COMMISSIONI RIUNITE
V (BILANCIO, TESORO E PROGRAMMAZIONE) DELLA CAMERA DEI DEPUTATI E 5a (PROGRAMMAZIONE ECONOMICA, BILANCIO) DEL SENATO DELLA REPUBBLICA

Resoconto stenografico

AUDIZIONE


Seduta antimeridiana di luned́ 17 luglio 2006


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE DELLA V COMMISSIONE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI LINO DUILIO

La seduta comincia alle 10,10.

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata, oltre che attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso, anche mediante la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.

Audizione dei rappresentanti della Confesercenti e della Confcommercio.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, l'audizione dei rappresentanti della Confesercenti e della Confcommercio, nell'ambito dell'attività conoscitiva preliminare all'esame del Documento di programmazione economico-finanziaria per gli anni 2007-2011, ai sensi dell'articolo 118-bis, comma 3, del regolamento della Camera e dell'articolo 125-bis del regolamento del Senato.
Vogliate scusare l'assenza di alcuni colleghi parlamentari ma una serie di circostanze concomitanti, compresa la difficoltà obiettiva di raggiungere la Camera, non hanno permesso una più nutrita presenza. Sono comunque presenti autorevolissimi esponenti della maggioranza e dell'opposizione.
Saluto e ringrazio i rappresentanti di Confcommercio e do subito la parola al direttore generale, Luigi Taranto.

LUIGI TARANTO, Direttore generale della Confcommercio. Signor presidente, la lettera a firma del Presidente del Consiglio dei ministri e del ministro dell'economia, premessa al testo del DPEF, ribadisce la volontà dell'esecutivo di perseguire una politica economica che agisca sui fronti dello sviluppo, del risanamento, dell'equità.
Si tratta di obiettivi strategici che erano stati evidenziati anche in occasione dell'incontro tra il Governo e le parti sociali, svoltosi il 29 giugno scorso a Palazzo Chigi.
In occasione di quell'incontro il Governo aveva contemporaneamente espresso il proprio convincimento circa la necessità di procedere secondo il metodo della concertazione.
Non possiamo non rilevare, però, che la concreta attuazione di questo riconoscimento è stata contraddetta, attraverso il successivo confronto per la definizione del tasso di inflazione programmata per il 2007, al quale il Governo ha ritenuto di chiamare solo i sindacati dei lavoratori. È una contraddizione che evidenziamo, perché è indubbio che la definizione del tasso di inflazione programmata costituisca il perno regolatore di una politica dei redditi che merita, a nostro avviso, di essere rivitalizzata.
Lo stesso ministro dell'economia, peraltro, nell'ambito della sua audizione parlamentare sui contenuti del DPEF, ha poi richiamato la necessità di una politica di moderazione salariale come condizione di un patto per la crescita. È indubbio che questo resterà il problema di fondo dell'economia italiana, anche nei prossimi anni: una crescita lenta, troppo lenta, che rende arduo lo stesso percorso di risanamento della finanza pubblica.


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Naturalmente, condividiamo l'auspicio, formulato dal ministro dell'economia, che il nostro paese possa stabilmente e durevolmente crescere a un tasso del 2 per cento, ma questo auspicio si confronta con il realismo dello stesso documento, che stima la crescita per il 2007, nell'1,2 per cento e quella per il 2008 nell'1,5 per cento, attestandola all'1,7 per cento a conclusione della legislatura.
Certo, nel 2007 si registra l'effetto restrittivo della manovra da 20 miliardi di euro destinati alla riduzione del deficit e dunque si sconta già, nella previsione dell'1,2 per cento, l'impatto dell'aggiustamento rispetto ad una tendenziale crescita reale del PIL pari all'1,5 per cento. Tuttavia, nel 2007, anche la stessa previsione di crescita dell'1,2 per cento, potrebbe rivelarsi generosa, sia in conseguenza delle persistenti tensioni sul prezzo del petrolio greggio, sia in conseguenza della specifica incidenza sui consumi delle famiglie e degli effetti della manovra che verrà operata con le misure della legge finanziaria.
Dal confronto tra il quadro macroeconomico a politiche invariate e quello programmatico si rileva infatti che nel 2007 i consumi delle famiglie passerebbero da una crescita tendenziale dell'1,3 per cento ad un incremento programmatico dello 0,8 per cento, con una riduzione di oltre 5 miliardi di euro rispetto a quanto si registrerebbe a politiche invariate.
Quanto all'impulso alla crescita, derivante dalle scelte di apertura dei mercati, operate con il decreto-legge n. 223 del 2006 e, soprattutto, dalla confermata riduzione nel 2007 del cuneo fiscale e contributivo nella misura di cinque punti, stando alle stesse previsioni di incremento del PIL, formulate dal Governo e fin qui richiamate, esso sarà contenuto in tutto l'arco della legislatura.
La riduzione del cuneo è un'operazione necessaria che va realizzata in maniera generalizzata, poiché la possibilità di ridurre il costo del lavoro e di assicurare un maggior salario netto ai lavoratori, in particolare a quelli con livelli di reddito medio bassi, è un'esigenza comune di tutte le imprese e di tutti i lavoratori. Il DPEF anticipa che la riduzione interesserà il lavoro subordinato a tempo indeterminato. Questa imposizione andrebbe comunque contemperata con la considerazione della necessità strutturale del ricorso a contratti temporanei in aree di impresa, tipicamente della distribuzione commerciale e del turismo, connotate da un andamento stagionale per picchi della loro attività.
Gli effetti attesi dalla riduzione del cuneo, vanno comunque in direzione dell'incremento dell'occupazione per via dell'aumento della domanda e dell'offerta di lavoro, che risponde positivamente alle esigenze di accrescere nel nostro paese il tasso di partecipazione al mercato del lavoro, pari a circa il 63 per cento: 7 punti in meno dell'area euro. È però evidente che l'accelerazione del tasso di crescita della nostra economia dipende anzitutto dall'incremento di produttività di tutti i fattori, tanto del capitale, quanto del lavoro.
Richiede, dunque, una più complessa e articolata agenda, cui concorrono, tra l'altro, per restare al mercato del lavoro, un'architettura contrattuale che consenta una più efficace redistribuzione degli incrementi territoriali di produttività e la conferma di una flessibilità, governata e contrattata anche come strumento di contrasto della precarietà.
Occorre, inoltre, tenere presente che, in riferimento a quanto prospettato nello stesso DPEF, taluni istituti di cui alla legge n. 30 del 2003, come il lavoro a chiamata o intermittente, subentrano agli istituti contrattualmente consolidati come il lavoro extra, in settori - ad esempio nel turismo - caratterizzati da picchi di attività di brevissima durata, ancorché frequentemente ripetuti nel tempo.
Il subentro di questi istituti avviene comunque in un quadro di maggiori opportunità e garanzie a favore del lavoratore. È pertanto necessario un approfondimento dell'ipotesi di revisione degli istituti della legge n. 30 del 2003 richiamati nel DPEF.
La questione dell'incremento di produttività della nostra economia è puntualmente


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colta ed analiticamente sviluppata nel DPEF, segnalando anche come sia, in particolare, l'incremento di produttività del sistema di servizi ad essere oggi alla base delle migliori performance registrate da altre economie sviluppate.
Tuttavia, manca poi, a nostro avviso, un'adeguata e conseguente declinazione di questo concetto. Stenta cioè ad emergere, accanto al più consolidato concetto della politica industriale, la dimensione di una politica per i servizi, cioè di un insieme di regole, strumenti e risorse dedicate al settore e in particolare a sostegno dell'innovazione tecnologica ed organizzativa, che costituisce, accanto alla concorrenza, la leva più potente per l'incremento di produttività di quel sistema dei servizi che rappresenta oggi all'incirca il 65 per cento del PIL e dell'occupazione del paese.
Il nostro auspicio è dunque che vadano sempre in questa direzione i cenni riportati nel DPEF in materia di revisione del sistema degli incentivi alle imprese, magari facendo tesoro di uno dei principi solitamente meno citati della nota agenda del professor Gavazzi: meno aiuti di Stato alle aziende grandi e decotte e meno tasse per quelle piccole e di successo.
Così come auspichiamo che sia affidata agli esiti di quella concertazione che, per esplicita impostazione metodologica dal documento di programmazione, dovrebbe realizzarsi ai fini della definizione delle misure che verranno recate dalla finanziaria per il 2007, la costruzione di una politica per la distribuzione commerciale, che premi professionalità e innovazione, crescita dimensionale e aggregazioni di filiera, di gruppo e di rete.
Lo sviluppo di una politica per il turismo, che tra l'altro confermi gli impegni in materia di detraibilità IVA per il turismo congressuale e di riduzione delle aliquote IVA per il settore e risolva la questione degli aumenti esponenziali dei canoni demaniali. Lo sviluppo, ancora, di una politica per le infrastrutture, i trasporti e la logistica che, in particolare, affronti l'emergenza dei valichi alpini, rilanci gli investimenti per il sistema portuale, e dia continuità tanto al processo di liberalizzazione regolata dell'autotrasporto, quanto al patto e al piano per la logistica.
Ai fini del finanziamento delle infrastrutture, andrebbe inoltre affrontata la mobilitazione dell'attivo della Cassa depositi e prestiti. La manovra da 35 miliardi di euro prospettata dal DPEF per il 2007 ne fa certamente un testo ambizioso e gli dà il merito di riconoscere esplicitamente che ci confrontiamo oggi con un più contenuto contributo potenziale dei processi di privatizzazione alla riduzione del debito e con uno scenario di aumento dei tassi di interesse su scala internazionale. Derivandone poi che la correzione degli andamenti strutturali della finanza pubblica, richiede certo il contrasto dell'evasione e dell'elusione e l'incremento di efficienza delle pubbliche amministrazioni, ma anche e soprattutto misure strutturali dirette a piegare la dinamica della spesa pubblica, agendo sul pubblico impiego, sul sistema pensionistico, sulla spesa sanitaria e sulla finanza degli enti decentrati.
Si tratta, però, di misure strutturali di cui vengono, per così dire, enunciati i principi primi. Un'accorta gestione dei flussi di cessazione del personale pubblico in età da pensione, insieme a moderazione salariale e meccanismi premianti nella contrattazione del pubblico impiego; l'equità attuariale della previdenza pubblica e il decollo di quella complementare; un nuovo patto per il sistema sanitario che contribuisca a ridurre la spesa tendenziale rispetto al PIL; una forma compiuta di federalismo fiscale.
Come spesso accade dopo la lettura dell'annuale documento di programmazione, restano però molti gli interrogativi circa la concreta attuazione operativa di questi principi. Anche perché, sul breve, rispetto al 2007, non sfugge invece un certo ottimismo circa l'andamento di alcuni grandi aggregati della spesa pubblica tendenziale a legislazione vigente. Ad esempio, una riduzione delle retribuzioni in valore assoluto e la crescita dei consumi intermedi di una misura di poco superiore all'1 per cento. Il fabbisogno di cassa a legislazione vigente, inoltre, si ridurrebbe


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nel quinquennio fino ai 53 miliardi di euro circa del 2011, rispetto all'indebitamento di circa 65 miliardi alla stessa data, pur ritrovandosi entrambi i saldi di poco superiori al 4 per cento del PIL al 2006.
Quanto alle entrate, si confida nell'efficacia dell'azione di contrasto all'evasione e all'elusione fiscale, in particolare all'IVA, confermando l'impostazione già emersa con il decreto-legge n. 223 del 2006.
Poiché lo stesso DPEF afferma la centralità della tax compliance, segnaliamo che proprio l'esperienza degli studi di settore è stata ed è il tentativo più avanzato di rafforzarla, attraverso la collaborazione tra categorie economiche ed amministrazione finanziaria.
Sarà dunque necessario che, a differenza di quanto già avvenuto con il citato decreto per le modifiche in materia di accertamento da studi di settore, che hanno anche indebolito il valore probatorio delle scritture contabili, le modifiche al sistema degli studi vengano, nel rispetto del loro patto istitutivo, concertate con le categorie interessate. Così come il principio in ragione del quale, per citare il documento di programmazione, il sistema fiscale dovrà sempre più discriminare tra attività speculative e attività produttive, al fine di alleggerire le imprese e i lavoratori impegnati nella produzione e nelle sfide poste dalla competizione internazionale, dovrà tradursi nell'impegno della progressiva riduzione della corporate tax italiana, che si colloca oltre il 37 per cento, largamente al di sopra delle aliquote medie del 28 per cento dei paesi OCSE e di quelle dell'Unione europea allargata, che è pari al 25 per cento.
Senza questa riduzione, dunque ad invarianza di aliquote, lo stesso recupero dell'evasione e dell'elusione si tradurrebbe, infatti, in aumento della pressione fiscale complessiva. Va, insomma, tenuto insieme il tempo della riduzione della spesa pubblica, del contrasto e del recupero dell'evasione e dell'elusione, con quello della riduzione delle aliquote di prelievo fiscale. In un contesto di impegno al controllo, alla riqualificazione e alla riduzione della spesa pubblica, si rafforza peraltro la necessità di tenere ancora insieme per il Mezzogiorno il rafforzamento della spesa in conto capitale con la sua verifica di efficacia e di qualità.
Si è detto dei molti interrogativi che permangono dopo la lettura del documento. Come di consueto, spetterà alle leggi finanziarie che si succederanno nella legislatura il compito di sciogliere gli interrogativi e nel 2007 di chiarire la concreta praticabilità di obiettivi ambiziosi. Per la soluzione di questi interrogativi una pratica coerente e produttiva del metodo della concertazione potrebbe dare un contributo rilevante.
La citazione di Kant che accompagna il DPEF «Coloro che dicono che il mondo andrà sempre così come è andato finora, contribuiscono a far sì che l'oggetto della loro predizione si avveri» è vera. Ma, appunto, una buona concertazione sarebbe utile a ridurne il numero, perché è anche in questo modo che si costruisce certezza e fiducia.

PRESIDENTE. Ringrazio il dottor Taranto e colgo l'occasione per salutare e ringraziare coloro che lo accompagnano: il dottor Carlo Mochi, responsabile del centro studi di Confocommercio, il dottor Conti, dirigente del settore legislazione tributaria, il dottor Alessandro Vecchietti, responsabile dell'area legislazione d'impresa, il dottor D'Angelo responsabile dei rapporti istituzionali e il dottor Ragaini, dell'ufficio stampa.
Do ora la parola al dottor Marco Venturi, presidente della Confesercenti, accompagnato dal dottor Oliva, responsabile dell'ufficio economico, e dal dottor Pecorelli, responsabile della comunicazione.

MARCO VENTURI, Presidente della Confesercenti. Già nel settembre 2005 abbiamo denunciato un tendenziale del deficit che andava verso il 4,6 per cento.
L'avanzo primario si è azzerato, il debito è nuovamente in crescita. In una parola, si è trattato di un vero e proprio falò che ha bruciato anni di sacrifici, i benefici dell'euro, i tassi di interesse bassi, la ripresa internazionale.


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Noi, però, al di là di queste considerazioni, dobbiamo guardare avanti: siamo abituati ad affrontare i nodi e a lavorare per recuperare il tempo perduto. Tuttavia, bisogna cambiare registro: le associazioni e anche la politica, devono evitare di presentarsi in ogni occasione con il solo elenco della spesa. Dobbiamo cominciare a ragionare, a valutare e, possibilmente, a portare idee utili alle prospettive e alla crescita del paese.
Sono convinto che la difficoltà principale sia stata quella di non aver preso atto fino in fondo che la crescita o, meglio, la non crescita dello scorso anno è stata frutto non del destino cinico e baro, bensì delle forti carenze del nostro sistema paese. Non sussistevano solo difficoltà per le imprese, ma era un intero sistema paese che complessivamente non funzionava.
Nel 1995 la produttività oraria era più alta rispetto a quella dell'area euro di quattro punti; nel 2005 siamo sotto di tre punti.
Basterebbe questo dato per far capire come in questi dieci anni - oltre alle difficoltà storiche - vi è stata una vera e propria inversione di tendenza. Proprio per questo motivo, bisogna recuperare competitività. Bisogna quindi adottare politiche di innovazione, di riduzione del costo del lavoro e degli altri costi che le imprese sopportano, soprattutto quelle piccole e medie. In buona sostanza, recuperare margini di competitività, attraverso la riduzione dei costi di produzione.
Vediamo perciò con favore l'ipotesi del taglio di cinque punti dei contributi sul lavoro, purché il provvedimento non marginalizzi le piccole e medie imprese. Se da un lato, infatti, verrebbero escluse automaticamente le imprese familiari, dall'altro, non si tiene conto del fatto che ci sono grandi imprese che non fanno innovazione, non sono orientate né all'esportazione, né allo sviluppo, ma godrebbero lo stesso di grandi e importanti benefici (senza peraltro portare alcun risultato in termini di competitività internazionale o di crescita per il paese). Ci sono invece piccole imprese - turistiche, artigianali, e anche molte commerciali - che sono dinamiche ed importanti, ma rimarrebbero fuori da qualsiasi beneficio.
A mio avviso, è necessario riflettere su questo punto per poi arrivare a correggere il provvedimento, proprio per evitare di escludere tre milioni di imprese - il 70 per cento del totale - con circa 5 milioni di addetti, che non trarrebbero alcun beneficio da questo provvedimento.
Trattandosi di un obiettivo prima di tutto psicologico, bisogna far sì che tutti contribuiscano alla grande sfida che il paese deve affrontare per rimettersi in carreggiata e per crescere. Una strada percorribile è quella dell'intervento sull'IRAP, riducendo il prelievo, a partire dalle piccole imprese, e compensando tale riduzione con la diminuzione del costo della sanità. A tal proposito, abbiamo recentemente presentato un rapporto, «100 casi di spreco nella sanità», da cui emergevano - benché i casi presi in esame fossero molto pochi - 17 miliardi di euro di sprechi.
Precedentemente avevamo presentato altri tre rapporti (per un totale di 400 casi) sugli sprechi nella pubblica amministrazione: sono stati calcolati sperperi per circa 125 miliardi di euro. Ma si continua a sottovalutare questo aspetto. È necessario, invece, agire sulla spesa, anche quella sanitaria. In questo caso, infatti, oltre agli sprechi propri del settore, c'è l'aggravio di una forte crescita tendenziale dei costi sanitari: quest'anno siamo ormai oltre i 100 miliardi; sul PIL la sanità è passata dal 5,7 per cento del 2000, al 6,7 per cento del 2005.
Bisogna pertanto prevedere delle misure diverse, cercando di porre in essere interventi che possano invertire la tendenza, rimettendo in moto il paese e facendo concorrere tutti alla crescita.
Noi proponiamo, ad esempio, un intervento sull'IRES, che andrebbe portata a due aliquote (una del 33 per cento, l'altra del 23). Ciò renderebbe indolore per le piccole e medie imprese la scelta di diventare delle società di capitali, così adottando


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una forma sociale più utile per la modernizzazione e l'organizzazione dell'impresa.
Se, invece, la modifica del profilo societario continua a comportare una maggiorazione dell'aliquota fiscale, nessuna impresa penserà mai ad una nuova forma societaria, anche se maggiormente dinamica e consona a sostenere la competizione.
Sarebbe poi necessario ipotizzare una forma di sostegno alle neo-imprese. La nostra proposta va nel segno dell'esenzione dall'IRE per i primi tre anni: ciò consentirebbe alle piccole imprese di avviare la loro attività, allungandone, di conseguenza, la vita media. Se teniamo conto che il 40 per cento delle imprese chiude nei primi quattro anni di attività, con l'esenzione dall'IRE per i primi tre anni probabilmente si riuscirebbe ad innalzare ad almeno 6-7 anni la soglia di sopravvivenza. Ciò garantirebbe un significativo beneficio sull'occupazione: in effetti, anche gli stessi titolari e i loro familiari che lavorano nelle piccole imprese costituiscono occupazione, e vengono dunque calcolati come occupati capaci di produrre ricchezza per il paese.
Essenzialmente, quindi, è necessario puntare sull'aumento della produttività, combattendo gli sprechi e le inefficienze del nostro sistema. Sprechi e inefficienze che assorbono rilevanti risorse diversamente destinabili allo sviluppo, alla ricerca, all'innovazione, alle infrastrutture, al Mezzogiorno e al collegato tema della legalità.
Non vi sono alternative, salvo condannare il paese alla marginalità economica. Il rischio retrocessione (come per le squadre di calcio in questi giorni) per il nostro paese rimane obiettivamente concreto, anche perché il sistema Italia è sempre meno appetibile. Non affrontare questi nodi, significa non riuscire ad invertire la tendenza negativa.
Reagire a questa situazione, equivale a fare, a scegliere e, quindi, a tagliare la spesa corrente, riducendo e ammodernando il pubblico impiego, il cui costo del lavoro, nel 2006, è cresciuto del 4,5 per cento. C'è poi un eccesso di personale.
Lo stesso effetto modernizzatore delle tecnologie, non può non portare ad una sua riduzione. Il pubblico impiego deve essere un servizio a disposizione del cittadino, non dell'impiegato. Bisogna quindi erogare servizi efficienti, con il personale strettamente necessario.
Altra necessità - come già detto - è la lotta agli sprechi. A tale riguardo, bisogna chiamare in causa anche gli enti locali, che sono sinonimo di spesa corrente: dal 2000 al 2005 si è assistito ad un aumento di quasi il 4 per cento all'anno della spesa degli enti locali. Il loro debito viaggia ormai verso i 200 miliardi di euro. In poche parole, se non si riuscirà a recuperare risorse per rendere più competitivo e innovativo il sistema Italia, continueremo a discutere senza ottenere risultati significativi.
All'interno di questa cornice mirante al contenimento della spesa, devono ovviamente inserirsi fattori capaci di produrre equità. Viene giustamente posto - come è stato fatto dal ministro del lavoro - il problema dello «scalone» delle pensioni: il provvedimento consentirebbe di riparare ad un'oscenità precedentemente commessa. Allo stesso tempo, però, sarebbe bene avere certezze sulle risorse: ci sono? In caso contrario, su chi ricade l'onere? Provvedimenti di questa natura costano e le relative risorse - è questo l'oggetto di discussione - non ci sono. Sarebbe perciò utile capire chi paga.
Il problema delle pensioni, poi, non si limita a questo - certo, questo interrogativo, non avendo certezze di carattere economico, vi rientra a pieno titolo -, specie nell'ambito di un DPEF basato su una strategia di legislatura impostata sul risanamento, l'equità e lo sviluppo. Queste tre direttrici, però, non sono scindibili: non si può parlare di risanamento senza fare necessariamente riferimento all'equità e allo sviluppo.
Si pensi, su questo versante, alla pessima situazione dei conti pubblici, che sicuramente impone una manovra di risanamento. Per converso, equità e benessere


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sono il cardine delle scelte politiche ed economiche: la priorità, quindi, rimane sempre e comunque lo sviluppo, senza l'avvento del quale divengono irrealizzabili risanamento ed equità. La manovra dovrà pertanto essere centrata sull'inversione di una tendenza che ha costretto il paese alla crescita zero. Vanno quindi individuate risorse mediante le quali puntare allo sviluppo.
Ciò impone inevitabilmente un impegno di concertazione più incisivo di quello avviato in questa fase: solo con uno sforzo corale si possono produrre risultati importanti. Fermo restando che ognuno deve fare la sua parte: si discute, si tratta, si ascoltano le opinioni di tutti, ma, alla fine, il Governo deve governare e trarre le sue conclusioni. Del resto, non sempre - anzi, quasi mai - tutte le parti sociali convergono unitariamente su un obiettivo.
In questo quadro, destano preoccupazione altri modi di agire: penso alla protesta dei tassisti. Sui taxi non rientriamo nei parametri europei. Il servizio è decisamente insufficiente ed inadeguato, pesa sui cittadini, condiziona soprattutto il turismo, di cui i taxi beneficiano. Se i servizi pubblici e privati non funzionano, i turisti semplicemente cambiano meta. I voli, ormai, hanno costi bassi e non rappresentano più un ostacolo. In generale sono maggiori le opportunità per il turista, tutte cose che dovrebbero indurci a fare molta attenzione per non perdere ulteriori posizioni: l'Italia è scesa dal primo al quinto posto e sta scivolando ancora più in basso. Quella del turismo deve quindi essere una delle sfide centrali che il paese dovrà raccogliere.
Sono tutte condizioni di base per recuperare una pregressa situazione difficile accumulatasi nel corso del tempo. A tal fine occorrono interventi più decisi, più chiari da parte del Governo, soprattutto nei confronti dell'Unione europea (ad esempio, per poter ottenere una riduzione dell'IVA al 5 per cento).
Mettiamo poi sul tappeto la questione degli incentivi per il rinnovamento delle strutture turistiche, per la creazione di nuovi servizi, per l'aggregazione e l'associazione delle imprese, per la realizzazione dei siti web delle strutture alberghiere, per la destagionalizzazione del turismo.
Si fa un gran parlare di modernizzazione e di tecnologie ma se nella manovra non si punta su questi fattori non si farà molta strada.
Concludo evidenziando un altro aspetto saliente: l'imprenditoria femminile. Anche su questo punto è richiesta un'attenzione particolare. Va sottolineato come l'occupazione femminile si attesti in Italia sul 45,4 per cento: è la percentuale più bassa dei 25 paesi dell'Unione europea. L'unico elemento positivo è costituito dalla crescita in controtendenza dell'imprenditoria femminile: negli ultimi anni si è assistito al suo progresso - se ricordo bene - del 13 per cento. Ciò conferma l'esistenza di un potenziale estremamente positivo, che ne impone la valorizzazione con investimenti capaci di far crescere le imprese e l'occupazione nel nostro paese.

PRESIDENTE. Do ora la parola ai colleghi che intendono formulare osservazioni o porre quesiti.

GASPARE GIUDICE. Signor presidente, ringrazio i rappresentanti di Confcommercio e Confesercenti per le analisi svolte.
Vorrei conoscere il loro punto di vista sul contenuto del DPEF in particolare sul presunto spazio che questo Governo dedica alla politica del Mezzogiorno.
Non v'è dubbio, infatti, che sviluppo, risanamento ed equità siano concetti condivisibili (credo che non esista parte politica italiana che non affidi a queste tre parole un significato molto importante). Bisogna vedere se la politica delineata in questo DPEF e quella delle prossime leggi finanziarie sarà utile al raggiungimento di questi tre obiettivi.
In particolare, in relazione al capitolo sul Mezzogiorno, ritengo che il suo rilancio sia essenziale per quello dell'intero paese.
Al dottor Venturi vorrei dire - senza con questo voler fare alcuna critica - che quando parla di legalità riferendosi solo al Mezzogiorno, fa un po' come l'ABI quando


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continua a sostenere che nel Mezzogiorno il più alto costo del denaro è dovuto al maggiore rischio. Caro presidente, negli ultimi tempi vi sono stati grossi scandali che hanno investito il nostro paese a danno dell'economia e di una gran massa di risparmiatori, ma non mi risulta che le aziende protagoniste fossero del Mezzogiorno! Quindi, oggi, bisognerebbe guardare al Mezzogiorno con un occhio diverso, così come il sistema bancario dovrebbe affrontare una seria politica verso questa parte del paese con un differente taglio rispetto a quanto fatto finora.
Comunque, in questa fase, mi interessa sapere da parte della Confesercenti e della Confcommercio se condividano il capitolo che questo Governo, all'interno del DPEF, ha dedicato alla politica per il Mezzogiorno.

PRESIDENTE. Convengo sulle osservazioni del collega Giudice. Probabilmente, la ragione per cui si fanno alcune considerazioni - esprimendoci sul piano squisitamente giuridico - sta nella modalità di esecuzione di alcuni delitti: evidentemente quelli commessi con i guanti colpiscono meno di altri.

RAFFAELE TECCE. Tra i tanti aspetti interessanti emersi nella relazione della Confcommercio, c'è un riferimento al fatto che nel DPEF è contenuto il ripensamento del sistema degli incentivi alle imprese. La Confcommercio auspicava ciò anche per la piccola impresa. Vorrei capire se su questo versante vi siano delle proposte specifiche.
In secondo luogo, il presidente Venturi esprimeva la preoccupazione da parte della Confesercenti per la marginalizzazione delle imprese familiari rispetto alla riduzione del cuneo fiscale. Chiaramente, il problema concerne i contratti di lavoro a tempo indeterminato, ma vorrei sapere se, rispetto a questa preoccupazione - che condivido - vi siano delle proposte che legano la piccola e media impresa all'occupazione e alla riduzione del cuneo fiscale.

PRESIDENTE. Non essendovi ulteriori interventi vorrei porre anch'io un paio di domande. Una attiene alla produttività totale dei fattori, legata alla constatazione che i tassi di crescita della produttività del nostro paese, in un'analisi comparata con agli altri paesi, sono negativi.
Per favorire l'incremento della produttività totale dei fattori, nello specifico del vostro settore, cosa si offre in termini per così dire construens?
Nella vostra realtà, oltre a denunciare questo dato che ormai ci accompagna da alcuni anni, avete sviluppato qualche riflessione? C'è qualcuno che finalmente propone direttamente la sua idea?
La seconda domanda riguarda il discorso esistente, almeno a livello latente ma pur sempre pericoloso, dell'inflazione, una brutta bestia per gli effetti che provoca sulla competitività oltre che sul potere di acquisto, specie di alcune categorie.
La cosiddetta filiera a suo tempo portò a riflettere - con difese ed offese - intorno al tema dell'euro. Si misurava la distanza esistente fra il costo dei fattori, il costo di produzione - che pure è stato richiamato nelle vostre osservazioni - e il prezzo finale. L'onda delle polemiche sollevate è passata. Abbiamo constatato - ahinoi - che il cambio che si è determinato è di un euro per le vecchie mille lire, mentre la remunerazione dei fattori è rimasta quella di prima, con le conseguenze che conosciamo.
Vorrei sapere se, lontani da quella polemica, all'interno del vostro settore riteniate che sia stato fatto tutto per colpire quelle nicchie un po' parassitarie che qualcuno ritiene ancora esistano. Anche per questa via si potrebbe dare un contributo per far uscire il nostro paese dalla condizione in cui si trova.
Questo tema ritorna di tanto in tanto, sopratutto in contingenze polemiche, pertanto, non vi è mai la possibilità di discuterne con serenità. Essendo questo un periodo in cui la polemica ancora non c'è, vorrei sapere, anche in termini ex post, se riteniate di avere fatto tutto quello che si sarebbe potuto fare nella filiera rispetto a ciò, che porta ad una differenza consistente


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- per esprimermi in termini eufemistici - tra il costo di produzione e il prezzo finale.

MARCO VENTURI, Presidente della Confesercenti. Vorrei iniziare affrontando la questione dei prezzi.
Come abbiamo detto più volte - lo ribadisco - noi siamo sempre disponibili a discutere di questo problema, però, vogliamo farlo nel modo giusto.
I prezzi sono determinati non tanto da un imprenditore che su un cartellino scrive un numero, magari per aumentare il proprio margine, quanto, soprattutto, dai fattori legati ai costi: penso agli affitti e all'energia. Questi sono tutti problemi che noi continuiamo a porre sul tavolo e che poniamo anche a voi. In questi anni abbiamo avuto aumenti del costo degli affitti dei locali commerciali anche fino a 10 punti l'anno, senza contare il costo dell'energia che incide in maniera straordinaria su tutto (dai trasporti ai consumi).
Al di là di questi fattori, bisogna tenere conto dei prezzi veri, non di quelli - molto spesso - inventati. Nel corso di una discussione sull'ortofrutta con le associazioni dei consumatori, una di queste parlava di un aumento di oltre l'8 per centro, mentre l'altra faceva riferimento ad un aumento del 28 per cento: è facile rendersi conto di come questi numeri, a volte, vengano tirati fuori dal cappello. Posso comprendere delle differenze prossime allo zero, ma una differenza di 20 punti mi pare veramente esagerata.
Vorrei ora porre una domanda e lo faccio in una sede istituzionale. Il Ministero dell'agricoltura, attraverso l'ISMEA, pubblicava i prezzi alla produzione, all'ingrosso e al dettaglio, consentendoci un confronto molto serio. Io ho invitato per anni, purtroppo inutilmente, ad effettuare controlli. Ebbene, dopo tante polemiche il Ministero dell'agricoltura ha risolto il problema: ha eliminato questo confronto dal sito dell'ISMEA! Ed io chiedo che venga ripristinato.
Sulla produttività ci sono margini molto importanti. Per aumentare la produttività bisogna tener conto del fatto che soprattutto le piccole ma anche le medie imprese, hanno difficoltà ad investire con le proprie risorse. Lei richiamava anche la posizione dell'ABI per quanto riguarda l'accesso ai finanziamenti e le difficoltà che ci sono nel Mezzogiorno, dove ci sarebbe un rischio maggiore. Su questo argomento, ritengo che si debba aprire un altro capitolo.
Se le imprese devono diventare più competitive, devono investire, quindi, devono avere un accesso al finanziamento e al credito che sia compatibile (altrimenti, non si investe). Su questo la partita è tutta aperta. Noi dobbiamo creare un ambiente competitivo - lo dicevo all'inizio del mio intervento - e all'interno di questo devono esservi imprese competitive. Per una maggiore competitività bisogna investire: non ci sono dubbi.
L'onorevole Giudice poneva il problema del Mezzogiorno. Nella recentissima assemblea della Confesercenti, una parte della mia relazione era dedicata al Mezzogiorno (sono meridionale e non potrei dimenticarmene).
Si tratta di un problema molto importante nel paese, non solo per la popolazione meridionale che lo vive: non c'è l'acqua, mancano le vie di trasporto e quant'altro. Insomma, ci sono mille problemi oltre a quelli legati alla legalità (che comunque devono essere affrontati in maniera più decisa).
Non possiamo però ignorare il fatto che il PIL in Italia, l'anno scorso, è rimasto a zero mentre nel sud ha fatto registrare meno 0,3. C'è, quindi, un andamento sempre peggiore nel Mezzogiorno, sia quando l'economia tira, sia quando non tira.
Parliamo tanto di aumento dell'occupazione nel nostro paese, ma dal 2000 al 2005 sono state perse 69 mila unità di lavoro nel sud: dove c'è più necessità di occupazione, stiamo andando nella direzione opposta. Questo vuol dire che finora non si è adottata una politica adeguata per invertire questa tendenza, cosa che bisogna necessariamente fare.
Occorre affrontare i nodi di alcune infrastrutture: mi riferisco alle autostrade (a parte l'autostrada del Sole), alla carenza


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di acqua, che riguarda i privati ed anche le strutture alberghiere, agli aeroporti. Se vogliamo portare il turismo nel Mezzogiorno bisogna cercare in qualche modo di sciogliere questi nodi, migliorando le condizioni.
Sul cuneo fiscale, senatore Tecce, indubbiamente, c'è l'emarginazione delle piccole imprese che non ne traggono alcun beneficio. Non ripeto l'elenco delle proposte fiscali alternative che ho avanzato e che potrebbero sopperire a questa carenza. Non possiamo escludere il 70 per cento delle imprese italiane, che sono piccole, che non hanno dipendenti, ma creano occupazione (milioni tra piccoli imprenditori e collaboratori familiari). Su questo versante è necessario intervenire in maniera opportuna.

LUIGI TARANTO, Direttore generale della Confcommercio. Anch'io inizio affrontando la questione del Mezzogiorno.
«Cosa c'è di condivisibile nel DPEF?». Era questa la domanda dell'onorevole Giudice. La risposta è: un'affermazione di principio, che è stata fatta in tutti i DPEF degli ultimi anni e cioè la conferma e il rafforzamento della spesa in conto capitale nel Mezzogiorno. Tuttavia, questa affermazione di per sé non è sufficiente se si vuole realmente fare qualcosa in coerenza con l'obiettivo dell'accelerazione della dinamica della crescita nel Mezzogiorno.
Recentemente, l'onorevole Nicola Rossi ha dato alle stampe un efficacissimo pamphlet: Mezzogiorno del nord. Nelle prime pagine viene ricordato un dato che mi ha colpito moltissimo: tra il 1998 e il 2004 il volume complessivo della spesa in conto capitale nel Mezzogiorno è stato di circa 120 miliardi di euro. Da meridionale quale sono, anzi, da concittadino dell'onorevole Giudice, vi chiedo: siamo sicuri che questa spesa pubblica sia sempre stata di qualità ed efficace?
Dico ciò perché questo dato va confrontato con un altro. Sappiamo tutti che abbiamo un rilevante deficit di dotazione infrastrutturale nel paese e, segnatamente, nel Mezzogiorno. Le stime del fabbisogno finanziario sono nell'ordine dei 200 miliardi di euro. Dunque, se confrontiamo i 120 miliardi di euro spesi dal 1998 al 2004 - il riferimento non è casuale perché si tratta dell'arco della cosiddetta nuova programmazione che ha attraversato con assoluta continuità politica e amministrativa il percorso di due legislature - con il fabbisogno finanziario per le infrastrutture, credo che sarebbe lecito interrogarci sulla necessità di una profonda rivisitazione della qualità della spesa pubblica nel Mezzogiorno.
Tutto ciò la dice lunga - e così mi collego anche alla questione che poneva l'onorevole Tecce - sull'efficacia del sistema degli incentivi alle imprese, che a tutt'oggi valgono un punto e mezzo, due punti di PIL. Anche in questo caso, siamo convinti del fatto che siano sempre utili e produttivi?
Se facciamo la storia della legge n. 488 nel Mezzogiorno, francamente, non mi sembra che si possa dedurre che abbia operato in termini di riorientamento della struttura produttiva.
Semplicemente, penso che converrebbe ragionare su un trade off tra le dotazioni per il sistema degli incentivi e su due semplici politiche per il Mezzogiorno: la fiscalità differenziata o di vantaggio: mentre, per quello che riguarda il sistema degli incentivi, soprattutto di quelli rivolti alle piccole e medie imprese, dovremmo prendere atto del fallimento sostanziale di tutti i meccanismi a bando e selettivi e riconsiderare piuttosto l'opportunità di strumenti automatici e fiscali, come il credito di imposta e gli ammortamenti anticipati.
Tutto ciò al fine di incrementare - vengo alla questione posta dal presidente - la produttività delle imprese e segnatamente dei servizi. In che modo? Sostenendo l'innovazione, sia quella tecnologica, sia quella organizzativa. Non c'è dubbio, infatti, che l'analisi comparativa di quanto è avvenuto nelle economie più sviluppate in questi anni conferma questo punto: le economie, a partire da quella statunitense, che hanno galoppato di più sono quelle che hanno beneficiato non soltanto della


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spinta concorrenziale ma anche dell'impatto fortissimo dell'innovazione sul sistema dei servizi.
Ha avuto recentemente molta fortuna un rapporto della McKinsey che ha esaminato storie di successo nell'ambito delle economie sviluppate e che così concludeva: «Il dippiù di crescita per l'economia italiana non potrà venire dalla crescita del sistema manifatturiero, ma bisognerà fare affidamento sull'incremento di produttività del sistema dei servizi». Per questo, vi dicevo che, mentre dal punto di vista analitico, il DPEF compie un'analisi impeccabile, poi, si ferma, per così dire, sulla soglia della determinazione conseguente.
Serve una politica per i servizi, fatta sostanzialmente di due leve: le regole di apertura dei mercati e una spinta forte in direzione dell'innovazione.
Regole di apertura dei mercati: ne abbiamo avute non solo con il recente decreto ma anche con la riforma Bersani della distribuzione commerciale del 1998. C'è un ampio dibattito sugli esiti storici di questa esperienza. Mi permetto di ricordare semplicemente un dato. In questi anni abbiamo avuto un turn over nell'ordine delle 50-60 mila imprese l'anno, che hanno semplicemente chiuso, senza alcun ammortizzatore. A fronte di queste, altre sono state aperte, ma con una durata media nel tempo - come già ricordava il presidente Venturi - non molto confortante.
Dunque, sarebbe sbagliato da parte di ciascuno e da parte delle forze sociali nel loro complesso ritenere che si sia stato fatto tutto ciò che era possibile fare. Francamente i venti della concorrenza e della liberalizzazione nella distribuzione commerciale hanno spirato al punto tale che una fonte indubbia come la Banca centrale europea, ricostruendo su dati di contabilità nazionale i comportamenti economici delle imprese di distribuzione commerciale italiane, ne ha ricavato che nel periodo tra il 2001 e il 2004 i loro margini operativi si sono ridotti.
Naturalmente è un dato statistico globale e aggregato, all'interno del quale ci sono differenze anche profonde, tuttavia questa è, per così dire, la cifra oggettiva e complessiva con la quale si è confrontata in questi anni la distribuzione commerciale.
Con ciò spero di aver risposto a tutte le questioni che mi sono state poste.

PRESIDENTE. Ringrazio i rappresentanti di Confcommercio e di Confesercenti e dichiaro conclusa l'audizione.

Audizione dei rappresentanti della Confartigianato, della CNA, della Confapi e di Casartigiani.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'attività conoscitiva preliminare all'esame del Documento di programmazione economico-finanziaria per gli anni 2007-2011, ai sensi dell'articolo 118-bis, comma 3, del regolamento della Camera e dell'articolo 125-bis del regolamento del Senato, l'audizione di rappresentanti di Confartigianato, CNA, Confapi e Casartigiani.
Do la parola al segretario generale di Confartigianato, Cesare Fumagalli.

CESARE FUMAGALLI, Segretario generale della Confartigianato. Lascio a disposizione della Commissione una nota congiunta di Confartigianato, CNA e Casartigiani, in modo da agevolare il vostro lavoro.
La nota evidenzia la serie di posizioni che le rappresentanze dell'artigianato hanno assunto nei confronti del documento di programmazione economica e finanziaria. Prima di illustrarla, permettetemi una premessa riguardante una questione che attraversa tutte le dichiarazioni di intenti contenute nel documento di programmazione economica e finanziaria per quanto attiene alle imprese, ovvero, la questione della dimensione di impresa.
Rileviamo con timore qualche criticità nei confronti delle politiche che attraversano i capitoli riguardanti la questione della dimensione di impresa, come se da essa dipendesse la perdita di competitività del sistema economico nazionale.


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Alle pagine 57 e seguenti del DPEF, abbiamo trovato alcuni paragrafi che riprendono quasi integralmente un documento di Confindustria risalente al marzo 2005 dal titolo «Crescere». Questa trasposizione ci preoccupa.
Voglio citare qualche cifra: nel periodo preso in considerazione dal DPEF (1987-2001), un'impresa con più di 500 addetti su sei ha subito un ridimensionamento ed è passata ad avere meno di 200 dipendenti. Il fenomeno si conferma per le imprese medio/grandi, che, nello stesso periodo, sono passate da una dimensione compresa fra 200 e 500 addetti, a meno di 100. Questa analisi sta ad evidenziare, in contrasto, l'opposta caratterizzazione del ventennio 1981-2001, durante il quale le piccole imprese con meno di 50 addetti hanno garantito l'87,5 per cento della crescita occupazionale.
In particolare, nello stesso periodo, a ogni posto creato dalla grande impresa, ne corrispondono 6 creati nelle imprese delle citate dimensioni (sotto i 50 dipendenti). Perdonerà la mia digressione, ma desideravo evidenziare il rischio di pensare nel DPEF a misure connesse con la questione dimensionale, ambito che potrebbe rivelarsi fuorviante.
Probabilmente il nostro è un paese con una tipologia di imprese, che qualcuno gradirebbe diversa ma che, tuttavia, rimane sostenuto dalle piccole imprese, che hanno rappresentato la crescita occupazionale per l'87,5 per cento negli ultimi vent'anni. La nostra preoccupazione, in quanto rappresentanti di artigianato, micro e piccole imprese, è quella di imbatterci, nel passaggio dalle dichiarazioni di intenti ai provvedimenti, in iniziative che possano discriminare quella parte del sistema delle imprese che, fortunatamente, nonostante tutte le difficoltà, continua a sostenere il complesso dell'economia.
Passo ora ad alcune considerazioni sui capitoli presenti nel DPEF e anche su alcuni punti che, al contrario di quello che ci aspettavamo, non vi abbiamo trovato. La prima delle annotazioni riguarda la condivisione rispetto alla triade sviluppo, risanamento ed equità, nonché sull'avvio del processo di liberalizzazione, del quale siamo stati fautori (documentando con numeri precisi come i settori a bassa concorrenza abbiano determinato e determinino ogni anno un aggravio dei costi per le piccole imprese stimabile in 7,8 miliardi di euro). L'avvio dei processi di liberalizzazione ci trova assolutamente favorevoli, sebbene sia cominciato proprio nei nostri settori (taxi, panificazione). Adesso, però, attendiamo rapidi interventi in settori ben più rilevanti come quello dell'energia, dei servizi pubblici locali, delle professioni, dei servizi assicurativi, dei servizi bancari e dei trasporti. Questi sono i grandi settori nei quali l'avvio dei processi di liberalizzazione può davvero generare risorse e liberare le piccole imprese da difficoltà e da vincoli.
In particolare, per quanto riguarda i temi dell'energia, mi preme sottolineare la necessità di prevedere un immediato alleggerimento della pressione fiscale, che grava sulle piccole e medie imprese. Certamente, vi è noto - ma non abbiamo fin qui trovato un segnale in questo senso - che l'imposta erariale per le utenze non domestiche con consumi mensili inferiori a 1 milione e 200 mila chilowattora grava soprattutto sulle piccole imprese. Allo stesso modo, anche l'addizionale enti locali sui consumi di elettricità ha il suo peso maggiore sui consumi mensili inferiori ai 200 mila chilowattora.
Allora, ci attendiamo che interventi nel settore della fiscalità sull'energia possano inserirsi in quelle iniziative che - lo torno a sottolineare - abbiamo salutato positivamente, come la liberalizzazione dei mercati, e per le quali auspichiamo una reale divisione fra i soggetti che operano all'interno della produzione, del trasporto e del mercato finale dell'energia. Crediamo che da queste divisioni si possano ottenere importanti risultati.
Allo stesso modo, insieme a tutte le rappresentanze della piccola impresa, siamo impegnati nell'attività connessa alla promozione della microgenerazione e della cogenerazione diffusa, che possono - come indicato nel nostro documento -


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rappresentare una quota piccola ma pari alla quota d'incremento annuale dei consumi elettrici nel nostro paese.
Pertanto, se la microgenerazione potesse compensare la crescita, l'effetto sarebbe evidente.
Torno sulla questione della dimensione di impresa per sottolineare l'auspicio che, all'interno delle politiche da attuarsi nel contesto del DPEF il sostegno all'innovazione e all'internazionalizzazione delle imprese possa trovare forme di incentivazione connesse proprio all'aggregazione di impresa.
Per quanto riguarda le possibili formule per accrescere la competitività sui mercati internazionali, una strada consiste - ma non sembra aver trovato fortuna nel nostro paese se sono veri i dati che ho citato in premessa - nel favorire le forme di aggregazione di imprese, in particolare nei settori dell'innovazione e dell'internazionalizzazione.
Il settore dell'artigianato ha offerto un esempio evidente, provato e non eventuale, relativo al tema della finanza d'impresa (settore particolarmente delicato). Da molti anni, infatti, il sistema dell'artigianato ha inaugurato una modalità che non ha previsto la fusione fra imprese, bensì forme di mutualità solidaristica attraverso i consorzi fidi. Attraverso la formula dei consorzi fidi, si è potuto affrontare con efficacia il tema del miglioramento delle possibilità di accesso nella finanza d'impresa o nelle microimprese.
Chiediamo altresì che questa modalità possa essere replicata sul fronte dell'innovazione e dell'internazionalizzazione delle imprese, sottolineando che la competizione internazionale ormai - in questo senso ci attendiamo una posizione ferma del Governo in grado di trasporre questa preoccupazione a livello di Unione europea - riguarda non più i paesi, ma i sistemi di regole. Esiste contrapposizione, infatti, tra ambiti nei quali esistono le regole (Unione europea, Stati Uniti d'America, Giappone) e il complesso dei paesi emergenti dove quelle regole mancano.
Ciò determina una concorrenza insostenibile. Pertanto, accanto a politiche di sostegno all'aggregazione d'impresa sui mercati internazionali, oggi, può forse risultare di maggiore efficacia una politica italiana che sappia incidere sulla politica europea per garantire parità di condizioni e di regole.
Passo rapidamente ad un'altra grande questione su cui nutriamo grandi aspettative: la riduzione del cuneo fiscale al fine di aumentare la produttività delle imprese. Auspichiamo che tale riduzione avvenga attraverso formule che consentano a tutte le tipologie di imprese (in particolare, ribadisco, anche le piccole), senza esclusioni, di usufruirne.
Indichiamo due formule, una delle quali è costituita dalla riduzione dell'IRAP, che incide sul costo del lavoro, e l'altra è rappresentata dall'inserimento nella componente di esclusione dell'imponibile anche dei contributi previdenziali del lavoro autonomo. Voglio ricordare che, diversamente, una riduzione dell'IRAP sul costo del lavoro premierebbe per il 75 per cento - i dati sono dell'Agenzia delle entrate - le società di capitali, scarsamente presenti nell'universo di piccole imprese che prima ho citato.
Chiediamo, dunque, che una manovra di questo tipo tenga conto della necessità di un'effettiva distribuzione della riduzione del costo del lavoro su tutte le imprese.
In particolare, l'artigianato ha una partita aperta, relativa alle tariffe INAIL, cui ci saremmo aspettati si facesse cenno. Questa può essere una componente sicuramente perequativa in una riduzione del costo del lavoro per il settore dell'artigianato, che versa all'INAIL tariffe e premi tali da generare non più una copertura dei rischi, ma una vera tassa impropria. Ogni anno, da un quinquennio, infatti, si generano - questo è il dato del 2005 - 1,5 miliardi di euro di eccedenza fra i premi versati e le prestazioni complessivamente erogate dall'INAIL verso il settore artigiano, sia per effetto delle ridotte rischiosità e sinistrosità, sia anche per il forte squilibrio tra tariffe e premi INAIL a danno del nostro settore.


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Chiediamo che una riduzione del cuneo fiscale nel settore dell'artigianato tenga conto di questo aspetto che, peraltro, rappresenta una previsione legislativa - finora inattuata - contenuta nella legge finanziaria 2006.
Accenniamo rapidamente alla questione del Mezzogiorno, con riferimento alla quale vantiamo, per quanto riguarda le politiche nei confronti di tale importante parte del paese, il ruolo di protagonista assoluta della piccola impresa. I numeri che ho ricordato in premessa si accentuano, se riferiti al solo Mezzogiorno. Chiediamo quindi che, accanto a politiche - definite nel DPEF e da noi condivise - relative alla fiscalità di vantaggio, possano essere attuate anche politiche di effettivo contrasto ai fenomeni dell'evasione fiscale.
A questo proposito, già in altra sede, in merito al decreto Bersani, abbiamo espresso le nostre preoccupazioni, laddove, invece, l'amministrazione finanziaria sembrerebbe voler reintrodurre l'elenco clienti e fornitori, la trasmissione dei corrispettivi, sistemi che esasperano i controlli, rinunciando invece a modalità di controllo ambientali dalle quali potrebbe derivare l'unico, reale contrasto all'evasione totale.

PRESIDENTE. Grazie. Lei ha riassunto in questo documento le posizioni di Confartigianato, CNA e Casartigiani. Presumo quindi che si possa procedere, salvo naturalmente eventuali integrazioni, con l'audizione dei rappresentanti di CNA.

DANIELE VACCARINO, Vicepresidente vicario della CNA. Come avete constatato, la tendenza del mondo dell'artigianato è quella di giungere sempre più frequentemente a documenti unitari. Ritengo che questo sia un modo di favorire anche il vostro lavoro.
Intendiamo sollevare una questione, che deriva da una lettura del capitolo «Dimensione e internazionalizzazione delle imprese» (pag. 99), in cui ci sembra di intravedere un'affermazione un po' bizzarra nel punto in cui si sostiene che la politica economica, finora, ha favorito le piccole imprese con misure di carattere fiscale, amministrativo e finanziario. Riteniamo che si tratti di un'affermazione un po' forte, perché, indubbiamente, alcuni aspetti hanno talvolta favorito le piccole imprese ma non nella forma incisiva qui evidenziata.
Ciò sembrerebbe - a voler ulteriormente drammatizzare - alludere al fatto che il grande male dell'Italia derivi dall'esclusiva esistenza delle piccole imprese. Vorrei ricordare che, invece, l'elemento che nuoce all'Italia è la mancanza di grandi imprese e che questo è un dato molto negativo. Il fatto che esistano le piccole imprese non è certo un valore in assoluto positivo - e anche noi abbiamo elencato gli aspetti negativi che ciò comporta -, ma ha condotto negli anni a favorevoli esiti di occupazione e di sviluppo che sono stati già ricordati e sui quali non voglio ulteriormente dilungarmi.
Rimanderei, pertanto, ad un'attenta lettura del nostro documento, in particolare rispetto al titolo «Internazionalizzazione dell'impresa», dove, a pagina 7, crediamo di avere riassunto nella maniera più corretta gli impulsi che servono alla piccola impresa per potersi sviluppare. Bisogna prioritariamente ricordare che il fenomeno della piccola impresa è un fenomeno culturale in Italia, non un aspetto di cui la legge possa stabilire un aumento o una diminuzione. Esiste una storia - che qui ovviamente non intendo citare - che difficilmente si riesce a sviluppare in ambito legislativo.
Anche la legislazione passata ha dimostrato, attraverso la proposta riguardante la fusione delle imprese, quanto sia stato difficile percorrere questa strada. Altre vie - già citate - sono più utili: quella dei consorzi, dell'integrazione, della possibilità delle imprese di unirsi, mantenendo però fortemente il proprio valore. Personalmente, sono un imprenditore e ci tengo alla mia impresa. Anche lavorando insieme ad altri, vorrei che il valore della mia impresa potesse crescere.
Un altro capitolo, al quale vorrei far cenno riguarda l'imprenditoria femminile. Questo ambito si sta evolvendo rapidamente in Italia, così come nel resto d'Europa,


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ma non con la stessa decisa caratterizzazione. Esso presenta delle problematiche che sicuramente vanno oltre quelle della piccola impresa e necessita di alcuni interventi quali il rifinanziamento delle leggi nn. 215 e 125 che, a nostro parere, sono estremamente importanti.
Aggiungerei ancora un elemento alla vostra riflessione. Nel documento non abbiamo trovato traccia del valore degli studi di settore. Riteniamo, invece, che questo fattore sia da valorizzare, perché nel tempo è servito a creare un miglioramento del rapporto tra fisco e contribuenti, che rappresenta la strada che tutti intendiamo percorrere. Grazie.

PRESIDENTE. Grazie anche per il contributo sintetico che avete cercato di fornirci con il documento che ci avete consegnato. Ne approfitto per dire che anche noi cercheremo di far sì che queste occasioni di riflessione e di audizioni riguardanti il DPEF vengano sottratte ad una sorta di ritualità che nel tempo può giungere a estenuarne il significato. Anche noi ci stiamo ponendo il problema di come vivacizzare e ottimizzare questi momenti, nell'intento comune di rendere significativi i documenti (esito delle considerazioni migliori che ci vengono offerte).
Do ora la parola al direttore generale della Confapi, Sandro Naccarelli.

SANDRO NACCARELLI, Direttore generale della Confapi. Questo appuntamento è ormai diventato una costante nei rapporti della nostra organizzazione con le istituzioni. Ci sembra particolarmente importante, perché il documento di programmazione economica e finanziaria prospetta una serie di interventi di legislatura, quindi, per una durata maggiore di quelli che eravamo abituati a valutare nelle passate sessioni.
Esprimiamo un parere favorevole al riguardo, coerente con quello espresso una settimana fa sul provvedimento Bersani. Riteniamo, infatti, che questo documento di programmazione economica e finanziaria tracci la strada per intervenire in modo concreto sulle grandi questioni che abbiamo di fronte. Proprio per offrire una effettiva dimostrazione di apprezzamento per il lavoro svolto, stiamo predisponendo un documento completo, che riguarda la totalità delle questioni affrontate nel DPEF. Ve ne forniremo copia nei prossimi giorni, per rispetto verso il lavoro del Parlamento e per dare, in vista della finanziaria, un quadro completo delle opinioni e delle proposte della Confapi su tutti gli argomenti.
Noi rappresentiamo la piccola e media azienda industriale: molti dei problemi che la riguardano e che noi riteniamo strategici possono essere affrontati in questo contesto.
I senatori e i deputati constateranno, leggendo il nostro documento, che con il Governo condividiamo la visione circa le problematiche riguardanti la dimensione d'impresa. Abbiamo sempre sottolineato al Parlamento e ai Governi che hanno preceduto l'attuale che, nel momento in cui la globalizzazione ha cominciato ad irradiare i suoi effetti, la dimensione di impresa di questo paese si è rivelata inefficace ad affrontare le questioni più strategiche. Da anni sosteniamo che in questo paese si è creata una legislazione che spinge le aziende a mantenere la piccola dimensione.
Abbiamo fornito a tutti i Presidenti del Consiglio che si sono succeduti un elenco di 29 provvedimenti (tra leggi e atti amministrativi) superando i quali si perdono le agevolazioni. Se si vuole affrontare il problema della competitività di questo paese senza criminalizzare le piccole imprese, che stanno facendo tutto quello che possono, se si vogliono affrontare le questioni della globalizzazione, della mondializzazione, della ricerca, dello sviluppo e dell'innovazione tecnologica, bisogna ammettere che la dimensione media delle imprese di questo paese è assolutamente inadeguata.
Lo dimostra il fatto che la crescita del PIL corrisponde sempre alla metà di quella dei nostri concorrenti europei (per non parlare di quelli extra europei) e che


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il contributo della bilancia commerciale all'estero è sempre costantemente negativo.
Continuiamo a perdere quote di mercato rispetto ai mercati internazionali e l'industria italiana non riesce a fornire prodotti competitivi. La domanda interna viene soddisfatta prevalentemente con le importazioni di prodotti fabbricati all'estero. Questo è un elemento strategico: se non si riesce a rompere questo distorto meccanismo, continueremo ad avere un tasso di competitività basso, perderemo quote di mercato, non parteciperemo alla crescita dell'economia mondiale e perderemo ulteriori quote all'interno del commercio internazionale.
Quindi, riteniamo che questo documento di programmazione economica e finanziaria ponga giustamente l'accento sulla dimensione di impresa, che va aiutata a crescere. Anzi, mi permetto di dire che, tra le molte questioni individuate come ostacoli alla crescita, non si è mai fatto cenno alla riforma della legislazione del lavoro. Si tratta invece, dal nostro punto di vista, di una riforma a costo zero, che avrebbe sicuramente capacità dinamiche per accrescere la dimensione d'impresa, che ora è artificialmente limitata per non incappare in normative del lavoro particolarmente onerose.
Come quadro strategico, siamo pienamente d'accordo che qualunque operazione di aggressione dell'evasione o anche dell'elusione non sia adeguata e sufficiente per raggiungere il livello che ci impone Maastricht, ossia, il rispetto dei parametri a partire dal 2007.
Sarà necessario - su questo siamo d'accordo - affrontare le quattro tematiche che qui vengono chiaramente individuate: i grandi comparti di spesa da cui deriva la maggior parte del nostro deficit.
Esporremo più in dettaglio le nostre opinioni e i nostri contributi nel documento. Desidero, comunque, evidenziare fin d'ora che il quadro tratteggiato nel DPEF è a medio termine, nel senso che l'accento viene posto sugli interventi nei grandi capitoli di spesa, che si riferiscono non tanto a tagli quanto ad una capacità di riorganizzazione in senso lato della macchina complessiva e burocratica dello Stato. Questo è un aspetto che sicuramente va affrontato ma che, altrettanto sicuramente, non permetterà, nel 2007, di arrivare ai 20 miliardi di euro di tagli che servono a rispettare i parametri di Maastricht.
Nel documento esprimiamo la nostra preoccupazione e la consapevolezza che la pressione fiscale su coloro che pagano è altissima, molto più alta di quella che viene registrata come pressione fiscale media. L'intervento del decreto-legge Bersani aggredisce l'elusione e, quindi, aumenta la base su cui si calcolano le imposte. Tuttavia la nostra preoccupazione rimane perché, se le operazioni di taglio delle spese presuppongono cambiamenti strategici di organizzazione della macchina dello Stato in senso lato, per il raggiungimento dei parametri di Maastricht non rimane altra via se non quella dell'aumento della pressione fiscale.
Riteniamo che ciò sarebbe un errore - lo diciamo con grande chiarezza - perché, quando si chiede il contributo della classe dirigente di questo paese per la crescita del PIL, unico modo per riequilibrare complessivamente il bilancio dello Stato, ci lascia assai preoccupati e perplessi la contestuale constatazione dell'aggravamento della pressione fiscale sulle aziende attraverso l'aumento della base imponibile e, sui lavoratori in senso lato (come si è sentito più volte citare dalle organizzazioni sindacali), attraverso la soppressione del modulo della seconda riduzione dell'IRPEF.
Il messaggio che intendiamo comunicare al Parlamento è che esiste una convinta adesione al quadro che il Governo ci sottopone, ma vorremmo essere convinti che il taglio delle spese venga perseguito con la stessa determinazione con cui vengono giustamente perseguite l'evasione e l'elusione fiscale in questo paese.
Non entro nel merito delle altre questioni perché rinvio al documento che vi forniremo. L'obiettivo della nostra organizzazione era trasmettervi una valutazione complessiva dello scenario attuale.


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PRESIDENTE. Do ora la parola ai colleghi che intendano porre quesiti o formulare osservazioni.

ANTONIO MISIANI. Mi preme formulare una domanda per tornare sul tema della dimensione delle imprese. È stato sottolineato e ricordato giustamente il ruolo determinante del sistema delle piccole imprese nella produzione di ricchezza e nella creazione di nuova occupazione. Forse, bisognerebbe capire anche quanto sia determinante per le esportazioni di questo paese. Indubbiamente il sistema delle piccole imprese è il vero motore della nostra economia. Non è solo Confindustria, bensì una pluralità di analisi a chiamare in causa la configurazione dimensionale del sistema produttivo italiano con le difficoltà che il nostro sistema economico sta registrando, ormai da parecchi anni, in termini di crescita e di competitività.
Desidero avanzare un dubbio su cui è giusto interrogarsi. Non so, infatti, se, dal punto di vista del mondo delle piccole imprese, sia sufficiente ragionare in una logica di rete di cooperazione e di consorzi per affrontare il nodo delle difficoltà competitive del sistema produttivo italiano o, invece, assumere come prioritario per la definizione degli obiettivi di politiche economiche industriali il tema di favorire la crescita dimensionale delle imprese.
Sicuramente, in questo paese esistono molte imprese che vogliono crescere dal punto di vista dimensionale e dell'occupazione ma trovano rilevanti ostacoli nella legislazione e in vari aspetti del sistema economico italiano. È quindi prioritario il tema dell'obiettivo di una crescita complessiva delle dimensioni di impresa.
In secondo luogo, vorrei sapere da chi rappresenta le piccole imprese, quali siano gli ostacoli da rimuovere e gli strumenti da utilizzare per favorire chi voglia crescere nel nostro sistema produttivo.

LAURA RAVETTO. Vorrei rivolgermi in particolare al direttore generale della Confapi. Prima di tutto vorrei ribadire che condivido assolutamente le osservazioni sulle mancate indicazioni relative ad una riforma del mercato del lavoro, per cui mi riservo di formulare direttamente al ministro, nella prossima audizione, la domanda che ho già rivolto ai sindacati, cioè, come possa ritenersi coerente la parte del DPEF in cui si parla di mobilità, internazionalizzazione e flessibilità, con uno schema di rigidità del lavoro a tempo indeterminato e subordinato e con il concetto di incisivo intervento sulla legge Biagi.
La domanda che vorrei porre al direttore generale è se si attendesse da questo documento qualche indicazione in merito alle azioni da intraprendere, soprattutto in vista di Basilea 2, per il consolidamento finanziario delle piccole e medie imprese nei rapporti con le banche (azioni che noi di Forza Italia riteniamo assolutamente necessarie).

GASPARE GIUDICE. Mi farebbe piacere conoscere il parere delle associazioni che rappresentano la piccola e media impresa in merito alle iniziative da intraprendere per favorire una sempre maggiore emersione dal sommerso, tema importante della politica, in virtù della consapevolezza che, se pagassimo tutti, potremmo tutti pagare meno.
Ritengo, quindi, che l'emersione dal sommerso rappresenti un tema prioritario nell'azione di Governo.

PRESIDENTE. Aggiungerei anch'io qualche quesito. Innanzitutto, pongo una domanda che definirei laterale, che mi viene dalla considerazione iniziale del dottor Fumagalli circa la performance in materia occupazionale di tutta la realtà delle piccole imprese, delle imprese artigiane, delle medie imprese, che avrebbero realizzato, in un arco di anni significativo, risultati in termini di crescita occupazionale molto più consistenti di quelli delle grandi imprese.
Abbiamo affrontato con opinioni molto diverse alcune questioni che ineriscono alla rigidità del mercato del lavoro. In particolare, per quanto attiene alle dimensioni, sopra i quindici dipendenti, si constatano


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fenomeni interessanti che indurrebbero a pensare come, in assenza di elementi di rigidità, almeno da un punto di vista formale, si verifichi una performance che porta ad una lievitazione dell'occupazione.
Vorrei allora conoscere il suo parere circa gli elementi ostativi - se così si possono definire - di carattere legislativo in relazione alle dinamiche occupazionali.
La seconda questione che intendo sollevare riguarda il tema dei nuovi prodotti e dei nuovi mercati. Anche in relazione alla dimensione delle imprese che voi rappresentate, mi interesserebbe capire in quale ottica siano vissuti.
Desidero sapere se, a vostro avviso, esista nel nostro paese un problema strutturale di nuovi prodotti e di nuovi mercati, o, volendo esprimersi in modo diverso, se il tradizionale made in Italy stia sperimentando, in base alla vostra esperienza, forme di estenuazione preoccupanti, da cui emerge l'esigenza di individuare nuovi segmenti produttivi, oppure se sia sufficiente razionalizzare all'interno quelli già esistenti.
Un'ultima domanda è relativa al tema della dimensione delle imprese, tanto analizzato negli interventi che si sono succeduti, e definito anche di carattere culturale.
Condivido l'esigenza nel nostro paese di avere imprese di dimensioni medio-grandi, perché ne abbiamo poche, e, come ben sapete, questo rappresenta un problema che si riflette anche sulle piccole imprese. Le medie e grandi imprese, però, non nascono dal nulla. Si tratta di capire quale sia il rapporto tra le piccole, le medie e le grandi imprese, considerando che, in natura, prima di essere grandi, si è piccoli.
In economia non accade necessariamente questo. Il problema - credo siate d'accordo - consiste nel non rimanere nani, perché un conto è essere piccoli, il che presuppone una crescita, un conto è essere nani, il che significa rimanere tali.
Per quanto riguarda il tema della dimensione dell'impresa, vorrei capire, in base alla vostra esperienza, cosa stia accadendo. Vi chiedo se esistano freni derivanti solo da bardature legislative (nella vostra relazione accennate a problematiche quali il discorso della soglia, per cui invocate un periodo di transizione tra una certa dimensione e una maggiore) o se, invece, esistano problemi più consistenti attinenti anche alla citata dimensione culturale, per cui l'attenzione verso la crescita incontri maggiori difficoltà. Questo è un punto da analizzare non solo in astratto ma anche rispetto a ciò che sta accadendo all'interno della vostra realtà.
Insomma, intendo chiedervi se la via che conduce a una dimensione media o grande sia accidentata e difficile o impossibile e se possa arrivare da qui la soluzione verso la media e la grande impresa o sia invece necessario pensare ad altri sbocchi.

RAFFAELE TECCE. Il presidente Duilio ha affrontato il tema che anch'io avrei voluto approfondire, riguardante il contributo dell'artigianato e della piccola impresa al connubio tra risanamento e sviluppo. Siamo ovviamente interessati allo sviluppo che può derivare dalle vostre imprese.
Proprio nella parte che riguarda le dimensioni di impresa, affermate l'utilità di intervenire sul doppio binario, quello fiscale e quello di eventuali interventi legislativi per favorire l'associazionismo. Resto fedele alla vecchia idea che la piccola impresa artigianale debba poter rimanere piccola se lo preferisce, ma godere di un sistema di servizi pubblici tali che le permettano di competere con la piccola, la media e la grande impresa.
Mentre ritengo molto interessante il secondo aspetto, quello legato ad interventi legislativi (fare consorzi che, però, partano dal valore della singola impresa artigiana), ho qualche dubbio sull'aspetto fiscale e vorrei che mi fosse chiarito.

PRESIDENTE. Do ora la parola al dottor Fumagalli per la replica.

CESARE FUMAGALLI, Segretario generale della Confartigianato. Ringrazio per le questioni poste.


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Circa la dimensione d'impresa, vorrei evitare possibili strumentalizzazioni. Non siamo interessati a politiche che costringano a rimanere piccoli. Lo ribadisco perché, di contro, sembrerebbe possibile attribuirci qualche connotazione di questo tipo. Le piccole imprese vivono meglio nel sistema economico, basti l'esempio dei distretti produttivi per i quali si evidenzia l'altalenante attenzione (fortunatamente non le condizioni effettive sul campo) che il soggetto pubblico nel tempo ha dimostrato, sebbene il distretto rappresenti una formula per cui quasi sempre le dimensioni d'impresa si sono riunite in un rapporto virtuoso.
Ciò mi consente di aggiungere che c'è una quota diretta sull'export pari al 15 per cento circa ma, soprattutto, che l'esito dell'esportazione nel nostro paese dipende da una catena che, a monte, si basa in gran parte sul lavoro delle piccole imprese.
Torno sulla questione del ruolo reciproco di grande, media e piccola impresa, per affermare che temiamo - ho cercato forse inadeguatamente di evidenziare ciò - il caso di provvedimenti ipotizzabili, a partire dal costo del lavoro, che finiscano per essere interventi premiali verso la ridotta quantità di imprese di maggiori dimensioni. Provo ad esplicitare quanto detto con un esempio che riguarda la riduzione dell'IRAP, della quale nella passata legislatura si è discusso a più riprese.
Laddove, come è noto, l'IRAP va a incidere su tre componenti (costo del lavoro, interessi e utile d'impresa), analizzare la sola questione del costo del lavoro significa operare una scelta precisa a favore di una dimensione di impresa.
Uno studio della Confcommercio dello scorso anno aveva evidenziato come una riduzione dell'IRAP sul costo del lavoro finisse per concentrarsi, per quasi la metà del suo valore, su 700 aziende. Ebbene, se la riduzione dell'IRAP interessasse altri aspetti, quali l'utile d'impresa - ma non è mia intenzione scatenare una battaglia tra soggetti che operano nello stesso ambito economico -, oltre il 60 per cento delle società di capitali (i dati sono dell'Agenzia delle entrate) dichiararebbe reddito nullo o negativo.
Siamo interessati, dunque, a provvedimenti che evitino di risolvere la questione della crescita dimensionale delle imprese con il risultato strumentale di alleggerire i costi a favore di pochi, privando la maggioranza delle imprese - non sto a ripetere i numeri, ma siamo su percentuali altissime - di qualunque impulso a migliorare la propria condizione nei mercati nazionale ed internazionale. Tale iniziativa a favore di pochi soggetti impegnati in aziende di numero esiguo che ne godrebbero direttamente, provocherebbe un ulteriore squilibrio nel settore.
Permettetemi una sottolineatura: tra i soggetti di grande dimensione si annoverano, ovviamente, gran parte di quelli che, fino a non molti anni fa, erano monopolisti pubblici. Oggi questi si presentano sotto forma di poche grandi imprese e sono titolari di quei settori nei quali lamentiamo maggiormente la mancanza di concorrenza e il conseguente danno sul sistema generalizzato delle piccole imprese.
Vengo alle annotazioni del presidente Duilio, relativamente alla questione dei nuovi prodotti, dei nuovi mercati e a cosa effettivamente accade al loro interno. Non mancano segnali confortanti sotto questo profilo. Forse, il settore che ha subito l'ondata di globalizzazione in modo più terribile (con la scomparsa di molte aziende) è quello del tessile. Il comparto del TAC ha sicuramente conosciuto un tremendo impatto causato dall'arrivo di nuovi soggetti in mercati tradizionalmente nostri. Esistono, fortunatamente, segnali positivi sotto il profilo della riorganizzazione delle aziende, dei prodotti e dei nuovi mercati.
Non voglio tediarvi, ma stiamo seguendo un grosso progetto sulla riconversione dei filati dell'ipoallergenico, settore nel quale l'Italia sta assumendo una posizione di rilievo nei mercati internazionali che, qualche anno fa, non aveva. Per quanto riguarda i filati dell'oro, esiste una virtuosa alleanza tra CNR, piccole imprese


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artigiane e grande impresa (rappresentata dal leader mondiale, Uno A Erre) proprio nel settore che concerne ricerca e innovazione sulla filatura tessile, dal filo di oro alla creazione di gioielli tessili in oro, alla commercializzazione sui mercati internazionali realizzata da questo leader mondiale.
Da questo punto di vista, non mi sono limitato a citare una teoria di possibili virtuosità di nuovi prodotti, di nuovi mercati e di alleanze, ma esempi fortunatamente concreti, che inducono ad affermare che, se le piccole aziende sono riuscite a creare maggiore occupazione, in quanto più libere e più flessibili, ciò è analizzabile sotto diversi profili.
Innanzitutto, esiste una storia che non si esaurisce negli ultimi cinque anni, né negli ultimi dieci, né negli ultimi quindici, ma è una storia lunga che, probabilmente, attiene ad un nostro modo d'essere, ad un modo di fare impresa nel nostro paese.
Le imprese derivano da capitalismo di tipo personale e anche le imprese che, nella nostra storia, hanno assunto dimensioni maggiori raramente derivano da forme diverse di capitalismo. La maggior parte si realizza per evoluzione dimensionale, proprio a partire da quel capitalismo personale che è protagonista nella micro e nella piccola impresa.
Quindi, per quanto concerne gli interventi sul mercato del lavoro, abbiamo positivamente salutato le flessibilità introdotte e rilevato nella piccola dimensione di impresa (in particolare nell'artigianato) l'esistenza di un positivo rapporto di lavoro fra il titolare e i suoi collaboratori, che ci consente di realizzare il felice primato del 93,5 per cento di rapporti di lavoro a tempo indeterminato.
In questi casi, infatti, l'obiettivo è quello di mantenere il collaboratore e non quello di ruotarlo più rapidamente possibile, al fine di ottenere la forma più vantaggiosa di fiscalità o di agevolazione contributiva.

PRESIDENTE. Su questo aspetto mi preme sottolineare che si è verificata una performance positiva in termini di crescita occupazionale e che, all'inverso, pur potendo procedere a risoluzioni di rapporti di lavoro, dal momento che non esiste alcuna rigidità, ciò non è comunque avvenuto.
Desideravo sottolineare questo dato, peraltro da lei confermato quando ci ha parlato dell'esistenza di una sorta di fidelizzazione in questo tipo di realtà, che induce a confermare il rapporto, piuttosto che a liberarsi di certe professionalità. È una tipicità propria della piccola e media impresa.
Do ora la parola al dirigente Claudio Giovine, responsabile per l'area economica di Confapi.

CLAUDIO GIOVINE, Dirigente responsabile dell'area economica della Confapi. Affronterò due questioni, la dimensione di impresa, e Basilea 2.
Innanzitutto, ritengo utile partire da un elemento di chiarezza per evitare di leggere anche il dibattito attuale in termini di contrapposizione tra associazioni e promuovendolo, invece, in termini di complementarietà di imprese, che compongono un tutt'uno di ampie dimensioni.
Oggi, vi sono più di 4 milioni di imprese operanti in questo paese, per cui è importante comprenderne la composizione. Noi rappresentiamo imprese manifatturiere. La maggior parte della questione afferente al dibattito odierno rischia di concentrarsi sull'aspetto della produzione, ancor prima che dei servizi (in particolare dei servizi alle persone, che escluderei dalla discussione), nonché sul tema della dimensione ottimale.
Nel settore manifatturiero in senso stretto, nel nostro paese, operano circa cinquecentocinquantamila imprese, delle quali trecentotrentamila sono imprese artigiane, e meno di centocinquantamila sono imprese industriali. Di queste ultime, inoltre, solo millecinquecento hanno più di duecentocinquanta addetti. Questo significa che, all'interno di quelle manifatturiere industriali in senso stretto (non artigiane), sono solo circa centomila ad avere dipendenti. Le aziende con almeno un dipendente, dunque, in questo paese sono


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centomila, fatto salvo il comparto artigiano.
Se ci concentriamo su questo dato, diviene oggettivamente innegabile che l'industria manifatturiera italiana abbia una dimensione media molto bassa, troppo bassa rispetto a quella dei competitor internazionali. Questo, sicuramente, espone il nostro sistema a due elementi di criticità, evidenziati dai recenti cambiamenti che sono intervenuti sul mercato mondiale.
Il primo è costituito dalla capacità di gestire i processi di innovazione e di ricerca. È di tutta evidenza come una dimensione media troppo piccola non aiuti le imprese a sviluppare autonomamente una capacità competitiva sui prodotti e sui processi.
Il secondo elemento di grande criticità emerso riguarda lo sforzo di gestire un mercato che non ha più una dimensione locale, regionale, nazionale ed europea, bensì mondiale. Ricordo che la media delle nostre imprese industriali ha diciannove dipendenti, quindici dei quali lavorano alle macchine, due sono impiegati in amministrazione e due si occupano di tutto. È evidente che all'interno di un'impresa così strutturata si stenta ad operare in un contesto mondiale.
Questa è la riflessione da cui partiamo quando affermiamo che le politiche di sostegno e di sviluppo all'organizzazione delle imprese sono necessarie, ma è evidente che non sono sufficienti quelle mirate all'eliminazione degli elementi di discontinuità nella crescita dimensionale creati da tutta la legislazione di contesto. È stata ricordata quella del lavoro, ma possiamo citare anche i circa trenta provvedimenti - che individuammo e che sono poi cambiati nell'arco del tempo - che introducono delle soglie oltre le quali aumentano gli oneri a carico delle imprese e, quindi, rendono conveniente il mantenimento di una soglia inferiore.
Ciò non basta, perché l'altro elemento che oggi osteggia la crescita è l'evoluzione dei mercati finanziari. È evidente che un'impresa cresce fino al punto in cui l'imprenditore riesce a governarne lo sviluppo con i propri mezzi e con la capacità di controllo organizzativo. Questi due fattori, capitale umano e capitale finanziario, sono gli altri due elementi di grosso ostacolo allo sviluppo dimensionale.
È necessario, pertanto, operare su tutti e tre i versanti: quello della legislazione, quello della finanza, quello dello sviluppo del capitale umano. Ancora oggi il livello culturale della classe dirigente industriale - lo ammettiamo con profonda autocritica - in alcuni casi è assolutamente inadeguato a confrontarsi in un contesto in cui fare impresa è diventato oggettivamente più complesso. Da qui nascono le nostre riflessioni.
Intendo ora trattare solo marginalmente un secondo tema che concerne Basilea, anche se ritengo che invece sia fondamentale per alcuni aspetti che vado ad evidenziare.
Il primo di questi consiste nel fatto che Basilea 2 rappresentava, a nostro parere, una grande occasione, purtroppo persa perché anche nel corso della scorsa legislatura poco o nulla è stato fatto per consentire alle imprese di giungere rafforzate all'incontro con le nuove regole dei mercati finanziari.
Si trattava, in primo luogo, di essere meno dipendenti dal credito bancario e, in secondo luogo, di affrontare il rapporto con la banca con bilanci più trasparenti, con patrimonializzazione aumentata, così da ottenere una valutazione positiva e, dunque, condizioni di credito migliori rispetto alle attuali.
Forse potremmo ancora pensare di attivarci in tal senso, innanzitutto rendendo l'impresa meno dipendente. Sapete bene che l'impresa di cui stiamo parlando oggi ha un forte squilibrio finanziario, è troppo esposta al credito, in particolare al credito bancario a breve termine e necessita di una forte iniezione di denaro, di patrimonializzazione.
In questo ambito bisogna operare su due versanti, il primo dei quali riguarda la fiscalità - il DPEF oggi tratta questo tema rilevante - che deve tornare strumento di crescita e di sviluppo di impresa. La tassazione complessiva sull'impresa deve


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modificarsi per rendere l'impresa stessa più capace di esplicitare e trattenere i risultati della propria attività. Abbiamo bisogno di imprese che riescano a capitalizzarsi innanzitutto attraverso il proprio reddito.
Il secondo versante su cui intervenire è quello dei mercati finanziari. Il sistema finanziario è oggi ancora poco in grado di intervenire e supportare in maniera attiva le imprese della dimensione che qui rappresentiamo. Ciò non solo perché i costi di intervento (con capitali e mezzi delle banche e dei sistemi finanziari) sono ancora troppo elevati, ma perché non esiste un mercato di smobilizzo di queste partecipazioni.
Questo fa sì che ancora oggi non sia possibile l'intervento di sistemi finanziari nelle piccole imprese al fine di sostenerne la crescita. Solo un intervento congiunto sui tre versanti (da un lato, affinché l'impresa possa patrimonializzare e, quindi, ridurre l'apporto dei mezzi di terzi, dall'altro, un meccanismo di fiscalità che consenta alle imprese di far emergere l'utile, quindi, capitale proprio, dall'altro ancora, lo sviluppo di un sistema finanziario in grado di soccorrere l'impresa e poi di smobilitare le partecipazioni sul mercato) consentirà alle imprese italiane di arrivare a un confronto con le banche con bilanci più leggibili, più chiari, più sostenibili e di ottenere da Basilea 2 vantaggi e non danni, come rischiamo accada in questo momento.

DANIELE VACCARINO, Vicepresidente vicario della CNA. Vorrei rispondere a un paio di domande alle quali non è ancora stata data risposta. Il senatore Tecce, ad esempio, poneva un problema rispetto alla fiscalità. Ritengo che il legislatore debba compiere uno sforzo di profonda comprensione del tipo di impresa italiana, perché bisogna intervenire in modo differenziato rispetto ai vari settori.
Sono totalmente d'accordo con quanto affermato dal rappresentante della Confapi, però, aggiungo che per alcuni nostri settori d'impresa (ad esempio per internazionalizzare) è fondamentale mantenere comunque piccole dimensioni all'interno di un sistema grande. Riflettiamo sui settori dell'enogastronomia e dell'agroalimentare, per i quali andare su terreni industriali rischia di impoverire quella grande capacità di produzione qualitativa che è fondamentale e presente all'interno del settore artigianato. Per le imprese metalmeccaniche non è così, perché magari hanno bisogno di intervenire in maniera diversa. È allora auspicabile un premio di fiscalità che faccia emergere la convenienza fiscale - sottolineo il termine convenienza - di cui possono godere due imprese unendosi.
Questo è il processo che chiediamo venga avviato, se vogliamo evitare che quella natura - cui lei prima accennava - culturale e un po' individualista, tipica della nostra nazione, rischi di invalidare ogni forma di cambiamento.
Come già all'inizio del mio intervento, desidero sottolineare che non vorremmo che la discussione sul DPEF identificasse nelle piccole imprese il grande male italiano.

SERGIO SILVESTRINI, Direttore divisione economica e sociale della CNA. Se avrete tempo di leggere attentamente il nostro documento, troverete evidenziate - cito a memoria - cinque misure che tendono all'emersione dal sommerso, con la premessa che noi, come sistema delle piccole imprese, subiamo il lavoro nero irregolare e non ne siamo affatto protagonisti.
Ribadisco questo aspetto telegraficamente, cogliendo però l'occasione per evidenziarlo nuovamente perché spesso si assiste a un atteggiamento un po' obliquo al riguardo.
In primo luogo, raccomandiamo il credito di imposta, soprattutto per il Mezzogiorno nell'ambito delle nuove assunzioni. Si tratta di un provvedimento costoso, ma che negli anni precedenti ha favorito un'emersione - definita genericamente buona - di medio e di lungo periodo.
In secondo luogo, proponiamo una decontribuzione del secondo livello di contrattazione. Abbiamo un modello contrattuale


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per cui stipuliamo contratti a livello regionale. Oggi possiamo decontribuire parzialmente questo secondo livello, per cui chiediamo un aumento di questa capacità di decontribuzione.
Proponiamo, altresì, la defiscalizzazione di parte del lavoro straordinario. Il lavoro straordinario è quel lavoro che, proprio per un'obiettiva convergenza di interessi tra lavoratore dipendente e datore di lavoro, tende a scomparire rispetto al reddito. Incentivare l'emersione di questo lavoro straordinario rappresenta un beneficio per le casse dello Stato in quanto datori di lavoro e dipendenti sono indotti a dichiarare il lavoro reale che viene svolto in impresa.
Suggeriamo anche una strutturalità - non solo una reiterazione - del provvedimento relativo al 36 per cento di sgravio e all'IVA al 10 per cento (non al 20), in base ai quali si sono ottenuti e si otterranno risultati straordinari di reale contrasto al lavoro nero nell'edilizia (oggi, come sapete, abbiamo il 36 per cento di sgravio e il 20 per cento di IVA).
Quest'ultima percentuale è una componente che deprime l'incentivo per il cittadino e per l'impresa a fare emergere tutte le lavorazioni di filiera. Rimane prioritario in ogni caso - la cito da ultimo ma è una questione fondamentale - che qualsiasi politica di bilancio affronti il nodo del lavoro nero e irregolare, che nel settore manifatturiero si aggira intorno al 15 per cento (ma che si verifica nel settore dei servizi quasi per l'85 per cento).
Vi sono coinvolte figure professionali, cittadini, lavoratori dipendenti, microimprese: è un sistema aggregato e complesso che, qualora Governo e Parlamento non riuscissero ad affrontare adeguatamente anche con il nostro aiuto, indurrebbe tutte le politiche di bilancio a colpire la spesa pubblica, o ad aumentare il prelievo fiscale.
Né l'una né l'altra sono vie semplici. Dovremmo lavorare insieme al Parlamento per trovare altre misure che facciano emergere un reddito che consenta alla struttura di investire e di tenere sotto controllo il prelievo fiscale.

PRESIDENTE. Si conferma, peraltro, con i tempi che corrono, la necessità di misure che determinino come riflesso l'aumento della spesa, piuttosto che non effetti fiscali di un certo tipo. Del resto, su questa questione bisognerà fare una riflessione a tutto tondo: esiste infatti anche il problema di cosa accade, ad emersione avvenuta. Chi, ad esempio, confeziona le scarpe in un sottoscala di Napoli avrà probabilmente bisogno di trovare un posto dove andare ad esercitare, fatto che implica un dialogo con gli enti locali. Esiste una serie di questioni notevoli che riguardano il sommerso, fenomeno che, tuttavia, in qualche modo, dobbiamo affrontare.
Spero che anche in Parlamento, nella sede propria, si possa realizzare un approfondimento a tutto tondo su tale questione, che rappresenta una caratteristica del nostro paese.
Ringrazio per il loro contributo i rappresentanti di Confartigianato, CNA, Casartigiani e Confapi e dichiaro conclusa l'audizione.

Audizione di rappresentanti della Confcooperative, della Lega delle Cooperative e dell'UNCI.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'attività conoscitiva preliminare all'esame del Documento di programmazione economico-finanziaria per gli anni 2007-2011, ai sensi dell'articolo 118-bis, comma 3, del regolamento della Camera e dell'articolo 125-bis del regolamento del Senato) l'audizione di rappresentanti della Confcooperative, della Lega delle Cooperative e dell'UNCI.
Sono presenti il dottor Vincenzo Mannino, segretario generale della Confcooperative, accompagnato dall'avvocato Belli e dalla dottoressa Frezza. La Lega della Cooperative è rappresentata dal dottor Poletti, accompagnato dal dottor Gori e dal dottor Busacca, l'UNCI è rappresentato dalla dottoressa Agostini, accompagnata dalla dottoressa Pentassuglia.
Do la parola al segretario generale della Confcooperative, dottor Vincenzo Mannino.


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VINCENZO MANNINO, Segretario generale della Confcooperative. Ringrazio le Commissioni riunite per l'audizione, una prassi certamente preziosa, che forse dovremmo cercare di migliorare e rendere più produttiva in futuro.
Il DPEF è orientato su indirizzi politici e rinvia esplicitamente all'elaborazione del disegno di legge finanziaria l'articolazione in concreto delle misure. Mi atterrò a questo metodo, cercando di dedicare un intervento breve ad affermazioni di indirizzo, senza scendere in dettagli che sono da trattarsi, più appropriatamente, in un diverso momento.
Ritengo che possa essere utile, anche per la Commissione, conoscere la concreta situazione economico-sociale nella quale si collocano le diverse realtà del paese.
La cooperazione viene da alcuni anni di grande crescita, avendo sfruttato il fattore anticiclico che la contraddistingue. Negli ultimi quattro anni - cito quest'unico indicatore per brevità - l'occupazione nelle cooperative italiane è cresciuta del 20 per cento. Sono i dati della gestione lavoratori dipendenti dell'INPS, quindi è una crescita del 20 per cento di quella che taluni chiamano la «buona occupazione», al netto dell'apporto di altre figure contrattuali.
Siamo, però, in un momento delicato. Molte imprese cooperative producono per il mercato dei consumi finali e sono affaticate da anni di consumi fiacchi; quelle che hanno come clienti le pubbliche amministrazioni e gli enti locali sono spesso condotte sull'orlo del collasso dai ritardi nei pagamenti da parte della pubblica amministrazione.
In generale, avvertiamo il rischio di esaurimento di questa fase anticiclica e l'inizio di una fase più preoccupante, qualora le cooperative non riuscissero a cogliere il vento di una ripresa della crescita con una certa consistenza.
Il documento di programmazione economico-finanziaria indica, come obiettivo programmatico massimo del tasso di crescita, l'1,7 per cento. Stupisce che sia stato indicato come obiettivo massimo, alla fine del periodo, un tasso tutto sommato contenuto. È una scelta di realismo, derivante anche dalla necessità di rappresentare la nostra situazione alle autorità comunitarie in termini cauti ma, forse, comporta anche che il paese si organizza per accettare la stabile prospettiva di una crescita piuttosto modesta.
Penso che ciò vada colto come un invito a percorrere con determinazione e con coraggio la strada che richiede una grande e profonda modernizzazione competitiva dell'Italia, per raggiungere livelli di crescita più consistenti, di cui avremmo bisogno. Il documento indica con chiarezza che una riduzione della spesa pubblica non può ignorare le macrovoci che la compongono.
Trovo che questo sia un atto di onestà intellettuale, di schiettezza nei rapporti con le parti sociali, con l'opinione pubblica, con gli elettori. Non ci si può illudere di contenere significativamente la spesa pubblica lavorando su voci marginali. È importante, allora, non dare un mero segnale di ridimensionamento su alcune di queste macrovoci, ma piuttosto dare al Paese un segnale comprensibile di riorganizzazione.
Non esiste soltanto - mi limito ad esempi indicativi in questa sede - la previdenza obbligatoria, ma c'è anche la possibilità di accelerare e sostenere la crescita della previdenza complementare. Non esiste soltanto la necessità di mettere più utilmente sotto controllo la spesa sanitaria del sistema pubblico, ma esiste anche la possibilità di puntare, con più determinazione, sul welfare di comunità, sul welfare di sussidiarietà, sulla mutualità volontaria, sulla medicina sul territorio.
Qualche accenno è contenuto nel DPEF - per esempio quando si parla di assistenza domiciliare o di disciplina dei badanti -, ma sono strade che possono essere affrontate con maggiore determinazione e maggiore impegno utilizzando il prezioso giacimento di esperienze realizzato, in questi decenni, dalla cooperazione sociale nel nostro paese.
Noi intendiamo aggiungere il nostro incoraggiamento all'impegno in una lotta efficace all'evasione fiscale e contributiva.


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Siamo convinti che un Governo e una maggioranza che si impegnassero, dall'inizio della legislatura, senza esitazioni, in un'azione priva di riserve e di dubbi contro l'evasione fiscale e contributiva in quelle che normalmente vengono chiamate scelte impopolari, in realtà, al termine della legislatura ne riscuoterebbero anche il dividendo politico.
In questo ambito, siamo anche convinti che non debba essere lasciato cadere il tema dell'armonizzazione della tassazione sulle cosiddette rendite finanziarie. È un'espressione già di per sé un po' ambigua, perché mette sotto lo stesso termine guadagni di grandi operatori finanziari, anche speculativi, e la situazione del piccolo risparmiatore che cerca in qualche modo di mantenere il valore reale dei suoi risparmi. È bene, però, che qualcosa si faccia ed è bene non trascurare il fatto che, in questo paese nel quale per tanti anni la crescita complessiva è stata modestissima - con una crescita media di un terzo di punto percentuale o poco più -, e nel quale, come il DPEF osserva, fino al primo triennio della scorsa legislatura vi è stata anche un'attenuazione della polarizzazione nella distribuzione dei redditi, non tutti sono cresciuti poco.
Alcune aree di operatori economici hanno avuto crescite importanti e ci sono stati mercati, come quello immobiliare, che hanno avuto un'impetuosa lievitazione dei prezzi. Se lo spirito di un fisco giusto è quello di rivolgersi maggiormente a chi ha sviluppato una maggiore capacità contributiva, certamente ci sono nel nostro paese soggetti che in questi anni hanno visto potenziarsi la loro capacità contributiva più di altri. Questo, in parte, è accaduto nell'ambito della crescita della ricchezza finanziaria.
È ben accolto l'impegno, sollecitato da molti anni, alla riduzione del cuneo fiscale. La riduzione del cuneo fiscale e contributivo non va considerato come un incentivo alla stregua di altri. È la correzione di un handicap strutturale, tante volte denunciato, che da decenni grava sul costo e sulla competitività delle imprese nel nostro paese.
Deve essere, allora, affrontato in quest'ottica, come una correzione strutturale di un handicap alla competitività. Non si può, quindi, intendere per selettività il fare distinzioni fra imprese, fra comparti, nella presunzione che ipotetici settori meno esposti alla concorrenza internazionale siano meno chiamati o sfidati ad un aumento di competitività. È corretto, invece, riferire la selettività al riconoscimento dello sforzo delle realtà che assumono a tempo indeterminato e che danno stabilità e qualità al lavoro.
Intendo svolgere un'osservazione su alcuni punti innovativi che sono contenuti nel DPEF, se pur trattati con brevi accenni, nonostante il documento sia, invece, molto ampio. Per esempio, penso sia la prima volta che si trova, in un documento di un Governo italiano, una sufficiente consapevolezza della necessità di affrontare il problema della crescita dimensionale delle imprese, non solo con qualche incentivo alla crescita, alla concentrazione o alla aggregazione - come in qualche misura si era già iniziato a fare -, ma anche quello della ingombrante stratificazione, nei decenni, di norme e misure svariate che premiano la piccola impresa come tale (e che sceglie o si sente costretta a rimanere tale).
È necessario affrontare lo scongelamento di questo sistema che premia la piccola dimensione ed aprire, con un'opera paziente, il dinamismo dell'apparato normativo, non solo con incentivi apparentemente contraddittori.
Occorre, come si dice nel documento, affrontare risolutamente il tema di ridurre la dipendenza energetica del paese, fare leva di più sulle fonti energetiche rinnovabili e sulle agrienergie e - affrontare, con misure positive, l'obiettivo della concentrazione cooperativa.
Ma questi, che nel DPEF sono accenni - potremmo aggiungerne altri, come il tema del Mezzogiorno o del made in Italy -, talora poche righe, talora un piccolissimo paragrafo, dovrebbero diventare pilastri politici ed essere sostenuti da una forte volontà politica di dare un ruolo strategico ad alcuni di questi temi.


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Questa non è la sede giusta per parlare di concertazione, ma lo è in senso lato, perché sono convinto che non ci sia alcun tema politico che sia sottratto alla responsabilità del Parlamento.
Perciò, concludo auspicando che la concertazione a cui si rinvia per l'elaborazione del disegno di legge finanziaria e come scelta di metodo più ampio, non sia fatta - come è stato già detto nell'incontro sul DPEF a Palazzo Chigi - solo di sedute plenarie, ma anche di riunioni più ristrette, operative, tematiche o settoriali. L'auspicio è che si trovi un punto di equilibrio tra una concertazione troppo ristretta - fatta da un numero eccessivamente basso di realtà, che come tali non sarebbero più rappresentative di un paese nel quale vi è un grande pluralismo di settori, di tipologie imprenditoriali, di soggetti sindacali - e una concertazione di massa.
Occorre individuare un punto di equilibrio che consenta di interloquire, in modo reciprocamente impegnativo, con le realtà associative effettivamente più rappresentative nei diversi settori e capaci di assumersi impegni e non solo chiederli al Governo.

PRESIDENTE. Vedremo se, in futuro, si riuscirà a realizzare il principio in medio stat virtus.
La parola alla Lega della Cooperative.

BRUNO BUSACCA, Responsabile dell'area legislazione e politiche sociali della Lega delle Cooperative. Il presidente Poletti si scusa per non essere presente. Ha delegato chi vi parla ed il collega Gori a rappresentare la Lega delle Cooperative in questa audizione.
Ringrazio il Parlamento per aver voluto ascoltare le riflessioni, le valutazioni, le proposte delle parti sociali. Lasceremo, al termine dell'audizione, un documento scritto. Per questo motivo nel mio intervento andrò ad evidenziare soltanto quei punti che, a nostro parere, sono più rilevanti.
Sugli obiettivi dell'azione di Governo - crescita, risanamento, equità - siamo convinti che sia necessario porre particolare attenzione alla crescita, innanzitutto perché l'Italia viene da troppi anni di ridotta crescita, non solo rispetto al dato storico, ma anche rispetto a quello che è accaduto nel mondo. Non mi riferisco solo alle economie emergenti come la Cina, l'India o al passo degli Stati Uniti, ma anche alla crescita degli altri grandi paesi europei.
Peraltro, come correttamente il DPEF evidenzia nella parte iniziale di analisi, è una crescita, quella italiana, che in realtà ha significato una riduzione poderosa del tasso di produttività e del peso dell'Italia nell'ambito dei commerci mondiali, proprio quando siamo davanti ad un'enorme apertura del commercio mondiale.
Del resto, senza crescita, anche le altre due priorità individuate dal DPEF diventano obiettivi più difficili da perseguire e ancor più difficili mantenendo il necessario consenso sociale. Tutte le energie attivabili devono essere concentrate sull'obiettivo della crescita.
È vero, come correttamente afferma il DPEF, che lo sviluppo non dipende, o dipende solo in parte, dai comportamenti e dalle misure normative o amministrative. In un paese libero e moderno, lo sviluppo dipende dai comportamenti delle parti sociali, dalla fiducia delle imprese, dalla fiducia delle famiglie.
Tuttavia, il Governo può e deve creare le condizioni favorevoli alla crescita, soprattutto rimuovendo gli ostacoli di ordine normativo e amministrativo che inceppano la macchina complessiva del sistema economico italiano, abbattendo i costi del funzionamento della macchina pubblica, recuperando risorse preziose dall'evasione e dall'elusione fiscale e contributiva, promuovendo buone politiche per la realizzazione delle infrastrutture materiali e immateriali.
Sono tutti elementi contenuti nel DPEF e si tratterà, poi, di vedere quale sarà il dettaglio delle politiche che verranno attivate successivamente. Per questo motivo, la Lega delle Cooperative ha dato una valutazione complessivamente positiva del recente decreto-legge n. 223.


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Tuttavia, sui capitoli indicati in quel decreto-legge è necessario andare avanti, con coraggio e con decisione, in direzione della maggiore apertura alla concorrenza di settori come i servizi pubblici locali, le professioni, le reti di distribuzione dell'energia e il commercio dei carburanti. Alcune limitate sperimentazioni dimostrano che si possono recuperare margini importanti a tutela del potere d'acquisto.
Peraltro, attraverso queste formule, non solo si crea un minore costo per i consumatori, ma si creano le condizioni per ampliare il numero delle imprese e dei soggetti che operano, recuperare energie imprenditoriali, creare nuovi posti di lavoro, nonché determinare una maggiore consapevolezza del cittadino consumatore, che lo induca ad incalzare, sotto il profilo della qualità e dei costi, i produttori di servizi.
Facciamo queste considerazioni perché, come movimento cooperativo, abbiamo sperimentato queste azioni come elementi positivi anche per l'organizzazione dell'impresa. Il movimento cooperativo è già presente in alcuni di questi settori ed è pronto a impegnarsi maggiormente, anche attraverso la sperimentazione di forme nuove: ad esempio, aggregazioni societarie in forma cooperativa tra professionisti, aggregazioni in forma cooperativa tra cittadini e utenti.
Sono forme poco presenti nel nostro paese ma che in altri grandi paesi industriali hanno prodotto risultati notevoli. Forse è poco noto, ma i maggiori produttori e distributori di energia elettrica negli Stati Uniti sono una rete di cooperative locali che servono i mercati non da cittadini. Parliamo, dunque, di esperienze realizzate in grandi paesi industriali, non in nazioni marginali.
Per quanto riguarda, in particolare, le politiche per le imprese, è corretto sostenere - come ricordava già il collega Mannino - che il tema più importante è quello relativo alle ridotte dimensioni medie delle imprese italiane. Come correttamente dice il DPEF, la piccola impresa è stata una risorsa, ma le cresciute dimensioni dei mercati, il diverso modo di produrre, con quote crescenti di innovazione, la necessità di stare sui mercati internazionali, richiedono decisi processi di crescita. Ovviamente, i processi di crescita partono dall'impresa, ma richiedono le misure che il collega Mannino indicava e che condividiamo pienamente.
Sotto questo profilo, l'impresa cooperativa, proprio per la sua originale struttura - l'orientamento alla finalità mutualistica, il reinvestimento degli utili, l'indivisibilità delle riserve - presenta non solo dimensioni medie più consistenti della media delle imprese italiane, ma ha anche registrato un tasso di crescita importante.
Segnaliamo, sotto il profilo del modello, una tendenza all'aggregazione in rete, che è tipica del mondo cooperativo, attraverso i consorzi tra cooperative. Un modello che ha determinato non solo la crescita della grande impresa cooperativa, ma la capacità di stare su mercati sempre più complessi anche della piccola e media impresa. Segnaliamo questo punto perché quando parliamo di aumento delle dimensioni d'impresa non pensiamo, necessariamente, alle fusioni e alle incorporazioni. Una certa attenzione andrebbe posta anche al sostegno e alla formazione dell'impresa a rete.
Il tema della produttività del lavoro, sia in riferimento alla crescita delle dimensioni dell'impresa e, quindi, della capacità competitiva, sia in riferimento alla diminuzione del costo del lavoro, è ovviamente un tema fondamentale per i prossimi anni. È necessario procedere con urgenza alla riduzione del cuneo fiscale. Vorremmo segnalare anche la possibilità di intervenire, per quanto riguarda le imprese, sull'IRAP, perlomeno relativamente alla sua incidenza sul costo del lavoro.
È apprezzabile e va perseguito con decisione - è una questione più volte annunciata, nella scorsa legislatura ed anche in quella ancora precedente - il progressivo avvicinamento, per ricondurle a parità, delle diverse aliquote che pesano sulle differenti tipologie di lavoro. Non è solo un problema di garantire maggiore tutela ai lavoratori interessati, ma anche di evitare distorsioni di mercato.


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Il contenimento della spesa pubblica, che è necessario, richiederà non solo una riorganizzazione dei sistemi di controllo, ma anche, vista l'evoluzione del decentramento delle funzioni, effettive forme di federalismo fiscale, in modo che nello stesso soggetto coincidano potere di spesa e responsabilità nell'acquisizione delle risorse.
L'Italia ha bisogno di infrastrutture. Al riguardo, le misure contenute nel recente decreto-legge sono misure-tampone. Si richiede, pertanto, di ripristinare un progetto-paese per le infrastrutture, che inevitabilmente comporterà anche l'allocazione di risorse pubbliche. Non si tratta, dunque, solo di contenere la spesa, ma di contenerla e qualificarla.
Una questione che però intendiamo sollevare, apparentemente in contrasto con la necessità di contenere la spesa - in realtà è in gioco la credibilità della pubblica amministrazione e dell'equilibrio del sistema di imprese - è quella dei ritardi di pagamento della pubblica amministrazione.
In particolare, nel sistema sanitario e nel sistema degli enti locali, i ritardi hanno raggiunto cifre e tempi impressionanti. Abbiamo, in alcune regioni, tempi di ritardo medi di un anno rispetto ai canonici 60-90 giorni.
Tutto ciò distorce la concorrenza. Nel momento in cui si pensa a misure di sostegno per le imprese, è del tutto evidente che la prima misura di sostegno sarebbe pagare tempestivamente i debiti della pubblica amministrazione. Sotto questo profilo il DPEF tace, ma sarebbe opportuno che questo elemento fosse considerato come fondamentale per il sostegno alle imprese.
Per quanto riguarda i temi del contenimento della spesa sanitaria, del mantenimento della spesa previdenziale e delle politiche sociali - obiettivi ovviamente necessari per il paese -, vorremmo aggiungere che la cooperazione, in questo ambito, può dare un contributo prezioso, a partire dalle sperimentazioni già realizzate. Siamo convinti che lo strumento non sia tanto il trasferimento di risorse monetarie, quanto la creazione di reti efficienti di servizi e di estese reti di tutela, affidate principalmente ai soggetti del privato sociale, sia per la non speculatività di questi soggetti, sia per l'esperienza che questi hanno realizzato nel corso degli anni.
Per quanto riguarda il sistema previdenziale, siamo convinti che sia necessario attivare da subito la previdenza integrativa. Il rinvio al 2008, previsto nella normativa vigente, non è accettabile. Lo avevamo contestato quando fu proposto dal ministro Maroni e lo ribadiamo adesso.
In conclusione, riprendiamo anche noi un tema evidenziato dal collega Mannino: il DPEF individua nella concertazione lo strumento fondamentale per la definizione delle misure realizzative. È un buon modello, che peraltro sosteniamo e condividiamo pienamente. Dobbiamo fare tesoro delle esperienze passate.
Alle affermazioni del collega Mannino e alle motivazioni che ha espresso - e che condividiamo - mi permetto di aggiungere una battuta: non è funzionale una concertazione a 50, non è rappresentativa una concertazione a quattro o cinque. Bisogna coinvolgere attivamente nel processo tutte le realtà più rappresentative dei lavoratori e delle diverse tipologie di impresa, quindi trovare un bilanciamento tra le esigenze di efficienza e le esigenze di rappresentatività.
Questo è un tema che, al di là di misurazioni legali della rappresentatività, atterrà al buonsenso e alla responsabilità effettiva del Governo e del Parlamento.

PRESIDENTE. Do la parola alla dottoressa Sara Agostini, segretario generale dell'UNCI.

SARA AGOSTINI, Segretario generale dell'UNCI. Intendiamo esprimere alcune sintetiche considerazioni sul DPEF. Le previsioni fornite dall'Esecutivo nel precedente DPEF si sono rilevate totalmente inadeguate, confermando l'eccessivo deficit italiano in presenza di un livello attuale di avanzo primario tale da non assicurare un percorso di diminuzione del debito.


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In tutte le precedenti consultazioni in materia di DPEF, per l'emanazione delle relative leggi finanziarie, e con particolare riferimento a quella svoltasi lo scorso anno, l'UNCI ha sempre sottolineato questo fenomeno e riteniamo che già nel 2006 si dovesse procedere con la realizzazione di nuovi investimenti, attraverso una manovra finanziaria che fosse pari almeno al 4 per cento del PIL.
Constatiamo che nell'attuale DPEF è contenuta una fotografia più realistica dello stato dei conti pubblici, con una proiezione temporale nell'intero periodo di legislatura, che evidenzia la necessità di intervenire in modo molto deciso. Data la situazione complessiva, però, la legge finanziaria per il 2007 avrebbe, secondo noi, dovuto essere ancora più consistente, superiore al 2,3 per cento del PIL, in modo da agganciare l'economia del paese agli standard di crescita.
Riguardo al ruolo della cooperazione, il secondo rapporto di Unioncamere evidenzia che abbiamo più di 70 mila cooperative in Italia e che, entro l'anno, le cooperative ritengono di creare 103 mila posti di lavoro. È anche vero che il CNEL ha stabilito che le cooperative rappresentano uno strumento di espansione occupazionale per le fasce meno forti del lavoro, capaci quindi di riservare attenzione al bisogno di impiego dei soggetti più deboli.
Inoltre, il Censis ha evidenziato che le cooperative, pur nell'ambito di un sistema economico italiano in affanno, hanno saputo rafforzarsi nel tempo, sotto il profilo della numerosità, della diffusione territoriale, della rilevanza strategica e, malgrado la crisi economica, sono riuscite a crescere più delle altre tipologie d'impresa.
La spiegazione di ciò è da ricercarsi nel ruolo della cooperazione, che è capace di allontanare il paese dal vulnus recessivo. Come l'UNCI ha sempre sostenuto, la cooperazione produce i suoi effetti in modalità anticiclica: quando un sistema capitalistico è in affanno, caratterizzato da scarso dinamismo e in fase di stagnazione, viene surrogato dal sistema cooperativo.
Proprio per questa ragione, dato che nel DPEF si dichiara che l'Esecutivo intende raggiungere obiettivi di crescita, di risanamento e di equità, il volano indispensabile dovrebbe essere, secondo noi, il movimento cooperativo.
Si fa riferimento ad interventi con piani d'azione per le pari opportunità, per l'occupazione giovanile, per la famiglia. Il sistema cooperativo può essere, in questi campi, veramente indispensabile. Facciamo un esempio: gli asili nido, di cui si parla nel DPEF, in forma cooperativa rappresentano veramente un'eccellenza. Lo stesso può essere detto riguardo ai circoli cooperativi familiari o alle cooperative di donne per il loro reinserimento nel mondo del lavoro.
Nell'ambito della ricerca stiamo sperimentando cooperative di ricercatori, in modo da poterli inserire nel mondo del lavoro. È quindi indispensabile che a questo DPEF si accompagni una legge finanziaria che tenga conto dei risultati di eccellenza del movimento cooperativo e, di conseguenza, preveda una serie di misure. Tra queste, la riduzione graduale dell'IRAP, di cui ha parlato il collega della Lega delle Cooperative; l'aumento della dotazione del FonCooper, che è la legge di finanziamento della cooperazione; la realizzazione di una legge di finanziamento ad hoc, oppure l'aumento dell'apporto delle imprese ai fondi mutualistici, in modo che, senza alcun onere aggiuntivo per lo Stato, si possa finanziare la formazione e la ricerca; l'attribuzione di una maggiore quota alla legge n. 127, che lo scorso Esecutivo ha completamente tagliato.
Noi sappiamo di essere un sistema produttivo capace, proprio per la nostra modalità anticiclica, di far fronte alle difficoltà. Dal momento che nel DPEF si parla di crescita e di sviluppo, ma anche di equità, grazie al valore sociale della cooperazione, questo obiettivo può comunque raggiungersi.

PRESIDENTE. Non essendovi altri colleghi che intendono intervenire, ribadisco che saremmo lieti di ricevere i vostri


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contributi, anche per iscritto ed anche in relazione a future iniziative che prenderemo sul tema della crescita, della produttività e della competitività.
Ci piacerebbe conoscere esperienze di avanguardia e di eccellenza del mondo della cooperazione, che abbiano già conseguito dei risultati in termini di valore aggiunto, sia per quanto riguarda l'innovazione dei prodotti, sia per quanto riguarda la razionalizzazione dei processi.
Vi ringrazio e auguro a tutti una buona giornata.
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 12,55.