COMMISSIONI RIUNITE
III (AFFARI ESTERI E COMUNITARI) DELLA CAMERA DEI DEPUTATI E 3a (AFFARI ESTERI, EMIGRAZIONE) DEL SENATO DELLA REPUBBLICA

Resoconto stenografico

AUDIZIONE


Seduta di mercoledì 20 febbraio 2008


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE DELLA III COMMISSIONE DELLA CAMERA
UMBERTO RANIERI

La seduta comincia alle 14,40.

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso e la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.

Comunicazioni del Governo sui recenti sviluppi della situazione in Kosovo.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca le comunicazioni del Governo sui recenti sviluppi della situazione in Kosovo.
Desidero ringraziare il Ministro D'Alema per aver sempre mostrato nel corso di questi due anni intensa disponibilità nei rapporti con la Camera e con il Senato.
Abbiamo a disposizione circa un'ora, perché attorno alle 15,30 avrà inizio la discussione in Aula sulle missioni internazionali e quindi dovremo limitare i nostri interventi ad alcuni minuti.
Do subito la parola al Ministro Massimo D'Alema.

MASSIMO D'ALEMA, Ministro degli affari esteri. Torno con piacere a incontrare in una seduta particolarmente affollata le Commissioni esteri di Camera e Senato a pochi giorni dall'audizione del 6 febbraio scorso, in cui avevo ripercorso in modo dettagliato le tappe del lungo e complesso negoziato sullo status finale del Kosovo, annunciando anche che, nel caso di una dichiarazione di indipendenza, il Governo italiano ne avrebbe preso atto stabilendo relazioni con le autorità kosovare.
In quella occasione si svolse una discussione molto interessante, per cui inevitabilmente gli argomenti non saranno del tutto nuovi rispetto alle valutazioni espresse in quella sede.
Come sapete, il Parlamento kosovaro ha unanimemente dichiarato l'indipendenza del Kosovo, suscitando diverse reazioni internazionali. In modo fortunatamente limitato si sono anche manifestate tensioni nella regione, che si cerca di mantenere sotto controllo.
La dichiarazione del Parlamento kosovaro del 14 febbraio scorso è il punto di arrivo di una vicenda lunga e complessa. Per quanto concerne gli sviluppi più recenti, questo processo si era avviato nel 2005, con la decisione del Consiglio di sicurezza delle Nazione Unite di avviare una riflessione per giungere a una definizione dello status finale del Kosovo, unico territorio europeo sottoposto a un protettorato internazionale che, a partire dal conflitto del 1999, vive in una condizione particolare di indipendenza sotto il controllo di autorità internazionali.
Questo processo, avviato nel 2005 per volontà del Consiglio di sicurezza e poi concretizzatosi nell'incarico assegnato all'ex Presidente finlandese Ahtisaari di predisporre una proposta da sottoporre al Consiglio stesso, non ha portato a un esito condiviso. Il piano Ahtisaari, che prevede una forma di indipendenza del Kosovo sotto il controllo e la supervisione internazionale, con particolari garanzie per le minoranze non solo serbe e per i luoghi


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sacri della religione ortodossa, non ha potuto concludere il suo percorso, malgrado il sostegno unanime dell'Unione europea e largamente prevalente nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, a causa del preannunciato veto della Russia all'adozione delle proposte in esso contenute.
Anche nel periodo di nostra presidenza del Consiglio di sicurezza nel mese di dicembre scorso, abbiamo compiuto uno sforzo per favorire il dialogo. Ho personalmente presieduto una seduta del Consiglio di sicurezza, che purtroppo però è servita soltanto a registrare l'insormontabile distanza fra le parti.
A conclusione dell'esercizio di Martti Ahtisaari, ci eravamo resi promotori di un'ulteriore fase negoziale su iniziativa europea (ma anche con particolare impulso da parte del nostro Paese) allo scopo di evitare una frattura nel Consiglio di sicurezza e di arrivare a un voto. Il veto aveva portato alla nomina di una troika di ambasciatori in rappresentanza rispettivamente degli Stati Uniti, dell'Unione europea e della Russia, per promuovere un ulteriore sforzo negoziale.
Per impulso del rappresentante europeo, l'ambasciatore Ischinger, questo sforzo ha prodotto proposte particolarmente interessanti, ma non ha portato a un accordo perché, al di là dei tanti aspetti importanti sui quali si era raggiunta una relativa convergenza tra le parti, il negoziato si è incagliato su una questione di principio. Mi riferisco all'insormontabile divergenza tra la posizione della Serbia, disponibile a riconoscere una speciale autonomia al Kosovo ma non l'indipendenza, e la richiesta kosovara di una piena indipendenza, nonostante la disponibilità a stabilire speciali relazioni con la Serbia nell'ambito di una riconosciuta indipendenza, quindi come relazioni fra Stati indipendenti. Questa divergenza di principio è parsa insuperabile sicché l'ipotesi - in linea di principio sempre apprezzabile - di proseguire nel negoziato è sembrata irrealistica, perché, dopo avere esperito ogni tentativo, il dialogo è apparso bloccato su una questione di principio.
In questo quadro il 17 febbraio è maturata la decisione dell'Assemblea del Kosovo di proclamare l'indipendenza con una dichiarazione nella quale il Parlamento kosovaro ha accettato in pieno gli obblighi e i limiti alla sovranità del Kosovo previsti dal piano Ahtisaari.
Si tratta di una dichiarazione sui generis di indipendenza, perché il Kosovo è un territorio attualmente presidiato da quasi 20 mila militari della KFOR. In questa regione, grande pressappoco come l'Umbria, in cui si svolge una missione delle Nazioni Unite con compiti di amministrazione, si recherà una missione di funzionari e di magistrati dell'Unione europea. Si tratta quindi di un'indipendenza del tutto particolare e originale, perché sostanzialmente in Kosovo la sicurezza e le funzioni amministrative sono garantite dalla comunità internazionale, sia pure affiancata dalle autorità elettive.
Nella dichiarazione del Parlamento kosovaro si afferma esplicitamente che Pristina includerà nella Costituzione, in via di approvazione, l'accettazione dei princìpi chiave del piano Ahtisaari. Questa non è soltanto una garanzia politica, ma prenderà la forma di un principio costituzionale che costituirà una delle norme previste dalla nuova Costituzione del Kosovo.
Con tale dichiarazione l'Assemblea kosovara ha poi rivolto un invito esplicito affinché nella ex provincia serba vengano confermate o stabilite, sulla base della risoluzione n. 1244, le missioni internazionali civili e militari che dovranno supervisionare l'attuazione del piano Ahtisaari: in particolare la KFOR, che rappresenta la missione militare, l'Ufficio civile internazionale, che coordina le azioni civili, e la missione PESD, ovvero la missione europea deliberata nell'ultima riunione del Consiglio europeo e poi confermata all'unanimità dall'Unione europea, ora entrata in una fase operativa, missione denominata EULEX. Tale missione è particolarmente dedicata, anche se non in modo esclusivo, all'organizzazione di un sistema di polizia e di giustizia; innanzitutto, si tratta della garanzia data dalla


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rule of law, ovvero della costruzione dello Stato di diritto, in un territorio che da molti anni è privo di sovranità e che fronteggia seri problemi di criminalità organizzata.
I contenuti della dichiarazione di indipendenza hanno quindi confermato pienamente che l'indipendenza del Kosovo sarà sui generis, in quanto a sovranità limitata sotto la supervisione internazionale.
Con questa dichiarazione Pristina accetta e riconosce i poteri della comunità internazionale nei propri confronti, che saranno particolarmente invasivi. Se infatti KFOR continuerà ad assicurare la cornice di sicurezza, EULEX fornirà l'assistenza in tutti i settori inerenti allo Stato di diritto, quali l'istituzione di un sistema giudiziario indipendente, la costruzione di servizi di polizia e dogane, le funzioni di ordine pubblico e di investigazione, in particolare con poteri di intervento diretto nei casi di reati legati al crimine organizzato, alla corruzione, al terrorismo, ai crimini interetnici (quindi in materia di protezione delle minoranze), ai reati finanziari e a quelli legati alla proprietà.
Il rappresentante civile internazionale, che dovrebbe essere il funzionario olandese Pieter Feith, già nominato rappresentante speciale dell'Unione europea per il Kosovo, sarà inoltre dotato di poteri esecutivi di natura giuridico-politica. Avrà infatti il potere di respingere le leggi adottate dall'Assemblea, esigendo eventuali modifiche in linea con gli impegni derivanti dal piano Ahtisaari, e potrà altresì rimuovere i pubblici funzionari qualora vi siano comprovati elementi di colpevolezza. Le limitazioni di sovranità previste dal piano Ahtisaari non rappresentano quindi soltanto affermazioni generiche, ma comportano un'autorità internazionale, in particolare europea, dotata di poteri particolari.
A seguito della dichiarazione di indipendenza di Pristina, il 18 febbraio scorso si è riunito a Bruxelles il Consiglio dell'Unione europea. I ministri degli esteri hanno esaminato in modo approfondito lo sviluppo della situazione e, al termine di un complesso negoziato, hanno approvato una piattaforma comune, che prende atto della situazione determinatasi, lasciando ai singoli Stati membri la possibilità di stabilire relazioni con il Kosovo. Il riconoscimento del Kosovo, infatti, non è materia di competenza comunitaria, bensì prerogativa dei singoli Stati membri.
Alla fine della riunione, sulla base di questa piattaforma comune, in linea con la maggioranza dei nostri partner europei, ho espresso pubblicamente l'intenzione dell'Italia di riconoscere il Kosovo indipendente sotto supervisione internazionale e di stabilire regolari relazioni con Pristina, intenzione che avevo anticipato già in occasione dell'audizione del 6 febbraio e per la quale avevo ricevuto un avallo preventivo da parte del Consiglio dei ministri, sia pure con la riserva del ministro Ferrero.
In occasione del Consiglio europeo si sono espressi in favore del riconoscimento del Kosovo anche il Regno Unito, la Francia, la Germania, l'Irlanda, la Finlandia, la Danimarca, la Lettonia, l'Estonia, il Lussemburgo, la Polonia, l'Austria, il Belgio e la Svezia. In questi giorni sono attesi ulteriori annunci di riconoscimento, tra cui quello della presidenza slovena. Ci si attende che diciassette-diciotto Paesi dell'Unione europea procedano rapidamente nei prossimi giorni al riconoscimento del Kosovo. Cinque Stati membri (Grecia, Slovacchia, Bulgaria, Romania e Spagna) almeno in questa fase non intendono farlo, mentre uno Stato membro, Cipro, ha annunciato che non lo farà mai.
Nel frattempo il Regno Unito e la Francia hanno già effettivamente proceduto al riconoscimento del Kosovo, come anche diversi Paesi non membri dell'Unione europea fra i quali gli Stati Uniti. Se siete interessati, ho anche un elenco completo dei riconoscimenti attuati. Tale quadro delinea una certa divisione della comunità internazionale.
L'Italia, dunque, si è mossa in sintonia con i maggiori partner europei, in particolare con la maggioranza degli Stati


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membri dell'Unione europea. Ritengo che questa posizione debba essere confermata dal nostro Paese, anche perché concertata in tutte le fasi della crisi in sintonia con i Paesi europei che fanno parte del gruppo di contatto (Regno Unito, Francia e Germania) e che hanno le maggiori responsabilità sul terreno, perché forniscono i contingenti più numerosi alla KFOR e avranno anche maggiori responsabilità nella missione civile.
Credo che una linea di condotta comune tra i maggiori Paesi europei sia una conditio sine qua non per governare il difficile processo che si è aperto e anche per continuare a esercitare un ruolo nella regione. Ritengo che questo corrisponda anche agli interessi nazionali del nostro Paese e non soltanto al necessario raccordo con la Francia, la Germania e il Regno Unito, cui un Paese come il nostro per avere un peso in Europa non può sottrarsi. Se qualcuno intende proporre altre politiche estere, è il benvenuto, ma mi pare difficile sfuggire a una disciplina di collaborazione tra i maggiori Paesi europei. Quindi, ritengo sia interesse dell'Italia procedere a un rapido riconoscimento del Kosovo su cui dovrebbe deliberare il Consiglio dei ministri, che ne ha il compito.
L'Italia schiera attualmente in Kosovo un contingente di circa 2.600 uomini, quello più numeroso nel quadro della missione KFOR, dislocato a Pec, sotto comando italiano, e in parte a nord di Mitrovica, sotto comando francese. In questo momento noi occupiamo infatti la posizione più a nord del Kosovo, con la presenza in quest'area di circa 430 alpini, fatto molto positivo anche perché la presenza italiana è molto apprezzata dalle diverse comunità, a cominciare da quella serba. Infatti, nel corso di tutti questi anni le nostre Forze armate hanno collaborato con tutte le comunità e operato efficacemente nella protezione dei diritti delle minoranze. Ci apprestiamo a inviare più di 200 funzionari tra civili, carabinieri e finanzieri nel contesto della missione PESD.
Ritengo che, se non riconoscessimo sollecitamente il Kosovo, questi uomini non avrebbero la necessaria copertura politica e diplomatica per operare sul terreno e interagire con le autorità di Pristina. Dovremmo quindi ritirarli per evitare di esporli a rischi, scelta che non gioverebbe in primo luogo ai serbi, perché la presenza italiana nella regione è un elemento di stabilità e di garanzia per tutti. Non solo: è interesse dell'Italia monitorare da vicino gli sviluppi in Kosovo nei prossimi anni. Tra qualche giorno verrà istituito l'International Steering Group per il Kosovo, un gruppo ristretto di Paesi - ovviamente tra quelli che avranno riconosciuto Pristina - con il compito di indirizzare politicamente l'applicazione del piano Ahtisaari e l'amministrazione nell'ex provincia serba.
A differenza dell'interpretazione, a mio giudizio sbagliata e ingenerosa, fornita da molti organi di stampa, secondo cui nel Consiglio del 18 febbraio si sarebbero manifestate una drammatica divisione ed una inconcludenza europea - il che non è vero, nel modo più assoluto - credo si possa affermare in tutta onestà che l'Unione europea abbia portato a termine un confronto non semplice anche a partire da diverse situazioni nazionali.
Vorrei però sottolineare come il diverso atteggiamento di alcuni Paesi rispetto al riconoscimento del Kosovo nasca non da una diversa valutazione della situazione nei Balcani, ma da ragioni di carattere nazionale. La Spagna ha espresso consenso unanime al piano Ahtisaari, sostenuto da tutti i Paesi europei; tuttavia, se non procede al riconoscimento del Kosovo è perché teme un «effetto domino» nei Paesi baschi, non perché dissenta dal nostro giudizio sulla situazione dei Balcani.
Non si rileva quindi una divisione dell'Europa perché qualcuno ritiene possibile ricondurre il Kosovo sotto la sovranità serba. Ma come? Da chi? Quale forza militare potrebbe intervenire contro la stragrande maggioranza della popolazione riconducendo il Kosovo sotto il Governo di Belgrado dopo quanto è accaduto? Quanto


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avvenuto certamente non è responsabilità dell'attuale leadership serba, ma la storia è storia e non si può cambiare. Nessuno ragionevolmente ritiene che ci si possa caricare di una simile responsabilità. Quale forza militare potrebbe imporre questo ai kosovari? Nessuna.
Le diverse posizioni europee nascono da preoccupazioni del tutto legittime e comprensibili circa un effetto imitativo, ma certo non da una diversa valutazione sul possibile destino del Kosovo.
Poiché il riconoscimento del Kosovo è materia nazionale, l'Unione europea ha deliberato quanto doveva, assumendosi la responsabilità con la missione civile PESD di accompagnare il Kosovo in un processo di costruzione di uno Stato di diritto moderno. L'Europa si è quindi assunta pienamente le sue responsabilità, senza dimostrarsi inconcludente o paralizzata dinanzi agli sviluppi della situazione.
Desidero quindi ricordare che, malgrado le difficoltà e le sensibilità di alcuni Paesi - capisco la situazione di Cipro, preoccupata per Cipro nord non per il Kosovo, preoccupazione comprensibile e rispettabile -, l'Unione europea ha dato una valutazione unanime. Nel giugno del 2006, il Consiglio europeo ha adottato una risoluzione di pieno sostegno al piano Ahtisaari, la missione Pesd è stata approvata all'unanimità dal Consiglio europeo, il Consiglio europeo ha approvato all'unanimità la nomina di un proprio rappresentante speciale in Kosovo. Nell'adozione di queste misure operative e nell'assunzione di queste responsabilità l'Europa ha dimostrato la sua coesione e anche la volontà di esercitare un ruolo chiave nella complessa vicenda della stabilizzazione dei Balcani.
In particolare, la valutazione europea è stata unanime sull'insostenibilità dello status quo, sull'opportunità del processo negoziale sotto l'egida delle Nazioni Unite, sulla necessità di un ulteriore sforzo con la troika, sulla consapevolezza che nulla di intentato era stato lasciato e sul fatto che fosse inutile continuare un negoziato incagliato in una disputa di principio impossibile da risolvere.
Su un altro aspetto cruciale l'Europa è stata unita, valutando il Kosovo come un caso speciale, che non determina alcun precedente internazionale. La specificità risiede non soltanto in una vicenda segnata da eventi tragici quali pulizia etnica, guerra civile, conflitto, come purtroppo è potuto accadere anche in altre aree del mondo, ma anche nel fatto che il Kosovo, di fatto, era sottratto da otto anni alla sovranità serba e amministrato da un protettorato internazionale, situazione che caratterizza la sua realtà in modo totalmente diverso rispetto a qualsiasi altra provincia o regione di Europa che rivendichi la separazione e una propria indipendenza.
Le preoccupazioni, presenti anche nel nostro Paese, circa la realtà di uno Stato, il Kosovo, in cui si rileva la presenza di criminalità organizzata sono legittime; tuttavia, secondo una mia opinione, largamente prevalente nella comunità internazionale, il permanere nel Kosovo di una realtà territoriale priva di statualità accentua gli elementi di irresponsabilità e i rischi dal punto di vista della criminalità organizzata. In un territorio senza Stato, senza polizia, senza amministrazione della giustizia, è molto più facile per la criminalità organizzata mettere radici. L'avvio della costruzione di uno Stato di diritto, anche grazie all'impegno europeo, mi sembra il modo migliore di contrastare quei fenomeni criminali che costituiscono motivo di preoccupazione per tutta la comunità internazionale e anche per noi.
Desidero ricordare che il documento adottato dal Consiglio dell'Unione europea sottolinea come il caso del Kosovo non metta in discussione i princìpi contenuti nella Carta delle Nazioni Unite e nell'Atto finale di Helsinki. Il documento approvato all'unanimità dal Consiglio europeo si conclude affermando che «la vicenda del Kosovo costituisce un caso sui generis, che non mette in causa princìpi e risoluzioni contenuti nella Carta delle nazioni unite e nell'Atto finale di Helsinki».
So che questo parere può essere controverso, ma tengo a sottolineare che questa è la conclusione del documento approvato


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all'unanimità dal Consiglio; in quanto tale esso rappresenta più che un parere personale del sottoscritto, è un atto di politica vincolante per i 27 Paesi membri dell'Unione. Questo significa che il Kosovo per l'Unione europea non costituisce un precedente e non mette in discussione l'adesione europea ai princìpi contenuti nella Carta delle Nazioni Unite e nell'Atto finale di Helsinki.
In questi giorni, come era prevedibile, stiamo assistendo a turbolenze di carattere diplomatico e anche a tensioni sul terreno che non possono essere sottovalutate, ma neppure drammatizzate. La Russia ha voluto investire ripetutamente della questione il Consiglio di sicurezza senza che le richieste di annullamento della dichiarazione kosovara potessero essere accolte. Il Consiglio di sicurezza è paralizzato sul Kosovo, perché è diviso e quindi non in grado di assumere delle decisioni. La Serbia ha protestato vivamente, ha richiamato i propri ambasciatori presso i Paesi che hanno riconosciuto il Kosovo, vi sono state tensioni e manifestazioni a Belgrado nonché alcuni incidenti in Kosovo, a nord del fiume Ibar, in particolare nei pressi del confine con la Serbia. L'intervento della KFOR, manifestatosi tuttavia senza l'uso della forza, ha riportato sino ad adesso la calma e in questi incidenti non vi sono stati feriti.
È evidente che siamo in una fase delicata, nella quale occorre mantenere nervi saldi; servono molta saggezza, calma e lungimiranza. Il Governo italiano è in contatto innanzitutto con la NATO, che ha una responsabilità primaria di sicurezza. Il Consiglio atlantico ha diramato un suo documento nella stessa data in cui si era riunito il Consiglio dell'UE, confermando l'impegno della NATO e il mandato della KFOR, che ovviamente non contiene alcun riferimento alla tutela dei confini del Kosovo. La KFOR è lì per prevenire atti di violenza, per mantenere l'ordine, per tutelare le minoranze - questo è il mandato internazionale - e vi resterà fino a quando il Consiglio di sicurezza non disporrà diversamente.
La presenza internazionale è tale da evitare il rischio non di incidenti, ma di una destabilizzazione della regione. Nel corso della fase negoziale, in particolare negli incontri con la troika, sia i serbi che i kosovari hanno assunto solenne impegno a evitare tensioni e a prevenire atti di violenza. Ora gli uni e gli altri devono agire in modo coerente con gli impegni assunti. In particolare è delicata l'area a nord di Mitrovica, dove si trovano le comunità a maggioranza serba del Kosovo e dove bisogna evitare situazioni di scontro nonché mantenere aperti tutti i canali di comunicazione con Belgrado.
In questi giorni abbiamo avuto diversi contatti. Il Presidente del Consiglio ha avuto una conversazione con il Presidente Tadic. Personalmente ho ricevuto l'ambasciatore di Serbia, la signora Raskovic, per ribadire i rapporti di amicizia fra l'Italia e la Serbia e il ruolo che l'Italia intende svolgere nella regione a favore di un processo di stabilizzazione. Come noto, siamo stati e continuiamo a essere uno dei Paesi più impegnati nel favorire un processo di avvicinamento della Serbia all'Unione europea e abbiamo da tempo chiesto di giungere a firmare un accordo di associazione, riconoscendo alla Serbia lo status di Paese candidato all'Unione europea. Il Presidente Napolitano ha risposto con una lettera amichevole al Presidente Tadic, di cui ovviamente ha informato il Governo in queste ore.
È chiaro che ci si appresta ad un passaggio delicato, che affronteremo in modo tanto più efficace quanto più sapremo mantenere l'unità dell'Europa, a cominciare da quella dei Paesi più importanti che hanno maggiore responsabilità e compiti più rilevanti. Desideriamo che la vicenda kosovara non destabilizzi i Balcani, ma semmai rappresenti l'ultimo capitolo di un lungo processo di disgregazione e di riorganizzazione, che troverà il suo compimento nell'integrazione europea di questi Paesi, quando i diversi Stati, nati nei Balcani dalla dissoluzione della ex Jugoslavia, troveranno uno spazio di cooperazione nel seno dell'Europa unita.


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La libera circolazione delle persone, dei capitali e delle merci, l'abolizione dei confini è il futuro dei Balcani e solo in questo ambito sarà possibile ritrovare quell'integrazione che nel passato fu garantita dalla Federazione jugoslava e che è poi venuta meno per ragioni storiche; queste ragioni non dipendono certo dalla responsabilità dell'attuale leadership serba, ma cambiare la storia è problematico per chiunque, anche se animato dalle migliori intenzioni.
Questa è la situazione. Ritengo che non abbiamo alternativa a un'assunzione di responsabilità. Per svolgere pienamente il nostro ruolo e assolvere alle nostre responsabilità, è necessario ed utile che il Governo proceda a stabilire normali relazioni con le autorità di Pristina e a riconoscere la nuova realtà che si è determinata. È necessario farlo con sobrietà, continuando a lavorare per mantenere buoni rapporti con la Serbia e affrontando con serenità un momento difficile, che speriamo possa presto lasciare spazio alla ripresa di un dialogo.
Vorrei concludere con quanto segue. È del tutto evidente a noi, ma anche alle autorità kosovare - si tratta di persone ragionevoli - come questa indipendenza del Kosovo sia dimidiata. Nella condizione attuale il Kosovo non soltanto è sottoposto a una supervisione internazionale, ma non potrà neppure entrare a far parte dell'Assemblea delle Nazioni Unite perché la comunità internazionale è divisa. Si potrà uscire da questa condizione solo il giorno in cui tra Pristina e Belgrado si stabilirà un'intesa. La ripresa del dialogo con Belgrado è quindi un traguardo irrinunciabile, per gli uni e per gli altri. Chi può favorire questo processo sono il tempo e l'Unione europea.
Sono convinto che in questo momento l'Europa debba essere unita e governare questo processo con saggezza. L'Italia è in questo caso, dato che siamo proprio nei pressi di «casa nostra», uno dei Paesi che possono dare il contributo maggiore e assumersi pienamente le proprie responsabilità.

PRESIDENTE. Grazie, Ministro D'Alema. L'inizio dei lavori d'Assemblea è stato posticipato alle ore 16: dobbiamo necessariamente concludere entro quell'ora.
Do pertanto la parola a quanti intendano porre quesiti o formulare osservazioni, invitandoli a limitare la durata dei loro interventi.

ARMANDO COSSUTTA. Ringrazio il Ministro D'Alema per le sue informazioni, anche se sono costretto a confermare la mia valutazione critica nei confronti della decisione che il Governo si accingerebbe ad assumere. Ritengo, anzi, che si tratti di un errore dell'Italia e dell'Europa; un errore che viene da lontano, dal momento in cui avremmo dovuto dire chiaramente e con grande franchezza ai dirigenti kosovari che avremmo fatto di tutto per garantire la loro piena autonomia, ma non avremmo avallato una decisione unilaterale di indipendenza.
Abbiamo commesso questo errore quando non abbiamo reagito nei dovuti modi diplomatici nei confronti delle dichiarazioni del Presidente degli Stati Uniti che, nel cuore dell'Europa, a Tirana, capitale dell'Albania, proclamava la decisione del suo Paese di riconoscere comunque e da subito una dichiarazione, anche unilaterale, di indipendenza.
Oggi ci troviamo di fronte alla situazione che il Ministro ci ha illustrato con obiettività: molti Paesi hanno già assunto la decisione di riconoscere il nuovo Stato kosovaro; altri significativi sono ancora esitanti; altri ancora hanno espresso un parere nettamente contrario per ragioni diverse. Non sottovaluto il fatto che a pronunziarsi criticamente in modo più netto siano stati i Paesi che hanno un grande ruolo nell'area mediterranea, rispetto alla quale l'Italia dovrebbe essere fortemente preoccupata. Si tratta della Spagna, della Grecia e anche, sia pure nei suoi limiti dimensionali, della Repubblica di Cipro.
Non ribadisco quanto ho già detto nelle precedenti riunioni delle Commissioni congiunte o della Commissione affari


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esteri del Senato a proposito della situazione del Kosovo. Capisco il ragionamento del Ministro sulla necessità di trovare i modi per responsabilizzare il più possibile la politica di quel Paese, che oggi è dominata sostanzialmente (non credo di offendere nessuno perché dico cose che sanno tutti) dai clan e dalle cosche nonché da personalità, certamente riconosciute dalla popolazione, che fino a poco tempo fa le autorità europee, comprese quelle italiane, definivano come pericolosi terroristi.
Ribadisco il mio giudizio non su questa situazione, ma sulla conseguente instabilità e sui pericoli che si determinano e si potranno determinare in tutto lo scacchiere internazionale.
Un conto è dichiarare la piena, grande, fortissima autonomia (e quella proposta per il Kosovo è la più alta che si conosca); altro è modificare i confini, con una decisione unilaterale, attuando una vera secessione rispetto a uno Stato sovrano. Tutto questo potrebbe rendere maggiormente complicati i contrasti internazionali in varie aree del mondo.
Si afferma che la Spagna abbia assunto una posizione critica proprio per uno specifico timore. Certo abbiamo questo timore, ma tutto questo sarebbe motivo di grande instabilità in alcuni Paesi dei Balcani, in altri Paesi dell'Europa e addirittura in estremo Oriente, per il possibile riaccendersi di rivendicazioni da parte dello Stato di Formosa, con il conseguente pericolo di complicare ulteriormente i già difficili rapporti internazionali soprattutto fra Cina e Stati Uniti.
Con grande ammirazione e rispetto per il lavoro del Ministro degli esteri sottolineo però come le battaglie attorno ai confini, sin dalla seconda metà del secolo scorso, siano state considerate motivo di grande preoccupazione e di grande impegno da parte della Repubblica italiana. Devo riconoscere che è stato merito di alcuni grandi statisti italiani della Democrazia Cristiana risolvere problemi delicatissimi come quello del sud Tirolo che De Gasperi, attraverso trattative, ha portato a una conclusione positiva evitando la secessione. Ricordo anche che l'onorevole Andreotti qui presente - che allora non era Capo del Governo - svolse un'opera fondamentale per la questione di Trieste e che l'onorevole Moro portò a compimento il Trattato di Osimo. Tali iniziative andavano nel segno e nella direzione di un grande senso di responsabilità, di forte impegno e di estrema delicatezza.
Oggi dobbiamo riuscire a dimostrare la stessa capacità con un atteggiamento anche di specificità e di autonomia, proprio per il ruolo che l'Italia ricopre in questa parte del mondo, nei confronti di questi problemi ed in particolare della ingerenza preoccupante - desidero ribadirlo senza particolare enfasi - della più grande potenza del mondo, gli Stati Uniti, che stanno costruendo in Kosovo, se non erro, la più importante base militare in Europa.
Sebbene nelle Nazioni Unite si rilevi una situazione di stallo, da esse non è venuto quell'avallo che sarebbe necessario dal punto di vista del rispetto del diritto internazionale. Come il Ministro sa - perché l'ho ribadito altre volte e l'ho anche scritto - considero questa una delle preoccupazioni più grandi per chi, come me, pur essendo alla fine della sua attività parlamentare e del suo impegno diretto nell'agone politico, ha sempre avuto presente la questione del rispetto assoluto del diritto internazionale.
Ci troviamo di fronte a una situazione di fatto che vede un contrasto tra la delibera delle Nazioni Unite del 1999, l'unica esistente, e le decisioni, anche se non motivate da una risoluzione unanime, dell'Unione europea. È un fatto grave, di grande rilievo, che non si è mai verificato in precedenza. Ci troviamo dinanzi a un contrasto tra l'intervento della NATO e l'orientamento delle Nazioni Unite, che dovrebbe essere rispettato. La NATO ancora una volta propone un tema caro a molti dei nostri colleghi qui presenti e concernente il suo statuto che stabilisce che si deve intervenire qualora uno dei Paesi sia direttamente coinvolto, interessato, minacciato. Mi chiedo dunque


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perché ci troviamo dinanzi a complicazioni che possono determinare gravi conseguenze.
Concludo la mia riflessione rivolgendomi al Governo italiano, che ho sostenuto e che sostengo e che si trova ad affrontare una situazione complessa in un momento particolare essendo ormai in carica per lo svolgimento dell'ordinaria amministrazione.
La premura in questo momento non è la strada da seguire, giacché non è attraverso atti immediati che possiamo efficacemente apportare il nostro contributo di responsabilità in una situazione così difficile. Mi domando perché l'Italia non possa soprassedere dall'assumere una decisione. Fra due mesi ci sarà il nuovo Governo, frutto della battaglia elettorale, per cui non riterrei drammatico attendere per poter valutare meglio la situazione e dimostrare anche in questo modo il nostro impegno nei confronti del popolo kosovaro e il nostro senso di amicizia nei confronti della Repubblica di Serbia.

FABIO EVANGELISTI. Probabilmente, così come è stato dichiarato, a questo punto l'indipendenza sui generis rappresenta un esito inevitabile della complessa situazione di quella realtà.
Intendo esprimere un apprezzamento per la posizione assunta dal Governo italiano e anche, con le diverse prerogative e responsabilità, dalle istituzioni dell'Unione europea.
Certamente quanto si è realizzato non coincide con ciò che era contenuto nel piano Ahtisaari e auspicato dal nostro Parlamento. La mozione approvata in Aula stabiliva di impegnare il Governo a sostenere l'iniziativa negoziale della troika e indurre l'Unione a esprimersi unitariamente, come avvenuto, ma invitava anche a scoraggiare iniziative unilaterali, che invece si sono realizzate.
Noi dell'Italia dei Valori non ci siamo mai pronunciati contro l'idea di un Kosovo indipendente per varie ragioni, ma principalmente per una ragione squisitamente politica: nessun territorio, nessun popolo (parliamo anche di autodeterminazione) dovrebbe essere perennemente un protettorato sotto l'egida di organizzazioni internazionali. A questa consapevolezza si aggiunge una minore questione tecnico-politica concernente i costi in termini umani, sociali, economici e militari che certi impegni rappresentano.
In questi ultimi dieci-quindici anni la crisi nell'ex Jugoslavia ha prodotto dinamiche centripete che, a differenza di quanto sostenuto da alcuni, possono ancora rappresentare un rischio. Rispetto agli eventi, sarà opportuno che nessuno si faccia prendere da facili entusiasmi. Ancora non si sono sentiti echi del genere, ma questa è la mia preoccupazione.
Si rischia di incrinare la stabilità del rapporto fra il costituendo Stato e le minoranze presenti, preoccupazione che induce altri Paesi europei a non riconoscere la nuova realtà statuale.
Ritengo che oggi, di fronte alle popolazioni che anelano all'ingresso nella grande casa europea, non abbia senso dividersi in piccoli Stati per poi ricompattarsi sotto un'unica bandiera con la stessa moneta, con gli identici confini, con le medesime politiche fiscali ed economiche. Questo però è un processo che richiederà molto tempo.
Oggi, la dichiarazione di indipendenza unilaterale del Parlamento kosovaro rappresenta un esito per certi versi inevitabile, che però non era auspicabile.
Ci chiediamo quindi come dobbiamo intervenire in questa situazione, sia come Italia sia come Unione europea. L'unica possibilità che si intravede consiste nel rilanciare un nuovo processo di sviluppo democratico e di integrazione tra il popolo serbo e quello kosovaro, tra le minoranze serbe e la maggioranza kosovara, un processo che venga però promosso non solo con la supervisione dell'Unione europea, ma anche con la stretta collaborazione degli altri Stati balcanici, che negli ultimi quindici anni, a costo di sanguinosi conflitti, si sono impegnati a sconfiggere i nazionalismi esplosi dopo il crollo del regime jugoslavo.
In questo senso, mi sento di condividere l'esposizione fatta dal Ministro


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D'Alema e di sostenere in tutte le sedi il riconoscimento che il Governo italiano si appresta a dare alla nuova realtà statuale.

DARIO RIVOLTA. Signor Ministro, desidero come sempre ribadirle che soprattutto nei temi di politica estera non basiamo il rapporto tra opposizione e Governo sulla polemica a priori. Al contrario, nella pura ricerca dell'interesse nazionale, vogliamo valutare con realismo politico ogni evento e ogni decisione.
Il realismo politico in questa situazione ci pone, purtroppo, di fronte a ciò che si manifesta come un'ineluttabile necessità: quella di riconoscere uno stato di fatto. Altre circostanze ci hanno permesso di ricercarne le cause e di identificare responsabilità imputabili a tanti soggetti, tra i quali vari Stati dell'Unione europea, tra cui anche l'Italia.
Come dicevo, siamo, comunque, di fronte a un atto ineluttabile, in un certo senso, un atto dovuto. Ciò non ci libera dalla sensazione che si potesse agire diversamente - anche se così fosse, sarebbe ormai troppo tardi - né dal dubbio che, almeno dal punto di vista tecnico se non politico, sia opportuno che un Governo dimissionario si assuma questa responsabilità.
Le preoccupazioni e i dubbi che ci restano hanno però una spiegazione che lei ha correttamente attribuito all'atteggiamento adottato da alcuni Stati europei: il timore dell'effetto domino. Ho apprezzato le sue riflessioni su questo argomento e la volontà dell'Unione europea di dimostrare l'infondatezza di tale timore, ma, al di là della razionalità, il rischio di effetto domino nel mondo intero ci preoccupa profondamente.
Nonostante i dubbi manifestati, signor Ministro, riconosco come, allo stato di fatto, nostro malgrado - e quando dico nostro intendo dei Paesi, dei Parlamenti e dei popoli dell'Unione europea - forse non esista altra possibilità.
Mi permetto però di esprimere un forte dolore come parlamentare italiano per la decisione preannunciata dal Governo serbo poche ore fa di richiamare il proprio ambasciatore da Roma, se domani sarà riconosciuta l'indipendenza del Kosovo. Si tratta di un dolore, perché tutti insieme possiamo affermare come con la Serbia e con il popolo serbo esista un rapporto di affetto e di amicizia.
Chiedo quindi con forza a questo e, soprattutto, al nuovo Governo di continuare a manifestare ai nostri amici, rappresentanti legittimi del popolo serbo a Belgrado, la nostra volontà di testimoniare un affetto che va al di là delle spiacevoli situazioni che li toccano.
Attualmente, le circostanze fanno oggettivamente un torto ai serbi, ai quali vogliamo manifestare la volontà di proseguire nel cammino che porterà senza dubbio la Serbia in Europa.
L'ultimo invito che rivolgo a questo Governo, e sarà anche compito del prossimo, è di prendersi particolare cura - come avvenuto finora e come i nostri militari stanno facendo - della tutela di tutte le minoranze all'interno del Kosovo (non possiamo disconoscere che anche su questo versante vi sono dei rischi).

SERGIO MATTARELLA. Il fatto che per la seconda volta in due settimane il Ministro degli esteri venga nelle Commissioni riunite di Camera e Senato a riferire sulla situazione del Kosovo manifesta la delicatezza del passaggio cui assistiamo.
A nome del gruppo del Partito Democratico esprimo la piena condivisione per l'analisi del Ministro degli esteri e per gli intendimenti manifestati a nome del Governo.
Il Kosovo è da tempo in una condizione di indipendenza di fatto, consolidata, anche se naturalmente sui generis.
Era realmente irrealizzabile un ripristino di sovranità serba, pur con tutta la considerazione e il rispetto per i vincoli storici e culturali che la Serbia ha nei confronti del territorio del Kosovo.
Come ampiamente sottolineato, era anche impossibile mantenere indefinitamente la situazione attuale.
Si tratterà appunto di una sovranità non piena, dimidiata come diceva il Ministro, non soltanto per la mancata presenza


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all'ONU, resa impossibile dal dissenso manifestato nella comunità internazionale da alcuni Paesi, ma anche perché l'amministrazione sarà affidata all'Unione europea.
Il passaggio che oggi abbiamo di fronte suscita numerosi dissensi non soltanto nella comunità internazionale, ma anche nei commentatori interni a ciascun Paese, compreso il nostro, a testimonianza di come esso non sia oggetto di scelta, ma rappresenti un passaggio obbligato, che non suscita entusiasmi, e che deve comunque essere affrontato con realismo e senso di responsabilità. In tale difficile passaggio, come poco innanzi ha detto il Ministro, l'Italia deve opportunamente mantenere un atteggiamento in linea con quello degli altri maggiori Paesi dell'Unione europea, quali la Gran Bretagna, la Francia, la Germania, Paesi del gruppo di contatto, anche per il ruolo decisivo che l'Unione europea ha svolto e deve compiere.
Come rilevato nella seduta precedente, infatti, l'Unione ha compiuto ogni tentativo per pervenire a un'intesa tra le parti, anche ipotizzando una soluzione attraverso un patto federativo, che si è arenato sulla questione di principio del fondamento del patto federativo, questione apparentemente nominale, ma sovente nella storia le questioni di principio hanno provocato stragi e massacri, come è avvenuto spesso nei Balcani.
La missione dell'Unione europea consiste innanzitutto nell'evitare il verificarsi di stragi, massacri, violenze. Questo è il significato di molte missioni di pace.
Nei secoli passati, queste contrapposizioni sfociavano talvolta in genocidi, massacri e stragi. La coscienza dell'attuale comunità internazionale non consente, per fortuna, che ciò avvenga e a volte vi sono interventi a tale scopo. Siamo intervenuti per questo in ritardo in Bosnia; siamo intervenuti per questo in Kosovo a suo tempo ed è già un risultato riuscire ad evitare stragi e massacri.
Il ruolo dell'Unione è proprio quello di garantire la sicurezza della popolazione di qualunque gruppo etnico e il governo civile del Kosovo. Questa condizione è l'unica che può consentire l'apertura di una nuova fase di dialogo, di cui oggi non si vede la possibilità, ma che è indispensabile per consentire la ripresa di un negoziato tra le parti per il futuro.
Come evidenziato dal Ministro degli esteri, al raggiungimento di questo fine può concorrere l'Unione europea con l'intensificazione dei suoi rapporti con entrambe le parti, Serbia e territorio kosovaro nella prospettiva di un ingresso nell'Unione quando il tempo lo consentirà, così da assorbire tensioni e divisioni che ancora non si riesce a superare.
Ritengo quindi che garantire la sicurezza e l'amministrazione civile sia l'unico modo per entrare in una prospettiva europea, per consentire la ripresa del dialogo e una fase costruttiva, che oggi non ha possibilità di realizzarsi, e anche per superare le ferite di ieri e le divisioni di oggi.
L'urgenza con cui il Governo intende decidere è giustificata, a nostro avviso, dalle considerazioni svolte dal Ministro in merito alla presenza nel territorio kosovaro del nostro contingente militare e alla missione affidata a coloro che si occuperanno dell'amministrazione civile. La loro copertura esige questa decisione del Governo, questa assunzione di responsabilità, nella consapevolezza che si tratta di una scelta obbligata, non auspicata, ma tuttavia necessaria, assunta d'intesa con il più forte nucleo dell'Unione europea.
Non ravviso seri motivi per temere un effetto domino, al di là del precedente che l'Unione europea ha scartato. In nessuna regione, infatti, si trova una presenza militare così forte della comunità internazionale, alla quale è affidata l'amministrazione civile, per cui non può esservi un effetto imitativo di quanto sta avvenendo in Kosovo.
Noi avremmo desiderato come sbocco un'intesa. Si è fatto di tutto per ottenerla, ma non ci si è riusciti. Quella indicata dal Governo è l'unica strada per riprendere, quando sarà consentito, una prospettiva di


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dialogo con la Serbia, con cui dobbiamo intrattenere rapporti migliori, e con l'intera area balcanica.

GIANCARLO GIORGETTI. Come è noto la Lega nord per l'indipendenza della Padania ha posizioni assolutamente divergenti rispetto a quelle esposte dal ministro D'Alema. Devo dire che il Ministro oggi ha fatto una relazione improntata alla Realpolitik.

PIERO FASSINO. È la rinuncia all'indipendenza!

MASSIMO D'ALEMA, Ministro degli affari esteri. Sono battute scherzose ovviamente!

PRESIDENTE. Prego continui, onorevole Giorgetti.

GIANCARLO GIORGETTI. Non sfuggirò, onorevole Fassino, al tema, il mio intervento sarà proprio su questo, anche perché l'analisi svolta è improntata alla più pura Realpolitik: in 45 minuti il ministro D'Alema è riuscito a citare, incidentalmente, una volta gli Stati uniti d'America e la Russia, che mi sembra sulla vicenda abbiano svolto un ruolo un po' più incisivo rispetto a quello che avrebbe dovuto svolgere l'Unione europea (ma questo chiaramente non per responsabilità dell'Italia). Vorrei concentrare il mio intervento per non sfuggire alla provocazione, perché so di essere atteso sul banco anche su questo.
La prima sottolineatura del ministro D'Alema: un'indipendenza sui generis. Certo un'indipendenza sui generis perché illegale in base al diritto internazionale, ma soprattutto vorrei dire che, più che un'indipendenza, questa mi sembra una dichiarazione di dipendenza da un lato dal ruolo storicamente svolto dagli Stati Uniti per promuovere questa cosiddetta indipendenza sui generis e dall'altro dall'Unione europea, da qui ai prossimi anni a venire, per l'assistenza e il mantenimento di uno Stato che altrimenti non starebbe in piedi. Questo lo sappiamo tutti.
Oggi su un giornale la situazione del Kosovo è stata paragonata potenzialmente a quella di Gaza; non vorremmo che nei prossimi anni in realtà il Kosovo sopravvivesse solo grazie all'onere che andrà in capo all'Unione europea.
La seconda questione, e qui vengo alla autodeterminazione. Noi della Lega nord siamo a favore della autodeterminazione dei popoli; l'abbiamo sempre detto. Siamo a favore di un principio di autodeterminazione che passi attraverso processi democratici e pacifici. Lei più volte, ministro D'Alema, ha evidenziato un aspetto che ha voluto sottolineare per giustificare l'atteggiamento dell'Europa: questo è un caso unico, un caso irripetibile.
È proprio qui il punto sul quale non siamo d'accordo; non siamo d'accordo probabilmente anche con i colleghi delle Commissioni esteri, come il senatore Cossutta, che invece hanno detto di temere l'effetto domino. Lei, ministro D'Alema, mi deve spiegare perché ha diritto all'indipendenza il popolo kosovaro, con l'indipendenza portata dai cacciabombardieri della NATO, e non ha diritto, magari, il popolo basco con la richiesta di indipendenza democratica e pacifica espressa dal proprio Parlamento, quando invece la Spagna nei confronti del Parlamento basco e di alcune leggi democraticamente approvate ha scatenato una repressione totalmente illegale.
Allora per il futuro non c'è spazio per processi di autodeterminazione democratici e pacifici portati avanti dal popolo, c'è solo spazio per casi unici e cioè indipendenze, o meglio dipendenze condizionate, portate avanti con strumenti militari? Questa è la domanda e la situazione paradossale in cui noi ci veniamo a trovare oggi.
Esprimo un'ultima considerazione perché non vorrei portare via troppo tempo alle Commissioni. L'unica volta in cui si è discusso del Kosovo in Aula - ci siamo presi e ci prendiamo il merito di aver portato l'argomento in quella e in altre


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sedi, vista purtroppo la situazione di oggi - è stato grazie alla richiesta formale del gruppo della Lega. È vero, ministro D'Alema, la storia non si cancella. Io so perfettamente a che cosa si riferisce quando fa riferimento alla storia della Serbia, alle colpe che oggi la democratica Serbia deve scontare; però la storia non si ferma a dieci anni fa; la storia risale nei secoli e al popolo serbo noi della Lega riconosciamo meriti storici, il merito di aver segnato una frontiera, una frontiera per la nostra cultura e per la nostra civiltà, una frontiera che purtroppo oggi arretra pericolosamente vicino al nostro confine.

ALFREDO MANTICA. Onorevole Ministro, credo che la scelta da lei proposta sia da giudicare positivamente solo sul piano della Realpolitik. Abbiamo espresso più volte le ragioni del dissenso rispetto alle vicende kosovare e non è necessario ripeterle.
Mi sembra che nella sua relazione non abbia spiegato cosa intenda fare il Governo italiano nella realtà del Kosovo, in considerazione dei diversi scenari che si possono presentare. Questo è il problema!
Nonostante i primi segnali non siano stati positivi, ci auguriamo che tutto avvenga democraticamente, senza scontri.
La domanda riguarda anche il ruolo e gli ingaggi delle truppe italiane sul territorio kosovaro e soprattutto se lei ritenga che la ragione dell'urgenza indicata oggi possa apparire solo come una volontà politica del Governo italiano di essere ancora più incisivo nei rapporti di amicizia sia con la Serbia che con il Kosovo, al fine di avere quindi più forza in un rapporto terzo rispetto alle due parti.
Questo esige però un grande impegno economico e politico; tutto questo non l'abbiamo avvertito.
Nel dichiararle che ratifichiamo questa decisione imposta dai fatti, resta quindi in me l'amarezza di non capire per quale ragione dobbiamo allinearci al gruppo storico dell'Unione europea, se non per svolgere un ruolo diverso e più responsabile anche nei confronti della Serbia, alla quale ribadiamo la nostra amicizia e la nostra stima risalenti a qualche secolo fa. Desidero infatti ricordare che la Serbia non ha mai rivendicato le terre dell'Istria e della Dalmazia e che la Marina italiana salvò l'esercito serbo nella disfatta della prima guerra mondiale. Si tratta di rapporti antichi, che non possono essere dimenticati a causa della vicenda kosovara.
Desidero inoltre ricordare, ministro D'Alema, che nei primi dibattiti svolti in Commissione affari esteri e nelle prime conferenze relative al Kosovo è stato rilevato proprio dalla Farnesina come il Kosovo rappresenti per noi anche un problema di sicurezza nazionale, giacché vi operano i più grandi clan coinvolti nel traffico di sigarette, nello spaccio della droga proveniente dall'Afghanistan e nel commercio degli schiavi.
Ritengo che anche questo sia un problema da mettere sul tappeto nel riconoscere l'autoproclamazione dell'indipendenza del Kosovo.

ALESSANDRO FORLANI. In base all'evoluzione della vicenda politica del Kosovo in questi ultimi anni, credo che, così come risultava dallo stesso piano Ahtisaari, apparisse evidente una sorta di irreversibilità del cammino verso l'indipendenza e la sovranità del Kosovo. Nonostante i dissensi e gli allarmi suscitati in tanti settori, si trattava di un processo che difficilmente si sarebbe potuto arrestare.
Sarebbe stato ormai impossibile ipotizzare una reintegrazione sotto la sovranità della Serbia e la stessa presenza internazionale, la stessa amministrazione multilaterale in Kosovo non poteva ritenersi un elemento permanente. La pressione della maggioranza albanese della popolazione e dell'amministrazione provvisoria kosovara in carica era peraltro molto forte. Sarebbe stato impossibile per la comunità internazionale impedire o differire un atto unilaterale come quello del 17 febbraio. Non possiamo quindi ipotizzare forme di sanzione dell'atto


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unilaterale da parte delle organizzazioni del multilateralismo, delle organizzazioni internazionali, dell'Europa.
Ritengo che il problema sia piuttosto individuare come oggi la comunità internazionale debba porsi per salvaguardare gli equilibri geopolitici e i rapporti tra le diverse entità istituzionali a qualsiasi titolo e in misura diversa coinvolte nella vicenda.
Tale questione produce una serie di apprensioni, di preoccupazioni, di alterazioni nei rapporti tra gli Stati. Abbiamo ascoltato i moniti di grande e quasi minacciosa apprensione del ministro Lavrov della Federazione russa e assistito alla dissociazione di una parte delle nazioni europee. Rispetto a tutto questo, pur ritenendo doveroso considerare l'irreversibilità di questo processo, forse sarebbe stato consigliabile - mi sembra in questo di cogliere anche la preoccupazione del collega Rivolta - nell'assunzione da parte Governo italiano di una specifica posizione su questo problema, adottare una maggiore prudenza o quantomeno, trattandosi di un Governo non più investito della fiducia delle Camere e in carica per l'ordinaria amministrazione, sarebbe stato auspicabile che una posizione venisse adottata da un successivo Governo, reinvestito della fiducia delle Camere a loro volta investite dal consenso dei cittadini.
Si sarebbe svolto un dibattito parlamentare tra le diverse parti politiche, che avrebbe potuto rafforzare l'assunzione di una posizione da parte del Governo. Sono consapevole, Ministro, che esigenze di tempestività e di contestualità nell'ambito delle relazioni internazionali avrebbero sicuramente fatto emergere difficoltà di ordine procedurale, ma non può essere il Governo provvisorio kosovaro a dettarci i tempi per assumere posizioni su questioni internazionali così delicate.
Ritengo che oggi ci si debba preoccupare prevalentemente, soprattutto attraverso la missione Pesd deliberata dall'Unione europea, di supportare questo processo di ricostituzione istituzionale, di Nation building nella futura nazione kosovara, di salvaguardare con forza i diritti e l'incolumità delle minoranze serbe ancora presenti nella regione assicurando loro la piena dignità nell'esercizio delle loro funzioni elettive e istituzionali, la tutela dei diritti, prevenendo le violenze e monitorando anche la tutela dei monasteri cristiani e delle tradizioni culturali, che potrebbero essere messe a repentaglio in quell'area.

VALDO SPINI. Signor presidente, onorevole Ministro, nel fare mie le ultime considerazioni in tema di difesa della minoranza serba espresse dall'onorevole Forlani, vorrei segnalare come uno studioso dell'Università di Oxford, interpellato su questo tema, abbia scritto, parafrasando Churchill: «Questa è una cattiva soluzione, purtroppo tutte le altre sarebbero state peggiori». Siamo infatti di fronte a una tappa di quel processo di stabilizzazione dell'area, non certo alla sua stabilizzazione definitiva.
Capisco le considerazioni del ministro D'Alema, che nel suo intervento invitava a non perdere il contatto con gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Francia, la Germania, Paesi che possono avere una vera influenza nell'area. Il mio brevissimo intervento è dunque teso a sottolineare come sia opportuno indirizzare questa influenza in una direzione precisa.
Lo stesso comandante della NATO all'epoca del Kosovo, Wesley Clark, l'altro giorno su un giornale americano ha dichiarato che come Europa avremmo dovuto siglare in fretta il patto di associazione con la Serbia.
Oltre al delicatissimo tema della minoranza, infatti, è doveroso considerare come le ultime elezioni in Serbia siano state vinte da uno schieramento aperto verso l'Europa, laddove lo schieramento nazionalista ha invece perso. Si tratta di un equilibrio delicatissimo, che dobbiamo cercare in tutti i modi di favorire. Da questo punto di vista, dunque, l'iniziativa controbilanciante non può che essere un intervento volto ad accelerare e favorire questo processo di avvicinamento della Serbia all'Europa. Nella consapevolezza


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della difficoltà del momento, raccomandando anche attenzione a quanto avviene in Macedonia, dovremmo, in una situazione evidentemente precaria come quella delle elezioni anticipate, utilizzare la forza contrattuale che possiamo avere con questa decisione nei confronti di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Germania per porre almeno verso i Paesi europei, con maggiore urgenza e con maggiore forza, questo tema dell'avvicinamento della Serbia all'Unione europea. Questo forse rappresenta l'unico antidoto di fronte alla decisione della Serbia - che ci lascia molto preoccupati e non può essere senza conseguenze - di ritirare gli ambasciatori da tutti i Paesi che operano tale riconoscimento.

SERGIO D'ELIA. Ho il tempo solo per una dichiarazione di voto. Se fossimo in una situazione nella quale il Parlamento fosse stato messo in grado di discutere questa decisione del Governo italiano, che personalmente condivido, e quindi la comunicazione del Ministro fosse stata accompagnata da un atto di indirizzo del Parlamento, avrei sicuramente approvato la relazione presentataci dal ministro D'Alema.
A me interessano più i processi politici a partire da oggi rispetto a ciò che avremmo potuto fare o dovuto impedire in passato, perché ora la dichiarazione di indipendenza del Kosovo apre dei processi politici, che il Ministro ha rappresentato. Considero quindi importante discutere delle garanzie di questo processo politico nuovo dal punto di vista anche istituzionale, che riguarda l'Unione europea da un lato, ma anche la realtà del Kosovo di cui dobbiamo prendere atto.
Ciò che non si è ottenuto con l'approvazione da parte del Consiglio di sicurezza del piano Ahtisaari viene raggiunto oggi grazie a un impegno preso dalle autorità kosovare, che arrivano al punto di inserire nella propria Costituzione i princìpi di quel piano.
Poiché esso non ha avuto successo nella sua sede legittima - il Consiglio di sicurezza - dobbiamo vigilare affinché abbia successo nella situazione attuale.
L'altra garanzia riguarda i tempi, che spero siano accelerati, di un'integrazione europea non solo della Serbia, ma anche dello stesso Kosovo, oltre che di Macedonia e Montenegro, altri attori dell'area coinvolti da questa decisione. Questo è importante e mi pare che il Ministro abbia espresso da questo punto di vista l'impegno del nostro Paese. Si tratta di un compito che ora spetterà al futuro Governo e non più a questo.

PRESIDENTE. Pochi secondi per una battuta al senatore Fruscio.

DARIO FRUSCIO. Sui piani cosiddetti sui generis, credo nemmeno valga la pena di soffermarsi; francamente mi aspettavo qualcosa di diversamente definibile ...
Voglio soltanto ricordare al Ministro una precisazione, oserei definirla quasi solenne, del presidente Dini in occasione della recentissima audizione del ministro D'Alema presso le Commissioni riunite di Camera e Senato. Il presidente Dini invitava il Ministro degli esteri a tener presente che la Commissione esteri del Senato, ogni qual volta ha avuto occasione ed opportunità di soffermarsi e discutere e, finanche chiacchierare, intorno alle questioni del Kosovo, si è sempre espressa a maggioranza contro il riconoscimento della autonomia e dell'indipendenza unilaterale dichiarata dal Kosovo. Chiedo al ministro D'Alema se ricordi questa precisazione del presidente Dini che credo debba valere come monito.

PRESIDENTE. Do la parola al Ministro D'Alema per la replica.

MASSIMO D'ALEMA, Ministro degli affari esteri. Vi ringrazio per questa discussione e vorrei rispondere soffermandomi su tre punti.
Non ritengo possibile ritardare la decisione che deve essere assunta. Dal punto di vista giuridico, ritengo che il Governo


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sia nelle condizioni di assumere questa decisione anche sulla base dei pareri che abbiamo richiesto agli uffici giuridici della Presidenza del Consiglio.
Al di là di questo aspetto giuridico, abbiamo una particolare responsabilità. Non mi sentirei sinceramente di lasciare senza copertura politica e diplomatica i 2.600 militari italiani presenti in Kosovo, Paese nel quale abbiamo una grande responsabilità (abbiamo il comando delle forze dispiegate su un quarto del Kosovo). Come potremmo inviare ora duecento funzionari civili, carabinieri, magistrati in un Paese che non riconosciamo, quando gli altri Paesi che condividono le nostre responsabilità lo riconoscono? Di che parliamo?
Un minimo senso di responsabilità richiesto a chi governa il Paese comporta che o l'Italia afferma che, di fronte alla dichiarazione di indipendenza, considera venute meno le ragioni di un suo impegno, o si assume le sue responsabilità al pari degli altri tre partner con i quali condivide la responsabilità di garantire la sicurezza e di dare corpo alla missione europea in Kosovo (ci sono anche due sottufficiali rumeni, ma hanno un ruolo diverso). O stiamo al passo di questi Paesi o legittimamente dichiariamo che di fronte a questa novità ci ritiriamo. Non ravviso una terza via nell'ambito della responsabilità.
Ritengo che abbandonare sarebbe gravemente sbagliato non solo per ragioni generali, perché verremmo meno al ruolo che ci compete come uno dei maggiori Paesi dell'Unione europea - francamente sono persino imbarazzato nel constatare come alcune parti politiche non comprendano che un Paese come l'Italia non può venir meno a una solidarietà con i principali Paesi dell'Occidente - ma anche per i Balcani, perché considero la presenza italiana utile a tutti, a cominciare dalla Serbia.
Proprio perché condivido le preoccupazioni di colleghi che sottolineano come in Kosovo si sia creata una centrale di criminalità organizzata, desidero potervi inviare carabinieri, magistrati, la Guardia di finanza a ricoprire un ruolo di primo piano nella missione europea che tra i suoi compiti principali ha quello del rule of law e quindi della lotta alla criminalità organizzata.
È in gioco un evidente interesse nazionale, di fronte al quale credo che non possiamo tirarci indietro, né si capisce come potremmo contribuire a creare l'amministrazione della giustizia e le forze di polizia in un Paese che non riconosciamo.
Francamente ritengo che non esistano alternative e che il Governo debba assumersi questa responsabilità per il bene dell'Italia, perché non fare nulla sarebbe forse una posizione popolare, ma significherebbe venir meno a una responsabilità. Chi governa deve avere senso di responsabilità verso il Paese, come spero avvenga anche in futuro (anche se talvolta sono colto da qualche ragionevole dubbio).
Per quanto riguarda infine il rapporto con la Serbia, il Governo italiano ha perseguito una politica di amicizia verso la Serbia senza pari. Ho subìto gli attacchi sulla stampa internazionale anche del procuratore Carla Del Ponte per essermi battuto da un anno e mezzo affinché si riconosca alla Serbia lo status di Paese candidato dell'Unione europea, attacchi in gran parte ripresi da quegli stessi giornali italiani che oggi ci raccomandano l'amicizia con la Serbia.
L'esperienza però mi ha insegnato che nella vita bisogna ricevere schiaffi da una parte e dall'altra, perché significa che si è nel giusto.
Abbiamo realizzato una grande politica di amicizia, di apertura, di dialogo, incrementando notevolmente le relazioni economiche tra Italia e la Serbia. Non ho i dati, ma lo sviluppo dei rapporti economici appare impressionante. Abbiamo aperto a Belgrado, anche con un serio investimento, un palazzo della cultura italiana.
A parte l'impegno del Governo, in questo processo c'è stato persino un forte impegno personale del Ministro degli esteri. Ho visitato il Salone del libro di Belgrado, nel quale ho presentato una pubblicazione in serbo di saggi della mia rivista sull'Europa e i Balcani, che ha avuto un grande successo editoriale.


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È stato quindi profuso ogni impegno politico, culturale, personale, governativo. Su questo condivido le preoccupazioni espresse dai colleghi. Il Governo italiano continuerà in una politica di amicizia verso la Serbia. Sconteremo un momento difficile, ma confido che si tratterà di una breve parentesi e che non si giungerà a rotture irreparabili, che non rientrano neppure nell'interesse della Serbia. Ritengo però che questo sia un cammino obbligato e che a noi competa assumerci tutte le responsabilità per evitare danni maggiori e per governare positivamente una delicata vicenda.

PRESIDENTE. Nel ringraziare il Ministro, dichiaro concluso il dibattito sulle comunicazioni del Governo.

La seduta termina alle 16,10.