cassino - come ho sempre desiderato fare - in memoria e in omaggio ad uno degli scenari più drammatici di quella guerra. Abbiamo superato la divisione tra noi grazie a questo progetto, oggi in crisi, di cui bisognerebbe però riconoscere il valore dinanzi alle tombe di coloro che morirono in quelle sterili battaglie tra europei. La guerra globale ormai non motiva la gioventù, perché essa non teme di essere richiamata in trincea, ma è consapevole di dover affrontare il conflitto della globalizzazione, che, a volte, implica un confronto tra civiltà - alcuni sembrano impegnati a suscitarlo - ed anche se non si tratta di una guerra cruenta, ne esiste una aperta per le quote di mercato, per i modelli sociali, per i sistemi distributivi, per l'accesso alle risorse naturali.
Considerate il dinamismo diplomatico della Cina, il grande successo che ha avuto la Conferenza di Pechino con i capi di Stato africani, comparatelo con il fallimento ottenuto poco tempo fa a Barcellona dalla Conferenza dei paesi mediterranei. Probabilmente una Conferenza di Stati africani convocata a Roma o a Berlino non avrebbe avuto lo stesso successo, perché noi che pure rappresentiamo la parte più ricca del pianeta non abbiamo né la stessa forza, né la stessa dimensione, né la stessa volontà d'azione della Cina, che pure è più povera. Quindi, noi europei dobbiamo avere un soprassalto per evitare la rassegnazione, per evitare che i nostri sistemi sociali si facciano concorrenza tra loro, laddove, oggi più che mai, avremmo bisogno di un quadro di riferimento comune, per evitare che il patriottismo economico torni in auge in tutti i paesi, a cominciare dal mio.
Ritengo necessario cambiare i meccanismi decisionali per far emergere la volontà politica. Ci chiediamo come essa possa emergere in sistemi politici dominati dall'unanimità, cioè dal diritto di veto di ciascuno, quale necessità ci sia di negoziare se tutti possono impedire che si giunga ad un accordo, dove siano gli incentivi per far parte di una maggioranza, per confrontarsi con altri soggetti, modificare posizioni e giungere a punti di incontro se ciascuno può rifiutarsi di andare avanti. Ci interroghiamo altresì sul motivo per cui non abbiamo una politica comune dell'immigrazione. Da sette anni la sbandieriamo, però non la abbiamo


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ancora perché per approvarla occorre l'unanimità. Questo è un alibi comodo, tanto che giorni fa a Lahti, al Consiglio europeo a cui ho avuto l'onore di partecipare, ho potuto constatare che ormai diversi paesi non credono nel bisogno di comunitarizzare la politica migratoria.
In assenza di una politica in questo campo, siamo giunti a perdere la consapevolezza della sua necessità, il che fino a un certo punto è razionale, perché se si ha bisogno di ciò che non si ha, forse in realtà non se ne ha bisogno, altrimenti si sarebbe già fatto il necessario per conseguirlo. Questo, però, conduce all'impotenza. Non si tratta di una mia frase di oggi, ma di una citazione di Paul Henri Spaak del 1951, quando fu creato il Consiglio d'Europa: «Se in questa assemblea» - diceva - «si spendesse un quarto dell'energia che usiamo a dire no per fare qualcosa altro, non saremmo nella paralisi odierna».
Credo che oggi l'unanimità valga per ambiti troppo estesi ed importanti, e sia quindi incompatibile con la dimensione e l'eterogeneità dell'Unione. Ciò appare crudelmente evidente in politiche importanti come quella dell'energia o dell'immigrazione. Sull'immigrazione, ho già spiegato che il bilancio non potrebbe essere più deludente. Colgo l'occasione della mia presenza qui a Montecitorio per sottolineare l'impegno del commissario Frattini, che, quando si presenta in Parlamento, ha sempre l'appoggio della Camera e recentemente ha avuto il coraggio di riconoscere e denunciare che non ci sarebbe tanta immigrazione clandestina se non vi fosse un'offerta di lavoro illegale.
Qui si rivela l'enorme ipocrisia della società che cerca di combattere un male da noi stessi provocato. Non ci sarebbero infatti clandestini se non ci fosse un'offerta di lavoro illegale, che già beneficia troppi interessi. A Lahti è stata nuovamente rifiutata anche l'applicazione della clausola passerella che permetterebbe di passare alla maggioranza qualificata nella cooperazione giudiziaria e di polizia, con la scusa che così si anticiperebbe la Costituzione. Sappiamo che così non è, perché la clausola è già inclusa nei trattati vigenti. Siamo passati dal respingere il cherry picking a usarlo come scusa per non applicare ciò che già da tempo è in vigore. È importante, allora, che queste considerazioni siano tenute ben presenti, perché l'incapacità di decidere è la malattia che oggi più gravemente affligge l'Europa.
Per uscire dall'impasse costituzionale, consentitemi di tratteggiare qualche scenario. Ne ho almeno quattro che dovrebbero essere analizzati. Il primo - proverò ad essere concreto, discostandomi dalla retorica generalizzante - consiste nel testo tale e quale, con l'aggiunta di un qualche edulcorante. Il secondo scenario consiste nel salvare gli elementi più importanti in un trattato non meno importante, ma più corto. Terzo scenario: aprire di nuovo la trattativa su certi punti, il cosiddetto «Nizza più». La quarta ipotesi è rappresenta dall'abbandono del progetto attendendo tempi migliori per rinegoziarlo; questo potremmo chiamarlo «Nizza senza più». In altre parole, possiamo dire che il primo scenario consiste nell'aggiungere qualcosa, il secondo nel tagliare, il terzo nel rinegoziare i punti più conflittuali ed il quarto nell'accontentarci di quello che abbiamo.
Il primo scenario, quello del testo invariato con qualche aggiunta, è un'idea della signora Merkel. Ricorderete il problema del protocollo sociale in Francia, per cui, in assenza di un contenuto sociale, si provvede aggiungendo un allegato sociale. Francamente, non ritengo che questa sia la soluzione, perché lo stesso testo con un allegato sarebbe ancora più lungo, confuso e contraddittorio. Inoltre, dovrebbe nuovamente passare per un referendum dal risultato assai incerto. Di questo la signora Merkel non fa menzione e non ritengo sia questo il modo per convincere i francesi o gli olandesi, o per accrescere l'entusiasmo europeo dei britannici. Se quindi si è pensato di poter procedere per aggiunte, oggi l'idea sembra esser stata abbandonata.
Il secondo scenario è il mini-trattato, come ha detto un candidato in pectore alla presidenza della Repubblica francese. Si


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chiama mini trattato ma, in base alla descrizione del suo contenuto, non lo definirei mini, come si fa per sminuirne la dimensione politica e aggirare il referendum, laddove il contenuto non è affatto mini, così come non lo è l'obiettivo della riforma delle istituzioni. Da anni tentiamo di raggiungere questo obiettivo che rappresenterebbe un maxi risultato. In un certo modo, ciò significherebbe passare da un trattato costituzionale a uno istituzionale.
Sarebbe forse una buona denominazione per spiegare il restringimento delle nostre ambizioni e renderle più realistiche, perché ciò di cui abbiamo bisogno è una riforma istituzionale. Allora facciamola! Questa sarebbe la prima parte; alcuni elementi innovatori della terza parte potrebbero confluire nella prima parte, in un testo che definisca competenze, loro esercizio, funzionamento delle istituzioni, rapporti tra di esse. Mi si obietterà che questo non è accattivante in termini politici, che non attrae i cittadini. Certamente è vero, però, nelle gare automobilistiche, so bene che lo spettatore non è interessato alla termodinamica dei motori, ma senza i motori non c'è gara, dunque ci deve pur esser qualcuno che si occupi di mettere un motore nella vettura. Anche se non è interessante per il vasto pubblico, dunque, deve esserlo per gli specialisti della cosa pubblica, quali noi siamo (ci pagano per questo). Certo, non può diventare il grande dibattito tra milioni di persone, ma noi responsabili e rappresentanti dobbiamo essere in grado di definire in che modo funziona il motore della macchina, dove sono il volante, i freni, l'acceleratore, perché ormai c'è gente che non lo capisce più.
Quindi auspichiamo un trattato che affronti i problemi fondamentali e rinvii a un momento successivo il riassunto delle 80 mila pagine di storia dei trattati precedenti o la definizione di nuove politiche. Questo si addice alla situazione attuale più di altre soluzioni, ma non è facile, perché temo molto - questo mi conduce al terzo scenario - che, se si prova a modificare il testo, anche soltanto per delimitarlo, ciascuno avanzerà le proprie richieste di modifica e, quindi, sarà messo in discussione l'equilibrio raggiunto alla Convenzione e poi alla CIG. In questo senso mi preoccupa che alcuni paesi affermino di non essere disposti ad accettare un compromesso sul sistema di voto in Consiglio, ma preferiscano tornare a Nizza. Questo sarebbe allora un «Nizza meno». Ritengo che, se entriamo in quella dinamica, non «ne caveremo le gambe», perché cercare all'unanimità un equilibrio diverso tra 27 paesi costituisce un obiettivo irraggiungibile, o quantomeno difficilissimo da raggiungere a breve termine.
Sicuramente riapriremmo la discussione sulle radici cristiane dell'Unione, e su altri temi interessantissimi ma forse non fondamentali per far sì che Commissione, Consiglio e Parlamento lavorino con efficacia, cosa di cui ora si sente la mancanza.
La quarta soluzione sarebbe quella di lasciare le cose nello stato attuale, ovvero solo Nizza, senza nulla di più. In fin dei conti andiamo avanti con il trattato di Nizza da sei anni, quindi potremmo forse seguitare ancora un po'. Personalmente, non lo credo, perché, anche se non succedesse nulla di tragico, se non ci fosse nessuna crisi, bisogna constatare che la macchina sta rallentando, che tra breve il Parlamento europeo sarà in «cassa integrazione» perché non avrà più progetti legislativi su cui pronunciarsi. Lavoriamo pianissimo: per approvare la direttiva sui servizi ci avremo impiegato cinque anni, se andrà bene. Se Montecitorio o le Cortes spagnole impiegassero cinque anni per approvare un disegno di legge, se ne sottolineerebbe l'inefficienza. Mi dispiacerebbe se questa fosse la media di Montecitorio, ma non credo che un Parlamento nazionale lavori con tempi così lunghi.
Comunque sia, è importante uscire da questa situazione, altrimenti pian piano la macchina si fermerà, non ci saranno iniziative, accordi, decisioni e, invece di influire sulla globalizzazione, ci limiteremo semplicemente a subirne le conseguenze.
Bisogna poi aggiungere qualche nota ottimistica, per evitare che il mio discorso


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appaia imbevuto del pessimismo dell'intelligenza. Esistono anche aspetti che inducono all'ottimismo, perché dopo il no abbiamo continuato a lavorare, abbiamo avviato cinque missioni nel mondo: ad Aceh, in Indonesia, a Rafah, presso la frontiera Gaza-Egitto, alla frontiera tra Moldavia e Ucraina, in Congo e ora in Libano. Questo anche grazie alla volontà e all'influenza dei Governi italiano e spagnolo. In particolare, è stata l'Italia a trascinare altri e di questo mi congratulo con voi.
La dinamica parlamentare ha permesso una migliore collaborazione tra Parlamento europeo e Parlamenti nazionali. Forse è un vantaggio che il Presidente del Parlamento europeo sia stato prima parlamentare nazionale, perché ha visto i tori dal centro dell'arena e poi dalla barriera, ed è consapevole di come i parlamentari vedano il Parlamento e può capire meglio i reciproci problemi di interpretazione. Abbiamo molto migliorato la nostra capacità di collaborare, smontando antagonismi e sospetti, particolare per il quale consentitemi di congratularmi con me stesso.
Il 4 e 5 dicembre si svolgerà una nuova riunione interparlamentare per discutere del futuro dell'Europa. Ne abbiamo avuta una sotto ogni presidenza, scelta che ci ha consentito di lavorare meglio e assumere consapevolezza della necessità di collaborare. Abbiamo ambiti di legittimità diversi, ma complementari, non antagonistici.
Dobbiamo lavorare per produrre e dobbiamo avere progetti concreti e visibili, ma questi devono confluire in un progetto politico, perché non siamo una organizzazione non governativa. Ho visitato molti paesi non membri, molti paesi emergenti in America latina e in Africa. Lasciatemi dire che l'Europa e la sua bandiera sono presenti dappertutto, in piccole dosi omeopatiche: nei centri di rieducazione dei guerriglieri in Colombia, nei parchi nazionali in Costarica, in caserme trasformate in università a Panama, ovunque ho rilevato una presenza europea desiderata e amata. Tuttavia, più che come progetto politico, siamo visti come una organizzazione non governativa, un'organizzazione benevola e generosa che raggiunge obiettivi positivi, apprezzabili. Quindi abbiamo una forte presenza, ma essa non riesce a configurare una politica.
Ciò è vero soprattutto in Medio Oriente, dove paghiamo sempre di più la ricostruzione di quello che è appena stato distrutto. Ad esempio, abbiamo una forte presenza militare, ma tutto ciò ha senso solo se, oltre ad essere presenti, riusciamo a esercitare un'influenza in grado di risolvere il male alla radice, anziché fermarci a rimediarne gli effetti.
Sono onorato di questa occasione, cari colleghi italiani, per parlare di questo. Il periodo di riflessione volge al termine e non possiamo continuare a riflettere all'infinito, perché, visitando l'India e la Cina, ci si accorge che non abbiamo molto tempo dinanzi a noi. Prima si parlava di ciò che sarebbe accaduto con il risveglio della Cina, ma oggi essa si è ormai svegliata, e ora deve svegliarsi l'Europa, che continua ad essere una sorta di Cenerentola che si rimira nello specchio costituzionale, chiedendosi se il vestito che indossa è il più bello. Rischia di arrivare al ballo in ritardo e di trovare tutti i posti occupati da paesi emergenti, giovani, dinamici, creativi, competitivi di fronte ad un'Europa che rischia di diventare un museo all'aria aperta o un ospizio per vecchi.
Questo è vero in particolare in Italia, perché voi siete un museo vivente, ma siete anche la società con il maggiore declino demografico di tutta l'Europa. Come diceva Romano Prodi venti anni fa «è urgente agire, perché il mondo non ci aspetta». Per questo motivo è importante lavorare insieme, lanciare un segnale d'allarme, smettere di guardarci l'ombelico e prendere coscienza del mondo in cui viviamo. Grazie (Applausi).

PRESIDENTE. Ringraziamo il Presidente Borrell Fontelles che ci ha richiamato con il suo realismo al nostro senso di responsabilità, accostando il piano della realtà - i temi della globalizzazione, innovazione tecnologica, declino demografico,


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immigrazione, clima, energia e terrorismo - agli scenari di possibile realizzazione di un trattato, almeno istituzionale, condiviso da tutti, che consenta di essere più integrati con l'Europa. Accostare questi due scenari desta qualche preoccupazione, ma fornisce anche un input per impegnarci di più nei prossimi mesi.
Nel suo intervento si è sentita con forza la sua esperienza alla Convenzione, come quella di presidente della Commissione delle politiche europee del Parlamento spagnolo, e si è colta, accanto al realismo, anche la passione di chi ha vissuto stagioni importanti da questo punto di vista.
Passiamo agli interventi dei colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

NINO STRANO. Presidente, la ringrazio di avermi dato la parola e anch'io do il benvenuto al presidente Borrell che, come 14a Commissione del Senato, abbiamo già avuto il piacere di incontrare in Spagna. Presidente Borrell, ho ascoltato quasi tutta la sua esposizione e vorrei riproporle alcuni quesiti evidenziati recentemente, durante una visita in Romania e Bulgaria. Erano allora presenti il vicepresidente Perrin ed il presidente Manzella, oggi assente, che ha diretto magnificamente la nostra spedizione. Ho preso atto con grande attenzione della sua considerazione nei confronti, ad esempio, dell'India e della Cina, paesi giovani ai quali fa riferimento, ma desidererei sapere se l'Europa può soltanto pensare al dato economico, industriale, al quale poc'anzi accennava anche il presidente Bimbi. Vorrei sapere se questi dati sono essenziali per garantire unità all'Europa o esista anche l'obiettivo - a mio avviso importante - che l'Europa possa costruirsi un'anima politica. La vita non è costituita soltanto da economia o progetti. Non dimentichiamo che, mentre noi abbiamo le libertà, che abbiamo visto recuperate anche in paesi come la Romania e la Bulgaria usciti dal giogo comunista, la Cina è sì economicamente forte, ma in essa si applica ancora la pena di morte e vi sono diverse forme di repressione; in altre parole, è un paese giovane ma con tanti aspetti vecchi da eliminare. Ritengo quindi che questi possano essere competitori in un certo settore, ma non certo modelli da imitare o emulare.
In secondo luogo, presidente Borrell, ho notato il modo con cui ha accennato al tema della dizione cristiano giudaica all'interno della nostra Costituzione, che sarebbe negativo rendere un feticcio, così come anche trascurare. Coloro che, infatti, non si riconoscono in questa accezione propria dei paesi europei, sia dell'occidente che dell'oriente europeo, legittimamente si vantano della loro radice islamica, che molto spesso, sfortunatamente, in alcune parti sfocia in quel terrorismo islamico che l'Europa non ha condannato con grande forza. Mi riferisco ad esempio all'occupazione violenta del territorio somalo da parte delle forze islamiche appoggiate dalle milizie della jihad islamica, contro la quale l'Europa non ha levato forte la sua voce, né attraverso il Parlamento, né attraverso la Commissione o il Consiglio Europeo.
Questi dati, presidente Borrell, ci fanno capire come l'unanimità molto spesso difficile da raggiungere conduca sicuramente ad una forte sicurezza qualora essa venga raggiunta o si riveli ampio il consenso sulle considerazioni che mi sono permesso di rivolgerle. Benvenuto in Italia e buon lavoro.

VALDO SPINI. Rivolgo un sincero ringraziamento al Presidente del Parlamento europeo Borrell Fontelles per questa splendida esposizione. Farò due considerazioni scusandomi perché non potrò ascoltare la risposta poiché devo recarmi in Assemblea per votare.
Ritengo che si debba dimostrare il massimo rispetto per i cittadini della Francia e dei Paesi Bassi che hanno rifiutato il testo costituzionale, ma questo non deve significare non avere rispetto anche per i cittadini dei paesi che invece lo hanno ratificato, sia con un referendum come la Spagna, sia con i voti dei Parlamenti.


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In questo senso, ritengo che non si possa assolutamente abbandonare l'iniziativa sul tema della Costituzione e mi permetterei di spezzare una lancia in favore dell'ipotesi numero 2, ovvero del cosiddetto mini trattato che, in realtà, può divenire un maxi trattato. Domando al presidente Borrell la sua opinione sull'ipotesi di un trattato costituito da 100 articoli, numero che potrebbe anche essere produttivo dal punto di vista dell'immagine. Si potrebbe salvare tutta la prima parte, mentre la seconda per qualche giurista potrebbe essere sintetizzata in un unico articolo affermando che è costituzionalizzata la carta dei diritti fondamentali. Qualche giurista afferma che si potrebbe sostituire la carta copiativa degli articoli attraverso uno solo di essi, che la dichiari costituzionalizzata.
Nella terza parte, a ben vedere, vi sono molti articoli che sono già in funzione, perché in essa sono stratificati i vari trattati esistenti. Quindi, si potrebbe condurre un'operazione di recupero delle innovazioni, attraverso la proposizione di un testo che potrebbe avere delle caratteristiche nuove e forse consentire alla Francia e ai Paesi Bassi di procedere solo in sede parlamentare e non attraverso nuovi referendum.
Ritengo che l'incarico di avanzare una proposta dovrebbe spettare proprio al Parlamento europeo, che, rappresentando i cittadini e avendone l'autorevolezza, dovrebbe agire con i Governi come abbiamo agito come Convenzione, ormai sciolta, ovvero prospettando una soluzione all'altezza di quelle necessità che giustamente ci ricordava anche Sandro Pertini nel 1985.

GIULIO ANDREOTTI. Grazie presidente, vorrei rallegrarmi con il Presidente perché ha lo stesso entusiasmo che avevamo noi cinquant'anni fa, ma ritengo che si debba guardare realisticamente alla situazione. Il testo, che chiameremo Giscard d'Estaing, ha mirato troppo in alto e la regola dell'unanimità certo è spesso di impaccio, ma non possiamo aggirarla. Ricordo che, quando si discusse la carta sociale, c'era quasi unanimità, ma la signora Thatcher affermò che si trattava di materia interna di ognuno degli Stati e quindi non potemmo realizzarla.
In concreto, ci chiediamo come si potrebbe intervenire oggi. Si potrebbe redigere un testo meno impegnativo di quello non approvato nei due referendum, improntandolo su tre punti, il primo dei quali è la gradualità. Già a Maastricht abbiamo commesso un errore, abbiamo camminato troppo in fretta, dibattendo di politica estera e di sicurezza comune. Forse, se avessimo detto o dicessimo «graduale convergenza delle politiche estere e di sicurezza» sarebbe una strada percorribile.
Il secondo punto consiste nella necessità di dare all'Unione un più forte contenuto sociale. Finora le organizzazioni sindacali e le organizzazioni sociali sono rimaste al di fuori. Credo esista ancora una specie di rito, in base al quale il giorno prima del Consiglio europeo si ricevono i rappresentanti dei sindacati, ma si tratta di una mera cerimonia, che non ha prodotto un contenuto sociale. Il terzo aspetto, dopo la gradualità e la socialità, è rappresentato dai progetti.
La migliore stagione dell'Unione europea - era ancora Comunità - si è verificata quando, al Consiglio europeo di Venezia, fu approvato il documento Genscher-Colombo che riguardava il dialogo tra israeliani e palestinesi. Era una grande novità ma si riuscì, dopo qualche tempo, a fare in modo che sia l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina sia il Governo di Israele avviassero un dialogo, passato poi attraverso Oslo. I tempi sono stati lunghi, ma si trattò di una proposta politica.
Ritengo dunque prioritario ottenere un testo che si impegni ad una certa gradualità nella politica comune, che acquisisca un impulso sociale più forte, più concreto, per un'armonizzazione delle nostre società e che, in terzo luogo, formuli un progetto. Per esempio, manca un progetto per trovare una soluzione alla questione palestinese. Adesso abbiamo il Libano; questa è una buona operazione come forza di intermediazione,


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ma nessuno quasi mai ricorda che nel Libano vi sono mezzo milione di rifugiati palestinesi, di cui nessuno si occupa. Il Libano non li vuole e nessuno se ne occupa. Non sono personalmente in condizione di improvvisare un progetto, ma penso che, se lei, presidente, infonderà nella guida del Parlamento lo stesso entusiasmo che oggi ha dimostrato di avere, forse potremo ricominciare in salita un certo percorso.

JOSÈ LUIZ DEL ROIO. Ringrazio il Presidente Borrell Fontelles per le sue parole. Non so se lei abbia una qualità o una manchevolezza come politico: è stato infatti estremamente sincero, e la ringrazio molto anche per questo. Conosco la sua storia, che lei ha citato riferendosi alle sue esperienze al Parlamento spagnolo, al Parlamento europeo, ovvero una vita in Parlamento. Anch'io ho avuto una vita un po' simile. Lei parlava di Nizza, e io ero a Nizza ma nelle manifestazioni - duramente e brutalmente represse - dei sindacati, dei giovani e dei movimenti, quando Schengen è stato sospeso, quando fu fermata mia figlia di 16 anni e rischiò di congelarsi perché erano mesi freddi. Quindi il trattato di Nizza può essere considerato da un altro punto di vista.
Abbiamo combattuto contro quel trattato, contro il trattato costituzionale, non perché siamo contro l'Europa, ma perché pur credendo che questi popoli non possano avere futuro - lei ne ha citato il motivo parlando della Cina e dell'India, dell'immensa sconfitta dell'Europa rappresentata dall'accordo Africa-Cina, di cui si è parlato poco - senza l'Unione europea, non siamo convinti della strada. Credo che qui manchi la quinta via e sia necessario riscrivere ex novo la Costituzione europea, ascoltando maggiormente i popoli, ascoltando le organizzazioni giovanili, le organizzazioni dei movimenti sociali, le chiese, i sindacati. È necessaria una discussione che possa provocare amore verso l'Europa, convincere gli europei che non c'è futuro senza l'Europa, promuovere una Costituzione che non sia neoliberale ma meritevole di amore. È un lavoro che può essere lungo e arduo, può rischiare di arenarsi, ma non vedo altre strade.
Finisco citando un altro male che individuo in questa costruzione europea: la sottomissione culturale e militare agli Stati Uniti d'America. Questo fa male all'Europa in quanto non è un'appendice atlantica, ma è molto più antica per storia e forse anche per orrori.
Lei ha citato le missioni della PESD, della politica europea in materia di sicurezza e difesa, e concordo nell'opinione che si tratti di un punto positivo. Non per questo, però, bisogna lavorarci più che su di un altro terreno, perché si tratta di strade diverse, complicate, che però possono coesistere. Grazie, Presidente Borrell.

PRESIDENTE. Non essendovi altri interventi, do ora la parola al Presidente del Parlamento europeo, Josep Borrell Fontelles, per la replica.

JOSEP BORRELL FONTELLES, Presidente del Parlamento europeo. Ringrazio tutti i colleghi parlamentari. Al senatore Strano desidero precisare che non proporrei né la Cina né l'India come modelli da seguire, e neppure gli Stati Uniti. Se l'Europa non dovesse reagire, assisteremmo purtroppo ad un nuovo sistema bipolare con l'Asia da una parte e gli Stati Uniti dall'altra. Non mi piacerebbe che ci ritrovassimo di nuovo in un mondo bipolare. Senz'altro la Cina e l'India non sono modelli, ma esempi di dinamismo economico che non possiamo ignorare.
Ribadisco che non mi seduce questa combinazione tra un partito comunista vecchio stile e un mercato ultra liberalizzato. La Cina ha ancora 800 o 900 milioni di miserabili, ma bisogna porre attenzione a quanto accade al suo interno, perché il futuro dell'umanità si scriverà - nel bene o nel male - in questa area e inciderà profondamente su di noi, sia sotto il profilo degli squilibri ambientali provocati dalla crescita della Cina, sia come impatto sul nostro modello sociale, perché non riusciremo ad erigere barriere, né muri, né frontiere. Oggi, 9 novembre, è l'anniversario della caduta del muro di Berlino, ma,


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nonostante siano trascorsi 17 anni, ancora si alzano muri tra Messico e Stati Uniti, a Cipro. Non potremo però erigere muri per arroccarci, per impedire che incida su di noi quello che accade in Cina e India, perché ci sono cose che ignorano la geografia. Quindi non ho citato questi come esempi da seguire, ma come realtà di cui prendere buona nota.
Ritengo che tutti i giovani europei dovrebbero visitare i cimiteri militari dell'ultima guerra per capire da dove derivi l'idea d'Europa, e dovrebbero visitare i call center in Cina e in India per capire come stia nascendo un mondo con cui, piaccia o meno, dovranno competere.
Mi sono anche permesso di citare la dimensione cristiana, perché ne abbiamo parlato molto nella Convenzione, e siamo giunti ad un punto di equilibrio che sarà difficile migliorare. Mi preoccupa dunque che qualcuno voglia riaprire la discussione perché si è già discusso, e tanto, e si è pervenuti a qualcosa che in Vaticano mi hanno confermato essere considerata accettabile. Quando, infatti, incontrai, o meglio cercai di incontrare l'ultimo Papa, l'udienza fu sospesa a causa della sua malattia, ma mi ricevette il cardinal Sodano ribadendomi che al Vaticano quella soluzione sembrava accettabile. Se lo afferma il cardinal Sodano, deve essere così.
È difficile pensare che, riaprendo la discussione, possano trovarsi soluzioni migliori, maggiormente in grado di raggiungere l'unanimità. Ho paura che qualche paese voglia riaprire la discussione. Personalmente, mi potrei definire profondamente laico, ma importa poco. Ciò che invece conta è che la soluzione odierna soddisfi gli uni e gli altri, che gli uni e gli altri vi si riconoscano in misura sufficiente.
Oggi, come è stato detto giustamente, riemerge la dimensione identitaria della religione, polarizzata attorno al conflitto con l'Islam, e dovremmo adoperarci al massimo per controllare quel conflitto. Si tratta del maggiore problema geostrategico dell'Europa, rappresentato dal rapporto con l'Islam.
Abbiamo già 10-12 milioni di musulmani in Europa, numero che crescerà (non potremo evitarlo) perché abbiamo bisogno di popolazione migrante che non potrà che arrivare da paesi di cultura islamica. Vi è anche quella latinoamericana, certo, ma l'Europa orientale sta invecchiando al nostro stesso ritmo e i rumeni e i bulgari invecchieranno come noi. Anche i cinesi arriveranno ad essere vecchi prima di essere ricchi: al contrario di noi, che ci siamo arricchiti prima di invecchiare, loro saranno vecchi prima di essere progrediti, grosso inconveniente per loro.
E, quindi, dobbiamo fare il possibile per evitare che la dimensione religiosa diventi un elemento di scontro tra società, tra paesi e all'interno delle società, perché, in fondo, il terrorismo di radice islamica che emerge nelle nostre società rispecchia un enorme insuccesso dell'integrazione sociale e culturale. Ha fallito il modello britannico, il Londonistan, ed è fallito il modello repubblicano francese.
Non so come vada in Italia, probabilmente meglio che in Francia e nel Regno Unito, ma è necessario evitare questo confronto basato sulla religione, anche riconoscendo come irritanti i comportamenti estremistici che talvolta reagiscono direttamente a certe prese di posizione o all'esercizio della libertà di espressione cui siamo tanto abituati e a cui non abbiamo motivo di rinunciare.
Al collega Valdo Spini, a proposito del minitrattato da 100 articoli, numero cabalistico, assai più facile anche del π, vorrei ribadire che con 100 o con un altro numero ridotto saremmo a posto. Ricorderà che Giscard d'Estaing, all'inizio dei lavori della Convenzione, ci disse: «Dobbiamo fare un trattato breve e chiaro, che si possa leggere a scuola». Se quello era l'obiettivo, l'insuccesso è stato clamoroso, perché non è né breve, né chiaro, né si legge a scuola. Non abbiamo realizzato quello che ci proponevamo, sebbene fosse possibile renderlo breve, chiaro e comprensibile per uno scolaro di media intelligenza. Certo, le costituzioni nazionali non sono appassionanti da leggere, non vi


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consiglio di portarvi quella spagnola in spiaggia d'estate, però è più breve, chiara e concreta.
Fu un enorme errore porre la Costituzione nella parte III: sul piano giuridico si trattava di un'idea ragionevole, però politicamente fu un suicidio e sicuramente dico ciò in virtù di quella inadeguatezza politica che sento di avere rispetto a voi (ma come parlamentari possiamo parlare con franchezza costruttiva). Ritengo sia stato uno sbaglio riunire quella mole di letteratura incomprensibile e chiedere poi la ratifica popolare su un testo che né include così tanti aspetti di rango costituzionale, né è così accessibile a chi voglia capirlo.
Quello rappresenta dunque un errore che va corretto. Non sarebbe difficile ottenere un testo del genere, salvando la parte fondamentale del trattato e rinunciando ad avere un testo unico. Questa era l'ambizione compilatrice e cartesiana che ci pervase: un unico testo, senza necessità di andare a cercare in una molteplicità di trattati diversi per individuare la fonte adeguata del diritto.
Ringrazio il presidente Andreotti per avermi riconosciuto un certo entusiasmo. Ultimamente, tutti coloro che mi ascoltano mi giudicano pessimista e negativo. Mi fa piacere di non aver dato questa impressione oggi, ma ci sono motivi di preoccupazione e anche motivi di entusiasmo. Prima qualcuno ha affermato che l'Europa ha bisogno di anima, e nessuno - diceva Delors - può innamorarsi del tasso di crescita del PIL, che produce benessere ma certo non emozioni. Un progetto politico, invece, ha bisogno di emozioni e l'Europa oggi non ne produce.
Quando il processo unitario venne avviato, fu esito del lavoro di visionari, e i popoli non furono invitati: si limitarono a seguire con un blando consenso, ma a distanza. La democrazia arrivò dopo e a distanza ancora, con un Parlamento europeo che impiegò tempo a conquistare quote di responsabilità e che è ancora distante da un Parlamento nazionale. C'è bisogno di desiderare l'Europa. Forse dovremmo desiderarla in quanto ci garantisce la pace, ma ho constatato nei dibattiti che questo non motiva nessuno, perché nessuno crede più possibile la guerra; quindi è necessario trovare un altro motivo di emozione per la nostra società. Forse liberare l'Africa della fame potrebbe emozionare, perché nessun paese europeo potrebbe riuscirci da solo. Bisogna quindi cercare motivi per i quali il desiderio di stare insieme produca una catalisi in positivo, per la dimensione civica.
Poi bisogna rendere la politica europea più conflittuale, ovvero meno consensuale. Ciò significa avvicinarla maggiormente ai parametri della politica interna di ciascun paese, evidenziare le differenze, offrire alternative, identificare queste ultime con persone in grado di catalizzare l'emozione e la vicinanza tra la politica e la gente.
È bello ricordare quello che ha fatto l'Europa a Venezia. Di recente, il leader della sinistra unitaria europea, onorevole Wurtz, durante la visita del presidente dell'Autorità palestinese, ha ribadito al Parlamento europeo che l'Europa ha avviato una dinamica negoziale a Venezia, quando ebbe il coraggio di affermare la necessità di un riconoscimento dell'OLP e del confronto conseguente. Questo ha portato a Oslo e poi purtroppo al naufragio successivo dell'Intifada, ma i nostri soldati europei in Libano non dovrebbero rimanere lì per sempre a curare le ferite, perché dovremmo essere capaci di sviluppare una politica che risolva il problema alla radice, per evitare di limitarci a sacrificare i nostri sforzi e le vite di alcuni nostri concittadini sull'altare della nostra impotenza.
Mi rivolgo al senatore Del Roio, che parlava di amore per l'Europa, sottolineando come si tratti di un lavoro tanto più lungo quanto più è eterogenea l'Europa. Mi chiedo costantemente se sia possibile realizzare la democrazia se essa non poggia sull'esistenza di un demos europeo. Esso non esiste ancora del tutto, ma è incipiente e va costruito. Non possiamo pretendere che esista la democrazia europea se non esiste una collettività, un demos che si identifichi come tale e prenda coscienza di sé.


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Concordo pienamente sul fatto che né la dimensione economica, né la potenza militare - che del resto non abbiamo - potranno sostituire l'emergere di una affectio societatis verso l'Europa.
Per quanto concerne la quinta via che consiste nel rinegoziare, il problema è che qualsiasi rinegoziazione deve passare attraverso le forche caudine dell'unanimità.
Se lei ed io ci mettessimo a sedere o se chiunque di noi formasse un piccolo gruppo, probabilmente troveremmo un accordo e raccoglieremmo una maggioranza dell'80 per cento su un testo. Il problema è che ci vuole l'unanimità non tra 25 ma tra 27, e ciò non va trascurato perché, se intendiamo realizzare obiettivi pratici, dobbiamo fare proposte in grado di raggiungere l'unanimità. Tutto il resto è un ottimo esercizio intellettuale, anche molto gratificante, ma inutile rispetto all'obiettivo di toglierci dall'impasse. Con questo non intendo dire che non si debba rinegoziare alcunché. Avanzai delle proposte in Convenzione che furono respinte, mentre forse oggi sarebbero accettate. Ma in Convenzione, quando si dibatteva del ruolo della Banca centrale, ogni considerazione sul suo coinvolgimento nella crescita e nell'occupazione era accolta con anatemi, mentre ora con l'euro forte forse ci preoccuperemmo di meno. Ci sono aspetti da ridiscutere, perché ciò che abbiamo è frutto di quel tempo, per certi versi ormai trascorso.
Quindi, bisognerà rinegoziare, ma non tutto. Gli accordi devono conseguire l'unanimità e questo limita molto il campo del possibile. Grazie.

PRESIDENTE. Nel ringraziare ancora il Presidente del Parlamento europeo per la disponibilità manifestata, nonché per il prezioso contributo offerto ai lavori delle Commissioni qui riunite, dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 15,30.