COMMISSIONE IV
DIFESA

Resoconto stenografico

AUDIZIONE


Seduta di mercoledì 27 settembre 2006


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE ROBERTA PINOTTI

La seduta comincia alle 14,05.

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata, anche attraverso gli impianti televisivi a circuito chiuso..
(Così rimane stabilito).

Audizione del Capo di Stato maggiore della Difesa, ammiraglio Giampaolo Di Paola, sull'assetto organizzativo della componente tecnico-operativa della Difesa.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, ai sensi dell'articolo 143, comma 2, del regolamento, l'audizione del Capo di Stato maggiore della Difesa, ammiraglio Giampaolo Di Paola, sull'assetto organizzativo della componente tecnico-operativa della Difesa.
Ringraziamo particolarmente l'ammiraglio Di Paola per essere qui con noi. Come sapete, ieri ci siamo posti il problema se, dato il lutto che ancora una volta ha colpito le nostre Forze armate, fosse il caso di tenere questa audizione.
Trasmetto, a nome di tutta la Commissione, il cordoglio e la grande tristezza di piangere un giovane uomo, morto mentre svolgeva compiti che noi gli abbiamo assegnato. La preghiamo, signor ammiraglio, di portare alla famiglia del defunto, ai feriti (due sono gravi) e alle loro famiglie il nostro conforto e la nostra solidarietà.
Come dicevo, ieri avevamo temuto che non fosse possibile svolgere questa audizione, ma siamo ovviamente contenti che lei sia riuscito a venire qui oggi. Per noi si tratta di un'audizione importante. Sapendo che è un momento di tristezza, la ringraziamo particolarmente della sua presenza.
Do la parola all'ammiraglio Di Paola, Capo di Stato maggiore della Difesa.

GIAMPAOLO DI PAOLA, Capo di Stato maggiore della Difesa. La ringrazio, presidente, e ringrazio tutti gli onorevoli membri della Commissione qui presenti. Esprimo gratitudine per la solidarietà che lei, signor presidente, ha espresso a nome di tutta la Commissione.
Giusto per informazione, questa sera con il signor ministro saremo a Cuneo, dove arriverà la salma del caporalmaggiore del II reggimento alpini, Giorgio Langella.
Aspettiamo inoltre in nottata - con un volo di evacuazione medico-strategica messo a disposizione dalle Forze armate tedesche (che ringrazio) responsabili di questa attività in teatro - l'arrivo dei due feriti più seri, i quali verranno subito ricoverati al Celio, dove verrà valutata la situazione. Le condizioni dei due feriti sono stabili, pur essendo ancora necessarie serie attenzioni. La prognosi è riservata, ma siamo comunque fiduciosi che questa situazione stabile possa promettere bene. Per quanto riguarda gli altri tre, tra cui il capitano donna che ha richiamato una certa attenzione, rientreranno successivamente, e sono feriti leggeri che non destano nessuna particolare preoccupazione.
Vi informo che c'è stato un ulteriore incidente, poco meno di mezz'ora fa, nella zona a sud di Herat. Per fortuna non dobbiamo lamentare niente di serio: una


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nostra pattuglia, mentre rientrava da un'attività SIMIC (era infatti andata a verificare lo stato di un progetto di una scuola, cui il nostro contingente stava lavorando - so che voi siete stati là e quindi conoscete l'attività che svolgono) è incappata in una mina sulla strada del ritorno. La notizia è ancora frammentaria, ma c'è stato comunque questo tipo di coinvolgimento. Le informazioni in mio possesso, provenienti direttamente dal teatro, parlano di feriti molto lievi. Ci tenevo ad informarvi, perché magari la notizia sarebbe stata diffusa dai media, e avreste potuto pensare ad una mancanza di correttezza da parte del sottoscritto, ancorché si tratti di una notizia che ho ricevuto per cellulare un quarto d'ora fa, direttamente dal teatro delle operazioni.
Ho preferito avvalermi dell'ausilio di slide per evitare la lettura, in quanto ritengo più giusto discutere guardandoci negli occhi per capire la situazione. Questa è un'audizione certamente importante, perché si svolge in un momento fondamentale, non soltanto per gli impegni operativi che sta svolgendo il Ministero della difesa e che conoscete meglio di me, perché da voi - in un modo o nell'altro - votati e approvati. Infatti, indipendentemente dal tipo di voto espresso dalle diverse forze politiche, si tratta di interventi approvati dal Parlamento. Ma questa audizione è importante anche perché siamo alla vigilia chiave della sessione della finanziaria: non nascondo che si tratta di un passaggio estremamente importante per tutte le amministrazioni, in particolare per l'Amministrazione della difesa e dello strumento militare, ora in un momento difficile. Credo che nessuno meglio di voi possa comprendere la criticità di questo passaggio.
Quelli che vedete illustrati in slide sono i riferimenti normativi che indicano l'attuale strada della professionalizzazione delle Forze armate. Questa strada ha determinato non soltanto il modello professionale che stiamo perseguendo, ma anche - perlomeno fino ad oggi - la qualità e la quantità di questo modello, voluto e approvato dal Parlamento nel 2000 con la legge n. 331. Allo stesso tempo, la professionalizzazione dello strumento operativo è caratterizzata da un processo di trasformazione, i cui quattro cardini principali sono lì rappresentati; il concetto di sicurezza è profondamente cambiato non solo a seguito della caduta del muro di Berlino, ma anche dopo l'11 settembre, data che non è la causa del cambiamento, ma ne è una delle manifestazioni. In genere usiamo l'11 settembre come comodo punto di riferimento; tuttavia, esso non è altro che la manifestazione di quel che stava già succedendo: un cambiamento del panorama internazionale, la globalizzazione dello scenario internazionale e della sicurezza, l'emergere di nuove forme di minaccia che si sono sviluppate e si sviluppano sul piano globale, e che quindi riguardano la sicurezza di tutti, indipendentemente che colpiscano in Italia piuttosto che altrove.
A seguito di questo impegno, c'è stato il crescente coinvolgimento dell'Italia nelle operazioni internazionali le quali, indipendentemente da giudizi che non mi competono, sono tutte missioni votate dal Parlamento. Un aspetto fondamentale della globalizzazione dello scenario di sicurezza, è la multinazionalizzazione e l'interdisciplinarietà nella gestione dei relativi problemi. Infatti, i problemi della sicurezza non possono essere gestiti in un'ottica esclusivamente militare (la gran parte dei militari credo ne sia consapevole) e non possono essere affrontati dall'Italia da sola, ma in un contesto multinazionale e interdisciplinare. Ciò si traduce nella cosiddetta (nel gergo degli addetti ai lavori) interagency, ossia attraverso un approccio olistico di tutti gli elementi che influenzano la politica di un paese (diplomatico, economico, politico, formativo, educativo, religioso e via elencando).
L'altra grossa tendenza è rappresentata dalla rivoluzione tecnologica. Questo soprattutto nella tecnologia dell'informazione: non uno dei tanti cambiamenti, ma qualcosa che - nel bene o nel male, dipende dai punti di vista - sta permeando


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nel profondo la nostra realtà. E ciò rimane un dato di fatto, non qualcosa di cui si possa fare a meno.
Ciò significa che, per quanto ci riguarda, la trasformazione si basa essenzialmente sui pilastri della professionalità: lo strumento militare si è ridotto sensibilmente rispetto agli inizi degli anni 2000, quando era in voga il cosiddetto modello misto (professionale e coscrizione). Le Forze armate e lo strumento militare, proprio in ossequio alla globalità degli scenari di sicurezza, devono essere proiettabili in vario modo. Le Forze armate italiane oggi sono in Libano, Africa, Afghanistan, Iraq e Balcani: devono per questo essere forze impiegabili nelle missioni internazionali e non solo in quelle per la sicurezza del territorio nazionale, altrimenti servono a poco.
La connotazione, poi, è sempre più di interforze: ci muoviamo ormai in un quest'ottica, ed è questo il motivo che a suo tempo ha spinto il legislatore a varare la riforma della struttura dei vertici della Difesa, designando come unico referente dello strumento militare - ovviamente al di sotto del ministro, responsabile politico - il Capo di Stato maggiore della Difesa. Questa unificazione di responsabilità tecnico-militari nella figura del Capo di Stato maggiore della Difesa è oltretutto una visibile manifestazione della direzione verso una strategia interforze.
Il Capo di Stato maggiore della Difesa ha, per legge, la responsabilità nella pianificazione dello strumento militare e di tutte le sue componenti. Pur avvalendomi comunque della competenza, dell'esperienza e della conoscenza del Capo delle Forze armate e del segretario generale, la realtà è che il Capo di Stato maggiore della Difesa risponde al ministro in termini di proposta di pianificazione nell'utilizzo delle risorse e nell'impiego dello strumento militare, decidendo alla fine sempre il signor ministro.
Lo strumento militare, in tutte le sue accezioni e componenti, è gestito dal Capo di Stato maggiore della Difesa che si avvale - lei lo conosce bene, presidente - del Comando operativo di vertice interforze, che è il comando che consente la gestione delle operazioni, e del neoistituito (strumento più recente) Comando operativo delle forze speciali, COFS.
Negli ultimi anni la riforma interforze ha portato alla costituzione sempre maggiore di enti interforze per la gestione dell'intelligence tecnico-militare: quindi il Centro interforze di formazione intelligence, tecnico-militare; il Comando C4, responsabile di tutte le comunicazioni del sistema di comando e di controllo della difesa; i Centri di interforze telerilevamento satellitare; e i due comandi operativi.
Tutto questo una volta (non molti anni fa) era frazionato: ogni forza armata aveva l'equivalente di questo assetto. La grossa spinta, invece, è stata lavorare in un contesto sinergico, con queste nuove strutture di unificazione.
Ai capi di Stato maggiore della Forza armata - che hanno sempre una grande importanza - rimane una funzione estremamente rilevante: sono sostanzialmente responsabili della preparazione delle relative componenti secondo le direttive date dal Capo di Stato maggiore della Difesa, e dunque hanno il compito di approntare e predisporre gli strumenti, addestrarli, sostenerli logisticamente, per poi metterli a disposizione dello stesso Capo di Stato maggiore nel momento dell'impiego.
Le forze operative sono l'essenza dello strumento militare, perché allo strumento militare si richiede - è questo il nostro business, il nostro scopo, altrimenti non serviremmo - di avere delle forze operative disponibili ad essere impiegate secondo le direttive di Governo e Parlamento, soprattutto nell'ambito multinazionale di quelle alleanze (in senso lato) di cui facciamo parte e in cui ci riconosciamo. Quindi forze di reazione che noi rendiamo disponibili all'Unione Europea. Nella slide ne sono elencate alcune: forze che forniamo alla NATO; forze messe a disposizione dalle Nazioni Unite non permanentemente ma sulla base di singoli accordi (sono il Governo e il Parlamento che, dopo aver dato una generale disponibilità alle Nazioni Unite, decidono di


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volta in volta se darle o meno). Dunque, non ci sono mai automatismi, se non in casi particolari, come quello della difesa aerea dell'Italia, integrata nell'ambito dell'Alleanza Atlantica. In tal caso, abbiamo degli assetti permanentemente assegnati alla NATO, che ha assunto la responsabilità di tutti gli spazi aerei europei. Pertanto concorriamo, ovviamente, anche alla difesa aerea di altri paesi, e cito per esempio Slovenia e Ungheria: la difesa degli spazi aerei ungheresi e sloveni è assicurata dal comando NATO di Poggio Renatico, nei pressi di Ferrara, responsabile della difesa dello spazio aereo nell'Europa meridionale. E questo rappresenta sicuramente uno dei rari casi di integrazione sin dal tempo di pace: sono assetti forniti permanentemente.
Naturalmente l'homeland security non riguarda soltanto lo spazio aereo, ma anche gli spazi marittimi: acque territoriali, e soprattutto acque vicine, nelle quali è nota l'attività di continua sorveglianza e controllo degli spazi svolte dalle forze navali - e anche da quelle di sicurezza, degli altri corpi dello Stato - ieri nel Canale d'Otranto, oggi nel Canale di Sicilia e domani altrove.
Questa è la realtà attuale, cioè la realtà delle missioni internazionali in cui siamo impegnati. Sono circa 10 mila i militari italiani utilizzati, anche se è una cifra che cambia di giorno in giorno, pur sempre entro i tetti e i limiti imposti dal Governo e dal Parlamento quando approvano le missioni. Comunque, 10 mila è la cifra aggiornata, soprattutto a seguito della missione Unifil2 in Libano, che ha visto da parte dell'Italia un commitment. Ieri il Parlamento ha votato il decreto sul Libano: personalmente - come Capo delle Forze armate e come cittadino - non può che farmi piacere un sostegno così ampio e largo. Indipendentemente da quelli che sono i giudizi che ogni forza politica può avere su ogni singola missione, sapere che c'è un ampio consenso è per le Forze armate, e per le persone direttamente impegnate, motivo forte di sostegno. Più ampio è il sostegno, maggiormente è avvertito dai nostri militari. Ci tenevo dunque a dire questo, e non può che farmi piacere la convergenza registratasi nel caso del Libano.
Le aree evidenziate nella slide in rosso rappresentano i punti caldi, o perlomeno quelli dove siamo impegnati. Questa area è una lunga fascia che corre lungo l'Africa settentrionale, l'Africa subsahariana, il Mediterraneo, il Medio Oriente, il Mar Rosso, l'Oceano Indiano, il Golfo Persico, fino ad arrivare all'Asia occidentale. Se estendessimo la cartina, quella linea ameboide continuerebbe lungo l'Estremo Oriente, dove ci sono altre aree di crisi. È una sorta di fascia di interconnessione, non - ci tengo a rimarcarlo - tra il nord e il sud del mondo, ma tra un cuore sviluppato oggi sito sostanzialmente nell'area europea-atlantica (Russia, India e Cina ne sono parte) e una vasta area del mondo ancora sottosviluppata. Nel punto di contatto tra queste due profonde realtà si creano inevitabilmente, come in una placca tettonica, le onde sismiche della sicurezza rappresentate da crisi, scontri, emergenze locali, scontri etnici, a volte religiosi, a volte più profondamente legati a situazioni geopolitiche.
Il concetto della sicurezza, a cui cerchiamo di adattarci, è un concetto nuovo. C'è un continuum interno-esterno: la sicurezza non è né interna, né esterna, e va dunque gestita insieme agli altri Stati, ricorrendo allo spettro di tutti gli strumenti disponibili. Bisogna rendersi conto che non si realizza sicurezza solo nel nostro paese, o soltanto in altri paesi: la sicurezza si consegue in senso globale; ciò non equivale ad un intervento in ogni parte del mondo, ma vuol dire che i problemi mondiali ci riguardano direttamente e richiedono una risposta che non sempre è necessariamente di tipo militare, sono il primo ad affermarlo.
Ma è certamente vero, e la realtà di oggi ce lo pone davanti agli occhi, che l'insieme dei già detti strumenti militari permette di risolvere o affrontare le crisi. Questo significa che talvolta, ormai spesso, lo strumento militare è una delle gambe dell'ampio tavolo che occorre per affrontare


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la gestione delle crisi e per espandere la sicurezza, riportare la pace, mantenerla o ripristinarla.
Si tratta di una vasta gamma di mezzi, a partire dalla diplomazia preventiva, anche militare. Quando si fa cooperazione militare, quando si instaurano rapporti militari con altri paesi, si realizza una forma di military diplomacy (formula coniata dagli inglesi) che trovo molto efficace, benché ad alcuni possa non piacere: è la cooperazione militare che viene ben prima della gestione delle crisi ed aiuta a prevenirle.
Poi c'è la classica prevenzione delle crisi con gli interventi e soprattutto c'è una lunga fase spesso di stabilizzazione e di costruzione; una fase in cui il fuoco degli strumenti non può più essere quello militare, ma in cui lo strumento militare spesso rimane indispensabile per mantenere quella cornice entro cui si sviluppano tutte le altre azioni. È un discorso valido per moltissimi teatri; credo che i signori onorevoli ne abbiano un'idea evidente quanto la mia.
A volte lo strumento militare è anche chiamato a gestire situazioni di tipo umanitario, perché spesso altre strutture non hanno la tipologia degli strumenti di cui noi disponiamo e la capacità di intervenire prontamente allo schioccare delle dita del Governo. Pertanto, anche l'intervento umanitario è talvolta una delle componenti dello strumento militare; ancorché sia una parte complementare, è molto importante. Ricordo che le forze militari sono state tra le prime ad intervenire, quest'inverno, in occasione del devastante terremoto in Pakistan nella zona del Kashmir o in occasione dello tsunami in Indonesia.
Spesso i Governi si rivolgono alle forze militari perché sono lo strumento più rapido in grado di intervenire a dare i primi aiuti. Ma certo non è il solo strumento che può risolvere problemi in tal senso. Noi, per esempio, abbiamo portato avanti in Pakistan un intervento straordinario: nella zona del Kashmir - impervia quanto poche, ci sono stato personalmente - abbiamo portato una compagnia del genio militare pesante, che aveva con sé mezzi da 50-60 tonnellate; lì, nel Kashmir, tutti ci guardavano con stupore per la complessità dell'impresa. Un'impresa forse poco conosciuta eppure di grandissimo spessore, al punto che tutt'ora i pakistani ce ne sono grati.
In questo contesto, ci rendiamo per primi conto che le operazioni militari hanno cambiato natura. È una natura che non sempre e non necessariamente passa per la prevalenza su quanti si oppongano al raggiungimento di dati scopi politici: ci rendiamo conto che l'intervento delle forze militari nella stragrande maggioranza dei casi, direi sempre, è finalizzato a conseguire un determinato quadro di situazione, a stabilizzare o a riportare condizioni di relativa tranquillità, tale da consentire alla politica di risolvere le diverse situazioni, un compito che - in ultima analisi - spetta alla politica. Certo la politica risolve molte situazioni senza necessità di intervento militare; ma in certi ambienti degradati dove le forze militari intervengono (e se l'ambiente non fosse degradato non interverrebbero) siamo al servizio di uno scopo politico, ossia ripristinare e mantenere le condizioni perché la politica possa risolvere i problemi.
E tutto questo può durare anche anni, a volte decenni. Potrei fare alcuni esempi di missioni militari decennali. Ne cito una per tutte: siamo in Bosnia dal 1995, adesso l'Unione Europea è subentrata all'Alleanza Atlantica, ma dopo 11 anni siamo ancora lì. E stiamo parlando della Bosnia, una realtà balcanica ma tutto sommato europea; eppure dopo 11 anni la politica ci dice di restare perché è ancora presto per andare via non essendo un teatro facile.
Ci sono teatri dove l'ONU è presente da cinquant'anni: ad esempio per la crisi pakistano-indiana c'è una missione ONU dalla fine del 1948, anno dell'indipendenza tra India e Pakistan, e sono passati più di cinquant'anni. Per non parlare poi del Medio Oriente: siamo presenti sia nel Sinai, sia come osservatori nella missione UNSOM, partita dopo la fine della guerra del 1977, sia addirittura nella prima UNIFIL


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dal 1978. Insomma, sono missioni quasi eterne, perché a volte la politica ha bisogno di anni e decenni per risolvere - quando ci riesce - certe situazioni.
In questi casi lo strumento militare, in presenza di osservatori più o meno consistenti, serve a dare una garanzia, una prospettiva, una opportunità alla politica. Ne siamo talmente coscienti che l'uso della forza, quando è necessario (e a volte lo è), deve essere sempre proporzionato all'obiettivo politico da perseguire. Siamo i primi a renderci conto che è meglio evitare l'uso della forza, se possibile; e quando non può essere evitato, deve essere proporzionato al fine politico da conseguire. Per primi siamo consapevoli di questo.
Ciò implica una profonda trasformazione anche nei nostri quadri; e non riguarda solo chi dirige le operazioni, ma anche chi le conduce. E quindi anche il più semplice soldato sul campo è coinvolto da questo processo conoscitivo, che porta a comprendere che si deve ricorrere alla forza sempre con senso e misura, perché a volte l'uso della forza è controproducente. In un dato momento, magari, può sembrare utile il ricorso alla forza per risolvere uno specifico problema; ma se a fronte di ciò creo un problema più grande e svantaggioso rispetto all'obiettivo della missione, allora bisogna capire che è da evitare l'uso della forza. E, in tal senso, noi cerchiamo di avere senso di responsabilità. Naturalmente, nessuno è perfetto, ma almeno abbiamo questa consapevolezza.
La trasformazione delle nostre Forze armate, come ho detto, le ha rese capaci di operare in contesti internazionali e di interforza nell'intero arco delle missioni. Le missioni che oggi conduciamo sono di un certo tipo, domani potrebbero essere di un altro, in passato sono state ancora diverse. La missione del 1999 per costringere Milosevic e le forze serbe ad abbandonare il Kosovo, è stata una missione attiva, con un impiego notevole delle forze militari. Il fatto che oggi siamo presenti in una missione di osservazione non significa che lo strumento militare è volto solo a quel fine. Credo che sia responsabilità dello strumento militare essere in grado di offrire alla politica, a chi decide, il più ampio spettro di capacità. Dopodiché, è la politica a stabilire come e quando ricorrervi.
Noi ci muoviamo in quest'ottica, stiamo sviluppando uno strumento militare proiettabile e, aspetto fondamentale, coerente con l'evoluzione dei concetti strategici operativi delle due principali alleanze di cui siamo parte (Unione Europea e NATO). Dico sempre che non esiste uno sviluppo indipendente dello strumento militare nazionale, poiché è inserito in contesti più vasti in cui si lavora: quello dell'Unione Europea, dei francesi, degli spagnoli, dei tedeschi, degli olandesi, non potendo avere una nostra evoluzione, ma dovendo essere coerenti con loro; e il contesto degli alleati transatlantici, Stati Uniti e Canada.
Pertanto, noi agiamo in un solco di coerenza con gli altri, e sempre con gli altri contribuiamo a sviluppare idee e concetti. Non siamo bottiglie vuote che ricevono il liquido dall'esterno, ma tutti insieme sviluppiamo nuovi concetti legati alla disponibilità di forze flessibili, modulari e mobili.
Non c'è dubbio che nel momento in cui ci schieriamo e operiamo lontani dall'Italia, abbiamo bisogno di capacità di comando e controllo a distanza, e di poter proiettare queste forze; necessitiamo quindi di capacità di trasporto strategico aeronavale. Occorre quello che oggi viene definito un concetto net-centrico, che consenta di essere collegati in rete con le forze a distanza, vedere come agiscono e dare indicazioni. Soprattutto, è necessario essere in rete non solo tra di noi, tra navi, aerei e soldati, ma anche con navi, aerei e soldati degli altri: è questa l'essenza della multinazionalità, dell'«interforsizzazione» e del concetto net-centrico, dell'essere in rete.
Naturalmente acquisisce grandissima importanza la trasmissione di comunicazioni e informazioni, e i sistemi satellitari in questo sono essenziali, senza di loro non si potrebbe fare quello che tutti fanno: ecco quindi che diventano un assetto


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fondamentale gli investimenti nelle comunicazioni satellitari, nei sistemi di osservazione satellitare e in generale nel sistema di osservazione. Il comando e il controllo sono l'essenza di tutto, certo non il tutto perché ci sono anche le pedine operative sul campo, per mare e in aria; ma senza comando e controllo sarebbero pedine inutili.
Per quanto riguarda la componente terrestre, in questo momento più impiegata, ci stiamo attivando per dotare le nostre unità impiegate sul terreno di capacità tecnologiche. E questo non soltanto per amore della tecnologia, dato che in ultima analisi sul campo ci va all'uomo; la tecnologia consente infatti non solo di proteggere meglio l'uomo dal punto di vista fisico, ma anche di dargli una maggiore consapevolezza del teatro operativo in cui opera, e normalmente la conoscenza è un primo passo verso la sicurezza, pur non essendo l'unico. È questo comunque il grande programma del cosiddetto «soldato futuro» di cui vedete una rappresentazione in slide.
Inoltre, occorrono investimenti nella componente elicotteri, fondamentali per la mobilità delle forze terrestri. In teatri a difficile mobilità, come ad esempio l'Afghanistan, senza elicotteri è veramente dura, questo è un dato di fatto. Naturalmente non esiste solo la mobilità per aria, essendoci anche quella sul terreno, dato che prima o poi le strade rotabili devono essere pur realizzate; però la mobilità tramite elicotteri è un assetto fondamentale.
Lo stesso dicasi per le forze navali: la loro funzione rimane la capacità di controllo degli spazi marittimi e quindi delle vie di comunicazione, un'attività che non è misteriosa come sembra; se ricordate la mappa proiettata prima, dal Golfo Persico, dal Medioriente, passando per il Mar Rosso all'Oceano Indiano e a tutto il Mediterraneo, lì c'è la linfa vitale della nostra economia. E per essere sicuri che questa linfa passi attraverso linee di comunicazione ragionevolmente sicure, c'è un quotidiano controllo con una costante presenza sul mare, anche quando apparentemente non c'è pericolo e minaccia.
Oggi poi la componente marittima è sempre più di sostegno alle operazioni sul terreno: per esempio la prima fase dell'operazione Libano non è stata dettata - come talvolta pittorescamente è stato scritto dai giornali - dalla voglia di fare show, ma è solo il modo più rapido di proiettare delle forze. Questo ci era stato richiesto: portare rapidamente delle forze sul terreno, sostenerle in questo caso dal mare, visto che via terra risulta difficile farlo, essendoci ancora - come leggete dai giornali - dei problemi. È pesantissimo portare forze sul terreno e impiegare tutto il carico logistico per sostenerle nelle prime fasi; allora diventa importante poterle sostenerle dal mare, e noi ne abbiamo avuto la possibilità grazie a queste capacità. Sostenerle vuol dire fornire la logistica, gli elicotteri, i quali - come ho detto - anziché essere a terra erano sulle navi, che erano in vicinanza delle coste. Noi nella fase iniziale abbiamo avuto 16 elicotteri imbarcati, mentre a terra non avrebbero saputo dove andare: non c'è pittoricità, ma la realtà di cose che vengono fatte, credo a ragion veduta.
Infine, la componente aerea, fondamentale nei trasporti: tutti quanti voi avete raggiunto i vari teatri e conoscete l'importanza dei C130 o di altri velivoli schierati che vi portano nei singoli teatri. Senza la componente aerea non si va da nessuna parte. Naturalmente questo vale anche per la componente Eurofighter, che sta entrando in linea e assicura la sicurezza dei nostri cieli, degli spazi aerei nostri e un domani anche di altri paesi, o la sicurezza di forze schierate fuori e che hanno bisogno di protezione aerea.
Poi in basso a destra, nella slide, ho voluto rappresentare i Joint Strike Fighter di cui tanto si parla: è il velivolo che dovrebbe, a nostro giudizio, essere il sostituto naturale di quelle che sono oggi le linee tattiche che compongono la nostra aeronautica, ossia il Tornado e l'MX che si avviano verso una linea di obsolescenza.
Infine quarta ed ultima componente importante, fondamentale nello strumento


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militare italiano, è quella dei Carabinieri. I Carabinieri, come sapete, sono una delle componenti strutturali delle nostre Forze armate, perlomeno per la parte riguardante la funzione difesa; si sono ritagliati una capacità unica in quella zona grigia delle operazioni che va dalla fine della fase militare all'inizio di una fase prettamente civile. Vale a dire in quel momento in cui bisogna essere sul terreno in zone deteriorate, saper raccogliere informazioni dove la sicurezza non è assicurata, gestire il controllo della folla (spesso uno dei problemi più forti che attanaglia la gestione della crisi), avere un rapporto con la popolazione. In tutto questo la nostra componente Carabinieri si è fatta una fama di eccellenza che risponde a verità.
Fattore comune di questa trasformazione certamente è il ridimensionamento della componente complessiva, riguardante uomini e anche mezzi. È però un ridimensionamento che deve essere alimentato con l'acquisizione di nuove capacità in grado realmente di essere interforze, ossia di lavorare nella rete net-centrica con alti tassi di operatività e di impiegabilità.
Quindi le Forze armate ritengono - sono queste le direttive che vengono fino ad ora dal nostro ministro e quindi dal Governo - di essere in grado di fornire un contributo alla politica italiana nell'ambito delle operazioni di sicurezza di cui l'Italia è parte.
Un contributo che mi sembra molto importante. Per esempio il caso più recente (più facile da citare) riguarda l'intervento in Libano: se l'Italia e il Governo italiano sono riusciti a esprimere quell'azione politica e diplomatica che tutti riconoscono, è stato anche perché ha avuto la possibilità di mettere sul piatto dell'azione politica uno strumento militare pronto. Questo è un dato di fatto: senza quella componente, in questo caso specifico, non avrebbe potuto svolgere quell'azione diplomatica che ha svolto, e che ha giustamente avuto rilievo nel contesto internazionale. Ho citato il Libano perché è l'ultimo caso, ma ciò vale anche per altre situazioni, indipendentemente dai giudizi che possono essere espressi sulle singole crisi.
Se le Forze armate sono state fino ad oggi in grado di mettere a disposizione della politica - come è giusto che sia - uno strumento capace, ed è questa la nostra unica ambizione, è accaduto perché abbiamo iniziato questo processo di trasformazione nelle direzioni che ho indicato: nella direzione della qualità, al limite sacrificando anche la quantità, senza però mai rinunciare alle capacità, che ci consentono di operare con gli altri paesi.
Arriviamo al problema di fondo. Questa trasformazione - che è passata attraverso la professionalizzazione dello strumento militare, e sta passando attraverso la rivoluzione concettuale della nostra capacità di operare fuori dal territorio nazionale con forze proiettabili e sostenibili, in grado di operare con i nostri alleati - richiede uno strumento di qualità.
Sta ad altri, non a noi, definire quello che si chiama il livello di ambizione: in sostanza, che cosa il Paese deve chiedere alle Forze armate, non è un compito a cui posso rispondere io, né pretendo di farlo. Potrei avere le mie idee, dare dei suggerimenti, ma non spetta a me definire tutto ciò. È un compito che spetta, com'è giusto, a chi ha la responsabilità politica, e dunque alle istituzioni.
Tuttavia, non si può tacere su un dato di fatto: le risorse devono essere coerenti con quanto si vuole chiedere allo strumento militare. Il Parlamento nel 2000 ha definito un preciso strumento militare professionale, che porta con sé esigenze non eludibili di risorse e oneri. Non posso stabilire per legge che le Forze armate devono, ad esempio, avere la Ferrari, ma poi dedicare risorse che permettono a mala pena di mantenere una bicicletta. Pertanto, o l'una o l'altra cosa devono essere riviste.
Quella mostrata nella slide è la realtà degli ultimi sei anni. Ricordo ancora una volta che la legge sull'esercito professionale è stata approvata nel 2000, e a partire dal 2001 ha iniziato a produrre i suoi effetti. Vedete rappresentate le risorse


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della Funzione difesa, che sostiene le Forze armate. A voi è comunque noto che un capitolo di spesa è dedicato alla Funzione sicurezza (i fondi per la componente Carabinieri, ad esempio), di cui una grossa parte è indirizzata alla Funzione sicurezza nazionale; e c'è poi la spesa per le cosiddette funzioni esterne, formula che indica i compiti svolti dalle Forze armate in concorso alle istituzioni nazionali (trasporto di Stato, mantenimento della flotta aerea utilizzata anche dai signori onorevoli, voli umanitari, soccorso medico, rifornimento di acqua alle isole, campagne antincendio). Rendiamo dei servizi alla comunità, e parte di questi oneri sono appunto sostenuti con le Funzioni esterne.
Al di là di questo, il cuore della spesa per lo strumento militare è dedicato alla Funzione difesa propriamente detta. Fino al 2004 si è assistito ad una lievitazione della spesa, inevitabilmente legata alla professionalizzazione, un percorso che ha i suoi costi, inutile illudersi possa essere gratis. Nonostante una riduzione di unità, la professionalizzazione ha richiesto più risorse e, di fatto, il trend è quello. Dopodiché, nel triennio 2004-2006 si è consumata la «tragedia»: con il bilancio 2004 approvato nel 2003, il 1o gennaio avevamo a disposizione 14.149 milioni di euro, poi il primo «decreto tagliaspese» ha ridotto la spesa di un migliaio di euro. Una tendenza rimasta invariata nel 2005 (non c'è stato nessun recupero), fino al colpo finale del 2006: volendo essere tragici, potremmo dire «Ferruccio, tu uccidi un uomo morto», perché a quel punto eravamo già in seria difficoltà, aggravata dall'ulteriore, notevole, riduzione.
Qualcuno potrebbe dire che tutti sono pronti a lamentarsi; ma quella che vi sto presentando è la realtà oggettiva della percentuale, rispetto al PIL, di risorse dedicate dall'Italia alla Funzione difesa in confronto ad altri paesi. Non ho riportato nella slide gli Stati Uniti per ovvi motivi: sono un discorso a parte, sono fuori scala, e non voglio prenderli in considerazione. Ho preferito evidenziare i paesi europei, senza citare nemmeno il Regno Unito, ma inserendo paesi come la Polonia, l'Olanda, la Spagna: non credo questa slide abbia bisogno di commenti.

PRESIDENTE. Cos'è quel numero sotto la Spagna?

GIAMPAOLO DI PAOLA, Capo di Stato maggiore della Difesa. 0,90 e 0,74: l'investimento per la difesa della Spagna è alimentato dal ministero dell'industria e della tecnologia. Se ci basassimo solo sul bilancio della Spagna noteremmo che la percentuale sarebbe 0,74, ma gli investimenti, che sono una parte importante, sono finanziati totalmente, e non in parte, dal ministero dell'industria e della tecnologia.
Nella slide riguardante la problematica del personale, si evidenzia la questione dei marescialli e degli ufficiali. É uno dei principali problemi; abbiamo un modello a 190 mila: come numeri ci siamo, ma c'è una notevole disomogeneità. Nella slide il modello a sinistra indica come dovremmo essere, a destra invece come siamo. Noterete come ci siano esuberi fondamentali in quelle componenti, guarda caso, più anziane, il cosiddetto - senza voler mancare di rispetto a marescialli o ad ufficiali - «tappo»: se non avremo un esodo agevolato o accelerato, non riusciremo ad andare a regime.
Il dramma della situazione è che, in questo momento, con gli esodi naturali i marescialli sono in servizio permanente e quindi vanno via quando raggiungono i limiti d'età, sempre che non subentrino altre normative che ne agevolino l'esodo. Pertanto, i 40 mila in eccedenza non verranno smaltiti fino al 2030. Questo accade perché negli anni Settanta-Ottanta, quando il modello era ancora a 300 mila, sono state fatte forti immissioni; il che, unito alla vita media di lavoro che arriva a sessant'anni - e negli ultimi anni è stato innalzato il limite per queste categorie - , non permette di smaltire le eccedenze prima del 2030. Quello che ripetutamente invochiamo sono norme e provvedimenti, che ovviamente richiedono risorse, di accelerazione per lo smaltimento degli esuberi,


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oppure - anche non assumendo più nessuno, cosa impossibile - i tempi di entrata a regime sarebbero quelli che ho già evidenziato. Un problema che si aggrava perché sono categorie importanti e anche costose.
I dati riportati nella successiva slide non sono della Difesa ma della Ragioneria generale dello Stato e rappresentano in rosso l'andamento dei consumi intermedi e degli investimenti fissi lordi di tutte le amministrazioni dello Stato, in blu quelli della Difesa: mentre quelli delle altre amministrazioni sono stati abbastanza costanti, dal 2004 il maggior taglio si è avuto per la Difesa. Quando si parla di risparmio di tutte le amministrazioni, è vero da un punto di vista ideale, ma in realtà è la Difesa l'amministrazione su cui è gravato in misura maggiore il 60 per cento delle risorse ricavate dalla riduzione di spesa dei ministeri. I dati della Ragioneria generale dello Stato, del resto, lo evidenziano con tutta chiarezza.
Il diagramma raffigurato nella slide sull'evoluzione delle risorse (investimento, esercizio e personale) rappresenta quanto è accaduto: la linea blu, in salita come sullo Stelvio, indica i costi del personale lungo l'arco di tempo 2000-2006; è in costante salita perché, ovviamente, i costi aumentano con l'accrescersi della professionalizzazione. La linea viola, invece, dimostra come sono calate le risorse dedicate all'investimento e all'esercizio. Infine la linea verde rappresenta il rapporto fra spese del personale e spese di investimento: all'inizio degli anni 2000 questo rapporto vedeva le spese per il personale attestarsi al 47 per cento; nel 2006 si è saliti al 72 per cento. Il valore medio europeo del rapporto è del 44 per cento per il personale e 56 per cento per le spese di investimento ed esercizio. Considerando una linea del 50 per cento, ossia il minimo di accettabilità, è abbastanza evidente dove ci collochiamo; il sorpasso delle spese per il personale è avvenuto a cavallo tra il 2003 e il 2004.
È questo un dato significativo; provate a pensare a qualunque impresa, che ha costi per il personale, costi per ammodernare i macchinari e sviluppare tecnologie e costi di produzione. Se a questa impresa azzerate i costi per produrre (l'esercizio) e i costi per investire in macchinari (il futuro), rimangono solo spese per il personale e l'impresa fa bancarotta, questo è evidente. Ed è quello verso cui, può piacere o no, ci stiamo avviando; non credo sia una prospettiva auspicabile per un paese come l'Italia, indipendentemente da quello che pensano le Forze armate.
Per inciso, il ministro Parisi mi prega di riferire che è assolutamente in sintonia con quanto sto affermando e che sostiene pienamente le mie parole. Non è quindi il sogno del Capo di Stato maggiore della Difesa, ma è anche il pensiero del ministro.
Quello che ora vedete nella slide è il rapporto tra spese del personale e spese di esercizio e investimento dell'Italia nel confronto con gli altri paesi dell'Unione europea: non ho nulla contro i polacchi, ma siamo in una situazione peggiore della Polonia.
Il grafico sulla performance complessiva dei bilanci della Funzione difesa, infine, esprime la qualità della spesa, vale a dire dove e come si destinano le risorse. A livello internazionale ci sono vari parametri che definiscono la qualità della spesa; paragonando il nostro paese con tutti gli altri, e usando zero come valore medio, possiamo notare gli scarti: l'Italia è di gran lunga la nazione che in percentuale spende peggio, proprio perché i pochi fondi vengono tutti impiegati sul personale. In tal senso, invece, la Gran Bretagna è all'opposto estremo virtuoso.
L'ultima slide riguarda le conclusioni. Credo che lo strumento militare italiano svolga un compito importante per questo Paese e per il ruolo che questo Paese ritiene di dover avere nelle alleanze e nel quadro nazionale, politico e non solo militare. Non si realizza una politica internazionale se non si dispone anche di una rilevanza militare; e noi siamo avviati verso una situazione strutturale insostenibile. Le scelte su come rendere sostenibile, e a quale livello, lo strumento militare, spettano alla politica, non competono a


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me. E sono scelte che vanno fatte ora, non possono essere ulteriormente rinviate.

PRESIDENTE. Ringraziamo il Capo di Stato maggiore, ammiraglio Di Paola. Come sapete, la sua audizione è la seconda di rito nei lavori della Commissione. È stata effettuata soltanto ora perché vi è stata una lunga audizione del ministro, il quale ha mostrato grande attenzione al Parlamento. Peraltro il ministro mi ha fornito per iscritto le risposte che non è riuscito a dare nell'ultima replica, e sarà mia cura farle pervenire a tutta la Commissione.
Questa audizione è utile perché, oltre a permettere di avere un quadro della situazione delle Forze armate, è anche una sorta d'inizio della discussione sulla finanziaria. La situazione illustrataci in conclusione dall'ammiraglio Di Paola rappresenta una serie di difficoltà; quindi credo sia utile anche perché, pur essendo posticipata rispetto a quanto avviene tradizionalmente, presenta un quadro che dovremo affrontare in Commissione.
Do ora la parola ai deputati che intendano formulare domande o chiedere ulteriori chiarimenti.

GIUSEPPE COSSIGA. Ringrazio l'ammiraglio per l'esposizione, oltremodo chiara e illuminante. È mio desiderio tenerlo fuori da considerazioni di natura squisitamente politica, ma mi piace sottolineare - non ne faccio una colpa, né vorrà prenderlo come un rimprovero - una delle frasi presenti nella relazione dell'ammiraglio. Mi riferisco a quella relativa al concetto di uso della forza da parte delle Forze armate, un uso proporzionato e coerente con gli obiettivi da conseguire, e non con il livello del torto subito o della minaccia. Mi è piaciuto molto leggerla.
Vengo al punto che mi sembra il più importante. L'ammiraglio ha affermato che siamo molto vicini - se non l'abbiamo già raggiunto - a un punto di non ritorno per il modello di Forze armate; un modello fin qui delineato dalla politica. Le Forze armate hanno tentato, sulla base del progetto predisposto e delle risorse assegnate, di fare il possibile, raggiungendo obiettivi - in un modo o nell'altro - da tutti riconosciuti, permettendoci di avere un ruolo di spicco apprezzato anche all'estero, e facendo veri miracoli. È evidente che la politica comunica con lo strumento militare su due livelli. Uno è palese: sono le leggi, che stabiliscono ordinamenti e numeri. Da una slide sul personale si evince che su un modello, delineato per legge, di 190 mila uomini abbiamo, a causa degli esuberi, 40 mila uomini che non servono o quasi (non voglio comunque offendere marescialli ed ufficiali), e mancano invece 42 mila uomini (sergenti e militari di truppa) utili.
La politica, di fatto, ha strutturato un sistema (il modello a 190 mila uomini), prevedendo una fase di transizione che - in ragione delle considerazioni fatte dall'ammiraglio - si protrarrà per molto più tempo di quanto si immaginasse. In realtà, invece, abbiamo creato un sistema che non è a 190 mila uomini, perché dal punto di vista operativo sono già tante 150 mila unità. Per alcune Forze armate, come l'Esercito, la situazione poi è ancora più tragica, dato che il peso delle particolari tipologie di forze è ancora superiore. La professionalizzazione, come è noto, ha avuto effetti diversi sulla Marina e sull'Aeronautica, essendo Forze armate con un impatto inferiore del personale, benché siano stati evidenti gli effetti dal punto di vista degli investimenti.
Abbiamo dunque creato per legge uno strumento, ma non abbiamo predisposto i mezzi per permettere il passaggio in termini ragionevoli da uno strumento all'altro: ci troviamo ancora a metà del guado. Sono queste, a livello di comunicazione ufficiale fra politica e strumento militare, le leggi che abbiamo fatto. Dico «noi» perché queste sono leggi realizzate e condivise da tutti, o per lo meno dalla gran parte del Parlamento. E allora tutti ne siamo responsabili.
Poi c'è stato l'altro piano parallelo di comunicazione, un po' più perverso: quello delle risorse. La cosa più strana è che il Governo di centrodestra più longevo di


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questo paese è quello che ha tagliato maggiormente le spese per lo strumento militare. E nell'immaginario popolare questo è perlomeno curioso.

PRESIDENTE. Tremonti pacifista!

GIUSEPPE COSSIGA. Appunto, il ministro Tremonti è il più grande pacifista della storia d'Italia: questo è perlomeno curioso. Al di là delle battute, è questo un altro problema: la politica ha delineato uno strumento discutendolo con i militari, ma in parallelo non ha creato quei sistemi che avrebbero permesso una transizione efficace da uno strumento all'altro. La Commissione difesa ha realizzato un'ottima legge sullo strumento militare, ma la Commissione lavoro e le altre non hanno elaborato i mezzi per permettere, ad esempio, il riassorbimento; oppure chi ha gestito l'economia non ha predisposto modalità di reinserimento dei marescialli che, forse per mutate condizioni, non sono più utili all'esercito, ma evidentemente sono una componente fondamentale, e non possono che essere utili alla società, soprattutto dopo aver prestato servizio per trent'anni nelle Forze armate.
Quindi, è pur sempre colpa della politica, perché abbiamo creato uno strumento, ma non dei mezzi per renderlo credibile. Entra poi in ballo la comunicazione e i danni del taglio: in presenza di un preciso strumento militare, se non vengono creati strumenti paralleli e dedicate risorse, accade quello che si sta verificando dal punto di vista del personale e degli investimenti.
Tutto ciò è stato fatto discutendo nelle sedi opportune con i protagonisti, ossia con i militari. L'ammiraglio ha giustamente riferito che prende indicazioni, sforzandosi di recepire quanto arriva dalla politica, fa il possibile e - quando richiesto in un momento forte (e penso ne viva in continuazione con il ministro) - fa presente i problemi che incontra. Probabilmente arrivati a questo punto, benché non sia questa la sede essendocene di più importanti anche all'interno dell'amministrazione, bisogna che ci aiutiate a trovare delle soluzioni.
Poiché in questa sede parliamo di soluzioni nell'ambito organizzativo (e non lavorativo, o altro) delle Forze armate, faccio riferimento ad un altro aspetto molto importante che lei, ammiraglio, ha sottolineato: il problema di qualità e di quantità. L'interoperabilità, la capacità di lavorare con l'altro, la necessità dell'interforza, chiedono di salvaguardare la qualità perché altrimenti si perde tutto, non si è più capaci di operare efficacemente, vale a dire con gli altri e in maniera net-centrica.
Per quanto riguarda la quantità, lei afferma che forse si può operare, ed è di fatto quello che le Forze armate stanno già facendo perché, pur mancando 50 mila uomini, riescono a realizzare quello che viene loro chiesto.
C'è sicuramente un limite minimo sotto il quale non si può scendere, sia per la quantità che per la qualità. Quindi - non pretendendo che l'ammiraglio mi dia una risposta compiuta, perché penso sia un tema che dibatteremo a lungo nel corso di questa finanziaria e temo anche nelle prossime - la domanda che pongo è: qual è il minimo qualitativo e quantitativo, volendo mantenere inalterati compiti e livello cui vogliamo attestare le nostre Forze armate in ragione della loro utilità, ad esempio per il mantenimento dell'attuale posizione dell'Italia nel contesto internazionale? E cioè: per mantenere gli impegni presumibili che abbiamo sempre preso, sarebbe sufficiente un sistema a 120 mila uomini o a 150 mila uomini come tuttora in atto? Per mantenere la stessa posizione, qual è il livello di risorse necessarie? Ovviamente, tali risorse vanno identificate con il mantenimento della qualità, dunque con l'acquisto di beni, e soprattutto con l'addestramento; perché se poi abbiamo uomini non addestrati, è inutile dare loro le Ferrari, come notava l'ammiraglio; se non sono capaci di guidare la macchina, meglio un asinello, ma è preferibile a quel punto non dar loro nemmeno quello (perché sarebbe inutile), e in ultima analisi non varrebbe la pena dar nulla. Ma allora, qual è il livello minimo richiesto?


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Sono questi i due canali sui quali si può lavorare: da un lato le risorse da investire nella qualità e nell'addestramento, e dall'altro la quantità sotto cui, per rotazioni e altre necessità, non si può andare.
Faccio questa domanda fissando un livello presunto del ruolo che devono avere le Forze armate per il nostro Paese: non tanto il livello stabilito per legge dei 190 mila uomini, quanto piuttosto quel livello evidente che tutti i Governi, l'attuale come i precedenti, ritengono necessario per l'Italia sul panorama internazionale. Quando infatti si decide di partecipare a missioni all'estero (Libano, Kosovo, Afghanistan, Bosnia) - con un atteggiamento che considera l'Italia non il primo ma nemmeno il centesimo paese, comunque capace di avere forze armate in grado di garantire un certo ruolo - allora si sta ponendo alle Forze armate un preciso quesito in merito al necessario per mantenere questa posizione.
Non volendo ancora una volta distinguere i Governi per cui ho votato la fiducia da quelli per cui non l'ho fatto perché non ho voluto o perché non c'ero, mi spaventa che - al di là delle grandi affermazioni su missioni all'estero, in Libano, in Kosovo, in Bosnia, e al di là del modello 190 mila uomini - l'Italia probabilmente non dedichi risorse alle Forze armate neanche per 12 mila miliardi, né per 180 mila o 120 mila, considerato anche come in fondo si approccia al problema difesa-sicurezza.
Temo che siamo in un Paese in cui si fa presto a dire, anche per legge, di aver bisogno di Forze armate importanti per garantire il proprio ruolo internazionale, ma quando poi bisogna lavorare per la loro dignità o bisogna dar loro risorse, i politici dimenticano con grande fretta la prima fase e indicano al Paese una sola realtà: quella di Forze armate piccole, che non disturbino e costino poco.

MASSIMO NARDI. Comincio con lo scusarmi con il Capo di Stato maggiore della Difesa se, fatta la mia domanda, non riuscirò ad ascoltare la replica da parte dell'ammiraglio. Ci tenevo comunque a formulare alcune osservazioni perché rimangano agli atti, e mi farò carico, ovviamente, di leggere il resoconto per avere conoscenza compiuta di quella che sarà eventualmente stata la risposta alle mie osservazioni.
Desidero innanzitutto esprimere estrema soddisfazione e un profondo ringraziamento al signor ammiraglio: anche per una persona che come me non ha grossa conoscenza e dimestichezza con il mondo militare (sebbene ne fossi piuttosto affascinato in passato), la sua relazione e le proiezioni particolarmente esplicative messe a disposizione hanno dato - anche ad un neofita come me - conoscenza della struttura del mondo di cui lei in questo momento è il capo e il rappresentante.
Ci sono delle questioni che vorrei esporle. Intanto, esprimo una valutazione. Ritengo giusta la legge che ha deciso di trasformare l'esercito di leva in esercito professionista. La condivido pienamente, benché non fossi in Parlamento in quella legislatura: c'era necessità di una maggiore professionalità del nostro personale militare. Anche per quanto riguarda i numeri che in qualche misura sono stati individuati, mi sembra - per quelle che posso esser le mie capacità di analisi in questo settore - siano confacenti ad una finalità di reazione rapida e di coesione negli interventi, che coinvolga anche altri paesi riguardo alle azioni da compiere fuori dall'Italia e nel panorama più complessivo.
Mi preme porle un quesito: c'è sicuramente un esubero di marescialli e di ufficiali, cosa che dal punto di vista pratico ci porterebbe tutti a voler trovare un sistema per un'uscita di questi soggetti. Probabilmente, in questo senso, una soluzione andrà individuata. Tuttavia mi giunge notizia, da qualche amico e collega ufficiale, che fra gli aspetti penalizzati nella struttura dell'esercito ci sono, dal punto di vista remunerativo e delle indennità, le condizioni in cui versano attualmente gli ufficiali e i diversi parametri tra vari livelli di comando. Intendo dire che, a fronte di un esubero evidente, attualmente però il corpo ufficiali delle Forze


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armate ha sistemi di indennità, remunerazioni ed altro che non si muovono da sette, otto o dieci anni.
Tra l'altro mi risulta ci sia anche una certa insoddisfazione verso questa situazione. E allora mi chiedo se può essere questo un elemento da affrontare prioritariamente rispetto alla funzionalità generale che cerchiamo di dare alle Forze armate. In sostanza: oltre ad immaginare una legge che punti all'uscita del personale in esubero, non dovremmo anche pensare ad una logica di redistribuzione, o comunque di miglioramento delle condizioni economiche degli ufficiali, nel tentativo di rendere i diversi gradi elemento di soddisfazione non solo morale ma anche remunerativo?
C'è una seconda considerazione, che in qualche modo si lega ai lavori della Commissione: alcune delle problematiche che vengono sottoposte all'attenzione della Commissione richiederebbero una conoscenza tecnica che spesso, almeno a me, manca. Poiché c'è da studiare l'aspetto della fuoriuscita, la possibilità di individuare incentivazioni per le Forze armate (non solo per gli ufficiali prima citati) e c'è da capire quanto alcuni strumenti d'arma siano strettamente necessari e funzionali, mi chiedevo se sia possibile disporre di una struttura - a disposizione di questa Commissione - con rappresentanti della Marina, dell'Esercito, dei Carabinieri, dell'Aeronautica; senza aggravio economico, perché potrebbe essere semplicemente personale distaccato presso la Commissione. In questo modo, eventuali chiarimenti dal punto di vista tecnico potrebbero essere valutati anche da chi ha conoscenza e professionalità funzionali ad una valutazione più attenta rispetto, ad esempio, ai costi.
Un'ultima considerazione e un'ultima domanda, ammiraglio: in un prospetto ci ha fornito dei raffronti tra le disponibilità economiche delle nostre Forze armate e quelle degli altri paesi; ma esiste la possibilità che siano stati in qualche modo dimenticati fondi messi a disposizione dalla Comunità europea o internazionale per progetti d'arma che vedano coinvolto il nostro paese? Oppure non esistono proprio fondi del genere? Se ovviamente esistessero, ci sarebbe probabilmente una modifica; può darsi anche che io abbia un'informazione distorta. Ma, se eventualmente ci fossero fondi in tal senso, mi farebbe piacere sapere quanto incidono.
Grazie e chiedo scusa per eventuali difficoltà nell'esposizione.

PRESIDENTE. Invito i colleghi ad una maggiore sintesi perché, come sapete, dobbiamo concludere l'audizione alle ore 16, dato che oltretutto il Capo di Stato maggiore della Difesa ha un impegno.
Per togliere dall'imbarazzo il Capo di Stato maggiore circa una richiesta la cui risposta spetta alla presidenza, vorrei precisare che tutte le volte in cui abbiamo chiesto approfondimenti tecnici, siamo stati tempestivamente soddisfatti. Mi sento già di escludere, come presidente di Commissione, la possibilità di disporre in via permanente di personale delle Forze armate. Chiederemo di volta in volta, quando sarà necessario, i necessari approfondimenti tecnici.

SALVATORE CANNAVÒ. Anche io voglio ringraziare il Capo di Stato maggiore della Difesa per la chiarezza dell'esposizione, avvenuta secondo una modalità inedita in queste aule, e da noi benvenuta.
Mi preme in particolare esprimerle personalmente il cordoglio per l'ennesima vittima. Colgo poi l'occasione della sua presenza per comunicarle qualcosa a cui tengo molto: essendo l'unico membro di questa Commissione ad aver votato contro la missione in Afghanistan e a non aver partecipato al voto sulla missione in Libano, mi preme esprimere il rispetto che nutro verso le Forze armate e precisare che la valutazione politica non ha riflessi sul giudizio circa l'operato delle Forze armate. Sotto questo punto di vista, sono tra quanti non si sono scandalizzati davanti all'esistenza in Afghanistan e Libano di truppe speciali. Penso infatti che le truppe non dovrebbero essere lì, ma, se vengono inviate, credo debbano fare di tutto per garantire la propria sicurezza,


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senza affrontare la missione in maniera leggera.
Ho un'opinione abbastanza radicale sulla questione, così come sulle distinzioni tra giudizio politico e giudizio sull'operato delle Forze armate. Mi preme dirlo, perché a volte credo che il dibattito sia inquinato dalla commistione tra il giudizio politico e quello sulle Forze armate, che attiene ad un altro ragionamento.
Sarò molto breve, perché voglio affrontare un solo punto specifico con una domanda che spero possa essere in qualche modo esaudita. È chiaro che il capitolo missioni internazionali ormai diventa scottante, o comunque centrale, nel bilancio complessivo di ciò di cui stiamo parlando, ossia della difesa da un punto di vista economico, politico, operativo e strategico. È, del resto, il cuore di quel nuovo modello di difesa che, dall'inizio degli anni Novanta, è stato portato avanti da entrambi gli schieramenti.
Dalla sua esposizione e dalle slide qui presentate, mi ha però molto colpito lo scarto che esiste tra questo indirizzo e le risorse. Vale a dire che, nel momento in cui l'Italia ha compiuto uno sforzo ulteriore di proiezione internazionale (in Iraq e Afghanistan), negli stessi anni il relativo bilancio è stato ridotto. Si evidenzia quindi una contraddizione.
Un osservatore esterno noterebbe una certa confusione nel progetto strategico; non c'è coerenza, congruenza. Da questo punto di vista, mi chiedo se siamo in grado di fare un primo bilancio della nostra operatività internazionale.
Lei, signor ammiraglio, ha giustamente ricordato i 10 anni della missione in Bosnia e i 7 anni in Kosovo, benché gli anni trascorsi in Bosnia siano più densi, per la quantità dell'intervento e per la qualità del problema da affrontare. Lei ha parlato della questione usando una formula che mi ha incuriosito molto, ovvero la military diplomacy, che quindi comporta anche un approccio - permetta il termine - politico del problema; le chiedo allora se a suo avviso esista la possibilità di tracciare un bilancio (anche se non con una risposta in questa sede) dei risultati prodotti dal nostro intervento in termini di stabilizzazione e di ricostruzione dei territori. Dico questo perché credo che, in questa legislatura in particolare, abbiamo bisogno - e mi riferisco a un dibattito svoltosi più volte in questa Commissione - di fare un'analisi e una riflessione di quello che è stato, per capire ciò che dovrà essere, e in che modo.
La seconda domanda è molto più precisa: vorrei sapere se esista un rapporto che misuri l'incidenza delle missioni internazionali sulla spesa per il personale; essendoci infatti un grande scarto tra spesa per il personale e spesa di esercizio e investimenti, mi domando quanto abbia influito su questo scarto l'impiego in missioni internazionali.

ANDREA PAPINI. Credo sia opportuno ricondurre la discussione nell'ambito del tema al nostro ordine del giorno, ovvero l'assetto organizzativo dello strumento difesa.
Peraltro, rispetto alle parole che prospettano un quadro molto difficile descritto dall'ammiraglio, riconosco che alcune considerazioni erano già state svolte nel corso dell'audizione dal ministro della difesa, che, pur senza il dettaglio quantitativo così accurato oggi cortesemente fornito, ha comunque rappresentato esattamente i problemi di cui nella seduta odierna è stato riferito. Problemi che richiedono un'accurata elaborazione delle vie d'uscita che certamente non si presentano per nulla facili.
Quello che lei, ammiraglio, ci ha presentato (già illustrato dal ministro) è un quadro di condizioni obbligate, di mani legate davanti a quello che sta accadendo. Inoltre le decisioni assunte in passato - non voglio comunque fare nessuna polemica con alcuno - certamente non hanno favorito (per usare un eufemismo) un'evoluzione positiva della situazione, ma semmai l'hanno peggiorata; dunque ci troviamo in una condizione oggettivamente difficile.
Per questo, vorrei formulare due domande molto precise su questo aspetto. La prima è la seguente: davvero, come dice


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l'onorevole Cossiga, la distribuzione - che non è quella desiderata all'interno delle diverse categorie - determina un'inutilizzabilità di 40 mila unità? Vale a dire: la distribuzione di unità non coerente con il modello comporta davvero una totale inutilizzabilità dei 40 mila che risultano non in eccesso, ma mal distribuiti? E questo è un primo punto che, sul piano logico, mi sembra importante risolvere e affrontare; le mie parole sono quindi prive di qualsiasi venatura polemica nei confronti dell'opposizione.
Il secondo punto attiene sempre al piano della logica. Possiamo avere 190 mila unità, come livello quantitativo, e poi un accurato modello distributivo - per l'assegnazione di compiti - coerente con i 190 mila, ma non è l'unico modello ipotizzabile. Chiedo pertanto - apparentemente in linea teorica ma così non è - se sia possibile avere una diversa articolazione dei compiti, a qualunque livello quantitativo. Si potrebbe ipotizzare l'assunzione, da parte di un paese, di compiti diversi pur mantenendo sempre lo stesso livello di 190 mila, o 150 mila, o 100 mila unità? Quello quantitativo è un dato cogente al punto che con 190 mila unità si possono fare solo date cose, e con 150 mila altre diverse? Oppure si può ipotizzare una ridefinizione - ovviamente competerebbe alla politica - delle scelte legate al diverso livello quantitativo? Il numero preciso di unità è indifferente, conta la logica delle scelte sottostanti.
Del resto lei, signor ammiraglio, segnala le difficoltà di chi ha le mani legate. Tuttavia anche la politica avrebbe le mani legate, se non ci fosse possibilità diversa dall'assegnazione di compiti con 190 mila o 150 mila. Dunque, è secondo me un elemento rilevante capire se l'articolazione dei compiti può essere significativamente modificata: sarebbe indubbiamente il possibile avvio di una soluzione.
Voglio poi sottolineare come evidentemente, nell'assumere un cambiamento così radicale nel modello di difesa, si liberano risorse non più utilizzabili - perché il modello non le richiede più - e dunque forse valorizzabili sul mercato. Peraltro su questa materia abbiamo anche una risoluzione, di cui tratteremo in futuro. È dunque un tema certamente aperto, che può fornire qualche ausilio.
Sempre in un contesto organizzativo - quindi privo di una valutazione politica che a lei non posso chiedere - introduco un altro tema che finora non è stato toccato. Tra i cambiamenti avuti nel perseguire la sicurezza di un paese, ha sicuramente assunto maggiore evidenza e rilevanza - benché fosse così anche prima - il sistema dell'intelligence.
Allo stato dei fatti, la politica non è riuscita, nel corso delle ultime legislature, ad affrontare un tema che pure si era proposta di trattare: la riforma dei servizi di intelligence, la cui ultima riforma risale al 1977 con la legge n. 801. Abbiamo dunque un forte ritardo da questo punto di vista; è questa una valutazione comune da parte della stragrande maggioranza delle forze politiche presenti in Parlamento. Abbiamo provato nelle varie legislature a procedere a tale riforma, ma per vari motivi non ci siamo - più o meno colpevolmente - riusciti. Poiché il ruolo dell'intelligence appare rilevante nella sicurezza del Paese, anche in stretta connessione con la Difesa e con le Forze armate, le chiedo di darci una valutazione - in questa sede, o fornendo comunque una risposta al Parlamento - su quale sia l'attuale efficacia degli assetti organizzativi. Abbiamo un assetto che vede una particolare collocazione del SISMI, con un sottosegretario - cui sono affidate alcune deleghe - incardinato nel Ministero della difesa. Inoltre, in passato avevamo - ora non conosco bene lo stato delle cose - dei servizi di intelligence all'interno delle Forze armate. È pertanto una situazione che sicuramente ha subito un'evoluzione nel tempo. Penso che sarebbe opportuno per il legislatore capire meglio come questa situazione sia migliorabile e quale sia il giudizio sull'efficacia sotto il profilo organizzativo delle relazioni esistenti; mi pare infatti che la connessione debba essere molto forte e molto stretta, dal momento che le scelte del passato vanno


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forse riviste. Sono quindi interessato a conoscere la sua opinione in proposito.

PASQUALINO GIUDITTA. Sono soddisfatto della relazione dell'ammiraglio Di Paola, che per noi è sicuramente un grandissimo strumento di approfondimento. Credo tuttavia sia opportuno fare una riflessione sull'organizzazione nazionale della nostra difesa perché si è parlato poco di ciò in questa relazione.
L'organizzazione del nuovo modello ritengo debba essere definita. Definendo meglio l'organizzazione, infatti, verrebbe più precisamente fissato l'utilizzo di alcune strutture e si potrebbe addirittura recuperare, dal punto di vista del bilancio, qualche risorsa. Mi spiego meglio. Personalmente sono stato esentato dall'obbligo della leva militare perché mio padre era un sottufficiale di marina grande invalido di guerra, e come primo figlio ho goduto di questo privilegio. Mi sono recato in visita alla caserma Berardi di Avellino e ho notato che con la nuova organizzazione c'è tantissimo personale in meno (prima c'erano 4 mila unità per il CAR, mentre adesso sono 400) mentre gli spazi sono gli stessi. Credo quindi che non sia necessario utilizzare tutta quella struttura.
A tal proposito un altro riferimento può essere Maddaloni, una cittadina in provincia di Caserta, che possiamo definire una «cittadella militare» la cui economia ruota attorno a questa realtà. Sono tutti luoghi impiegati con un sotto utilizzo di personale. Bisognerebbe capire se abbiamo indicazioni in tal senso e se la vostra organizzazione può definire questi aspetti, se quindi in sede di bilancio si può anche parlare di dismissioni per recuperare qualche somma da destinare alla difesa. Obiettivamente, credo ci sia bisogno di ragionare e di approfondire questo punto.

PIERFRANCESCO EMILIO ROMANO GAMBA. Signor ammiraglio, purtroppo la sua relazione è stata talmente chiara da non lasciare spazio a dubbi. Apprezziamo dunque il suo intervento e ribadiamo - cosa che tra l'altro lei sa benissimo - la nostra vicinanza in senso generale alle Forze armate, e in particolare a lei nel suo ruolo.
Detto questo, mi attengo - come forse sarebbe più opportuno fare - alle ragioni e ai momenti dell'audizione, sostanzialmente per porle un paio di quesiti che sono peraltro collegati tra loro ed hanno una forte connessione con quanto lei ci ha illustrato.
In relazione anche a quanto chiedeva l'onorevole Cossiga - considerata l'attuale situazione e i compiti attribuiti alle Forze armate non solo dalla legge, dalle istituzioni, dal sistema, ma vieppiù anche dall'evoluzione della politica e della situazione internazionale - penso sarebbe particolarmente utile per noi (e per tutta la classe politica, cui sono demandate quelle scelte prioritarie che lei giustamente ricordava) conoscere più nel dettaglio se e come possano essere distinte spese, oneri, e risorse necessarie a far funzionare lo strumento militare per svolgere sia i compiti ordinari in senso lato (difesa della Patria, del territorio nazionale, e quindi tutte quelle funzioni svolte a prescindere dalla proiezione internazionale che il Paese vuole avere e mantenere nel tempo) sia quei compiti richiesti da possibili interventi militari di nostri contingenti all'estero. È un'analisi che dovrebbe essere fatta a partire naturalmente dal presente, creando anche una situazione di prospettiva.
Dico questo perché credo sarebbe molto utile poter disporre di una distinzione di questo genere, non solo in termini di risorse finanziarie in senso stretto, ma anche in termini di mezzi; nei mezzi comprendo il personale e tutto quanto viene troppo spesso sottovalutato, che può quindi rientrare nei sistemi d'arma o in tutto ciò che non è risorsa umana. Sarebbe infatti importante - ogni volta che il Governo del momento e il Parlamento si trovano a dover decidere sulla presenza di nostri contingenti all'estero in qualsivoglia missione - avere cognizione che questo comporterà, o meglio dovrebbe comportare, un onere aggiuntivo che (come giustamente diceva l'onorevole Cossiga) deve


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essere sostenuto con un'adeguata copertura finanziaria, e non solo a parole.
Francamente, infatti, anche l'ultimo decreto sulla missione in Libano lascia secondo me qualche problema di copertura finanziaria; perlomeno è stato utilizzato un meccanismo abbastanza singolare, di cui pare ci sia qualche precedente, sperando comunque sia in grado di sostenere quanto è nell'interesse di tutti.
Da questo punto di vista, avere una disaggregazione fra risorse normali, strumento militare ordinario e straordinario per l'estero potrebbe avere un'utilità in ordine a considerazioni che forse dobbiamo cominciare a fare. Anche perché se quasi tutti apprezzano l'evoluzione - decisa in più momenti - da Forze armate con base di leva a strumento completamente professionale, probabilmente è richiesto un adeguamento, per lo meno in termini quantitativi, in relazione a questo modificarsi di compiti della nostra presenza nelle missioni. Le chiedo, quindi, se secondo lei questo potrebbe richiedere la revisione di un sistema che, tanto per intenderci, fa riferimento alle forze di completamento. Può essere utile? E in che senso dobbiamo impegnarci (dal punto di vista tecnico e politico) - proprio in virtù di questa possibile maggiore flessibilità di interventi, quantità, numeri, mezzi, personale - per rivedere o ampliare il meccanismo che oggi fa riferimento alle forze di completamento? Se fosse possibile e riuscissimo a trovare uno strumento in questo senso, probabilmente potrebbe aiutare quella maggiore flessibilità e quello scorporo (di cui dicevo prima) tra oneri e necessità.
Ritengo interessante la domanda dell'onorevole Papini, in ordine alla riforma complessiva del sistema di intelligence. Sappiamo bene che attualmente l'intelligence tecnico militare (come viene definita, anche se può non essere sempre facile da definire) fa capo al RIS, il reparto di informazioni e sicurezza dell'esercito. Senza dubbio però, sarebbero utili delle valutazioni in prospettiva sia riguardo all'eventualità che, in una riforma, parte dei compiti attualmente ancora del SISMI possano essere ricondotti all'intelligence militare in senso stretto, sia riguardo a insufficienze che al momento lei ritenga possano esistere in seno all'intelligence militare del RIS.

FRANCESCO BRUSCO. Intervengo brevemente e formulerò solo due rapide domande. Mettendo da parte i preamboli, dico solo che anch'io sono un neofita come il collega Giuditta: non ho fatto il servizio militare perché secondogenito con i genitori a carico. Tuttavia, sono affascinato da questo mondo e ho scelto di far parte di questa Commissione per accrescere le mie conoscenza, anche perché siamo in presenza di veri professionisti.
Vengo ora alla mia prima domanda. Mi pare che, per entrare a regime, questo modello necessiti ancora di altri 20 anni, se non vado errato. E poi mi sembra ci siano soprattutto delle carenze quanto alle truppe e ad altre due componenti. Pongo il mio quesito prima alla politica e poi alla parte tecnica, che ci dovrebbe supportare: non sarebbe il caso - non dico da subito - di completare l'organico, pur avendo poi un esubero certamente utilizzabile? Non sarebbe il caso di anticipare? Ci rendiamo conto dei costi notevoli, ma mi pare che Papini, o chi per lui, anticipasse questo. Mi chiedo se non potremmo cooperare e fare in questo particolare momento uno sforzo, visto che il contingente militare presente nei vari teatri di guerra si aggira mediamente (questo può essere il presupposto) intorno alle 10 mila unità, se non vado errato.
Vorrei poi chiederle, signor ammiraglio, quanta importanza lei attribuisce, ai fini della formazione soprattutto di quel contingente impiegato in quei teatri di guerra esterni al nostro paese, alla conoscenza delle lingue. Sembrerebbe una domanda fuori luogo, ma credo sia importante, anche ai fini della sicurezza e dell'autotutela personale da parte del nostro contingente. Credo infatti che la comunicazione, l'ascolto, stando all'interno di una realtà estranea sotto vari punti di vista,


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abbiano una certa rilevanza: ritengo a tal fine importante conoscere almeno lo strumento della comunicazione.

PRESIDENTE. Nessun altro chiedendo di intervenire, do la parola all'ammiraglio Di Paola per la replica.

GIAMPAOLO DI PAOLA, Capo di Stato maggiore della Difesa. Cercherò di rispondere a tutti i quesiti che mi sono stati posti. Li ho appuntati e spero di non dimenticarne nessuno.
Comincio con l'onorevole Cossiga che ha posto un problema relativo ai fondi e alla quantità delle Forze armate. Non si aspetti che io indichi un numero preciso in questo momento, perché sarebbe improprio e oltretutto superficiale da parte mia.
Quello che mi sento con tutta onestà di dire è che quel modello disegnato di Forze armate è proporzionale e coerente con il ruolo dell'Italia.
Questa terminologia non è usata a caso, non significa che l'Italia non vuole avere peso internazionale. C'è un'altra slide, che non ho portato, in cui si vede sostanzialmente la consistenza dei modelli di forze armate di altri paesi in relazione al loro peso economico, demografico (che ha un suo valore), e alla statura internazionale del paese. Ebbene, in questo quadro l'Italia è in una linea di piena coerenza.
Prendiamo il caso della Spagna, ad esempio, un paese con 40 milioni di abitanti. Ricordo che l'Italia, invece, ha quasi 59 milioni di abitanti e un peso economico 1,3 volte maggiore; l'Italia - e non lo dico solo io - è un componente del G8, ambirebbe ad affiancare (se potesse) i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza ONU, punta a diventare uno dei paesi trainanti del contesto europeo. Quindi l'Italia, da come io leggo la politica internazionale, desidera ritagliarsi uno spazio importante.
Alla luce di tutto questo, dico che quel numero è coerente. Tanto è vero che la Spagna, che non ha il peso, l'economia, la capacità dell'Italia, si colloca sulle 150 mila unità.
La Francia, se vogliamo parlare anche di questa nazione, si attesta sulle 230 mila unità. La Gran Bretagna - che dobbiamo riconoscere ha una struttura-paese economica e legislativa diversa - si colloca sui 190 mila. Tuttavia sapete che la Gran Bretagna ha un'economia e anche una libertà - l'onorevole De Zulueta lo sa molto bene - nel mondo del mercato del lavoro che rende molto meno rigida tutta la legislazione sul lavoro; è un mercato più aperto e quindi è anche molto più facile l'osmosi tra la militarità e la non militarità: è possibile prestare servizio militare e uscire altrettanto facilmente. Noi, invece, siamo più vicini ad un sistema rigido; e la rigidità, a volte, porta anche certe conseguenze.
Detto questo, mi sembra che l'Italia abbia un modello coerente con il suo ruolo e la sua demografia; quindi, al di là dell'impegno internazionale sostenuto, ci sono degli impegni in being. Vale a dire che l'Italia è un paese da cui - per il suo peso economico e demografico, per il suo essere in Europa e nell'Alleanza atlantica - ci si aspetta che, in certe emergenze, dia certamente qualcosa che il Lussemburgo non è in grado di dare. È chiaro che l'Italia potrebbe anche non fornire nulla, però non si può fare parte del club dei cacciatori essendo pescatori.
Ad ogni modo, ritengo che ci siano degli spazi per una maggiore efficienza - lo dico con grande serietà - che può portare anche ad un modello più snello. Tuttavia, questo significa anche che occorre la disponibilità della politica a consentire quelle ristrutturazioni che a parole siamo pronti a fare, ma poi nei fatti non siamo pronti ad approvare. Questo lo dico senza polemica, ma con estrema onestà professionale. Sapete bene che quando bisogna occuparsi di un ente, chiudere una struttura, spostare una sede, ci si ritrova davanti all'impresa più difficile. Infatti, i lombardi difenderanno le strutture che hanno in Lombardia, i calabresi vorrebbero tutte le strutture in Calabria, i campani di Maddaloni e di Avellino avranno le loro esigenze, e via dicendo.
È, allora, necessario un sostegno ad una effettiva riorganizzazione che consenta di ridurre la struttura, così da avere


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un rapporto - come si dice nel gergo militare - «testa-coda», dove la testa è la parte operativa e la coda sono i supporti, fondamentali, ma da calibrare meglio. In questo modo, dunque, si può consentire uno snellimento.
Al momento, non mi sento di fornire cifre, ma certamente ritengo che le forze operative di cui disponiamo non siano quelle necessarie. Si potrebbe, con un serio sforzo politico e organizzativo, e quindi con un grosso appoggio della politica, snellire la coda e avere così complessivamente uno strumento che, pur numericamente con meno teste, esprime comunque la stessa operatività. Cosa che un paese come l'Italia credo debba avere, anche se sarà poi la politica a decidere in merito.
Per quanto riguarda invece il tema sollevato dall'onorevole Nardi, ora non presente, sappiamo come tutte le categorie hanno legittime rivendicazioni stipendiali, ma certamente anche quell'aspetto deve essere affrontato. La rappresentanza militare e i COCER, quando c'è la contrattazione, portano giustamente avanti delle richieste; quindi lungi da me dire che non abbiamo delle legittime - credo - aspettative per il riconoscimento di trattamenti economici migliori; tuttavia, con tutta onestà, dico che non è necessariamente questo il punto di fondo. Il nodo centrale riguarda la necessità di avere risorse adeguate a sostenere la massa di unità di cui disponiamo: è questo il vero punto di fondo.
Dopodiché chiunque giustamente sosterrà di avere diritto a più risorse, ad un trattamento economico e a una struttura pensionistica più adeguati. Si tratta di argomenti legittimi, non lo nego minimamente, e tradirei me stesso se lo facessi.
Rispetto al discorso dell'esubero è un problema parallelo ma certo non prioritario; il problema principale è come risolvere la questione dell'esubero, perché una soluzione in tal senso risolverebbe il problema degli oneri, consentendo di liberare risorse per il miglioramento del trattamento economico.
Mi ricollego così al discorso dei fondi esterni della comunità internazionale: non esistono. Ci sono - e l'onorevole Cossiga ben lo sa e lo ha ricordato prima - dei fondi che il Ministero dello sviluppo economico o il Miur forniscono soprattutto a sostegno di tecnologie legate all'industria (ad esempio Finmeccanica) e certo contribuiscono a sviluppare tecnologie che hanno ricadute anche sull'equipaggiamento della Difesa; sono fondi gestiti dal Miur, dai Ministeri dell'economia e dello sviluppo economico, e sono relativi al sostegno dello sviluppo tecnologico industriale di settori dell'economia italiana, che poi hanno ovviamente delle ricadute sulla Difesa. Sono questi gli unici fondi; non esistono fondi significativi dell'Unione europea al momento attuale, esiste solo un fondo di 20 milioni di euro per tutta la ricerca europea nel campo della sicurezza, ma è una somma assolutamente insignificante.
Per quanto riguarda le domande poste dall'onorevole Cannavò, il mio giudizio sulle missioni internazionali è onestamente largamente positivo; ma è anche il giudizio riconosciuto dagli altri, perché l'importante è il giudizio che danno gli altri di te, non tanto quello che tu dai di te stesso. Mi sembra che sia un giudizio positivo, soprattutto per quei paesi nei quali siamo intervenuti. Lei ha fatto l'esempio della Bosnia: quanto l'abbiamo stabilizzata?
La Bosnia nel 1995, lei lo sa meglio di me, era un paese in guerra civile, interetnica; è per questo che la comunità internazionale è intervenuta, prima diplomaticamente poi con la forza, e con una forza consistente di 60 mila uomini. Oggi, dopo 11 anni, in Bosnia ci sono 6 mila uomini (un decimo rispetto all'inizio), è un paese che ha già avuto un processo elettorale, che si avvia ad ottobre (fra poche settimane) a votare nuovamente, un paese in cui per la prima volta si comincia a parlare di un ritiro totale - in tempi brevi - della presenza militare internazionale. Perché oggi la presenza internazionale militare in Bosnia, peraltro invocata dalla politica e le


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assicuro non dai militari, viene vista come un elemento stabilizzante, capace di visualizzare la presenza internazionale nei confronti del governo bosniaco.
A distanza di dieci anni la Bosnia è tutt'altro paese; ciò non vuol dire che la Bosnia non è un paese ancora fragile, in cui ci sono ancora i problemi del confronto tra realtà etniche diverse (quella della repubblica serba e quella croato-musulmana della federazione bosniaca), della criminalità, della droga, dei vari traffici; esiste ciò che, peraltro spero in forma ridotta, c'è anche in Italia.
Però certamente oggi è un paese che è avviato a essere inserito in accordi di cooperazione e di associazione con l'Unione europea, che è avviato ad essere inserito nella partnership for peace con l'Alleanza atlantica; è un paese, per chi ci va, abbastanza normale. Quindi in dieci anni è stato fatto uno sforzo notevole, tangibile e concreto, che si vede e si tocca con mano. Il governo bosniaco chiede alla forza internazionale di restare ancora un poco perché è una presenza rassicurante (un po' come il portiere del condominio che rassicura gli inquilini, anche se in realtà non riuscirebbe a fermare un ladro), ma ormai è un paese che si avvia a non avere più bisogno di una presenza esterna militare, avviandosi così a essere inserito nel contesto delle istituzioni euro-atlantiche. Mi sembra che sia un benchmark di stabilizzazione ottenuta, di successo ottenuto, non solo, ma anche dai militari. C'è stata tutta una azione politica, diplomatica, economica, ci mancherebbe: sono il primo a rendermene conto.
Per quanto riguarda le missioni internazionali, vorrei esprimere un giudizio personale. Dieci anni di politica italiana testimoniano che questo Paese si è impegnato nelle missioni e questo vuol dire che le considera un valore, proprio perché è uno dei contributi che un paese dà; non il solo, dato che diamo un contributo anche nella cultura, nell'impegno economico, nello sviluppo, nella politica internazionale. Ma certamente il contributo delle missioni è un valore che un paese responsabile offre alla comunità internazionale, magari anche per interesse nazionale: la sicurezza (come credo) è globale, e quindi i problemi che si sviluppano nei Balcani - o in altre zone, nell'area occidentale, negli Stati Uniti - ci riguardano, ci toccano anche se non vogliamo vederli; la comunità internazionale chiama a raccolta i paesi perché diano il loro contributo, e l'Italia - da paese responsabile - lo offre. Quindi le missioni non solo hanno questo notevole valore, ma sono anche un elemento importante per l'operatività delle Forze armate: è un processo continuo, perché partecipare ad un'operazione fa migliorare le Forze armate, e sostenere le Forze armate ci consente, attraverso un processo di trasformazione, di essere più capaci di gestire il nostro contributo alla realtà internazionale.
Per quanto riguarda il quesito posto dall'onorevole Papini: i 40 mila in esubero non sono davvero inutili, sono comunque una presenza che cerchiamo di usare, al di là della questione se facciamo bene o male (questo è un altro discorso). Sono comunque unità che cerchiamo di usare, quindi non è come se non ci fossero; d'altra parte penso che l'onorevole Cossiga volesse estremizzare l'esempio. Però è evidente che da un lato è un utilizzo parziale, e dall'altro è forse uno spreco, perché chiaramente non è la stessa cosa di quando si ricorre a professionalità legate a classi giovani con più mobilità, più duttilità, più capacità di adattarsi agli ambienti esterni, anche privi magari di vincolo familiare. Anche i cinquantenni vanno in teatri di guerra, però non è la stessa cosa: c'è un vincolo maggiore, una minore adattabilità, maggiori problemi e anche minore sostenibilità di certi sforzi: si utilizzano in questo senso. A volte ci vuole anche l'esperienza degli anziani, però da noi non è un rapporto equilibrato, come in altri casi.
Se il modello è stato ideato così - uomo più uomo meno - è perché esiste un rapporto fisiologico in tutte le società. Anche a scuola ci sono le classi e poi, via via, la piramide si restringe. Se, invece,


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abbiamo una struttura parallelepipeda, non va bene. Si determina un esubero, uno spreco di risorse, ma anche degli oneri; un militare di truppa che ha quattro-cinque anni di servizio, per certi tipi di operazione è più che adeguato e ha degli oneri che non può avere il cinquantenne, che ha una famiglia, ha un'anzianità di servizio, come è naturale. Il rapporto non è così matematico, altrimenti dovremmo giustamente essere accusati di incapacità. Non è che noi proponiamo che i cinquantenni vadano tutti al pascolo, non è così, ma certamente è una situazione che va sanata.
Per quanto riguarda la ridefinizione dei compiti, non esiste un modello, i compiti possono sempre essere ridefiniti dalla politica. Tuttavia, è anche evidente - ci tengo a sottolinearlo - che il nostro strumento si muove e non può che muoversi nel solco di quelli che sono gli strumenti degli altri paesi con cui noi operiamo, i paesi europei. Non possiamo avere strutture o compiti del tutto diversi da quelli degli altri paesi. Se così fosse, vivremmo in uno stato di isolamento, sostanzialmente di inutilità, perché alla fine non potremmo dare quel contributo che invece diamo. È fondamentale capire, quindi, che certo non tutti svolgono tutti i compiti - e noi non abbiamo certamente i compiti delle Forze armate degli Stati Uniti d'America -, ma certamente abbiamo delle organizzazioni e delle responsabilità che sono coerenti con quelle che hanno gli altri paesi.
Non voglio entrare nella diatriba dell'intelligence perché, al di là delle organizzazioni, so benissimo che ci sono degli aspetti anche politici. Dico solo che, almeno per quanto riguarda le operazioni, la parte che ci riguarda, abbiamo un ottimo sostegno dai servizi. Allo stesso modo, c'è un'ottima relazione tra la parte più prettamente humint, che svolgono i servizi, e la parte più prettamente militare, che svolge il RIS. D'altra parte, la struttura del RIS è comune a tutti i paesi: tutti i paesi hanno delle strutture di intelligence prettamente militari incardinate nella struttura delle Forze armate e poi hanno i servizi veri e propri di intelligence, organizzazioni diverse.
Dal punto di vista del sostegno che abbiamo e dell'interrelazione l'organizzazione è ottima. Ciò non toglie che anche un'organizzazione diversa, ove il Parlamento lo decidesse, non possa dare gli stessi risultati. Tuttavia, il fatto che anche una struttura di servizi sia in qualche modo incardinata - giustamente fa capo alla Presidenza, su questo non c'è alcun dubbio - nel Ministero della difesa, che è uno dei referenti, certamente aiuta.
Onorevole Giuditta, l'organizzazione si può toccare, e io stesso ho detto che lo si deve fare, ma abbiamo bisogno di un forte aiuto politico, altrimenti toccare l'organizzazione sul territorio è la cosa più difficile che si possa immaginare.
All'onorevole Gamba rispondo che lo strumento militare serve per assicurare l'homeland security, cioè la difesa del territorio, e prepararsi in caso di emergenza anche contro attacchi al territorio, ma è lo stesso strumento che svolge compiti fuori area, che sono una parte fondamentale dei concetti operativi degli strumenti militari. Questa suddivisione, dunque, non credo che si possa fare.
Certamente i costi delle missioni sono, come quelli della benzina della macchina, i costi vivi. Non sono, però, i costi che servono a mantenere la macchina quando giro la chiavetta e la macchina parte: qui intervengono costi ordinari di mantenimento della macchina, mentre i costi delle missioni sono i costi della benzina o della sostituzione dei pneumatici. Non sono sostitutivi, dunque, dei costi ordinari.
Quello delle forze di completamento è un argomento delicato, che io credo debba essere approfondito. È un tema che, effettivamente, da noi in questo momento è stato un po' accantonato, nella grossa fatica che abbiamo di perseguire il modello. Il tentativo di andare a regime con il modello ha fatto un pò accantonare questo problema, sul quale invece non bisogna far calare l'attenzione.
Certo, tutti saremmo contenti di anticipare il modello, ma per farlo occorrono strumenti normativi e risorse. Parte delle risorse possono certamente venire dalle dismissioni. Il ministro Parisi ha detto


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chiaramente che, da questo punto di vista, siamo pronti. Noi siamo i primi a renderci conto che è una risorsa che va rimessa in circolo nel Paese, ma vorrei far notare che da sette-otto anni a questa parte una legislazione che cambia continuamente le regole del gioco rende difficile tutto questo. Spesso, si presenta la possibilità di fare certe operazioni, ma poi queste risorse vengono destinate ad altro.
A questo punto, è chiaro che è difficile incentivare determinate operazioni, diventerebbe quasi un esproprio. Certo, il Parlamento può fare tutto, ma è evidente che, se si espropria qualcosa, non bisogna aspettarsi che l'espropriato cooperi.

PRESIDENTE. La ringraziamo molto, ammiraglio Di Paola. Sappiamo che l'attende il ministro, quindi non la tratteniamo oltre.
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 16,10.