COMMISSIONI RIUNITE
III (AFFARI ESTERI E COMUNITARI) DELLA CAMERA DEI DEPUTATI E 3a (AFFARI ESTERI, EMIGRAZIONE) DEL SENATO DELLA REPUBBLICA

Resoconto stenografico

AUDIZIONE


Seduta di marted́ 27 giugno 2006


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
DELLA III COMMISSIONE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI
UMBERTO RANIERI

La seduta comincia alle 15,15.

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata, oltre che attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso, anche mediante la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.

Seguito dell'audizione del ministro degli affari esteri, Massimo D'Alema, sulle linee programmatiche del suo dicastero.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, ai sensi dell'articolo 143, comma 2, del regolamento, il seguito dell'audizione del ministro degli affari esteri, Massimo D'Alema, sulle linee programmatiche del suo dicastero, rinviata nella seduta del 14 giugno 2006.
Avverto a tal fine che, se lo desidera, il ministro D'Alema può svolgere un intervento sui più recenti appuntamenti internazionali, ai quali ha partecipato dopo il 14 giugno scorso, oppure possiamo avviare subito la nostra discussione.
Al termine darò la parola ai senatori e ai deputati già iscritti a parlare nella precedente seduta e che non sono intervenuti, secondo i tempi già comunicati dal presidente Dini.

MASSIMO D'ALEMA, Ministro degli affari esteri. Ricordando un numero notevole di iscritti a parlare, non vorrei che dovessimo, ancora una volta, impedire questo dibattito. Poiché non ritengo di dover fare considerazioni diverse da quelle che ho avuto modo di fare in sedi pubbliche, dopo l'incontro con il segretario di Stato americano, Condoleeza Rice, e più recentemente, dopo l'incontro con il ministro degli esteri iraniano, credo che sia più utile per me e per tutti noi che io possa ascoltare le considerazioni dei colleghi ed eventualmente, dopo, rispondere ai quesiti e ai problemi che vengono concretamente sollevati.

PRESIDENTE. Sta bene. Nel corso della replica avrà modo di riferirsi agli ultimi sviluppi della vicenda internazionale.
Do la parola ai senatori e ai deputati già iscritti parlare e che non sono intervenuti nella scorsa audizione, secondo i tempi che già il presidente Dini aveva comunicato; sono pertanto previsti interventi di cinque minuti per i gruppi rappresentati presso una Camera e di dieci minuti per i gruppi presenti sia alla Camera sia al Senato.

VALDO SPINI. Signor presidente, credo che sia doveroso ringraziare il ministro D'Alema per questa presenza continua in Commissione, che mi sembra estremamente positiva per i nostri lavori, anche considerando le emergenze internazionali in corso.
In soli cinque minuti si possono fare alcuni flash, ma credo che, intanto, sia giusto sottolineare l'intenzione del ministro di collocare la politica estera italiana nella fase dei processi di globalizzazione, attraverso le opportunità e i rischi che sono collegati agli stessi.


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Credo che, a distanza di cinque anni dall'11 settembre, la necessità di un ripensamento organico sulla questione del terrorismo e dell'instabilità internazionale sia quanto mai evidente. Se facciamo i nomi dell'Iraq, dell'Iran, della Palestina, dell'Afghanistan, e confrontiamo la situazione di questi cinque anni, ci rendiamo conto che la richiesta italiana di poter avere un atteggiamento più politico, più globale, che tenga conto dei vari aspetti della situazione, rispetto all'intervento militare in senso stretto, è quanto mai fondata.
Non vorrei apparire pessimista, tuttavia ritengo che dietro alcuni di questi problemi non ci sia un miglioramento della situazione; al contrario, almeno in alcuni casi, la situazione è più tesa e si è ulteriormente aggravata.
Oggi, intanto, dovremmo pronunciarci con forza su quello che possiamo fare, anche pensando a iniziative che riguardano la situazione della Palestina, che proprio in queste ore sta conoscendo un momento drammatico e rischia di rimettere in discussione gli obiettivi positivi raggiunti con il ritiro da Gaza, e quant'altro.
Per quanto riguarda l'Iraq, la relazione del ministro D'Alema è stata pienamente soddisfacente. Oggi potremmo aggiungere la possibilità di guardare con favore al tentativo di riconciliazione nazionale che il premier Al Maliki sembra aver lanciato.
Per quanto riguarda l'Afghanistan, certamente non possiamo che prendere atto - l'abbiamo fatto anche nella precedente legislatura, come testimoniano i verbali - di alcuni momenti di deterioramento della situazione, che devono indurci a una riflessione. Tuttavia, credo che sia giusto sottolineare la diversità della situazione dell'Afghanistan rispetto all'Iraq. Tanto per citare un elemento di questa diversità, l'armata con la quale collaboriamo nella nostra area in Afghanistan è quella della Spagna, ossia di un paese guidato da un Governo socialista come quello di Zapatero. Non è casuale che gli spagnoli siano nella nostra area: la missione si svolge all'insegna di un riferimento di carattere internazionale che è stato nel tempo, ma è ancora profondamente diverso da quello iracheno.
Questo non significa che non si debbano fare considerazioni anche sul tema dell'Afghanistan - e credo che il ministro ne vorrà fare senz'altro -, sulla sua evoluzione, sul problema di trovare un consenso di carattere politico, economico e sociale, una base più solida per ristabilire la democrazia, ma credo che sia importante sottolineare la diversità delle due situazioni. Se il Governo attuale imposta - e fa bene - all'insegna del multilateralismo la sua iniziativa di politica estera, ebbene l'Afghanistan è un luogo in cui il multilateralismo può essere realizzato e praticato anche con un'utile influenza dell'Italia nell'ambito delle organizzazioni internazionali, a differenza di quella che è stata la situazione irachena, nella quale, non a caso, abbiamo assunto altre determinazioni.
Anche a nome del gruppo dell'Ulivo, pertanto, vorrei esprimere il sostegno alla posizione assunta dal ministro degli affari esteri su questo argomento, con l'auspicio che il dibattito serva a chiarire alcuni punti e a trovare le necessarie convergenze.
Per quanto riguarda l'Europa - procedo sempre per flash -, giustamente il ministro D'Alema ha individuato nel 2007 il momento di precipitazione, sia per il semestre di presidenza tedesco, sia per le elezioni francesi. Mi domando, però, se non sarebbe utile arrivare a quella scadenza con un incontro di almeno un gruppo di paesi che abbiano ratificato la Costituzione. Questo ci consentirebbe di avere un rapporto con la Germania, con la Spagna, ma anche con paesi nuovi entrati (penso, ad esempio, alla Slovenia). Sarebbe positivo riuscire a realizzare un'operazione di questo genere, che a mio parere avrebbe molta capacità di attrazione nell'opinione pubblica francese, che avvertirebbe il bisogno di non essere in seconda fila rispetto a questo dialogo. Inoltre, questo metterebbe in evidenza anche il dato che contano, naturalmente, quei cittadini che hanno votato «no» alla Costituzione,


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ma contano anche quei cittadini che hanno votato «sì» e che, dopo la ripresa del processo di ratifica, sono evidentemente in posizione forte.
Non vorrei terminare questo intervento senza fare cenno alla situazione del ministero. Dal punto di vista economico e finanziario più generale, la situazione è quella che sappiamo, ed è estremamente difficile; tuttavia, la riduzione della percentuale delle spese del ministero sul bilancio fa sì che, in Italia, la funzione di politica estera ricopra una percentuale estremamente ridotta rispetto agli altri paesi. Questo si ripercuote sulla nostra presenza culturale all'estero, sulla presenza economica e sulla cooperazione internazionale. Salutiamo con grande favore che sia stato nominato un viceministro apposito, ma certamente occorre impegnarsi per aumentare la percentuale di PIL che possiamo dedicare alla cooperazione internazionale.
Non posso, da ultimo, omettere di sottolineare - e non per amore nei confronti di queste Commissioni, ma perché lo credo veramente - che non si può sostenere la funzione di politica estera del nostro paese con questa percentuale di spesa e con le cifre che sappiamo. Credo che, nei prossimi impegni di carattere finanziario, il tema della funzione della politica estera dovrà essere considerato in tutte le sue dimensioni, a livello di Governo.

MARGHERITA BONIVER. Signor presidente, anch'io, considerato il tempo limitato a disposizione, non potrò che affrontare pochissimi argomenti. Dico subito che la relazione che l'onorevole ministro ha svolto di fronte alle Commissioni riunite è stata apprezzata in buona parte, perché evidentemente condivisibile.
Vi sono, tuttavia, alcune questioni sulle quali questa condivisione non è possibile, a partire da quella dell'Iraq. Evidentemente, la scelta da parte della nuova maggioranza di abbandonare il territorio iracheno non può trovarci consenzienti, sebbene tale decisione non ci colga di sorpresa, considerato che era stata ampiamente prefigurata, non soltanto nel programma, ma anche nelle tante dichiarazioni della maggioranza.
Noi riteniamo che il nostro ritiro da quel paese rappresenti un gravissimo errore, un grandissimo spreco di risorse, non soltanto per tutto quello che è stato già fatto - e non soltanto dagli italiani - in Iraq, ma anche per il momento storico che quel paese sta vivendo. In Iraq c'è un Governo che comincia ad affermarsi con un certo successo, il Governo di Al Maliki e, con l'assassinio di Al Zarqawi, forse si apre uno spiraglio per un futuro di stabilità meno disastroso della realtà attuale. Pertanto, consideriamo inopportuna e profondamente sbagliata la decisione di ritirarsi.
Sappiamo che la posizione della parte della coalizione cosiddetta raziocinante - così è stata definita in un recente convegno da parte degli ospiti americani - presenta innumerevoli difficoltà. Non sappiamo ancora quale sarà l'escamotage parlamentare che vi permetterà di rifinanziare le missioni italiane all'estero, quindi anche di finanziare l'impegno maggiore dell'Italia, quello in Afghanistan. Con quel paese, lo ricordo, abbiamo sviluppato, nell'arco di quasi mezzo secolo, dei rapporti direi quasi di sangue: non soltanto sono stati ospiti in Italia ben due ex monarchi afghani, ma nasce proprio a Roma, alla fine degli anni Novanta, il cosiddetto processo di Roma, che poi porterà alla formazione della Loya Jirga. Tutto questo fa parte piena di quel processo, ancora molto fragile, di democratizzazione in Afghanistan, che ha visto il nostro paese essere orgogliosamente presente - con diplomatici, con militari, con mezzi di cooperazione - ed essere in assoluto fra i grandi protagonisti dell'Afghanistan compact.
Non sappiamo ancora, in questo momento, quale sarà alla fine la via prescelta, se il voto di fiducia oppure una serie di mozioni, per quello che riguarda il rifinanziamento delle nostre missioni all'estero, ma quello che possiamo dire, molto sinteticamente, è che sarebbe da irresponsabili abbandonare l'Afghanistan - sappiamo che lei ha detto esattamente l'opposto - al suo destino. Questo riporterebbe


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quel paese, nel giro di pochi giorni, nell'abisso dal quale si era appena, a fatica, risollevato.
Un'altra questione che ha suscitato interesse, ma anche una certa curiosità, è stata la posizione che lei ha espresso dopo l'incontro con il suo collega iraniano. Comprendiamo perfettamente la volontà dell'Italia di far parte di quel consesso di nazioni che, ovviamente, per motivi anche contingenti, potrà un domani avere un qualche ruolo per quello che riguarda la possibile minaccia iraniana per il nucleare militare, ma non capiamo il motivo per il quale - se ho letto bene - lei avrebbe detto che le sanzioni da parte italiana non sarebbero condivisibili. In questo dibattito, che vede la comunità internazionale alle prese con un problema assolutamente ostico, a nostro avviso, sarebbe davvero sbagliato privarsi di questa possibilità.
Siamo molto fieri della politica estera che è stata sviluppata, con grande linearità, durante la passata legislatura: una politica estera molto coerente, che ha dimostrato di avere molta coesione e un elevato grado di coraggio, condotta all'insegna della continuità. Pertanto, quella sorta di mantra che sta attanagliando il dibattito all'interno della vostra maggioranza circa la discontinuità della politica estera di questo Governo rispetto al passato - mi permetta di dirlo, onorevole D'Alema - ci inquieta non poco.

FRANCESCO MARTONE. Anch'io nei minuti a disposizione vorrei toccare alcuni elementi che sono stati già affrontati nella relazione del ministro D'Alema nella scorsa seduta. Un elemento fra tutti, che penso segni una forte discontinuità rispetto all'esperienza del Governo precedente, è la riaffermazione della centralità dell'approccio multilaterale, per quanto riguarda la gestione dei problemi globali e delle minacce alla sicurezza globale.
In un momento in cui si parla tanto di multilateralismo selettivo e, addirittura, di multi-multilateralismo, è molto importante riaffermare la centralità delle Nazioni Unite, pur riconoscendo la necessità di un miglioramento e di una revisione di alcune delle sue attribuzioni. Del resto, questo è un processo che sta andando avanti da almeno un anno, in cui l'Italia potrà giocare un ruolo di primo piano, anche in prospettiva dell'entrata nel Consiglio di sicurezza.
Pensiamo che possano esserci - e sono contenute anche nel programma comune che abbiamo costruito per questo Governo - delle opportunità forti, come ad esempio quella di democratizzare l'ONU, dando maggiore rilevanza all'Assemblea generale, per quanto riguarda le decisioni relative alla sicurezza e al peace-building, rafforzando e sostenendo nuove iniziative, come il Consiglio sui diritti umani o come la Commissione per la pace, la Peace-building commission, che è stata varata qualche giorno fa, che potrebbe rappresentare uno strumento importantissimo di maggiore democratizzazione (dico questo anche con riferimento alle decisioni che riguardano la sicurezza collettiva), cercando di evitare di rimanere bloccati nella trappola della riforma del Consiglio di sicurezza, dei veti incrociati. Penso che il lavoro della Peace-building commission possa essere molto importante anche per ridefinire e rivedere la praticabilità e l'efficacia di alcuni interventi dell'ONU in zone di conflitto.
Per quanto riguarda l'Afghanistan, non vogliamo abbandonare quel popolo. Divergiamo sulla valutazione relativa alla presenza attuale, alla commistione civile-militare e al fatto che l'approccio puramente militare abbia portato maggiori garanzie per la sicurezza umana. L'evidenza, a nostro avviso, dimostra il contrario, e su questo vogliamo discutere.
Siamo molto soddisfatti della proposta del viceministro Sentinelli di introdurre una discussione sulle cosiddette tasse globali o tasse di scopo, che servirebbero a finanziare la cooperazione e lo sviluppo, che - vorrei ricordarlo, citando un recente rapporto dell'Oxford Research Group - sono parti integranti per un nuovo paradigma di sicurezza sostenibile. Tra l'altro, nel rapporto citato si evidenziano quattro cause possibili di insicurezza e di guerre:


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i mutamenti climatici, la competizione su risorse naturali scarse, la povertà, il riarmo e la proliferazione nucleare.
Rispetto a questi quattro punti, secondo il nostro parere, il nostro paese può giocare un ruolo di primo piano, cercando di sostenere politiche forti di disarmo, non soltanto di non proliferazione nucleare, quindi introducendo un impegno chiaro - anche nella prossima conferenza della NATO a Riga - anche con riferimento all'accordo che permette, oggi, la presenza di novanta bombe atomiche americane sul nostro territorio.
Pensiamo che la povertà debba essere affrontata con paradigmi altri rispetto a quelli del «consenso di Washington», e guardiamo con molto interesse alla possibilità della costituzione di un consiglio di sicurezza economico e sociale, che possa rimettere a norma le attività delle istituzioni finanziarie internazionali rispetto alla Carta delle Nazioni Unite.
Il multilateralismo ci piace vederlo come multipolare e riteniamo che alcune delle suggestioni e delle proposte contenute nella relazione del ministro D'Alema siano estremamente importanti: il rilancio dell'iniziativa diplomatica in Asia, in America Latina, il recupero del rapporto con la Cina, che però non deve andare a discapito di alcuni punti, come ad esempio l'embargo sulla vendita di armi. Quanto al ruolo che la Cina svolge in quella zona dell'Asia, basti pensare alla difficoltà della comunità internazionale di portare a compimento un processo di democratizzazione, ad esempio, in Birmania, considerata una delle province della Cina. Per quanto riguarda l'apertura nei confronti dell'America Latina, ci piacerebbe molto che l'Italia potesse svolgere un ruolo di affiancamento e di collaborazione con l'asse sud-sud, Brasile-Sudafrica-India (iniziativa BSI).
In questo senso, chi di noi ha avuto occasione di seguire le conferenze, ad esempio, sul commercio internazionale, si è reso conto che questi ambiti, oggi, sono quelli nei quali l'asse sud-sud si sta esplicitando, da Cancùn a Hong Kong. Purtroppo, la posizione negoziale dell'Unione europea, in termini di commercio internazionale, piuttosto che rafforzare questo effetto multipolare, rischia di pregiudicarlo.
Riteniamo - ultimo, ma non da meno - che sia importante individuare delle aree prioritarie per l'intervento italiano in politica estera, sia in termini tematici che in termini geografici. I due aspetti possono tranquillamente sovrapporsi ed entrare in sinergia. In Africa, ad esempio, pensiamo che sia fondamentale rivolgersi al Corno d'Africa per poter tracciare una strategia organica di prevenzione del conflitto e di lotta alla povertà.

ALFREDO MANTICA. Signor ministro, vorrei tornare al concetto di audizione, ponendole due domande su due argomenti molto precisi. Dopo la visita a Washington, lei ha avuto occasione di dichiarare che, fra i tanti argomenti affrontati, il Governo italiano avrebbe tenuto aperta una finestra sul Darfour. Credo di interpretare questa frase dicendo che, in qualche modo, il Governo italiano può prendere in considerazione l'invio di un contingente in Darfour sotto l'egida dell'ONU, visto che la missione in Darfour passa dall'Unione Africana alle Nazioni Unite.
Ora, non vorrei che si pensi a un intervento a breve termine ed occasionale, dal momento che sulla questione della presenza in Africa di forze di pace la comunità internazionale ha concentrato la propria attenzione e si è, in qualche modo, dichiarata disponibile.
Voglio ricordare che lo stesso Prodi, quando era Presidente della Commissione europea, nella seconda metà dell'anno 2003, avviò un processo secondo noi virtuoso, attraverso il finanziamento di un trust found - allora per 250 milioni di euro - per sostenere interventi di truppe dell'Unione Africana in operazioni di peace-keeping o di peace-enforcing.
La mia domanda è la seguente: questa dichiarata finestra di opportunità segue una linea di intervento e di presenza maggiore dell'Italia, attraverso l'Unione Europea o la Nato, anche nel proscenio africano? C'è, quindi, una diversa assunzione


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di responsabilità dell'Europa nei confronti del continente africano e delle realtà africane, che anche le notizie di questi giorni, soprattutto nell'area del Corno d'Africa, ci indicano come molto sensibili, per non dire altro?
Nella linea che lei, signor ministro, aveva impostato, quella del rapporto multilaterale, della funzione dell'Unione europea anche nel rapporto transatlantico, le domando se non ritiene che l'Africa possa essere un'area in cui i paesi europei possano assumersi più forti responsabilità, in maniera autonoma o in collaborazione con gli Stati Uniti, non necessariamente inquadrati in maniera tradizionale.
La seconda domanda riguarda la cooperazione. Io plaudo alla nomina di un viceministro apposito, considerandola un segnale forte. Tuttavia, devo dirle onestamente, avendo letto le deleghe, che le funzioni attribuite a questo viceministro poco differiscono da quelle precedenti. Quello che chiedo è se si tratta di un semplice titolo onorifico o se, invece, dietro questa nomina si nasconde la volontà di riportare al Ministero degli affari esteri la regia della politica della cooperazione, come peraltro stabilisce l'articolo 1 della legge n. 49 del 26 febbraio 1987, e di avviare rapporti diversi con il Ministero dell'economia e delle finanze. Le ricordo che oggi il Ministero degli affari esteri, sostanzialmente, gestisce meno di un quarto del volume complessivo dell'impegno dell'Italia nel settore della cooperazione.
Insomma, signor ministro, la nomina di un viceministro che si occupi specificamente di cooperazione è solo un titolo onorifico o risponde a un programma preciso del Governo di riportare al Ministero degli affari esteri il ruolo di coordinatore della politica nazionale di cooperazione?

PRESIDENTE. Prego, senatore Colombo, ha facoltà di intervenire...

FURIO COLOMBO. Non avevo chiesto la parola...

PRESIDENTE. Lei è tra gli iscritti della precedente seduta...

FURIO COLOMBO. Comunque sono felice di averla, per dire innanzitutto che la relazione che abbiamo ascoltato è naturalmente approvata e approvabile, e rappresenta un punto di riferimento molto importante per la nostra vita politica a venire, per i nostri rapporti internazionali.
In secondo luogo, approfitto per ricordare all'onorevole Boniver che le sono sfuggiti due numeri del New York Times della settimana scorsa: quello di giovedì, nel quale si parlava del piano che presenterà il senatore Kerry relativo al taglio delle truppe americane in Iraq (un taglio molto severo, proporzionalmente molto più drammatico di quello che è in discussione da noi adesso), e quello di venerdì, nel quale la Casa bianca preannuncia e dà indicazioni su tagli che avverranno nel 2006 e, in modo drastico, entro l'autunno del 2007.
Si tratta, quindi, di un processo che l'opinione pubblica americana e il Senato americano stanno favorendo. Naturalmente, credo che abbiano le stesse preoccupazioni indicate dall'onorevole Boniver - e che non sembrano affatto diverse da quelle del Governo - di non creare dei vuoti o degli abbandoni improvvisi. Tuttavia, forse è il caso di tener presente che il Governo americano e la sua opposizione stanno dando segnali drammaticamente netti di una revisione drastica della politica militare in Iraq. Vale anche la pena di tener presente che il 3 novembre ci saranno le elezioni - le cosiddette elezioni di mezzo - negli Stati Uniti, nelle quali si prevede la riconquista democratica della maggioranza al Senato; nel qual caso il senatore Kerry è designato a diventare presidente della Commissione difesa di quel paese.
Tra l'altro, vale la pena di ricordare che si tratta di un pluridecorato - nonché il più grande leader pacifista del più grande movimento della pace americano - che diventerebbe chairman del Defense committee, ossia del comitato di supervisione delle forze armate di quel paese. Può essere interessante, forse non è solo una notizia di colore.


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GIORGIO CARTA. Signor ministro, non essendo stato presente, nella scorsa seduta, per motivi di salute, ho letto con molta attenzione la sua relazione, e non esito a dire di aver trovato, nelle linee conduttrici, una politica estera che ha sempre ispirato il nostro partito.
Europeisti da sempre, non possiamo non condividere il proposito del Governo di ritagliare un ruolo più pregnante all'interno dell'Unione europea, senza per questo venir meno alla tradizionale amicizia con gli Stati Uniti d'America, che credo vada mantenuta e rafforzata, anche se depurata da ogni profilo di subalternità.
La pausa di riflessione che ha caratterizzato, in questo momento, la votazione della Costituzione europea, per un certo verso ci preoccupa. Credo che sarebbe bene tentare di dare un'accelerazione a questo processo, ritenendo che questo sia uno degli elementi di coesione che possono consentire la crescita politica della Comunità europea. Una crescita che deve avvenire in maniera tale che l'Unione europea diventi una potenza in grado di interloquire in quel processo di multilateralità da lei richiamato, che deve dare all'Italia una posizione più incisiva nella politica estera.
È difficile concentrare nell'arco di pochi minuti le argomentazioni che il suo programma merita, dunque mi limiterò a sottolinearne alcuni aspetti. Riteniamo che il dialogo tra i paesi europei debba essere sempre più sviluppato, favorendo la comunicazione fra i popoli, anche nelle diversità - vedi il caso della Turchia -, che devono rappresentare una ricchezza e non una limitazione.
Riteniamo anche che i rapporti bilaterali dell'Italia con gli Stati Uniti non debbano andare a discapito dei rapporti con gli altri paesi e, soprattutto, riteniamo che quando ci si richiama alla multilateralità, il Governo dovrebbe incidere sulla modifica di quegli organismi - ONU, WTO, Fondo monetario - che svolgono politiche che, apparentemente multilaterali, sono di fatto mere esecuzioni di altre politiche.
Cito un esempio per tutti, signor ministro, richiamato peraltro dal premio Nobel George Stigler, che è stato consulente di Clinton: l'esempio è quello della WIPO (Organizzazione Mondiale sulla Proprietà Intellettuale), in relazione ai brevetti sulle proprietà intellettuali, che sono state caratterizzate da una disattenzione pressoché totale, soprattutto nel campo dei farmaci. Basti pensare che determinati brevetti, che avrebbero dovuto significare la difesa di interessi dei paesi in via di sviluppo, hanno prodotto solo interessi legati alle grandi multinazionali, e non solo americane. L'impossibilità di produrre medicinali contro l'AIDS a prezzi competitivi - questo è l'esempio più eclatante - nasce proprio da una disattenzione di questo trattato internazionale del WIPO.
Quanto alla posizione da lei esposta sulla politica mediorientale, noi la condividiamo. Pur ribadendo il nostro giudizio negativo sulla nostra presenza in Iraq, e senza voler riprendere polemiche passate, riteniamo che la scelta del Governo di un ritiro programmato - senza, peraltro, abbandonare l'Iraq al suo destino - sia non solo condivisibile, ma da accelerare il più possibile.
Condividiamo anche la posizione assunta dal Governo rispetto al problema afgano. Poiché l'Italia, ormai da tempo - per la sua posizione geografica e per le sue caratteristiche politiche ed economiche -, è un paese al quale guardano molti Stati mediorientali, riteniamo che il dialogo (comprendente anche i problemi legati all'Iran) sia la strada maestra per riportare la diplomazia al centro delle controversie internazionali.
Riteniamo, infine, che la relazione del ministro contenga gli elementi necessari per introdurre una certa discontinuità rispetto alla politica estera del passato. Tuttavia, signor ministro, pensiamo che in politica estera convergenze più ampie - sia su quello che è stato fatto, sia su quello che dovrà essere fatto - non siano un peccato mortale, ma costituiscano un elemento positivo.
Credo che la politica estera debba dare dell'Italia l'immagine di grande nazione


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nel contesto internazionale, e non solo sul piano culturale, ma anche su quello politico.

IACOPO VENIER. Onorevole ministro, abbiamo alle spalle una drammatica fase, in cui il parossismo unilaterale del Governo Bush ci ha consegnato una guerra di carattere globale. Di certo, questa fase non si conclude immediatamente, ma credo che il fallimento di questa strategia unilaterale di guerra preventiva permanente sia sotto gli occhi di tutti; anche nell'opinione pubblica statunitense sta crescendo la parte che invoca una rottura rispetto a questa grave condotta dell'amministrazione nordamericana.
È nostro compito e responsabilità trovare un assetto del mondo che renda impossibile il perpetuarsi di quello scontro globale, che molti analisti, ma anche molti studiosi dello stesso Pentagono, definiscono per questo secolo l'antagonismo tra Stati Uniti e Cina. Noi riteniamo che l'unica soluzione sia quella su cui il Governo italiano sta lavorando e che lei ha ben descritto: un approccio multipolare, l'unico che può rifondare un equilibrio internazionale, e quindi anche un nuovo assetto delle Nazioni Unite, che possa trovare un'alternativa ai conflitti come strumento di confronto e di scontro a livello internazionale.
Il nostro compito storico, ovviamente, è la costruzione dell'Europa: un'Europa autonoma, democratica, politica. Da questo punto di vista, le sue parole ci confortano, e così le parole del Presidente Prodi. Credo, però, che l'Italia debba assumere scelte coraggiose e valutare se è necessario accettare questa pausa di riflessione e se non sia, invece, necessario avviare delle iniziative in avanti, per dare risposta all'esigenza fondamentale, quella di avere in tempi politicamente utili un soggetto del multipolarismo a livello internazionale, senza il quale l'equilibrio non potrà essere ristabilito.
Penso che, accanto al rafforzamento del centro dell'Europa, sia necessario pensare a un mondo che si articola per cerchi olimpici, non concentrici. Il Mediterraneo va considerato in questa chiave: bisogna pensare - al riguardo, il nostro Governo ha pronunciato parole importanti - ad una comunità mediterranea, nella quale le questioni aperte, come quella della Turchia, possono essere affrontate in modo più efficace e più politicamente sostenibile. Occorre avviare un processo di integrazione di questa area, che affronti prima di tutto il nodo centrale della Palestina e del conflitto mediorientale. Le ultime vicende, sebbene non rientrino nell'oggetto della discussione, devono essere riportate alla necessità di dare applicazione al diritto internazionale e all'esigenza primaria di evitare una catastrofe umanitaria in Palestina, che è sotto gli occhi di tutti. La nascita di uno Stato, accanto allo Stato di Israele, è una nostra priorità assoluta in questa legislatura.
Vengo alle questioni rispetto alle quali abbiamo necessità di approfondimento e di discussione. Credo che questa fase di parossismo unilaterale sia declinata in due guerre sbagliate, quella irachena, per il modo in cui è stata condotta - noi ne stiamo uscendo, e facciamo bene a sganciarci da quel teatro, senza abbandonare l'Iraq, ma al contempo senza sostenere le operazioni di occupazione militare statunitense in quell'area - e quella in Afghanistan.
Per quanto riguarda l'Afghanistan, vorrei riportare alla Commissione e al signor ministro la dichiarazione della direttrice della Banca mondiale a Kabul, che ha sostenuto che in Afghanistan sono in corso sprechi e frodi di dimensioni enormi, un vero saccheggio condotto soprattutto dalle imprese private. Il portavoce di USAID in Afghanistan, inoltre, afferma che la priorità in quel paese non è il progresso, ma l'apparenza dello stesso.
Tutti gli osservatori internazionali, anche statunitensi, ci dicono che in Afghanistan non è in corso un processo di state-building, di strutturazione di una società civile, ma una guerra. Su questo dovremmo confrontarci e su questo vi è dissenso su un punto politico della relazione, che credo possa essere affrontato in modo chiaro. L'obiettivo è trovare una


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soluzione che introduca una discontinuità forte - non solo sul piano strategico, quello della costruzione dell'Europa, del multipolarismo, della stabilizzazione internazionale, della rifondazione delle Nazioni Unite, ma anche sul piano dell'emergenza politica - che consiste nell'accompagnare la fine di questa fase che abbiamo alle spalle con un'iniziativa altrettanto efficace, che mostri che l'Italia è davvero uscita dal tunnel nel quale ci aveva costretto il Governo precedente.

DARIO RIVOLTA. Signor ministro, vorrei sottoporle tre domande brevi, ma spero precise e chiare. La prima è di carattere quasi tecnico. Il collega Spini ha fatto riferimento alle difficoltà di carattere finanziario del Ministero degli affari esteri, soprattutto tenendo conto delle legittime ambizioni di politica estera che lei stesso ha enunciato e che, in gran parte, potrebbero essere condivise da tutto il Parlamento.
C'è una possibilità di intervento - richiesta avanzata molte volte dallo stesso ministero e dal Parlamento, senza mai essere soddisfatta - che consiste nell'unificare, o almeno accorpare, alcune voci nel bilancio interno del Ministero degli affari esteri. Cosa intende fare, signor ministro, in questa direzione? L'ostacolo finora nasceva, purtroppo, all'interno dello stesso Governo, in particolare nel Ministero dell'economia.
Considerate le numerose dichiarazioni - passo alla seconda domanda - rese da lei stesso e da altri esponenti del Governo, e ribadite da alcuni colleghi della maggioranza, in merito alla volontà di ritirare fino all'ultimo soldato dall'Iraq, come intende lei, signor ministro, garantire la sicurezza degli operatori delle ONG che volessero recarsi in Iraq, in particolar modo a Nassiriya, o di qualche avventuroso operatore economico che volesse recarsi nella stessa provincia? O forse è pensiero del suo Governo proibire agli italiani di recarsi in quella zona dell'Iraq?
Infine, la terza ed ultima domanda. Dichiarazioni, riportate oggi dai giornali, di un suo sottosegretario autorevole, l'onorevole Vernetti, vi attribuiscono la proposta di un ingresso di Israele nella NATO. Noi, signor ministro, guardiamo con particolare interesse alla proposta enunciata dal sottosegretario Vernetti, che peraltro non è un neofita, ma ha una certa esperienza parlamentare ed ha dimostrato di essere persona equilibrata. Evidentemente il sottosegretario sa che quando un membro del Governo parla in circostanza ufficiale, come quella in cui lui si è trovato a parlare, non si tratta mai di una dichiarazione personale, ma di una dichiarazione che coinvolge lo stesso Governo. Signor ministro, lei intende confermare la volontà del Governo italiano di lanciare la proposta di Israele all'interno della NATO o intende smentire il suo sottosegretario?

MARIO BACCINI. Intendo richiamare, intanto, un aspetto già sollevato dal collega Forlani dell'UDC nel precedente dibattito, circa gli elementi della nostra politica estera che riguardano le scelte sull'Iraq e il ritiro dei nostri militari. Voglio cogliere questa occasione - in particolare, approfitto della presenza del presidente Dini e del ministro D'Alema - per porre l'accento su un aspetto a mio parere importante. Credo che la politica estera sia una grande risorsa del nostro paese, come abbiamo ascoltato anche dalla relazione del ministro D'Alema, che con lucidità ha chiarito anche il carattere della missione italiana. Sono convinto che una politica estera connotata da un valore essenziale, quello dell'italianità, possa essere forte se coadiuvata dalla cooperazione per lo sviluppo e dalla cooperazione culturale, i due bracci operativi della nostra politica estera.
Se ben ricordo, nel programma dell'Ulivo, a proposito della cooperazione per lo sviluppo, era prevista anche la possibilità di realizzare la famosa agenzia, una sorta di authority che racchiudesse tutta la materia della cooperazione per lo sviluppo. Considerato che nella relazione non è citato questo passaggio, e ritenendo importante anche per la politica estera la cooperazione in quanto tale, come strumento operativo, insieme alla cultura,


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chiedo al ministro D'Alema se risponda a verità l'affermazione che negli intendimenti del Governo e della maggioranza che lo sostiene ci sia questa possibilità, che è stata oggetto anche di una parte della campagna elettorale che si è svolta per le elezioni politiche.
Se questo fosse vero, chiedo come potrebbe essere compatibile la circostanza che all'ordine del giorno del prossimo Consiglio direzionale per la cooperazione allo sviluppo, alla Farnesina, ci sia il rinnovo del contratto di tutti gli esperti per cinque anni. Allora, in previsione dell'agenzia richiamata, non credo che sia opportuno rinnovare per cinque anni il contratto degli esperti, che pure ovviamente rappresentano una grande risorsa anche per la nostra cooperazione.
Credo che questa sia la base di un ragionamento che vuole arrivare anche a quello che noi abbiamo attuato negli anni scorsi. Io stesso, da sottosegretario per gli affari esteri, ho applicato una strategia importante, richiamando l'attenzione su una vecchia ipotesi portata avanti dalle Nazioni Unite nel 1950, quella della diplomazia preventiva, uno strumento efficace. Anche con il ministro D'Alema abbiamo avuto modo di parlarne in più occasioni, in occasione della presentazione di libri...

MASSIMO D'ALEMA, Ministro degli affari esteri. Il tuo libro!

MARIO BACCINI. È vero, signor presidente, un libro nel quale abbiamo avuto modo di caratterizzare anche questa specificità italiana. La politica estera italiana non si esaurisce nel dibattito se ritirare o meno i nostri militari all'estero, ma è una straordinaria occasione per sollevare, anche a livello internazionale, la nostra immagine, se è vero che il multilateralismo è uno dei pilastri anche della nostra politica estera. È un'occasione per occuparsi anche di tutte le guerre dimenticate, non solo quelle note, che fanno scoop, per far conoscere le iniziative della nostra cooperazione, per far emergere le straordinarie potenzialità dei nostri operatori nel mondo ed anche la grande lotta per i diritti umani, che potrebbe essere oggetto di una discussione - al di là delle casacche che ciascuno di noi indossa - per ridare un significato più forte alla nostra politica estera.
Credo che la diplomazia preventiva possa essere una vocazione italiana, che ci porti nella direzione dell'azzeramento e della riconversione del debito dei paesi cosiddetti emergenti, laddove anche nel Club di Parigi ci potessero consentire questa specificità italiana. Lo stesso ministro D'Alema ha ricordato che l'azione politica italiana si lega molto all'Europa, cosa che abbiamo fatto. Tuttavia bisognerebbe capire bene a monte dove vuole andare l'Europa, se la politica estera europea - ammesso che ci sia una politica estera europea - può risolvere il conflitto fra palestinesi e israeliani e se la nazionalità della nostra politica estera, in qualche modo, soccombe rispetto ad un valore così astratto come quello dell'Europa, quando invece credo possa essere costruita con maggiore efficacia con un'azione più incisiva da parte nostra.
Tutti questi aspetti credo possano aiutare un dibattito che, in questo momento, è drogato da effetti speciali, per ritornare a stabilire se anche un'azione bilaterale del nostro paese è possibile: azione politica bilaterale non significa necessariamente guerra, ma significa anche caratterizzare, con i valori e la presenza storica e culturale dell'Italia e degli italiani nel mondo, un intervento sempre più forte.

PRESIDENTE. L'onorevole D'Elia ha già avuto modo di svolgere il suo intervento nella precedente seduta, ma ha chiesto la parola per una precisazione. Prego, onorevole, ha un minuto di tempo a disposizione.

SERGIO D'ELIA. Nella scorsa seduta il ministro D'Alema ha ribadito la posizione del Governo sul ritiro dall'Iraq, non come un disimpegno, ma soprattutto come un impegno alla ricostruzione economica, e immagino anche civile del paese, attraverso la creazione di istituzioni democratiche


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ispirate a principi di libertà e di civiltà giuridica.
L'attualità ci offre, in questi giorni, un banco di prova per gli impegni del Governo. Come lei sa, i procuratori di Baghdad hanno chiesto la pena di morte nel processo in corso contro Saddam e i responsabili del regime. La sentenza è prevista per il 7-8 luglio. È in corso un'iniziativa internazionale contro la condanna a morte. È stato formulato un appello, firmato dal Presidente emerito della Repubblica, Francesco Cossiga - primo firmatario - e da altre personalità, anche del mondo arabo.
Marco Pannella, nei giorni scorsi, ha chiesto al Governo un incarico straordinario, con l'obiettivo di salvare Saddam dall'esecuzione, ma anche per salvare, con la vita di Saddam, i diritti e la civiltà che il tiranno ha massacrato. Le chiedo, signor ministro, cosa intenda fare - lei personalmente o il suo Governo - riguardo alla richiesta di Pannella, il quale credo abbia dimostrato, in questi anni, con il suo impegno su questo e altri fronti, di avere titoli e capacità di operare nel senso da noi tutti - credo anche da lei - auspicato.

PRESIDENTE. Do la parola al ministro degli affari esteri, Massimo D'Alema, per la replica.

MASSIMO D'ALEMA, Ministro degli affari esteri. Seguirò lo schema delle domande che sono state poste, quindi mi scuserete se il mio intervento assumerà un carattere disorganico; tuttavia credo che ne potrà acquistare in vivezza, nel senso di creare un dialogo con le Commissioni. Innanzitutto ringrazio tutti i parlamentari che hanno partecipato a queste riunioni, i presidenti delle due Commissioni, e confermo l'auspicio che questo possa rappresentare l'inizio di una collaborazione e di un dialogo. Se questi elementi sono fondamentali in tutti i campi, lo sono in particolare su un terreno come quello della politica estera, nel quale la ricerca del massimo consenso e di indicazioni e suggerimenti che possano arricchire l'iniziativa italiana non può essere considerata episodica, ma è un tratto costante dell'azione di governo.
Vorrei partire dal tema del giorno. Credo che tutti siamo con il fiato sospeso e sentiamo una vivissima preoccupazione per il rischio di un aggravarsi drammatico della crisi israelo-palestinese e della situazione in Medioriente. Il Governo italiano ha rivolto una pressante richiesta all'Autorità nazionale palestinese perché i militanti che hanno rapito il giovane caporale israeliano lo restituiscano allo Stato di Israele, alla sua famiglia, ponendo così fine ad una drammatica crisi, i cui sviluppi sarebbero imprevedibili e le cui conseguenze sarebbero certamente disastrose.
Nel tardo pomeriggio di ieri ne ho parlato al telefono con il Presidente Mahmoud Abbas, il quale mi ha assicurato - e da tante fonti sappiamo che è vero - che il suo impegno personale, in queste ore, è volto ad ottenere la liberazione del militare, per scongiurare un aggravamento drammatico della crisi.
Nello stesso tempo, credo che questa possa essere l'occasione per unirci a quanti - fra questi, mi fa piacere sottolineare il segretario di Stato americano, Condoleeza Rice - hanno rivolto un appello alla prudenza e alla pazienza al Governo di Israele.
Come sapete, le forze armate israeliane hanno chiuso Gaza in un assedio. Il Primo ministro israeliano ha dichiarato che non esclude di interrompere la fornitura di acqua, gas e cibo alla popolazione che vive a Gaza, e si parla di una possibile offensiva militare su vasta scala.
Tutto questo ci riempie di angoscia, e in queste ore non possiamo che ribadire l'appello italiano, credo condiviso da tutto il Parlamento, affinché da questa drammatica crisi si esca al più presto, con la liberazione dell'ostaggio israeliano, evitando ulteriori spargimenti di sangue ed un aggravamento del conflitto.
Questa giornata di emergenza riporta in primo piano quella che è - a mio giudizio, lo è sempre stata - la vera questione cruciale dell'equilibrio del Medioriente e, più in generale, del rapporto tra mondo occidentale e mondo arabo,


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ossia la necessità di rinnovare un impegno per dare una soluzione al conflitto israelo-palestinese. Penso ad una soluzione nel senso auspicato dalla comunità internazionale e dall'Europa, che consiste nel riconoscimento del diritto alla sicurezza di Israele, del diritto del popolo israeliano di vivere in uno Stato riconosciuto dai suoi vicini, entro confini certi, libero da minacce di guerra o di atti terroristici, e nello stesso tempo nel riconoscimento del diritto del popolo palestinese di avere una patria, per la quale i palestinesi si battono da tanti anni.
Penso che occorra raddoppiare gli sforzi per uscire da una situazione così drammatica. Nel corso della mattinata abbiamo avuto occasione, il Presidente Prodi ed io, in due separati momenti, di incontrare il Primo ministro libanese. Il Libano è un paese che ha sofferto moltissimo per le conseguenze di questo conflitto: invasioni militari, pressioni, pesanti interferenze nella vita politica libanese, fino al recente assassinio del Primo ministro Hariri. È un paese alla cui stabilità e pacificazione l'Italia ha dato e sta dando un grande contributo. È evidente, però, che anche il futuro del Libano è strettamente legato alla soluzione di questo conflitto.
Per quanto ci riguarda, ribadisco che dobbiamo mantenere quella posizione europea che tende ad esercitare il massimo di pressione su Hamas. Infatti, senza il riconoscimento, da parte del Governo palestinese, degli accordi precedentemente sottoscritti da altri Governi palestinesi - è la condizione minima per una base giuridica su cui negoziare -, senza il riconoscimento del diritto di Israele di esistere e l'abbandono della violenza come mezzo di lotta, senza che si realizzino queste condizioni è molto difficile che torni in campo un interlocutore palestinese internazionalmente riconosciuto e che, quindi, si possa avviare quella ricerca di una pace negoziata, che è l'unica soluzione perché si possa arrivare ad una pace.
A mio avviso, se una cosa è risultata con chiarezza, in questi ultimi mesi, è che l'idea di una pace ottenuta unilateralmente non ha fondamento. Il ritiro unilaterale da Gaza - sebbene tutti abbiamo apprezzato il gesto di buona volontà - ha aperto una fase di ulteriori e più drammatiche tensioni, non ha delineato uno scenario di pace. Questa è la verità ed è ciò che, credo, tutti dobbiamo constatare.
Una pace si potrà ottenere solo attraverso un negoziato, che chiuda le questioni aperte, che definisca i caratteri e i confini dei due Stati, che affronti le questioni più controverse, come quella dei rifugiati palestinesi, e che in questo modo apra la possibilità di un'intesa che possa essere sottoscritta dalle parti e internazionalmente accettata.
È di queste ore la notizia che ci sarebbe un accordo politico, volto ad aprire un negoziato con Israele, tra Hamas ed Al Fatah. Naturalmente si tratta di una notizia troppo recente, perché possa essere commentata nel suo contenuto specifico; tuttavia non si può che auspicare che questa notizia trovi una conferma e che questo accordo produca qualcosa di convincente, in grado effettivamente di sbloccare la situazione internazionale. Ebbene, mentre si esercita - e deve essere esercitata - una pressione sulla parte palestinese, ritengo che, dall'altra parte, la comunità internazionale debba agire per evitare un precipitare drammatico della crisi umanitaria nei territori palestinesi.
In questo senso, abbiamo molto apprezzato la posizione dell'Europa e l'iniziativa della Commissione europea, che ancora recentemente la signora Ferrero-Waldner ha rappresentato nel dialogo con il Governo israeliano e con l'Autorità palestinese. Bisogna intervenire per evitare che la pressione internazionale contro Hamas divenga, in realtà, la via attraverso la quale scaricare sulle popolazioni palestinesi il costo della crisi.
Il rischio è una condizione paradossale, per cui mentre Hamas riceve aiuti da movimenti fondamentalisti o da paesi arabi - testimonianza vi sia che taluni dei suoi esponenti sono stati visti passare con valigie piene di denaro -, gli aiuti non arrivano direttamente alla popolazione o non si pagano gli stipendi dei dipendenti


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dell'Autorità palestinese, il che significa colpire mortalmente la struttura più tradizionale di Al Fatah. In tal modo, il risultato finale di questa pressione internazionale rischia di essere esattamente il contrario di quello che si propone. In altre parole, alla fine il rischio è che si rafforzino le posizioni dei fondamentalisti e si indeboliscano quelle di chi, ragionevolmente, vuole intraprendere la via del negoziato e della pace.
Per tutte queste ragioni, noi siamo impegnati in questo sforzo europeo. Nello stesso tempo, riteniamo che l'Europa debba anche esercitare un consiglio pressante sul Governo israeliano, un invito alla moderazione. I ministri degli esteri europei - non io personalmente, ma la notizia ha suscitato qualche polemica - hanno ribadito unanimemente, ancora qualche giorno fa, la disapprovazione dell'Unione europea nei confronti della strategia dei cosiddetti omicidi mirati. Siamo contrari alla pena di morte, figuriamoci se possiamo accettare la pena di morte extragiudiziale! Come dicevo, la notizia ha suscitato un qualche scandalo, segno di un certo degrado del dibattito pubblico nel nostro paese. Se il riferire, virgolettate, le posizioni unanimi dei ministri degli esteri europei, compresi quelli dei paesi più conservatori, in Italia è sufficiente per essere tacciati di pericoloso estremismo, allora mi sento un estremista, e ribadisco qui una posizione che non è una mia opinione personale - ancorché io la condivida -, ma è la posizione dell'Europa.
Credo che, nel momento in cui siamo uniti a tutta la comunità internazionale nell'esercitare una ferma pressione su Hamas, dobbiamo nello stesso tempo ribadire i principi cui si ispira la nostra posizione politica, anche nei confronti di altre parti coinvolte nel conflitto.
Io stesso - rispondo a una domanda che mi è stata rivolta -, in diverse occasioni, negli anni passati, mi sono trovato a lavorare intorno all'idea (ne abbiamo anche parlato in convegni internazionali) che l'Europa possa mettere sul tavolo della ricerca della pace una proposta che si muove su due piani, il primo dei quali è quello di una prospettiva di integrazione economica. Si è parlato molte volte della possibilità di una sorta di speciale partnership tra Unione europea e i paesi della regione - Israele, Giordania, Stato palestinese -, anche al fine di favorire, nel futuro, una forte integrazione economica fra queste tre entità, che vivrebbero in un'area geografica assai ristretta e che vedrebbero favorite le prospettive di sviluppo proprio da una forte sinergia economica tra di loro (libera circolazione di merci, di capitali, di persone).
Nello stesso tempo, è stata affacciata più volte l'idea che un gruppo di paesi della regione - non solo Israele, quindi - possano essere associati alla NATO, per rafforzarne la sicurezza, con modalità non dissimili da quelle che sono adottate per i paesi della cosiddetta partnership for peace: l'idea, cioè, che una prospettiva di pace possa essere accompagnata da un'iniziativa della comunità internazionale, in grado di offrire fondamentali risorse ai fini dello sviluppo, dell'integrazione economica e della sicurezza dell'area interessata.
È probabile, quindi, che il sottosegretario Vernetti si riferisse a questo, o che abbia espresso opinioni proprie. Considerato che non si tratta di proposte del Governo italiano per domani, che non avrebbero nessun realismo, ma si tratta di considerazioni che riguardano il medio-lungo periodo e di proposte volte a garantire in prospettiva cooperazione, convivenza e sicurezza in quell'area del mondo, la mia opinione è che tutto questo possa essere favorito anche da un impegno della NATO.
Personalmente ritengo che la NATO, in un tempo in cui la sua missione originaria si è esaurita, possa funzionare come security provider in uno scenario più ampio e che questo non sia in contraddizione con la vocazione dell'Alleanza atlantica. Sinceramente, però, non tradurrei questa opinione nella formula che Israele debba diventare parte della NATO. Questa ipotesi, a mio giudizio, non è realistica e non mi pare neppure che aiuterebbe una soluzione del conflitto. In qualche modo,


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essa rischierebbe di accentuare la separazione tra Israele e i suoi vicini, mentre quello che si deve studiare è un progetto di sicurezza che riguardi tutta la regione, e non un solo Stato.
Sulla questione dell'Iraq non voglio tornare, non c'è nessun motivo di polemizzare. Tuttavia, trovo che esista una contraddizione di fondo: considerato il tono con cui si continua a ripetere che ritirare i nostri militari e abbandonare l'Iraq sia una cosa profondamente sbagliata, mi domando perché il precedente Governo avesse annunciato il ritiro dei militari entro il 2006. Se questo delitto è così grave, se abbandonare l'Iraq in questo momento è una scelta così drammatica, mi domando perché il precedente Governo avesse solennemente annunciato, nel corso della campagna elettorale, che le forze armate italiane si sarebbero ritirate entro il 2006 dall'Iraq.
Trovo un'evidente contraddizione tra questa posizione che era stata annunciata e i toni con cui, oggi, veniamo accusati - noi, il Giappone e altri - di compiere chissà quale tradimento nei confronti del popolo iracheno. Non soltanto ritengo che noi eravamo tenuti a fare ciò che abbiamo promesso in campagna elettorale - almeno noi, perché pare che altri avessero una diversa disposizione d'animo -, ma credo che il rientro delle nostre Forze armate possa essere gestito in modo tale da non creare vuoti drammatici in Iraq, dove, in realtà, il processo di pace è affidato, secondo me, più che alla pressione militare al processo politico che si è aperto.
Dobbiamo guardare alla realtà irachena al di là di schemi di carattere propagandistico. Del resto, quante volte ci siamo scontrati, tra chi sostiene che in Iraq c'è la resistenza e chi dice, invece, che c'è il terrorismo! In realtà - e credo di non rivelare un segreto, in quanto cito parole del Presidente iracheno Talabani - in Iraq ci sono state e ci sono l'una e l'altra cosa, resistenza e terrorismo.
Il vero dramma iracheno è che il terrorismo di Al Qaeda o dei gruppi più ristretti che si erano organizzati intorno a Saddam Hussein aveva trovato il terreno fertile anche di una resistenza nazionale contro le truppe occupanti, che il Presidente stesso dell'Iraq ha definito «una resistenza nazionale aperta con cui dobbiamo negoziare». Tant'è vero che stanno negoziando.
Questa è la grande novità, oggi, sulla scena irachena: si è aperto concretamente un negoziato tra la resistenza e il Governo di riconciliazione nazionale, che ha come obiettivo quello di isolare i gruppi terroristici. Ovviamente ci sono anche i gruppi terroristici, ma dopo il colpo dato al terrorismo con l'uccisione di Al Zarqawi, in questo momento, l'obiettivo è quello di cercare di isolarli, offrendo ai diversi gruppi, che hanno animato una resistenza che certamente ha avuto dimensioni assai più ampie degli atti terroristici, la prospettiva di integrarsi in una dialettica politica di tipo democratico.
Alcuni di questi gruppi hanno accettato - avete visto che a questo si è accompagnata una cospicua azione di liberazione di prigionieri che erano stati arrestati nel corso di questi anni -, altri gruppi resistono. Una parte di questi gruppi, inoltre, pongono come condizione per trovare un'intesa che ci sia un calendario del ritiro delle forze armate straniere dall'Iraq. Insomma, la realtà è molto più complicata di come ce la raccontiamo.
Lo dico anche per coloro che, a un certo momento, è sembrato che negassero l'esistenza del terrorismo in Iraq. Il terrorismo, invece, c'è e c'è stato un terrorismo stragista che ha innanzitutto determinato lutti tragici per il popolo iracheno. Basti pensare allo stragismo di Al Qaeda contro le popolazioni sciite. In quel caso, ha operato un terrorismo stragista e, nello stesso tempo, hanno operato anche gruppi di resistenza nazionale. Il vero problema politico era separare gli uni dagli altri: isolare il terrorismo e aprire la strada ad una riconciliazione con quelle forze che si sono opposte alla presenza militare straniera. É quello che sta accadendo oggi, è quello che sta facendo meritoriamente il Governo di riconciliazione nazionale, che noi sosteniamo in questa opera.


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Dobbiamo sostenerlo, perché questa è esattamente la strada per una pacificazione, e secondo me lo è molto più che un'imponente presenza militare straniera. Come ha detto Jack Straw - non un pericoloso estremista di Lotta continua -, la presenza delle forze armate straniere è parte del problema e non solo della sua soluzione. È evidente che la presenza di forze armate straniere è stato un elemento catalizzatore dell'azione violenta.
Credo che in Iraq le cose potrebbero mettersi nella direzione positiva di un processo di pacificazione e che noi dobbiamo dare il nostro contributo politicamente, sul piano dell'assistenza e del sostegno, nelle forme compatibili con la sicurezza degli italiani che si trovano in Iraq. Quanto alla domanda che mi è stata rivolta, considerato che abbiamo deciso di ritirare le nostre forze armate, non possiamo metterle a disposizione della sicurezza di chi, privati o imprese, decidano di recarsi in zone di conflitto. Non è questo il compito istituzionale delle nostre Forze armate.
Le forme di cooperazione che intendiamo mantenere sono quelle compatibili con la garanzia della sicurezza del personale che sarà impiegato in Iraq. Certamente, dunque, avremo un'intensa cooperazione che si svolgerà a Baghdad, dove peraltro il Governo iracheno gradisce che tale cooperazione ci sia. La richiesta principale che ci siamo sentiti rivolgere è quella di rafforzare quelle missioni di formazione del personale, militare o di polizia, in cui siamo fortemente impegnati, che fanno capo alla NATO, all'Unione europea, o di rafforzare la presenza di tecnici italiani nei ministerial assistance team, gruppi di assistenza del Governo che si va costituendo. Credo, invece, che il cosiddetto PRT non sia nelle nostre possibilità, anche perché l'assunzione di quella responsabilità, come abbiamo detto più volte, avrebbe comportato il mantenimento nell'area di 800 militari italiani, una posizione chiaramente non compatibile con l'annuncio di un rientro delle nostre Forze armate.
A chi ha giustamente criticato la logica delle guerre preventive e unilaterali, rispondo che non credo che il conflitto in Afghanistan possa essere riportato sotto il titolo di guerra preventiva e unilaterale. C'è una differenza sostanziale, di natura politica e giuridica, tra la guerra in Iraq e la guerra in Afghanistan, che non è stata preventiva. L'azione militare in Afghanistan si è sviluppata dopo che da quel territorio è partito un attacco terroristico contro gli Stati Uniti d'America; quell'azione, quindi, si è mossa nel pieno rispetto della Carta delle Nazioni Unite, con l'autorizzazione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, dopo che era stato rivolto un invito al Governo dell'Afghanistan a sospendere la sua collaborazione con i gruppi terroristici che operavano nel territorio. Inoltre, l'azione militare in Afghanistan è avvenuta con il sostegno di un'ampia coalizione internazionale, che ha compreso l'Unione europea, i paesi arabi, e via discorrendo.
Non si può, a giudizio mio e del Governo, mettere la situazione dell'Afghanistan sullo stesso piano della situazione dell'Iraq. Noi siamo in Afghanistan sotto l'egida delle Nazioni Unite e nell'ambito di una missione della NATO a cui partecipano anche numerosi paesi europei che non ne fanno parte, compresa la Svizzera.
Certamente si può essere preoccupati per la situazione in Afghanistan. Personalmente lo sono, e dirò come, a mio avviso, si può agire per affrontare i problemi delicati che si pongono e il rischio di un'escalation del conflitto, che non è certamente un nostro obiettivo. Tuttavia, non può sfuggire la fondamentale differenza esistente tra le due guerre. Pertanto, ritengo che non sia plausibile che si apra un dibattito sulla possibilità di una unilaterale exit strategy italiana dall'Afghanistan: noi siamo in quel paese con la NATO, con l'Unione europea e con l'ONU, e l'Italia non può uscire né dall'ONU, né dalla NATO, né dall'Unione europea. Questo non fa parte del nostro programma e mi pare che il Governo lo escluda (mi scuserete la battuta)!


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Noi possiamo, dobbiamo e vogliamo aprire un confronto, anche con i nostri alleati, sulle prospettive della situazione in Afghanistan, poiché non c'è dubbio che oggi ci sono molti motivi di preoccupazione. Si è aperto, al riguardo, un dibattito internazionale. Basta pensare al lungo articolo del Washington Post sul Governo Karzai, nel quale si esprimono molti dubbi sulla capacità di tenuta di questo Governo e si presenta un'analisi molto preoccupata della situazione in Afghanistan. Basta leggere le dichiarazioni dello stesso Karzai, il quale ha rivolto una critica durissima alla condotta delle forze della coalizione, in particolare al modo in cui è stata condotta sin qui la missione Enduring freedom, per il suo alto costo in vittime civili, e via dicendo.
Si è aperta, insomma, una polemica, che però non è un «caso» italiano: non dobbiamo essere provinciali, non è un problema della maggioranza di centrosinistra, la verità è che si è aperta una discussione internazionale. Le parole di Karzai nei confronti della coalizione cha opera in Afghanistan non sono state pronunciate da un esponente della sinistra radicale, ma dal capo del Governo che noi sosteniamo, quello democratico. Le cose scritte dalla stampa americana sull'Afghanistan sono evidentemente il segno che esistono una preoccupazione e un dibattito internazionale sull'Afghanistan.
Penso che noi dobbiamo discutere con i nostri alleati. Non c'è dubbio che la missione non può evolversi nel senso di una escalation militare. Certo non sono fra quanti auspicano il ritorno del regime dei Talebani, che a me faceva orrore sin da quando prese il potere e fu festeggiato in tutto il mondo occidentale come una grande vittoria della libertà: mi faceva orrore allora, figuriamoci adesso. Non è certamente il regime dei Talebani quello che si deve auspicare. Tuttavia, il rischio è che questa azione militare trovi consenso in settori della popolazione, prenda la forma di una guerra etnica - pensiamo ai pashtun - e che il Governo di Kabul veda ristretta la sua effettiva sovranità ad una porzione molto piccola del paese.
È evidente che c'è un problema che riguarda le regole di ingaggio. Trovo positivo il fatto che si vada verso una rapida conclusione della missione Enduring freedom, che la responsabilità divenga una responsabilità multinazionale e che, in realtà, la sicurezza sia assicurata dalla missione ISAF, perché le regole di ingaggio sono diverse e vi è anche una diversa misura nell'uso della forza.
Occorre, poi, un'azione politica di riconciliazione nazionale, occorre intensificare l'azione civile di cooperazione. Al riguardo, il Governo proporrà al Parlamento la conferma dello stanziamento per il nostro contingente militare, ma contemporaneamente un forte aumento dell'impegno di carattere civile, di cooperazione, nei limiti delle disponibilità finanziarie. Come diversi colleghi hanno sottolineato, mi aspetto una forte solidarietà da parte delle Commissioni affari esteri, anche per cercare di risollevare le sorti del bilancio del ministero.
Certamente dovremo approvare un decreto, per ragioni di scadenze, ma il decreto potrebbe essere lasciato «a perdere», come si dice, e il Parlamento potrebbe esaminare un disegno di legge. Trovo apprezzabile, comunque, che il Parlamento approvi un ordine del giorno, una mozione, che possa servire di indirizzo per l'azione di governo. Questo non solo non è scandaloso, ma è certamente apprezzabile su questioni delicate come quelle relative all'insieme delle missioni militari.
In questo provvedimento, lo annuncio, il Governo apposterà anche una cifra modesta per il Darfour. Non abbiamo un piano, ma esiste un appello delle Nazioni Unite e noi vogliamo prevedere una disponibilità finanziaria per rispondere all'appello stesso. È un messaggio politico, evidentemente, perché in questo momento nessuno ha un piano di intervento; tuttavia, noi siamo disponibili anche a dare soltanto un apporto logistico alle forze dell'Unione africana. Comunque, abbiamo voluto testimoniare che non chiudiamo gli occhi di fronte alla tragedia umanitaria del Darfour e che siamo disposti a dare una mano all'ONU in questa direzione.


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Come ho detto nella precedente audizione, il Governo non è affatto contrario a che il Parlamento svolga un'analisi, anche approfondita, delle missioni militari italiane (ce ne sono circa 28 in quel decreto): a che punto sono, quali risultati hanno conseguito, quali prospettive hanno. Questo non è soltanto un diritto del Parlamento, ma credo che possa essere un'azione utile al paese, all'opinione pubblica; può anche rappresentare l'occasione per far conoscere meglio all'opinione pubblica l'opera delle nostre Forze armate - un'opera che io ritengo di grande valore, in tante parti del mondo - di tutela della pace, della sicurezza e via discorrendo.
È anche giusto, del resto, che il sesto paese al mondo per contributo a missioni internazionali di pace possa compiere in Parlamento un'analisi sullo sviluppo di queste missioni, compreso un approfondimento della situazione in Afghanistan. Non soltanto possiamo ascoltare i nostri militari e le numerose voci civili - in Afghanistan, oltre alla cooperazione pubblica, abbiamo la presenza anche di numerose organizzazioni non governative, che rappresentano forse una delle presenze internazionali più significative in quel paese -, ma ritengo che sarebbe molto utile sentire il rappresentante personale del Segretario generale delle Nazioni Unite in Afghanistan, il quale ci ha dichiarato la sua disponibilità - raccolta dal sottosegretario Vernetti, che è stato in Afghanistan - a venire a discutere con il Parlamento italiano e con le sue Commissioni. Sto parlando della persona da cui dipendiamo: noi siamo in Afghanistan nell'ambito di una missione la cui responsabilità politica sul campo è svolta dalle Nazione Unite.
Le preoccupazioni circa la situazione in Afghanistan le abbiamo espresse in tutte le sedi internazionali, e non sono ovviamente solo nostre, tanto è vero che nella prossima riunione ministeriale del G8, che si terrà a Mosca fra due giorni, questo tema è all'ordine del giorno e sarà affrontato sulla base di una relazione del ministro degli esteri tedesco, essendo la Germania il paese che, dopo gli Stati Uniti, probabilmente ha il più forte impegno militare nel paese, con la presenza di oltre 3 mila militari.
Certamente, dunque, le preoccupazioni sull'Afghanistan sono condivise. L'approccio, lo ricordo, non può essere simile alla vicenda irachena: dobbiamo affrontare queste preoccupazioni insieme ai paesi europei, ai paesi della NATO, ai paesi con i quali condividiamo questa difficile missione internazionale.
Il senatore Mantica ha sottolineato alcuni temi molto importanti. Il primo è il tema più generale del nostro impegno in Africa, al di là del Darfour, a cui ho fatto un cenno, o della Somalia, a cui mi sono riferito nella scorsa audizione. Noi stiamo lavorando in questo gruppo di contatto per la Somalia, dove certamente lo sviluppo degli avvenimenti è assai problematico, tuttavia conferma l'analisi che il nostro paese aveva fatto e che purtroppo non è stata ascoltata dai nostri alleati. Consideriamo apprezzabile la missione svolta dall'onorevole Raffaelli: da questo punto di vista, c'è una notevole continuità di analisi rispetto al lavoro che abbiamo ereditato; lo dico perché il senatore Mantica se n'è anche direttamente occupato, quindi da questo punto di vista vorrei dargli atto che l'impostazione dell'azione italiana verso la Somalia è stata da noi valutata positivamente.
Adesso il problema delicato è quello di favorire un dialogo fra i movimenti islamici, che godono di un grande favore popolare, e le autorità transitorie; un dialogo che non sarà reso facile dal fatto che questi movimenti hanno scelto come loro leader un esponente del fondamentalismo. La situazione, dunque, è molto complessa, ma l'impegno politico nostro esiste e tende a favorire un dialogo che garantisca una transizione pacifica in quel paese.
Più in generale, credo che sia maturo il tempo per lavorare ad un nuovo vertice tra Unione europea e Africa. Il precedente vertice de Il Cairo risale ormai a sei anni fa. Da allora, l'azione europea verso l'Africa si è sostanzialmente fermata, ha avuto un carattere episodico; neppure l'impegno della presidenza britannica è


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riuscito ad ottenere risultati molto concreti, malgrado la volontà politica di Tony Blair di segnalare, in questa azione verso l'Africa, un rinnovato impegno umanitario dell'Europa e della Gran Bretagna.
Si terrà, nei prossimi giorni, una riunione euroafricana a Rabat, che però acquista un significato abbastanza circoscritto ai temi delle migrazioni nell'area del Mediterraneo occidentale. Noi lavoriamo per arrivare ad un nuovo vertice euroafricano. Questo è l'obiettivo che ci proponiamo, perché alcune questioni - penso ai flussi migratori che dall'Africa, attraverso la Libia, si rivolgono verso il nostro paese - non possono essere affrontate in una logica di emergenza, ma hanno bisogno, per essere affrontate, di essere inquadrate in un rinnovato impegno verso l'Africa, verso i temi dello sviluppo e della difesa dei diritti umani in questa parte del mondo.
Per quanto riguarda la cooperazione, il Governo intende promuovere in Parlamento un dibattito per la riforma della cooperazione italiana. Si tratta di un vecchio impegno, che il Governo intende realizzare. In questo ambito, penso che lo strumento di un'agenzia, che separi nettamente le attività gestionali rispetto a un compito di indirizzo politico, che deve spettare al Ministero degli affari esteri, possa essere lo strumento rispondente all'esigenza di un rilancio della cooperazione italiana.
Per quanto riguarda l'Iran, non ho mai detto che noi non applicheremmo le sanzioni. Ho solo lamentato che l'Italia rischia di dover pagare una pesante taxation - le sanzioni sarebbero pesanti in particolare per i paesi che hanno più intense relazioni economiche con l'Iran, e noi siamo in Europa i primi partner commerciali dell'Iran - without representation, in quanto noi siamo rimasti tagliati fuori da questo negoziato. Abbiamo cercato di ritornare nel negoziato, allo scopo di spingere il Governo iraniano ad accettare le proposte - il cosiddetto pacchetto - messe a punto dalla comunità internazionale, in particolare dai paesi europei che hanno condotto il negoziato, che alla fine è diventato un negoziato condotto da Solana. Considero, peraltro, che questo sia un fatto positivo, in quanto nel protagonismo di Solana vedo l'Europa tutta e non soltanto alcuni paesi europei.
Ora siamo in una fase molto delicata, in cui le pressioni internazionali si moltiplicano, e noi speriamo che si possa arrivare ad una soluzione. È evidente che condividiamo l'obiettivo che l'Iran non abbia le bombe atomiche. Questo è un obiettivo prioritario, che siamo persuasi si possa conseguire attraverso un'azione politica in grado di prospettare all'Iran anche dei vantaggi, non soltanto delle minacce. Sappiamo bene che paesi in cui c'è una forte spinta nazionalistica, radicale, non si piegano soltanto con le minacce. Questo, al contrario, a volte rischia di eccitare sentimenti nazionalistici di contrapposizione.
Il vantaggio è anche che l'Iran possa normalizzare il sistema delle sue relazioni internazionali ed essere riconosciuto come un partner peraltro necessario in un'area del mondo - penso all'Afghanistan e all'Iraq - dove è difficile pensare ad una stabilità senza la partecipazione attiva e volonterosa dell'Iran.
Questa è la nostra posizione, una posizione di appoggio alla comunità internazionale per una soluzione pacifica e diplomatica di questa crisi, in grado anche di aprire uno scenario nuovo di collaborazione in quella parte del mondo. A questo fine, condivido l'orientamento espresso da molti colleghi circa la necessità di un'azione dell'Italia per rilanciare il processo dell'unità europea.
Per la verità, il Consiglio europeo non ha fatto compiere passi in avanti enormi, da questo punto di vista. Prevale un sentimento di attesa, soprattutto per quanto attiene al processo costituzionale, mentre sul piano dei cosiddetti progetti concreti c'è un'attività più fattiva (sui temi dell'energia, sui temi della cooperazione in materia di lotta alla criminalità e via dicendo). Insomma, c'è una certa volontà di fare insieme qualcosa che dimostri la vitalità dell'Europa, c'è attesa rispetto alle prospettive del Trattato costituzionale.


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Anche noi vogliamo fare qualcosa sul terreno delle cooperazioni europee. In particolare, come avrete visto, il Presidente del Consiglio, anche con un'azione personale, sta lavorando ad un progetto per il Mediterraneo, che impegni un gruppo di paesi europei. Si tratta di un progetto, tra l'altro, di carattere economico, attraverso la creazione di una banca per lo sviluppo del Mediterraneo, costituita da paesi europei, paesi dell'altra sponda del Mediterraneo e capitali privati (quindi un'istituzione pubblica e privata). Al riguardo, abbiamo già registrato un forte interesse: Francia, Spagna, Grecia, ma anche Austria e Germania sono disponibili, quindi il pacchetto dei paesi europei è già significativo; per quanto riguarda i paesi dell'altra sponda del Mediterraneo, per ora abbiamo registrato l'adesione dell'Egitto, ma siamo convinti di poterne raccogliere altre. Vorremmo, però, che questa iniziativa si accompagnasse a progetti di cooperazione anche sul piano scientifico e culturale, come la creazione di due università euro-arabe.
Insomma, vorremmo mettere qualcosa di concreto dentro le politiche euromediterranee, che finora sono state una cornice, ma senza iniziative concrete significative. Tutto questo ha il significato di non stare con le mani in mano, in un periodo di riflessione. È certo che il passaggio cruciale per l'Europa, nel corso della prossima primavera, sarà allorché le elezioni francesi e la presidenza tedesca rappresenteranno il momento in cui noi crediamo fermamente si debba rilanciare il progetto costituzionale per l'Europa.
Noi naturalmente lavoreremo per questo. Stiamo lavorando con altri paesi perché riteniamo che il momento cruciale sarà a cavallo del cinquantesimo anniversario del trattato di Roma, le elezioni francesi ed il Consiglio europeo del giugno 2007, ossia tra primavera ed estate dell'anno prossimo. Tuttavia, in attesa di questo momento cruciale, bisogna moltiplicare le iniziative, i colloqui, i contatti.
L'incontro con il segretario di Stato americano è stato un incontro positivo, al di là delle speculazioni giornalistiche. Innanzitutto, gli americani hanno apprezzato il modo in cui abbiamo affrontato la vicenda irachena, con senso di responsabilità, laddove certamente c'era una diversità di giudizio e di valutazione. Non c'è dubbio che non abbiamo scelto la via di una rottura, di una lacerazione, e questo atteggiamento anche di attenzione nei confronti del Governo iracheno è stato apprezzato dagli americani. Magari avrebbero preferito che lasciassimo in Iraq i nostri soldati, ma nella diversità di valutazione c'è stato un apprezzamento per il modo in cui abbiamo gestito questo passaggio.
Al di là di questo punto, che è stato uno dei temi del dialogo, la mia sensazione è stata che l'amministrazione americana oggi sia alla ricerca di una collaborazione con l'Europa e che, rispetto a qualche anno fa, ci sia molto più interesse a collaborare con l'Europa nel suo insieme che non a reclutare in Europa un gruppo di paesi willing, disponibili ad accompagnare le scelte unilaterali degli Stati Uniti.
Evidentemente, l'esperienza di questi anni ha determinato un cambiamento di passo, anche nella politica americana. L'idea che l'Italia sia un paese che si impegna per rilanciare l'unità dell'Europa non è parsa in contraddizione con la possibilità di avere una partnership positiva, in questo quadro nuovo, con gli Stati Uniti d'America. Ed è esattamente l'indirizzo che noi intendiamo dare alla politica estera italiana: amici degli Stati Uniti e impegnati forse più di prima. Fini si è irritato, per questa mia affermazione, ma è naturale che ognuno si proponga di fare di più, è umano. Alla fine, quando si fanno i bilanci, si vede se è stato fatto di più o di meno, ma non ci si può urtare per il fatto che uno si proponga di essere più europeista. A dire il vero, se mi fossi abbandonato, avrei detto «più e meglio». Si tratta di un proposito, i consuntivi li vedremo alla fine.
Penso che oggi sia possibile operare in questo senso, in modo non contraddittorio, in un rapporto positivo con gli Stati Uniti e in un forte rilancio del nostro impegno europeo. Impegno che, d'altro canto, è stato sottolineato, oltre che dalle azioni del ministro degli affari esteri, dalla presenza


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sulla scena europea del Presidente del Consiglio, in numerosi incontri e visite che hanno caratterizzato, in queste prime settimane, una rinnovata presenza dell'Italia in Europa, com'era negli auspici e nei programmi dell'attuale Governo.
Stiamo negoziando, con il Ministero dell'economia e delle finanze, non soltanto un'adeguata disponibilità di risorse, ma anche la possibilità di una gestione più flessibile del bilancio del ministero. Di questo, quando saremo più vicini alle scadenze economiche, torneremo a discutere. Certamente per noi sarà prezioso il sostegno delle Commissioni affari esteri, che, ovviamente, hanno interesse che il Ministero degli affari esteri possa fare politica estera. Diversamente, di cosa si discute in queste nostre riunioni? Grazie.

PRESIDENTE. Si conclude un'importante audizione del ministro affari degli esteri. Ringrazio, insieme al presidente Dini, il ministro per la puntualità con cui intende assicurare un saldo rapporto con le Commissioni esteri.
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 17.