COMMISSIONI RIUNITE
V (BILANCIO, TESORO E PROGRAMMAZIONE) DELLA CAMERA DEI DEPUTATI E 5a (PROGRAMMAZIONE ECONOMICA, BILANCIO) DEL SENATO DELLA REPUBBLICA

Resoconto stenografico

AUDIZIONE


Seduta pomeridiana di luned́ 17 luglio 2006


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE DELLA V COMMISSIONE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI LINO DUILIO

La seduta comincia alle 14,15.

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata, oltre che attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso, anche mediante la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.

Audizione del Governatore della Banca d'Italia.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'attività conoscitiva preliminare all'esame del Documento di programmazione economico-finanziaria per gli anni 2007-2011, ai sensi dell'articolo 118-bis, comma 3, del regolamento della Camera e dell'articolo 125-bis del regolamento del Senato, l'audizione del Governatore della Banca d'Italia, professor Mario Draghi.
Saluto il professor Draghi, che è accompagnato dal dottor Ignazio Visco e dal dottor Daniele Franco, e lo invito a prendere la parola.

MARIO DRAGHI, Governatore della Banca d'Italia. Ho portato un testo che vorrei fosse distribuito.
Dall'avvio dell'Unione economica e monetaria, nel 1999, la nostra economia è cresciuta ad un tasso medio annuo pari all'1,2 per cento. La dinamica del prodotto è stata sistematicamente più bassa di quella degli altri paesi dell'area dell'euro.
Nel medesimo periodo, l'indebitamento netto e il fabbisogno finanziario sono fortemente aumentati. Dallo scorso anno, il rapporto tra il debito pubblico e il PIL è tornato a salire.
La politica economica deve ora affrontare congiuntamente i problemi della crescita e della finanza pubblica. Essa opera in un contesto in cui la politica monetaria comune assicura la stabilità dei prezzi e la certezza agli operatori economici. Negli ultimi anni i tassi di interesse a breve termine si sono collocati in Italia sui livelli minimi degli ultimi cinquant'anni.
L'onere medio per il debito pubblico è sceso dal 12,5 per cento del 1991 al 6,9 per cento del 1998 al 4,2 per cento del 2005.
Il documento di programmazione economico-finanziaria per gli anni 2007-2011 individua i principali problemi dell'economia e della finanza pubblica e delinea una strategia per affrontarli.
Insieme e interrelati con l'azione di risanamento dei conti, si prevedono interventi per il rilancio dell'economia e il sostegno delle fasce di popolazione in condizioni di disagio. Un'azione di politica economica delle dimensioni indicate richiede interventi su tutte le voci del bilancio pubblico.
È necessario coinvolgere tutti i livelli di Governo e ripensare l'estensione e le modalità dell'intervento pubblico. Vanno intensificati gli sforzi di liberalizzazione dei mercati. La prima tappa del percorso di riequilibrio dei conti pubblici consiste nella realizzazione, nel 2007, di un disavanzo inferiore al 3 per cento del prodotto interno lordo. Il conseguimento di questo risultato, con azioni di natura strutturale,


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riporterà il debito su un sentiero di riduzione e segnalerà ai mercati che la situazione dei conti pubblici è sotto controllo.
Nel 2005 il debito pubblico in rapporto al prodotto interno lordo è tornato a crescere, raggiungendo il 106,4 per cento. Un ulteriore aumento è atteso per l'anno in corso. In assenza di operazioni di riduzione degli attivi patrimoniali e di ristrutturazione del passivo, il rapporto fra il debito pubblico e il prodotto interno lordo avrebbe ripreso a salire già nel 2001.
L'andamento del debito riflette l'evoluzione dei saldi di finanza pubblica. Il fabbisogno finanziario dell'amministrazione pubblica, che alimenta la dinamica del debito, ha registrato un notevole ampliamento. Al netto delle dismissioni immobiliari è passato dal 2,9 per cento del prodotto interno lordo nel 1997 al 4,9 per cento nel 2001, al 5,1 nel 2005.
Se si escludono gli effetti delle misure di natura temporanea, dal 2003 il fabbisogno si colloca intorno al 6 per cento e il corrispondente saldo primario è in negativo.
L'indebitamento netto, calcolato sulla base del criterio della competenza economica, è salito nel 2005 al 4,1 per cento del prodotto interno lordo, ha superato per il terzo anno consecutivo la soglia del 3 per cento fissata dal Trattato di Maastricht. Hanno contribuito a contenerlo misure con effetti transitori per circa mezzo punto di PIL.
L'avanzo primario, che nel 1997 aveva raggiunto il 6,6 per cento del prodotto, è sceso al 3,2 nel 2001 e allo 0,4 nel 2005. Al netto degli effetti delle misure di natura temporanea, risulta nullo dal 2003.
Il peggioramento dei saldi è largamente dovuto alla dinamica della spesa corrente, al netto degli interessi. Tra il 1999 e il 2005, in termini reali, essa è cresciuta in media del 2,4 per cento l'anno.
La componente erogata dalle amministrazioni locali, che comprende le prestazioni sanitarie, è del 4,2 per cento. Nello stesso periodo, come ho già ricordato, il PIL cresceva in media dell'1,2 per cento l'anno.
In questo contesto di spesa in espansione e bassa crescita dell'economia, il processo di riduzione della pressione fiscale, avviato sul finire degli anni novanta, si è sostanzialmente arrestato nel 2003. Il prelievo si è attestato al 41 per cento del PIL, soprattutto nel 2003-2004 si è fatto un ampio ricorso ad entrate di natura temporanea, inclusi i condoni.
Né è la negativa componente ciclica la causa principale del peggioramento dei saldi. Con riferimento al 2005, la Commissione europea stima che l'effetto negativo esercitato dalla congiuntura sull'indebitamento netto sia pari a 0,7 punti percentuali del PIL. Il DPEF valuta l'impatto negativo in 0,8. Il metodo di stima utilizzato in Banca d'Italia, che considera anche la composizione del prodotto, indica effetti anche più contenuti.
Nello scorso mese di giugno, lo stato dei conti pubblici del 2006 è stato oggetto di una ricognizione da parte di una commissione incaricata dal ministro dell'economia e delle finanze. La commissione innalzava al 4,1 per cento del PIL la stima tendenziale del disavanzo per quest'anno, rispetto al 3,8 indicato nella relazione trimestrale di cassa dello scorso aprile. Rilevava, inoltre, la presenza di rischi di inefficacia nella manovra, valutati in circa 0,3 punti percentuali di PIL, ricondotti soprattutto al gettito atteso dalla programmazione fiscale e dalla connessa sanatoria, e ai risparmi di spesa attesi dagli enti decentrati.
La commissione segnalava, infine, la presenza di rischi riconducibili all'attuazione della manovra per il 2006 di entità pari ad almeno 0,2 punti. Questi rischi riguardavano soprattutto i riflessi negativi esercitati sui flussi di investimento dai tagli apportati agli stanziamenti per la realizzazione di opere stradali e ferroviarie.
Il 30 giugno scorso il Consiglio dei ministri ha approvato un decreto-legge che definisce una correzione strutturale del disavanzo, valutata a regime in 0,5 punti percentuali di PIL.
Nell'anno in corso, le risorse reperite, 0,3 punti percentuali, sono destinate a


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finanziare maggiori spese, prevalentemente per opere stradali e ferroviarie, per 0,2 punti, e a ridurre l'indebitamento netto per 0,1.
Larga parte delle risorse proviene da disposizioni in materia tributaria, con finalità antievasive e antielusive.
La realizzazione del gettito atteso da tali norme presenta inevitabilmente margini di incertezza, poiché dipende dalla reazione dei contribuenti. Comporta, in taluni casi, adempimenti più onerosi per intermediari e contribuenti. Si segnala l'abbandono del ricorso al condono come strumento di politica fiscale, con l'abrogazione dell'istituto della programmazione fiscale e della connessa sanatoria.
Alla fine del mese di giugno sono stati acquisiti i dati relativi alle imposte versate in autotassazione. L'andamento è risultato migliore delle attese. Una parte del maggiore gettito è peraltro connessa con le entrate derivanti dall'imposta sostitutiva sulle rivalutazioni dei beni aziendali ed ha, pertanto, carattere transitorio.
Sulla base di questi sviluppi, il DPEF indica, per il 2006, un indebitamento netto pari al 4 per cento del PIL. L'avanzo primario è stimato dello 0,5 per cento. Il documento assume una crescita economica dell'1,5 per cento, di 0,2 punti superiore a quella indicata nella relazione trimestrale di cassa.
Nonostante la manovra di bilancio per il 2006, valutata ufficialmente in 1,4 punti percentuali del prodotto, e l'ulteriore intervento correttivo disposto a fine giugno, l'indebitamento netto resterebbe sostanzialmente sul livello del 2005.
Il rapporto fra il debito e il prodotto aumenterebbe, anche quest'anno, di 1,3 punti percentuali. Si arresterebbe la discesa dell'incidenza della spesa per interessi sul PIL, in atto dal 1994.
Nei primi cinque mesi dell'anno, il fabbisogno delle amministrazioni pubbliche, al netto di regolazioni e dismissioni, è stato pari a 57,3 miliardi, inferiore di 1,2 a quello registrato nell'analogo periodo del 2005. L'andamento appare meno favorevole di quello osservato per il settore statale. Alla fine di maggio, il debito pubblico è stato di 1.573 miliardi, 53 in più dello stesso mese dello scorso anno.
Il DPEF traccia tre linee di intervento da perseguire simultaneamente: il rilancio dello sviluppo economico, il miglioramento delle condizioni di equità e il risanamento dei conti pubblici.
La strategia indicata per promuovere lo sviluppo mira a fornire un quadro di riferimento certo e stabile nel tempo, tale da favorire le scelte di investimento delle imprese e delle famiglie. Il sostegno alla competitività e alla produttività punta su azioni di miglioramento delle infrastrutture materiali e immateriali, su incentivi all'innovazione e alla ricerca, sulla riduzione della componente fiscale dei costi.
Una maggiore concorrenza è ritenuta essenziale per il rilancio produttivo, aumenta l'efficienza del sistema e riduce i costi per i consumatori; abbattendo le rendite di posizione, contribuisce all'equità.
Con il decreto-legge approvato il 30 giugno scorso, sono state definite le prime misure volte ad introdurre e a rafforzare i meccanismi di mercato nella fornitura di alcuni servizi. L'efficacia delle nuove norme dipenderà, in molti casi, dall'applicazione che ne sarà fatta in concreto dalle amministrazioni locali. Occorre proseguire nell'azione intrapresa e rimuovere sistematicamente, in tutti i settori, le restrizioni della concorrenza.
Gli investimenti in ricerca e sviluppo da parte del settore privato trovano un limite nella dotazione di capitale umano e nella dimensione delle imprese. Il DPEF individua nel miglioramento dell'istruzione e nella riforma degli incentivi alle imprese i principali strumenti di intervento.
Occorre cautela nell'utilizzo dei meccanismi di incentivazione. Si deve tener conto che essi implicano un prelievo fiscale aggiuntivo sull'economia, costi di gestione, possibili distorsioni allocative e il rischio di usi impropri.
Su tali basi andrebbe valutata anche l'efficacia dei vigenti programmi di trasferimento alle imprese. Il complesso delle


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erogazioni correnti e in conto capitale a favore delle imprese nel 2005 è stato pari al 2,5 per cento del PIL.
Infine, riconoscendo nel tasso di occupazione un fattore importante del rilancio dell'economia, si programma un intervento di riduzione del cuneo fiscale sull'impiego del lavoro.
La riduzione del cuneo può attenuare le distorsioni del mercato del lavoro; l'effetto complessivo sul sistema economico dipenderà dalla modalità di finanziamento degli sgravi e dai comportamenti degli operatori economici.
Le politiche per l'equità delineate nel DPEF mirano a migliorare i meccanismi di sostegno del reddito dei cittadini in condizioni di disagio economico, a rafforzare le prestazioni dei servizi sociali, a rilanciare la politica abitativa.
Una revisione del sistema di protezione sociale, che sposti risorse dalle prestazioni pensionistiche a quelle assistenziali e ai servizi ai cittadini, può accrescere l'equità del sistema. Laddove l'accesso alle prestazioni sia subordinato alle condizioni economiche dei beneficiari, va affrontato il problema dell'affidabilità degli indicatori utilizzati, in un'economia caratterizzata da significativi fenomeni di sommerso e di evasione.
Sul fronte del risanamento dei conti pubblici, il DPEF individua come prioritario l'obiettivo di riportare l'avanzo primario sui livelli realizzati nell'ultima parte degli anni Novanta.
Alla fine dell'orizzonte temporale del documento, l'avanzo primario raggiungerebbe quasi il 5 per cento del PIL. A partire dal deciso miglioramento previsto nel 2007, l'indebitamento netto diminuirebbe progressivamente, raggiungendo la posizione di sostanziale pareggio nel 2011. Il rapporto fra debito pubblico e PIL, alla fine del periodo, si situerebbe al di sotto del 100 per cento.
Nonostante il miglioramento dei saldi e la riduzione dell'incidenza del debito, la spesa per interessi aumenterebbe dal 4,6 per cento del PIL del 2006 al 5 per cento del 2009, in relazione all'incremento dei tassi previsti a livello internazionale, per restare stabile nel biennio successivo.
La prima tappa del programma di riequilibrio dei conti pubblici è il mantenimento dell'impegno preso l'anno scorso con l'Unione europea di ricondurre, nel 2007, l'incidenza dell'indebitamento netto sul PIL al 2,8 per cento.
Il Consiglio dell'Unione europea del luglio 2005 aveva rilevato l'esistenza della situazione di disavanzo eccessivo e aveva chiesto all'Italia una correzione del disavanzo strutturale di 1,6 punti percentuali del prodotto, da attuare nel biennio 2006-2007. Almeno metà dell'aggiustamento sarebbe dovuta avvenire nel primo anno.
Il DPEF del luglio 2005 programmava il rientro dalla situazione di disavanzo eccessivo entro il 2007. L'indebitamento netto sarebbe dovuto scendere di un punto percentuale del PIL, dal 3,8 allora programmato per il 2006. Data la stima del disavanzo tendenziale, pari al 4,7 per cento del PIL, la correzione richiesta era complessivamente di 1,9 punti del prodotto.
L'indebitamento netto tendenziale per il 2007, indicato nel nuovo DPEF, è pari al 4,1 per cento del PIL. Esso tiene conto della correzione di 0,5 punti derivante dalle misure incluse nel decreto di fine giugno. In assenza di tale intervento, il quadro tendenziale sarebbe rimasto sostanzialmente analogo a quello delineato un anno fa, nonostante la manovra di bilancio per il 2006.
La manovra correttiva ora ritenuta necessaria per portare nel 2007 il disavanzo al 2,8 per cento del PIL ammonta a 1,3 punti, ossia a circa 20 miliardi. Tenendo conto del decreto-legge approvato alla fine di giugno, la correzione è complessivamente pari a 1,8, in linea con quella indicata, alla fine di maggio, nella relazione annuale della Banca d'Italia.
Essa permetterebbe di conseguire, nel biennio 2006-2007, una riduzione dell'indebitamento netto, corretto per gli effetti del ciclo economico e al netto di quelli delle misure transitorie, pari a 1,6 punti percentuali del prodotto, così come richiesto dal Consiglio dell'Unione europea.


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Le politiche di sostegno allo sviluppo e all'equità richiedono risorse finanziarie aggiuntive. Per il 2007, il DPEF programma interventi in tal senso per un punto percentuale di PIL. Nella definizione di questi interventi andranno valutati attentamente anche gli effetti delle misure necessarie al loro finanziamento. Le risorse da reperire complessivamente, nel 2007, sono pertanto pari a 2,3 punti di PIL, cioè circa 35 miliardi.
Per il periodo 2008-2011 il DPEF prevede ulteriori correzioni di natura strutturale dell'ordine di mezzo punto l'anno, come concordato in sede europea. Il documento prevede un impatto restrittivo sull'economia nel 2007. Negli anni successivi, gli effetti delle riforme si rifletterebbero positivamente sull'attività economica.
La correzione complessiva del disavanzo programmata per il periodo 2007-2011 è pari a 3,3 punti del PIL. Il DPEF fornisce solo indicazioni di massima sulla composizione degli interventi e lascia alle leggi finanziarie l'articolazione delle norme specifiche.
L'azione di riequilibrio riguarderà tutti i principali comparti della spesa pubblica: la previdenza, la sanità, le spese di funzionamento delle amministrazioni pubbliche, la finanza decentrata. Se le misure investiranno tutte le componenti del bilancio pubblico, esse potranno rallentare l'aumento tendenziale della spesa, senza incidere sulle più importanti funzioni economiche e sociali dell'intervento pubblico.
Le misure sarebbero finalizzate, in primo luogo, a correggere inefficienze, squilibri e arretratezze degli apparati di spesa. Si tratta di risparmi che andrebbero perseguiti in ogni caso indipendentemente dalle esigenze di risanamento. Una maggiore efficienza consente di migliorare le prestazioni, senza ridurne i livelli.
Sul fronte delle entrate, si perseguono obiettivi di equità, sviluppo e semplificazione. Il DPEF indica come prioritario l'intervento di contrasto all'evasione e all'elusione. Il successo di questa azione consentirebbe, ridistribuendo il carico fiscale su una più ampia platea di contribuenti, di attuare riduzioni delle aliquote del prelievo. Se ne trarrebbero benefici in termini di minori distorsioni sulle decisioni delle famiglie e delle imprese, con un miglioramento dell'efficienza del sistema economico.
Va avviato con decisione un processo di graduale riduzione della pressione fiscale complessiva. Mantenere l'impegno a rientrare dalla situazione di disavanzo eccessivo nei tempi concordati è necessario per arrestare, sin dal 2007, la tendenza all'aumento del rapporto tra il debito e il PIL. In assenza di ulteriori interventi correttivi, la crescita del rapporto proseguirebbe anche nello scenario di ripresa dell'attività produttiva prospettato dal DPEF.
L'arresto della tendenza alla crescita del rapporto tra il debito e il PIL è essenziale per contenere l'incremento dell'onere per interessi. Dato l'andamento dei tassi sui mercati internazionali, sia nel quadro tendenziale, sia in quello programmatico, il DPEF prevede l'interruzione nell'anno in corso e l'inversione, nel 2007, del processo di riduzione degli oneri per interessi in atto da oltre un decennio.
La diminuzione delle risorse assorbite dal servizio del debito potrà derivare, nei prossimi anni, soltanto dal calo del peso del debito. Il differenziale di rendimento tra i nostri titoli decennali e quelli tedeschi, ancora dell'ordine di cinque punti percentuali alla fine del 1995, si era ridotto fino a quattordici punti base alla fine del 1998 e all'inizio del 2005 era ancora pari a quindici punti base; all'inizio del 2006 era di ventidue punti. Successivamente è risalito, raggiungendo trentaquattro punti nello scorso giugno. Attualmente è pari a trenta. Occorre evitare ulteriori incrementi.
Il piano di rientro descritto nel documento va nella giusta direzione, tuttavia presenta alcuni rischi. Sarà necessario intervenire prontamente nel caso in cui questi si materializzino. Va attentamente monitorata la realizzazione degli interventi di correzione del disavanzo, per verificare la correttezza delle previsioni e l'efficacia dei provvedimenti. In passato, anche escludendo gli effetti sui saldi degli errori di previsione della crescita economica,


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i risultati di bilancio si sono rivelati, a consuntivo, frequentemente peggiori di quelli programmati sulla base degli andamenti tendenziali indicati nei DPEF degli anni immediatamente precedenti e delle valutazione ufficiali dell'impatto delle misure correttive.
Lo scostamento è stato significativo: in media circa un punto percentuale del PIL nel quadriennio 2002-2005. In base a nuove stime presentate nel DPEF, nel 2006 lo scostamento sarebbe sostanzialmente analogo.
La valutazione sull'andamento tendenziale delle spese si è spesso rivelata ottimista. Nelle previsioni indicate nei documenti programmatici elaborati dal 1999 al 2005 la crescita tendenziale delle erogazioni primarie correnti era leggermente superiore al 3 per cento medio annuo. I dati consuntivi degli ultimi sette anni, su cui peraltro hanno inciso le manovre correttive, presentano una dinamica di un punto e mezzo percentuale più elevata.
L'attuale DPEF valuta la crescita media tendenziale delle spese primarie correnti al 2,6 per cento annuo. Rispetto agli andamenti osservati in passato sono contenute, soprattutto, le dinamiche dei consumi intermedi delle prestazioni del settore sanitario e dei redditi da lavoro dipendente. Questi ultimi riflettono l'adozione, nella redazione del quadro tendenziale, del criterio della legislazione vigente, che trascura gli effetti di stanziamenti di spesa che, seppur attesi periodicamente, richiedono la formale adozione di provvedimenti legislativi, quali gli oneri derivanti dai rinnovi contrattuali.
Il raggiungimento degli obiettivi programmatici si basa su un forte contenimento delle spese primarie correnti, che nell'ultimo quinquennio sono cresciute del 5 per cento in media ogni anno. Per incidere sulla loro dinamica sono necessarie riforme in grado di innescare cambiamenti nei comportamenti degli utenti e dei centri di spesa, che consentano significativi recuperi di efficienza nella fornitura dei servizi pubblici.
Un'indicazione circa la dimensione dei risultati da ottenere è data dal seguente esercizio contabile. Ipotizzando che solo gli sgravi fiscali e le maggiori spese per investimenti volti al rilancio dell'economia siano finanziati attraverso maggiori entrate e che la correzione netta sia conseguita con un contenimento delle spese primarie correnti, nel 2007 queste ultime dovrebbero diminuire dell'1,3 per cento rispetto al 2006, a fronte di una crescita tendenziale indicata nel 2 per cento.
In mancanza di interventi di contenimento delle prestazioni pensionistiche, il calo delle altre spese correnti primarie dovrebbe essere significativamente maggiore, superiore al 4 per cento. In assenza di risparmi strutturali di spesa, il risanamento richiederebbe, come in passato, ulteriori interventi di inasprimento sul prelievo.
Il conseguimento degli obiettivi fissati per l'indebitamento netto non basta. È necessario controllare con attenzione anche il fabbisogno finanziario delle amministrazioni pubbliche, dal quale dipende la dinamica del debito.
L'andamento del rapporto fra debito e PIL previsto nel DPEF implica un saldo di cassa inferiore a quello di competenza nel 2009-2010. Nel periodo 1999-2005 il fabbisogno, al netto delle dismissioni immobiliari, ha in media superato l'indebitamento netto di 1,1 punti percentuali di PIL all'anno.
Se il divario tra i due indicatori rimanesse quale è stato in media negli ultimi sette anni, e ipotizzando che le dismissioni immobiliari siano nulle, nel 2007 l'incidenza del debito sul PIL salirebbe ancora e tornerebbe a diminuire significativamente solo dal 2009.
Le linee di intervento tracciate nel documento non entrano nello specifico e rimandano ai prossimi mesi una puntuale definizione dei provvedimenti per i principali comparti di spesa.
La spesa per pensioni è pari al 15,4 per cento del prodotto. Costituisce circa il 35 per cento della spesa primaria delle amministrazioni pubbliche. Sebbene i requisiti minimi per il pensionamento siano stati innalzati con le riforme introdotte dall'inizio degli anni novanta, l'età media


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di uscita dalle forze di lavoro è di circa sessanta anni. Le donne e gli uomini di sessanta anni hanno davanti a sé un'aspettativa media di vita rispettivamente pari a venticinque e a ventuno anni.
Il documento presenta una stima dell'impatto esercitato sulla spesa pensionistica dall'evoluzione demografica attesa nei prossimi decenni. L'incremento massimo, rispetto al 2005, pari a 1,2 punti percentuali del PIL, si registrerebbe nel 2038. Le previsioni scontano un andamento favorevole della produttività e dei tassi di attività e disoccupazione, e indicano una notevole flessione del rapporto fra prestazione media e prodotto pro capite. Inoltre, non considerano le prestazioni di carattere assistenziale, su cui potrebbe influire la presenza di ampie fasce di lavoratori con carriere contributive incomplete.
In prospettiva, solo un significativo aumento dell'età media di pensionamento può rendere sostenibile il sistema previdenziale e garantire pensioni di importo adeguato. L'aumento dell'età di pensionamento contribuirebbe ad accrescere il tasso di partecipazione al mercato del lavoro. A interventi volti a contenere la crescita della spesa nei prossimi anni per realizzare gli obiettivi indicati nel DPEF potrebbero associarsi misure volte a completare l'assetto previdenziale definito nel 1995, al fine di assicurarne l'equilibrio finanziario e interventi in favore delle categorie con contribuzioni modeste.
La previdenza complementare potrebbe fornire una parte rilevante del reddito di ampie fasce di cittadini anziani. Nonostante vari interventi normativi, essa svolge ancora un ruolo residuale, inferiore a quello riscontrato nella maggior parte dei paesi sviluppati. I provvedimenti presi nel dicembre 2005 contribuiranno al suo sviluppo, ma gli effetti si esplicheranno soltanto nel 2008.
L'utilizzo delle contribuzioni relative al TFR è fondamentale. Gli sgravi contributivi indicati nel DPEF per le imprese possono compensarle per la perdita di questo canale di finanziamento poco oneroso. Per indurre i lavoratori a destinare una frazione adeguata del proprio reddito alla previdenza complementare sono necessari ulteriori sforzi per aumentare le informazioni sulle prestazioni future, contenere i costi di gestione e accrescere immagini di flessibilità nell'utilizzo dei fondi accantonati.
La spesa sanitaria nel 2005 è stata pari al 6,7 per cento del prodotto. Nel 2006 dovrebbe essere dell'ordine del 7 per cento. Dopo la forte azione di contenimento della prima parte degli anni novanta, l'incidenza sul PIL delle erogazioni in questo settore è ripresa a salire. Nonostante i ripetuti interventi correttivi, nell'ultimo quinquennio la spesa è aumentata a ritmi sostenuti, il tasso di crescita della spesa sanitaria si è collocato al di sopra del 6 per cento annuo. Solo in parte questo andamento può essere attribuito a fattori strutturali, quali l'invecchiamento della popolazione, la sostenuta dinamica dei costi dei servizi sanitari connessa con l'impiego di nuove tecnologie.
L'esistenza di potenziali risparmi, anche significativi, derivanti da un recupero di efficienza trova riscontro negli andamenti differenziati della spesa nelle diverse regioni. Livelli più elevati di spesa sanitaria a livello territoriale non si accompagnano necessariamente ad una maggiore efficacia del servizio. Un'analisi approfondita delle differenze riscontrate tra le regioni può favorire la diffusione dei modelli gestionali che risultano più efficienti ed efficaci.
Occorre rafforzare il legame fra le responsabilità di spesa e quelle di copertura finanziaria degli oneri derivanti dall'erogazione delle prestazioni. La normativa introdotta con la legge finanziaria per il 2006, che prevede un aumento automatico del prelievo nelle regioni in cui non vengono adottati provvedimenti necessari per la copertura dei disavanzi sanitari, rappresenta un primo passo in questa direzione. È importante favorire recuperi di efficienza nell'utilizzo delle risorse disponibili.
Il monitoraggio delle spese di questo comparto della pubblica amministrazione è importante, ma risulta di difficile attuazione


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per la natura fortemente decentrata degli enti decisionali. Una più tempestiva disponibilità delle informazioni sull'andamento, nel corso dell'anno, dei principali aggregati non può che facilitare l'attività degli enti stessi e agevolarli nello sforzo di recupero di efficienza.
Inoltre, al fine di valutare gli oneri che incideranno sui bilanci futuri, l'ammontare di risorse necessarie a far fronte ai debiti non finanziari accumulati dal settore va definito con stime affidabili e tempestive.
Nel corso degli anni novanta l'occupazione nella pubblica amministrazione è diminuita di circa il 3 per cento. La dinamica delle retribuzioni è stata inferiore a quella dell'intera economia. Ne è conseguito una flessione della spesa per redditi da lavoro di quasi 2 punti percentuali di PIL.
Sul finire dello scorso decennio, queste tendenze hanno subìto una decisa inversione: sia l'occupazione, sia il rapporto tra le retribuzioni lorde pro capite della pubblica amministrazione e quelle dell'intera economia sono tornati sui livelli dei primi anni novanta.
Il DPEF indica nella valorizzazione delle risorse umane, nella mobilità e nella riorganizzazione dei processi produttivi gli strumenti per contenere la dinamica dell'occupazione nel settore pubblico; a questi accompagna un'adeguata gestione della riduzione dell'occupazione connessa con il pensionamento di un numero rilevante di lavoratori. Per quanto riguarda le retribuzioni, richiama la necessità di rafforzare la moderazione salariale.
Il perseguimento degli obiettivi fissati per il complesso delle amministrazioni pubbliche deve coinvolgere tutti i livelli di governo. Il contributo delle amministrazioni regionali e locali al risanamento strutturale dei conti pubblici può realizzarsi, nel pieno rispetto dell'autonomia loro riconosciuta, mediante l'introduzione di regole di bilancio riferite non a particolari aggregati di spesa, ma ad un concetto di saldo. Tale contributo può essere significativo. Gli enti decentrati erogano una quota rilevante della spesa per redditi da lavoro delle amministrazioni pubbliche ed effettuano la maggior parte degli investimenti. La spesa sanitaria di competenza regionale costituisce quasi la totalità della spesa sanitaria pubblica.
Nel nostro ordinamento il coinvolgimento dei vari livelli di governo nel perseguimento degli obiettivi di bilancio fissati in ambito europeo per il complesso delle amministrazioni pubbliche viene perseguito con il cosiddetto patto di stabilità interno, introdotto alla fine del 1998. Inizialmente, il patto fissava obiettivi di bilancio per il saldo degli enti decentrati. In seguito, ha subìto continue modifiche, che lo hanno trasformato in uno strumento di controllo della spesa, di fatto interferendo con l'autonomia degli enti. Alcuni cambiamenti hanno limitato il ruolo del patto e ne hanno minato la credibilità.
Regole efficaci e vincolanti devono necessariamente riferirsi ai singoli enti, a ciascun anno e a una parte significativa delle attività svolte dalle amministrazioni. Per le regioni, la logica del patto deve interessare anche la spesa sanitaria, pur tenendo conto delle specificità di questo comparto. Per una puntuale applicazione delle regole, deve essere preservata la loro semplicità e garantita la possibilità di monitorare i risultati di bilancio. È inoltre fondamentale che il nuovo quadro di riferimento delle politiche di bilancio degli enti decentrati sia stabile.
Il DPEF sottolinea infine la necessità di disporre di informazioni contabili tempestive, affidabili ed omogenee fra i livelli di governo. Vi contribuirà il sistema informativo SIOPE per la rilevazione, attraverso i tesorieri, via telematica, dei dati di contabilità di tutti gli enti pubblici, sviluppati dal Ministero dell'economia e delle finanze e dalla Banca d'Italia.
Le nuove regole potrebbero fondarsi sul principio del pareggio del bilancio di ciascun ente al netto degli investimenti, introducendo per questi ultimi i limiti riferiti al complesso della finanza decentrata. Potrebbero inoltre prevedere forme di flessibilità del vincolo tenendo conto degli effetti del ciclo economico, quali l'accesso, sulla base di regole predefinite e


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per importi prestabiliti, a trasferimenti statali o a fondi di riserva precostituiti.
Una struttura di governo decentrata può consentire guadagni di efficienza solo se vi è corrispondenza fra la distribuzione delle responsabilità di spesa e quelle delle responsabilità del suo finanziamento. È necessario attribuire a tutti i livelli di governo un'autonomia di prelievo sufficientemente ampia e definire criteri trasparenti e sistematici di perequazione.
In conclusione, le azioni da intraprendere, incluse le misure per il risanamento della finanza pubblica, divenuto imperativo, devono essere vagliate sotto il profilo del loro contributo alla crescita. Ritorno allo sviluppo, equità, equilibrio di bilancio, diminuzione della pressione fiscale: questo è il progetto del DPEF, che si articola su un arco pluriennale. Alla prossima legge finanziaria l'inizio della sua attuazione.

PRESIDENTE. Ringrazio il professor Draghi per la sua relazione. Do ora la parola ai colleghi che intendano porre quesiti o formulare osservazioni.

ANDREA RICCI. Se mi è consentito, vorrei esprimere una prima valutazione di carattere generale rispetto al contributo che il Governatore - la Banca d'Italia per suo tramite - ha portato alla discussione in merito al DPEF. Francamente, più che un contributo di tipo analitico, che potrebbe consentire una maggiore conoscenza della situazione reale della finanza pubblica e dell'economia italiana - e, quindi, orientarci nel compiere le scelte politiche necessarie in termini di politica economica da attuare nel corso dell'attuale legislatura, soprattutto in vista della prossima finanziaria - il contributo presentato dal Governatore Draghi mi è apparso come un manifesto di carattere politico.
Trovo che alcune affermazioni siano state rese in senso apodittico e non sufficientemente giustificate, quasi fossero in qualche modo pregiudiziali ad un'analisi concreta della situazione reale. Naturalmente, questo è solo un mio personale giudizio (altri colleghi avranno opinioni diverse, ma qui ognuno è libero di esprimere il proprio pensiero).
Vorrei fare un unico esempio. Nella relazione si afferma - appunto in maniera apodittica - che va avviato con decisione un processo di graduale riduzione della pressione fiscale complessiva. Ora, la situazione del nostro paese vede un debito pubblico molto elevato, che quindi assorbe, attraverso la spesa per interessi che annualmente il complesso delle amministrazioni pubbliche deve corrispondere ai possessori dei titoli del debito pubblico, grandi risorse. Con un debito pubblico così elevato e un'alta spesa per interessi, abbiamo una situazione diversa rispetto a quella di numerosi altri paesi europei, che quindi restringe oggettivamente la possibilità di avere un livello di spese correnti, al netto degli interessi, adeguato.
Abbiamo una pressione fiscale in linea con la media europea, anzi, inferiore rispetto a quella di paesi analoghi al nostro. Allora, la domanda che le pongo è la seguente: perché bisogna necessariamente, con decisione, arrivare ad una riduzione della pressione fiscale complessiva? A me non sembra che l'esperienza di altri paesi che hanno proceduto verso una riduzione della pressione fiscale e, segnatamente, ad una riduzione dello spazio dell'intervento pubblico nell'economia, sia univoca. Vi sono esperienze differenziate: esperienze in cui una politica di questo tipo ha dato una spinta alla crescita e allo sviluppo e, viceversa, altre in cui una tale politica non ha prodotto tale risultato, ma ha sicuramente aumentato le enormi diseguaglianze sociali che già oggi nel nostro paese esistono.
Per questa ragione, considero un'affermazione di questo tipo pregiudiziale ed apodittica e non adeguatamente motivata.

MARIA TERESA ARMOSINO. Cercherò di concentrarmi sulle domande, che spero non appaiano polemiche in relazione all'intervento che ho appena sentito: le avevo previste prima di ascoltarlo.
Nel ringraziare il Governatore Draghi per la relazione, che apprezzo in tutte le sue parti, dico subito che mi riconoscerei assolutamente in un'azione di Governo che seguisse questa linea.


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Il problema che ho rilevato - in termini parzialmente diversi da quanto risulta dalla relazione - riguarda la spesa sanitaria. Lei, Governatore Draghi, ha affermato che non sempre a maggiore spesa corrisponde maggiore efficienza; ciò consente una lettura diversa per cui, comunque, deve essere resa efficiente la spesa sanitaria prima ancora di accrescerla nella sua misura. In ogni caso, chi sfora paga.
Questa affermazione si pone però in contraddizione palese rispetto a quanto avviene in ambito politico attraverso la previsione dei ticket, che non tiene conto dei parametri di applicazione in un paese che - si dice - vive molto di sommerso.
Le mie domande riguardano poi: gli effetti della tassazione delle rendite sui risparmi e sulla situazione globale di questo paese; la correttezza a tale proposito della omologazione o del paragone con titoli di Stato dei paesi europei, che sono più tassati rispetto ai nostri, in assenza - e questo è il dato di differenza - della previdenza complementare, nella quale potrebbero confluire molti risparmi degli italiani; infine, gli effetti sul costo per l'utente delle nuove modalità di pagamento, diverse dal denaro, previste per le spese che superano i cento euro.

GIUSEPPE VEGAS. Signor Governatore, le pongo tre domande. Poiché l'economia è costituita da fatti, ma anche da aspettative, vorrei conoscere il suo giudizio relativamente a come possa variare il meccanismo delle aspettative e a quali effetti possa aver avuto il decreto-legge del 30 giugno al riguardo, posto che, sicuramente - in un'azione pur condivisibile sotto la linea teorica - ha portato a tutto il sistema delle imprese mutamenti piuttosto radicali della fiscalità.
Questo decreto, fra l'altro, stando a quello che si desume dal DPEF medesimo, avrà effetti già oggi calcolati depressivi sul PIL del 2007. Vorrei sapere quali effetti potrà avere, a suo giudizio, il combinato disposto di questi effetti e la possibile variazione del regime delle aspettative, soprattutto sul versante dello sviluppo, pure tanto invocato nel DPEF stesso.
Dopo che esponenti del Governo hanno con grande insistenza proclamato che la situazione dei conti pubblici del 2006 sarebbe stata più grave di quella del 1992 - anno che segnò, proprio per la gravità della situazione, la svolta nelle politiche di intervento sui conti pubblici -, le chiedo se questo non possa essere un motivo che in qualche modo contribuisce, anziché a migliorare, a peggiorare la situazione.
Mi è sembrato che, nella sua relazione, lei abbia posto fortemente l'accento sulla necessità di diminuire la spesa pubblica. Bisognerebbe verificare la coerenza tra questa auspicata diminuzione della spesa pubblica e il quadro della possibilità concreta, ossia se la diminuzione in una misura così elevata sia concretamente fattibile oppure si rappresenti un giusto desiderio, che difficilmente potrà essere attuato.
Un'altra domanda riguarda la descrizione - a pagina 7 della sua relazione - degli obiettivi di finanza pubblica relativi al rapporto deficit-PIL e all'avanzo primario. Secondo lei, il raggiungimento contemporaneo degli obiettivi relativi al deficit e all'avanzo primario è realistico ed è coerente rispetto agli stessi conti e alle misure indicate?
Infine, un'ultima questione riguarda il patto di stabilità interno. Mi sembra di comprendere che lei dia un giudizio sostanzialmente positivo sull'idea di tornare ad un meccanismo basato sui saldi. Tuttavia, un meccanismo basato sui saldi, e non più sui tetti di spesa, non rischierebbe di vanificare una delle impostazioni che ella ha posto tra i cardini della politica economica, quella del contenimento della pressione fiscale? Sappiamo benissimo che se lasciassimo mano libera a regioni ed enti locali relativamente ai livelli di spesa, i primi a rimetterci sarebbero i contribuenti, perché vedrebbero sicuramente non tanto una maggiore efficienza delle funzioni svolte da questi soggetti quanto un aumento secco della pressione fiscale.


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Questa alternativa è coerente o sarebbe meglio mantenere - visto che ci siamo arrivati dopo anni di affinamento - il sistema dei tetti di spesa?

MARIO BALDASSARRI. Dopo le considerazioni finali del 31 maggio, questa audizione si muove in linea con quelle considerazioni e, rispetto al dibattito e alle audizioni che si sono svolte, dal mio punto di vista tutto ciò è completamente condivisibile. Rispetto al decreto assunto dal Consiglio dei ministri il 30 giugno e varato il 4 luglio, ma anche rispetto al DPEF, nel testo che è stato diffuso, la relazione offre un quadro chiaro della situazione, degli indirizzi e delle strategie di politica economica necessarie al nostro paese e non contiene, a differenza dei due documenti che ho citato, falsi in atto pubblico.
Come ho già avuto modo di dire in Commissione bilancio, si tratta di falsi in atto pubblico! Falsi sul piano tecnico ma, direi, anche sul piano del dibattito politico. Sul piano tecnico perché, ancora oggi, il testo del decreto contiene, nell'articolato, un provvedimento - quello della sostituzione dell'imposta di registro rispetto all'IVA - che tutte le persone di buonsenso stimano, in termini di impatto, tra i 13 e i 15 miliardi di euro. La relazione tecnica, invece, indica 160 milioni di euro nel 2006 e 450 milioni di euro a regime. Quindi, quel testo è un falso in atto pubblico, sul piano tecnico!
Trascuro il piano politico, limitandomi a citare un elemento: si vara un decreto per un provvedimento che produrrà effetti a partire dal 2007, essendo totalmente trascurabili gli effetti sul 2006. Quindi, è anche un falso politico: l'emergenza non si affronta a mesi e mesi di distanza!
Vengo al DPEF e pongo una domanda. Un nodo centrale che lei, signor Governatore, ha richiamato è l'obiettivo della riduzione della pressione fiscale. Non è una cosa da poco o priva di fondamento profondo e radicato, anche di teoria economica oltre che di evidente esperienza empirica.
La teoria economica dice che la relazione tra pressione fiscale, spesa pubblica e crescita economica non è lineare. Non è vero che, aumentando la pressione fiscale e aumentando la spesa pubblica, a parità di saldo, si ottiene come risultato un tasso strutturale di crescita più elevato. La teoria economica dice che c'è una svolta. Le prove empiriche dei paesi europei tendono a dare questo effetto soglia di inversione del rapporto tra tassazione, peso del bilancio pubblico e crescita economica attorno al 40 per cento. Ovviamente, il numero può variare da epoca a epoca e da paese a paese ma, indicativamente, è questo. Vi è quindi una radice teorica, oltre che una necessità empirica. Se si dice di voler riavviare lo sviluppo economico e la crescita, non si può, per onestà intellettuale, non affrontare il nodo del livello della pressione fiscale. Altro aspetto serio è come quel livello di pressione fiscale si spalmi in termini di equità sociale tra famiglie, imprese, territori. Questo è un altro aspetto legittimo, fondamentale, ma da non confondere con il livello assoluto.
Prendendo atto che il Governatore Draghi ha posto questo argomento come asse portante della sua logica, si impongono alcune considerazioni.
La conclusione della relazione, che ha ripreso le considerazioni finali, è che ogni provvedimento va valutato alla luce del suo impatto sulla crescita economica. Ebbene, questa è una responsabilità collettiva ed è una sfida di serietà e di impegno anche nel dibattito fra varie posizioni politiche. Se così è, mi permetto di arrivare, per chiudere, alle domande specifiche. La prima è esterna al nostro paese, ma non meno legittima, almeno credo. Poiché la Banca d'Italia partecipa al sistema europeo delle banche centrali, è opportuno conoscere le linee che la stessa intende assumere nell'ambito di quel sistema e della Banca centrale europea, nonché indirettamente nei confronti dell'Unione europea e dei parametri della politica di bilancio del trattato di Maastricht.
Le chiedo, cioè, se sia stato misurato l'impatto della politica monetaria della Banca centrale europea, non soltanto in termini di controllo dell'inflazione - cosa


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assolutamente necessaria, sacrosanta e giusta - ma anche in termini di effetti sull'andamento del cambio. Le chiedo, altresì, se sia stato misurato l'effetto dell'andamento del cambio euro-dollaro, soprattutto negli ultimi due anni e mezzo, quando abbiamo avuto, in breve tempo, una rivalutazione di circa il 50 per cento (attualmente ci stiamo attestando a 1,27).
Il DPEF - e questo mi pare politicamente un po' esagerato - colloca questo cambio euro-dollaro a 1,27 da qui al 2011, dandolo come variabile esogena. Ora, questa è una variabile esogena da un certo punto di vista, ma pesantemente endogena in termini di riflessi. Se dovessimo misurare questo andamento sulla crescita economica, stime varie dicono che dieci centesimi di apprezzamento dell'euro sul dollaro, al quale è legato il clan cinese, per l'Italia, per la Francia e per la Germania - i tre grandi paesi europei che rappresentano il 70 per cento del prodotto interno lordo del continente europeo - significano 0,5 punti di crescita! Quindi, un rapporto euro-dollaro a queste condizioni, se lo raffrontassimo ad un rapporto euro/dollaro prossimo alla parità, significherebbe, in Europa - quindi anche in Italia - tra effetti diretti e indiretti, circa due punti in più di crescita all'anno. Forse, il risanamento della finanza pubblica ottenuto attraverso la via dello sviluppo e della crescita sarebbe molto più solido senza voler porre questo elemento in contrapposizione con le operazioni di risanamento della finanza pubblica interna.
La seconda ed ultima questione riguarda la misurazione dell'effetto - lo accennava il collega Vegas ma vorrei esplicitarlo - del decreto-legge del 30 giugno sulle aspettative.
Innanzitutto, mi riferisco ai numeri che ho citato prima. Spero che il Governo sia disponibile a correggere il più rapidamente possibile la variazione tra registro e IVA, con l'IVA pregressa, ma penso anche ad altri provvedimenti contenuti nel decreto e alla quantificazione della perdita di ricchezza determinatasi negli ultimi dieci giorni su tutta la valutazione immobiliare: solo su valori di borsa abbiamo avuto una perdita di 1,4 miliardi di euro! Se questo è un modo per arrivare a un'imposta patrimoniale, lo si può anche dire esplicitamente, ma non credo che la via migliore sia quella di far cadere i valori in borsa. Forse, sarebbe stato più esplicito introdurre una nuova INVIM, per chi crede in quel tipo di provvedimento. Questo impatto sulle aspettative, comunque, può essere molto pericoloso.
Allora domando: rispetto al quadro disegnato dalla Banca d'Italia e dal Governatore Draghi e rispetto al quadro che, almeno nella cornice, definisce il DPEF, non sembra assolutamente incoerente il profilo degli obiettivi programmatici della crescita economica? Ricordo che il tendenziale di crescita 2007 nel DPEF è posto a 1,5 per cento, mentre l'obiettivo programmatico è posto a 1,2 per cento. L'effetto, ovviamente, nell'immediato è restrittivo della crescita, ma dobbiamo esplicitarlo. In pratica, stiamo rinunciando ad un pezzo di crescita. Negli anni successivi, nel 2008, si torna a 1,5 per cento e, nel 2011, si arriva a 1,7 per cento.
Ora, nelle condizioni che sono state descritte, un obiettivo di crescita sul quinquennio, che mediamente non si scosta dall'1,5 per cento, in quali condizioni potrà far trovare la finanza pubblica italiana? È il gatto che si morde la coda perché, a quel punto, o si tagliano drasticamente le spese pubbliche correnti, ben al di là di quanto correttamente annunciato dal Governatore della Banca d'Italia, o si aumentano pesantemente le entrate fiscali ma, in entrambi i casi, si ottiene un'ulteriore riduzione e rallentamento della crescita, che mette ad ulteriore pregiudizio gli equilibri della finanza pubblica.
È fondamentale - condivido il suo accenno a questo argomento e personalmente ci ho lavorato per molti anni - l'utilizzo del TFR per i fondi pensione. Ci siamo girati i pollici per parecchio tempo, anche durante il precedente Governo, attraverso l'escamotage di destinare al TFR soltanto i flussi futuri ed entrando nella difficile situazione per cui, se si tolgono i flussi futuri alle imprese, le imprese chiedono


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la compensazione e se si dà la compensazione qualcuno la deve pagare. Questo ambaradan - lo dico in termini non molto eleganti - si conclude con il fatto che non partono i fondi pensione e non si fa il trasferimento del TFR nei fondi pensione.
Per di più, a ciò si associa l'impossibilità di avere un meccanismo di questo tipo per tutto il comparto del pubblico impiego; visto che nel pubblico impiego il TFR non c'è è una struttura contabile.
Allora, la Banca d'Italia e, comunque, anche altri importanti centri, perché non valutano la possibilità di far partire i fondi pensione, evitando queste difficoltà, magari attraverso l'uso del TFR - lasciando non solo lo stock, ma anche i flussi futuri alle imprese - e di utilizzare la via della cessione del credito? È una domanda tecnica, ma che ha una rilevanza, forse, di politica economica potenzialmente molto elevata.

LAURA RAVETTO. Professor Draghi, avevo già letto - in suoi scritti precedenti le considerazioni di Banca d'Italia - alcune sue indicazioni sull'indispensabilità di una riforma del sistema pensionistico e, tra queste, quella dell'aumento dell'età pensionabile. Oggi ritrovo queste considerazioni nella sua relazione, precisamente a pagina 11, ma dall'analisi del DPEF a me pare che, di fatto, questo argomento non sia toccato volontariamente. Anzi, a pagina 136 del DPEF si indica come perno quello dell'ampliamento della base contributiva. Le chiedo, quindi, se condivida questa analisi e se muova una critica al DPEF in tal senso.
La seconda domanda corrisponde, più che altro, a una curiosità. Lei, nelle sue considerazioni, ha spesso parlato di principi di stabilità e di rafforzamento del sistema bancario. Ho cercato nel DPEF citazioni relative alle banche e ne ho trovate solo due: alcuni esempi di privatizzazione degli anni novanta ed un riferimento alla banca del tempo che attiene ad una materia molto diversa. Le chiedo - naturalmente consapevole del fatto che il Governo non può e non deve sconfinare in materie dove lei è l'unico attore - se si aspettasse altre citazioni o se si ritenga soddisfatto.

PRESIDENTE. Do la parola al Governatore Draghi per una prima replica.

MARIO DRAGHI, Governatore della Banca d'Italia. All'onorevole Ricci direi che, prima di guardare l'aspetto della riduzione delle imposte, occorre concentrarci sulla parte della riduzione della spesa primaria corrente. Lì ci sono argomenti, che attengono alla stabilità finanziaria, alla crescita, all'equità, che impongono - gli esempi numerici non sono apodittici, sono molto chiari - di concentrare l'attenzione sui quattro comparti di spesa.
Negli esempi numerici, non apodittici, si dice esplicitamente che, se per caso non si volesse agire in questo modo, la riduzione della spesa primaria corrente raggiungerebbe cifre che non consentirebbero le prestazioni cui siamo abituati da parte del settore pubblico. Quindi, a richiedere questi interventi non sono soltanto questioni di contabilità, ma anche di stabilità finanziaria e di equità.
Passiamo alla parte fiscale, delle entrate. Di nuovo, prima ancora di parlare della riduzione fiscale, occorre innanzitutto recuperare la base imponibile. Non è pensabile né aumentare né diminuire la pressione fiscale consapevolmente, ossia con un ragionamento ben fatto sulle aliquote, finché non si capisce bene quale sia la base imponibile su cui questo si applica. Una volta che questo secondo passo è stato compiuto, ebbene entriamo nel regno delle convinzioni: ci sono alcuni che ritengono che a più tasse corrisponda maggiore crescita e ci sono altri, come me, che ritengono che a meno tasse corrisponda maggior crescita. Tuttavia, prima di arrivare a questo, abbiamo un ampio terreno di azione più complesso, dal punto di vista sia strategico, sia politico, sia analitico: quello della riduzione della spesa nei quattro comparti (un'azione molto più complessa rispetto alla decisione se aumentare o diminuire le aliquote).


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La spesa sanitaria italiana è ancora al di sotto dei livelli della media europea, ma quello che spaventa è la dinamica. Con il 6 per cento annuo di crescita si arriva facilmente a linee di tendenze e di movimento che sono insostenibili. L'altro aspetto è la grande divergenza e la grande varietà che esiste tra regione e regione, per cui ci sono regioni che, pur spendendo meno, assicurano livelli di efficienza, nella spesa sanitaria, che sono spesso superiori a regioni che spendono di più. Questo è il motivo per cui viene naturale pensare che ci sia molto da fare, in questo campo, per razionalizzare, per monitorare, per raccogliere dati, e quant'altro si suggerisce nel documento di oggi.
Quanto al ticket, rispetto al finanziamento a livello regionale, in un certo senso, non è compito del Governatore suggerire la strada da intraprendere. Il punto che si fa in questo documento è che il decentramento, per essere completo, richiede che le decisioni di spesa e l'autonomia impositiva vadano insieme. Questo è un punto che riguarda la parte sanitaria, ma in realtà è più generale. Mi fermerei qui, senza necessariamente dire cosa sia meglio tra ticket e finanziamenti.
I senatori Vegas e Baldassarri mi chiedono quale sia l'effetto sulle aspettative del decreto. Quanto al decreto sulla concorrenza, come ho detto, si tratta di passi che, pur correggibili in alcuni punti, vanno fondamentalmente nella direzione giusta; direzione che, se perseguita con costanza, può avere l'effetto di aumentare il sentiero di crescita del prodotto del paese.
Se, in assoluto, mi si chiede quale sia l'effetto sulle aspettative di un decreto varato il 30 giugno, la mia impressione - non in qualità di Governatore della Banca d'Italia - è che siamo solo ai primi passi. Quanto alle aspettative, per ragionare sull'evoluzione del sistema economico italiano, si vuole vedere prima il programma di Governo nella sua interezza. Come la frase conclusiva di questo documento sembra suggerire, il giudizio dei mercati è alla fine dell'anno.
Mi si chiede, altresì, se sia possibile diminuire la spesa pubblica, vista l'entità della manovra. Ho indicato precisamente quella che, secondo me, è l'unica strada possibile. Non è pensabile diminuire la spesa pubblica se non si affrontano i quattro comparti di spesa e occorre affrontarli con misure strutturali, correzioni permanenti, cambio delle regole. Misure di tipo transitorio comporterebbero probabilmente la pena che ogni misura di diminuzione di spesa comporta, senza avere il premio dei mercati.
Sul patto di stabilità interno, mi si chiede se sia meglio tornare al criterio dei saldi, oppure intervenire sulle singole spese. Nel documento ho letto: «Queste nuove regole potrebbero fondarsi sul principio del pareggio di bilancio di ciascun ente, al netto degli investimenti, introducendo per questi ultimi limiti riferiti al complesso della finanza decentrata». La sua paura, onorevole Vegas, è che a questo punto aumenti l'imposizione. Lo ripeto, se il principio di carattere generale è quello di avvicinare la decisione circa la spesa all'autonomia impositiva delle singole istituzioni, dei singoli enti, occorre avere fiducia nella sensibilità politica degli stessi, altrimenti si deve dire che il decentramento è sbagliato e bisogna tornare all'accentramento. Una volta che si inizia a percorrere una strada, secondo me, bisogna accettarne tutte le conseguenze.
Senatore Baldassarri, lei mi ha chiesto di valutare l'impatto della politica monetaria sul cambio dell'euro. È molto complicato stabilire una relazione diretta tra politica monetaria della BCE e tasso di cambio dell'euro. Se consideriamo gli ultimi quattro-cinque anni, vediamo che non è assolutamente ovvio che vi sia una correlazione stretta tra decisione di aumentare i tassi di riferimento, da parte della Banca centrale europea e rivalutazione del tasso di cambio dell'euro. A volte questa correlazione esiste e per lunghi periodi non esiste, perché l'altro fondamentale fattore trainante del tasso di cambio sono le notizie circa il disavanzo di parte corrente degli Stati Uniti, che sono una cosa diversa rispetto al differenziale dei tassi di interesse. Pertanto, se ci si


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dovesse muovere solo sulla base di queste notizie, il cambio dovrebbe essere molto diverso rispetto a quello di oggi.
Guardando l'orizzonte degli ultimi quattro anni e mezzo, non vedo una correlazione stretta tra differenziale dei tassi di interesse europei e americani e tasso di cambio euro-dollaro.

MARIO BALDASSARRI. La domanda è l'effetto del cambio sulla crescita italiana. Questa è la domanda, nulla più!

MARIO DRAGHI, Governatore della Banca d'Italia. Sull'argomento torniamo dopo, ora mi permetta di rispondere alle altre domande. Sulle aspettative, ho già risposto.
Il punto fondamentale di questi primi passi del Governo è vedere se, nel prosieguo del tempo, essi si tradurranno in politiche di riforme strutturali che innalzino il tasso di crescita del reddito potenziale.
L'analisi del DPEF, in un certo senso, dice che non ci sono alternative a toccare i quattro comparti di spesa. Non serve toccarne uno solo: bisogna toccarli tutti e quattro, altrimenti - toccandone uno solo - si finisce per incidere in maniera probabilmente insostenibile. L'ampliamento della base contributiva è certamente importantissimo, anche perché, come dicevo prima, è propedeutico ad un'eventuale revisione della politica fiscale, ma occorre anche guardare ai quattro comparti di spesa, tra cui quello delle pensioni.
Quanto alle pensioni, l'aumento dell'età pensionabile è la strada che sembra più percorribile, insieme alla velocizzazione della previdenza integrativa.
Onorevole Ravetto, la sua seconda domanda era...

LAURA RAVETTO. Visto che ha parlato spesso di rafforzamento del sistema bancario, avevo la curiosità di sapere se si sarebbe aspettato qualche citazione in più in proposito, visto che di banche quasi non si parla nel DPEF, e se a suo avviso il Governo dovrebbe avere un'ingerenza in sedi di sua competenza.....

PRESIDENTE. Onorevole Ravetto, non contraddica la sua fama di essere sintetica. Abbiamo ancora dieci interventi e poco tempo a disposizione!

MARIO DRAGHI, Governatore della Banca d'Italia. Onorevole Ravetto, le rispondo subito: nel DPEF non mi aspettavo considerazioni sul sistema bancario.

GIORGIO LA MALFA. L'affermazione del Governatore, riportata nella relazione a pagina 8, sulla riduzione della politica fiscale ci ha molto colpito. Io stesso, avendo ascoltato le considerazioni finali e altri interventi del Governatore, non mi sarei aspettato un'affermazione così netta, peraltro accompagnata da questioni come l'equità fiscale.
Inoltre, il Governatore ha affermato che, nel contempo, bisogna ridurre la spesa pubblica, altrimenti non si può ridurre la pressione fiscale. È un punto di vista di politica economica certamente di grande rilievo, che non ha riscontro nell'impostazione del DPEF. Qui emerge una differenza, che l'onorevole Ricci ha colto immediatamente.
Personalmente, condivido da molto tempo questa considerazione e mi fa molto piacere che venga espressa in termini così netti una visione per la quale la crescita economica di medio e lungo termine presuppone l'abbassamento della pressione fiscale e tutto ciò che questo comporta.
Detto questo, vorrei fare una domanda specifica. Quello che mi ha colpito - non positivamente - del quadro programmatico del DPEF è il fatto che, al termine del quinquennio, l'Italia crescerebbe sostanzialmente secondo il tendenziale, ossia 1,7, anziché 1,3 per cento. È vero, avremmo risanato la finanza pubblica - cosa giusta ed inevitabile - tuttavia mi domando - l'ho chiesto anche al ministro ma ho ricevuto una risposta poco convincente - perché ci si ponga un obiettivo così modesto.
Per quale ragione, insomma, un paese che ha un tasso di occupazione più basso della media dei paesi OCSE, un tasso di


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disoccupazione ancora elevato, problemi nel Mezzogiorno, e via dicendo, si pone un obiettivo così modesto e non pone l'obiettivo del risanamento in un quadro più favorevole? Perché si affrontano solo i temi del risanamento, che pure sono indispensabili, ma non gli altri?
Una delle risposte che mi do sta nella totale assenza nel DPEF delle questioni relative alla flessibilità del mercato del lavoro. È chiaro che se uno pensa di poter crescere di più, nello stesso tempo attenuando la flessibilità del mercato del lavoro, va in una direzione sbagliata!
Penso, poi, che una seconda ragione possa essere individuata nella pressione fiscale, di cui parlava il Governatore nella sua relazione. Vorrei capire meglio se non possa essere fatto un esercizio diverso, per studiare il problema di come sbloccare la crescita dell'economia italiana.
Professor Draghi, non c'è un giudizio, nelle sue considerazioni pur così attente, sulla misura più costosa che il Governo ha in animo di assumere, che è il taglio del cuneo fiscale. A pagina 126 del DPEF il ministro afferma che è necessario ridurre il cuneo fiscale, ma se non aumenta la produttività dei fattori questo non serve assolutamente a niente!
Francamente, non ho capito, neppure dal suo documento, dove e perché serva la riduzione del cuneo fiscale. Per quale ragione, allora, non prendiamo questi 10 miliardi di euro e non li destiniamo alla ricerca scientifica? Mi chiedo, in altre parole, se il Governo non stia seguendo una strada solo perché ha preso un impegno elettorale (giustamente si tende a rispettare gli impegni elettorali).
La Banca d'Italia ci dica se non ci sarebbero misure alternative utili, come per esempio, accelerare il rientro: se non si spende, si fa prima a ritornare nei parametri europei!
Nel DPEF, infine, non c'è neppure una riga sulla cessione del patrimonio pubblico (o meglio, si afferma la volontà di studiare la questione). Per quale ragione, però, visto che i tassi di interesse sono in crescita, non si può pensare ad una forte operazione di cessione di beni mobili e immobili dello Stato, delle regioni, delle province e dei comuni? Per quale ragione non possiamo immaginare un'operazione che porti, ad esempio, un altro 10 per cento del rapporto debito-PIL?
Di certo, questa soluzione non farebbe male all'economia italiana, alla competitività, alla concorrenza, né ai processi di liberalizzazione. Non si capisce per quale ragione non si debba prevedere un grosso capitolo di interventi su questo terreno, che certamente aiuterebbe il percorso di rientro (che, come lei dice nel suo documento, è molto difficile e accidentato).

MICHELE VENTURA. Signor Governatore, anch'io la ringrazio per questo contributo. Stiamo rischiando di aprire un dibattito al centro del quale, in modo virtuale, rimettiamo l'abbassamento o meno della pressione fiscale. Il DPEF, invece, mette al centro il risanamento dei conti pubblici. Penso che anche lei, professor Draghi, consideri questo un aspetto fondamentale. Sarebbe interessante conoscere la sua opinione perché questo non mi sembra più un punto discutibile.
Quello che abbiamo sottoscritto a livello europeo, il rientro di una manovra molto consistente per il prossimo anno, è un impegno che dobbiamo mantenere. Vorrei che ciò risultasse chiaro a tutti: non è un optional, è un impegno! Se siamo d'accordo su quell'impegno, allora possiamo ragionare sul medio periodo.
Tale impegno si realizza con misure strutturali e sappiamo quanto sia faticoso costruire una manovra di quel tipo con misure strutturali (altrimenti, sarebbe già avvenuto). Ci troviamo, quindi, di fronte ad un impegno straordinario.
Signor Governatore, penso che anche lei consideri questo punto non differibile, pena la nostra credibilità sui mercati internazionali. Non si parla solo dell'Unione europea, ma anche dei mercati. Vorrei che su questo ci fosse un elemento di chiarezza.
Tornando sulla questione della diminuzione della pressione fiscale, abbiamo avuto il secondo modulo della riforma fiscale e abbiamo diminuito la pressione


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fiscale. Nel quinquennio, però, essa non è diminuita, essendo di nuovo aumentata globalmente nel corso dell'ultimo anno. Non possiamo dire, dunque, di aver avuto una diminuzione della pressione fiscale in Italia. Il secondo modulo della riforma, comunque, ha comportato un incremento all'aumento del debito.
Credo - signor Governatore - che nessuno di noi possa immaginare, questa essendo la situazione della finanza pubblica, operazioni di tale natura. Bisogna riattivare il meccanismo e, sulla base di questo, fare scelte a seconda delle varie opportunità, aprendo un dibattito. Abbiamo tutto il tempo per farlo.
L'ultima questione riguarda il punto sollevato dall'onorevole La Malfa, su cui sarebbe interessante avere una sua opinione. Non credo più che il problema fondamentale, collega La Malfa, sia la flessibilità. Il punto - sono arrivato a questa conclusione - è riassumibile nelle parole: formazione, innovazione e ricerca.
Non vorrei che avessimo in mente solo di riattivare tradizionalmente le dinamiche dello sviluppo, di fronte a sfide che considero un po' inedite. Signor Governatore, vorrei conoscere la sua opinione su questo aspetto, vorrei sapere se a suo avviso si debba ricorrere a strumenti tradizionali o spostarsi verso punti di innovazione.

GUIDO CROSETTO. Signor Governatore, penso anch'io, come quasi tutti i miei colleghi, che non si possa non condividere l'impostazione della sua relazione. Tuttavia, vorrei porle alcune domande nel dettaglio, anche perché mi è parso che siano state eluse alcune domande poste dal senatore Vegas.
Alla prima domanda, riguardante le aspettative generali del decreto-legge n. 30, ha risposto che si vedrà a fine anno. Io mi chiedo: possiamo aspettare fine anno?
In secondo luogo, quando si parla del decreto-legge n. 30, non ci si riferisce alla parte che riguarda il ministro Bersani (che considero positiva ma poco incidente sulla realtà in quanto tocca settori marginali che, alla fine, non avranno impatto alcuno sull'economia) bensì alla parte riguardante il viceministro Visco, parte i cui effetti, a mio avviso, sono stati evidenti già il giorno dopo non soltanto in borsa, ma anche, a mio avviso, sulle aspettative.
L'impatto di un nuovo Governo che si presenta trasformando l'IVA in un costo, con una retroattività di otto anni, sul contribuente finale - non parlo del professore di Harvard, ma dell'ultimo degli artigiani -, secondo me è valutabile il giorno dopo. Presumo che tale impatto sarebbe valutabile dall'osservatorio di Banca d'Italia, verificando - tramite i leasing e le banche - qual sia stato il ricorso, ad esempio negli ultimi quindici giorni, a mutui ed investimenti per quanto riguarda il sistema Italia.
Ritengo, pertanto, che se un impatto c'è stato - tento di esprimere un giudizio non di parte, ma purtroppo ognuno di noi ne rappresenta una - esso è assolutamente negativo.
Lei ha parlato, ed è l'aspetto più preoccupante della sua relazione, della necessità imprescindibile di intervenire in tutti i comparti di spesa: sulle pensioni, sulla sanità, sul pubblico impiego, sulla spesa degli enti locali.
So che lei non può dare risposta a queste domande, ma io sono preoccupato del fatto che il Governatore della Banca d'Italia ci dica che questo paese, per sopravvivere alla sfida delle competizioni internazionali deve necessariamente intervenire sui quattro settori di spesa. Egli fa riferimento all'intervento sulle pensioni, con l'aumento dell'età pensionabile decisa dalla vostra alleanza; ad un intervento di riduzione della spesa sanitaria, o di introduzione dei ticket, dopo cinque anni nei quali il ministro Turco ci ha rimproverato di spendere troppo poco e ci ha ripetutamente detto che avremmo dovuto eliminare i ticket (li ha eliminati la Bindi il giorno prima delle elezioni); al problema del pubblico impiego (c'è un accenno, peraltro molto coraggioso, nel DPEF, in cui si dice che bisogna pensare ad un pubblico impiego che paghi la qualità delle


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persone, non soltanto la quantità). Voglio vedere come questo centrosinistra riuscirà a declinare questo aspetto.
Ciò che però mi ha colpito maggiormente è stato l'intervento sulla spesa degli enti locali: ho sentito urlare per cinque anni, nelle audizioni svolte, contro il vecchio Governo di centrodestra a causa della carenza dei trasferimenti. Voglio vedere ora come il centrosinistra riuscirà a spiegare che nell'ambito del risanamento del paese anche questo settore andrà toccato.
Tutto questo potrebbe divertirmi se non avessi a cuore le sorti del paese: sono, invece, preoccupato. La sua relazione, Governatore, è chiarissima: o si interviene su tutti e quattro i settori, o questo paese non avrà la possibilità - o avrà possibilità notevolmente inferiori rispetto a quelle di tutti gli altri paesi - di vincere la sfida della competizione internazionale.
Manca, però, secondo me - non è una critica alla sua relazione, visto che probabilmente non è questa la sede opportuna - un riferimento più ampio. Se c'è qualcosa di positivo nel decreto Bersani, è il coraggio dimostrato nell' «usare» la liberalizzazione. Il senatore Vegas ha sempre detto che questo paese si sarebbe mosso quando fossero state liberalizzate le licenze dei taxi: lo ha detto per cinque anni. Io gli ho sempre risposto che non riuscivo a capire che impatto potesse avere sull'economia il fatto di liberalizzare le licenze dei taxi (al di là di dare ragione a lui). Per adesso, l'impatto è solo sui nostri spostamenti romani.
Ritengo che nel decreto Bersani - ma vorrei sentire il suo parere - siano stati trascurati troppi importanti settori: le telecomunicazioni, l'energia (che anche nel decreto viene toccata marginalmente), l'indebitamento. Continuo ad essere preoccupato dall'accordo Basilea 2 rivisto, per l'impatto che può avere sul nostro sistema e sulla capacità delle nostre imprese di continuare ad accedere al credito. Non è stato creato un sistema di fidi, di centri di garanzia che possano affiancare le aziende che sono sotto capitalizzate. Questa sarà una carenza di cui ci renderemo conto nel giro di due anni: in proposito mi piacerebbe conoscere il suo parere. Sto parlando di un sostegno al sistema-azienda Italia. Potrà pure non piacere il fatto di avere molte aziende piccole, ma questa è la realtà.
Dall'altra parte, vorrei sapere cosa ne pensa di un sistema in cui, per dirla con i termini di un noto comico genovese, i consigli di amministrazione delle principali società di borsa sono sostanzialmente identici, cioè, di un sistema di capitalismo che si sorregge partendo dalle banche per arrivare alle imprese più grandi che hanno un debito che sarebbe intollerabile in qualunque altro paese.
Cosa pensa, al di là del settore pubblico, del sistema-impresa in Italia? Quali prospettive vede nella capacità delle grandi imprese italiane, che sono quelle che ci consentono di portare il paese all'estero, di superare questo periodo?

PIETRO ARMANI. Comincerò dalla pagina 14 della relazione. Il Governatore, giustamente, richiama l'importanza del sistema informativo SIOPE, che, qualora funzionasse, consentirebbe senza dubbio di avere informazioni contabili tempestive. Poiché però questo sistema è realizzato sulla base di accordi e di un lavoro comune fra Ministero dell'economia e Banca d'Italia vorrei sapere quando entrerà a regime e se non si tratti, per caso, di un'«araba fenice».
A pagina 12, parlando della previdenza complementare, lei, signor Governatore, giustamente scrive: «Per indurre i lavoratori a destinare una frazione adeguata del proprio reddito alla previdenza complementare sono necessari ulteriori sforzi per aumentare le informazioni sulle prestazioni future». Fra questi sforzi, pensa che ci debba essere l'eliminazione di ogni differenza tra fondi aperti e fondi di categoria, che, come lei sa, sono la riserva speciale delle confederazioni sindacali?
Infine, a pagina 4, tra il decreto Bersani e il decreto Bersani-Visco del 30 giugno scorso, lei scrive: «Larga parte delle risorse proviene da disposizioni in materia tributaria con finalità antievasive e antielusive». L'evasione dobbiamo combatterla


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perché è una fonte di reato; l'elusione nasce dal fatto che, essendovi un sistema tributario con norme molto complesse, si riesce a trovare, attraverso l'aiuto di commercialisti, esperti fiscali, la strada - praticando uno slalom - per eludere tali norme senza violare la legge.
Ora, è chiaro che più norme antielusione facciamo più diventa stretta la possibilità di fare lo slalom. Allora, i casi sono due: o si portano i capitali all'estero, e, date le aspettative, credo che una certa fuga di capitali ci sia già stata a partire dal 9-10 aprile in poi, oppure si passa dall'elusione all'evasione, perché la strada è molto stretta. Mi domando se non avvenga, addirittura, che più diventa stretta la strada, con norme sempre più rigide, più si ampli, anziché ridursi, l'elusione perché, evidentemente, quando le norme diventano particolarmente stringenti il cervello umano si scatena e trova altre forme per eludere le imposte. Insomma, abbiamo a che fare davvero con un gatto che si morde la coda.

PRESIDENTE. Grazie, onorevole Armani. Registriamo questa nota di ottimismo!

GIANFRANCO MORGANDO. Ringrazio anch'io il Governatore per il suo intervento molto interessante. Fondamentalmente, lo leggo come un contributo che aderisce all'impostazione del documento di programmazione economico-finanziaria che il Governo ha presentato. Lo dico non per acquisire la posizione del Governatore a quella della maggioranza ma per esprimere una convinzione che nutro: le linee di politica economica di fondo per uscire dai problemi del nostro paese vedono una fondamentale convergenza nelle analisi e anche nelle indicazioni dei principali percorsi di soluzione. Mi sorprendo invece quando, per ragioni di polemica e di posizione politica, si forzano le interpretazioni o si utilizzano questioni che in realtà presentano delle sfaccettature e delle angolazioni che sono difficilmente riconducibili a posizioni di parte.
Dico questo perché mi ha molto colpito nell'intervento del Governatore, come ricordava già il collega Crosetto, l'indicazione della necessità, per uscire dalla crisi della finanza pubblica, di spalmare gli interventi su tutti i settori, cosa che abbiamo, più o meno, sempre fatto. Il problema vero è quello che il Governatore indica nella pagina successiva: il rapporto tra gli obiettivi indicati e la capacità di raggiungerli.
Possiamo anche avere delle opinioni diverse ma questo è il tema. Noi siamo sempre «incartati». Abbiamo sempre verificato come il problema, soprattutto nelle ultime finanziarie, consistesse nella percentuale di realizzazione degli obiettivi posti. Lo ricorda, in fondo, la Corte dei conti, quasi sempre, nelle audizioni che svolgiamo.
Vengo ora alle domande. Nessuno ne ha parlato ma mi incuriosisce un punto in particolare (approfitto al riguardo dell'esperienza maturata dal dottor Draghi non solo in qualità di Governatore della Banca d'Italia ma anche nelle funzioni svolte in precedenza, a partire da quella di direttore generale del Tesoro). Se ne è accennato abbastanza poco anche nel dibattito giornalistico, ma una delle questioni che tutti gli anni ritornano, nei mesi di giugno e di luglio, è se il DPEF serva oppure no.
Molti sostengono che del DPEF potremmo fare tranquillamente a meno. In qualche misura, nelle ultime tre righe del suo intervento, il Governatore dice che il giudizio è sulla legge finanziaria più che sul DPEF. Mi interessa sapere la sua opinione in merito. Visto che poi, riprendendo anche le cose che abbiamo fatto nella precedente legislatura sulle procedure di bilancio, bisognerà ritornare a discutere sulla natura della legge finanziaria, sulle sue caratteristiche, sulla natura del DPEF, mi interessa conoscere l'opinione del Governatore su questo punto preciso.
Inoltre, come l'onorevole La Malfa, anch'io sono molto interessato a conoscere l'opinione del Governatore sulla questione del cuneo fiscale.
Naturalmente, potrei illustrare le ragioni per cui la politica di riduzione del


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cuneo fiscale, nell'ottica della maggioranza e del Governo, è una cosa molto importante. Essa si lega, come intervento immediato, ad una strategia di riforme strutturali, di interventi più forti. Sappiamo bene che il capitolo sul cuneo fiscale è forse quello più dettagliato tra gli interventi che il Governo intende realizzare in merito alla strategia di politica economica. Sarebbe interessante conoscere il suo giudizio su questo punto.
Infine, mi interesserebbe approfondire un po' il tema del fisco. Penso, naturalmente, che sia assolutamente giusta l'indicazione dell'obiettivo della riduzione della pressione fiscale. Tuttavia, ritengo che i processi di riduzione della pressione fiscale vadano, com'è ovvio, legati a tutto il resto (siamo tutti d'accordo).
Sul tema del fisco, però, c'è un problema specifico, quello della omogeneizzazione della tassazione sulle rendite finanziarie. Questa tassazione costituisce un elemento importante per ciò che riguarda la politica delle entrate, e costituisce un importante fattore di adeguamento della struttura del nostro ordinamento tributario rispetto ai sistemi fiscali degli altri paesi europei. Si tratta di una questione che fa sorgere grandi polemiche e anche grandi difficoltà.
Mi interessa pertanto conoscere l'opinione del Governatore su questo punto.

ADRIANO MUSI. Ringrazio il Governatore della testimonianza che ci ha portato. Ritengo che egli abbia reso un'affermazione importante quando ha sostenuto - giustamente - che bisogna conoscere per decidere al meglio e che quando si parla di cifre è un fatto non solo di contabilità ma di trasparenza di scelte. Allora, credo che sarebbe utile approfondire alcune considerazioni sviluppate nella sua relazione, perché capirle ci aiuterebbe ad assumere le conseguenti decisioni.
La prima e più importante considerazione è quella relativa alla previdenza. Viene fatto un accenno all'andamento favorevole dei tassi di attività e del prodotto interno lordo per i prossimi anni.
Per quanto riguarda la questione del cuneo fiscale, essa è stata già affrontata dall'onorevole Morgando e dall'onorevole La Malfa. Credo che, forse, un impiego più selettivo dei provvedimenti di riduzione del cuneo fiscale come strumento di politica economica sarebbe più utile rispetto ad un utilizzo indifferenziato.
A prescindere da questa considerazione, mi chiedo se questo giudizio sull'andamento favorevole dei tassi di attività e del PIL per i prossimi anni possa essere dato con convinzione quando, leggendo il DPEF, si prevede un tasso di occupazione del 67,8 per cento nel 2050, mentre l'agenda di Lisbona parlava del 70 per cento nel 2010. Allo stesso tempo si prevede, sempre per i prossimi trent'anni, un andamento medio annuo di incremento dell'1,4 per cento del prodotto interno lordo: mi chiedo come questo si leghi ai problemi dell'andamento della spesa e del risanamento.
Mi domando se il problema sia il risanamento o lo sviluppo, se il problema sia controllare la spesa o far crescere l'economia in maniera più coerente, utilizzando anche gli strumenti che venivano evocati poc'anzi.
Le chiedo tutto ciò perché con questa sorta di «macedonia statistica» su alcune voci si corre il rischio di sbagliare i nostri interventi. Penso, ad esempio, alla spesa previdenziale, di cui si continua a parlare impropriamente. Senza considerare il refuso presente nel testo, dove si indica una spesa del 15,4 per cento, anziché del 14 per cento rispetto al DPEF del 2005, le chiedo se una spesa di 1,2 di PIL nei prossimi 33 anni sia così ingiustificata per un paese che invecchia e che non ha un andamento demografico che gli consente di stare dietro all'invecchiamento.
Peraltro, ritengo che ad oggi, la discussione sull'allungamento dell'età pensionabile sia abbastanza consolidata. Sono convinto che i nostri figli e i nostri nipoti non andranno mai più in pensione all'età prevista per noi.
Per altri versi, una discussione seria sulla spesa pensionistica andrebbe affrontata. Dico questo non tanto perché la


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solita discussione previdenza-assistenza rappresenta sempre una sorta di distinzione contabile, ma perché ci aiuta a capire su cosa dobbiamo discutere. La previdenza, essendo un sistema assicurativo, è fondata sul pagamento dei contributi; l'assistenza è fondata su scelte che fa lo Stato.
Aumentare le pensioni a 516 euro è un fatto giusto, perché è giusto dare ai poveri. Tuttavia, se non hanno pagato nessun tipo di contributo, perché queste cifre vengono calcolate nella spesa previdenziale? Credo che fare chiarezza su questi aspetti ci possa aiutare a dire in quali campi dobbiamo intervenire, quali scelte di politica economica dobbiamo compiere.
La previdenza complementare e i fondi negoziali non sono qualcosa che interessa le confederazioni. Evidentemente, c'è una superficialità di conoscenza, sia perché partecipata dai datori di lavoro, sia perché è una forma di solidarietà contrattuale prevista dalle categorie verso le nuove generazioni.
Quando si parla di mercato nei fondi negoziali, allora si dica che si vuole rinunciare al contributo del datore di lavoro e del lavoratore. Il mercato è fatto di libertà di scelta: si danno i soldi ai lavoratori e questi scelgono liberamente, non attraverso il vincolo di una contribuzione contrattuale. Sarebbe tutto molto più semplice e trasparente.
Sui fondi pensione, poi, vi sono altre valutazioni da aggiungere. La prima riguarda la legge Dini e le nuove tipologie contrattuali che nel tempo si sono previste, che hanno determinato una precarietà di lavoro e rendono difficile per un giovane capire quale sia esattamente il suo diritto contrattuale. Il primo problema, dunque, è esattamente quello dei fondi pensione e della flessibilità.
La seconda valutazione riguarda la certezza della previdenza pubblica. Diventa difficile, per qualsiasi lavoratore, investire in una complementarità quando non riesce a capire quali sono le regole di una previdenza pubblica. Quando si dice che c'è un ruolo residuale, in questa fase, della previdenza complementare, forse aggiungerei delle valutazioni che sono rivolte anche alle persone e non solo ai soggetti che promuovono la previdenza complementare.
Utilizzo il passaggio della trasparenza dei conti per parlare anche del pubblico impiego. Anche qui assistiamo a vere «macedonie statistiche». Una statistica dell'Istat rivela che negli ultimi anni il lavoro autonomo è aumentato di due terzi rispetto al lavoro dipendente. Bisognerà capire, allora, come da altre fonti si possa dire che il pubblico impiego è aumentato al di là dell'inflazione, come ha detto la Corte dei conti, o al di là dello stesso prodotto interno lordo.
Penso che sia utile capire cosa vi sia dentro le retribuzioni del pubblico impiego. Se si inseriscono le missioni militari nel calcolo del trattamento dei lavoratori pubblici, è chiaro che diventa complesso capire quanto va direttamente al lavoratore e quanto alle missioni militari!
Se con l'aiuto del Governatore si cominciasse a parlare, capitolo per capitolo, di quello che le diverse voci rappresentano nella realtà, osservando un po'più di trasparenza statistica, forse riusciremmo a capire meglio come e dove intervenire anche in materia finanziaria.

GASPARE GIUDICE. Signor Governatore, devo dirle che ho molto apprezzato la posizione da lei assunta in occasione della recente assemblea dell'Associazione bancaria italiana. Siamo tutti d'accordo - forse non lo sono alcuni istituti di credito - sul fatto che le banche fanno parte integrante della classe dirigente del paese e che, per questo motivo, insieme alle forze politiche e alle organizzazioni rappresentative del sistema delle imprese e ai sindacati, devono farsi carico, per quanto di loro competenza, di concorrere all'inversione dell'attuale situazione, caratterizzata dalla crescita troppo bassa.
Il sistema bancario italiano, oggi, appare troppo ripiegato su se stesso. Per un verso, gli istituti sembrano concentrati prevalentemente su un processo di riorganizzazione interna, che avanza con una certa lentezza; per altro verso, pesano


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ancora troppo i condizionamenti, le resistenze ai processi di integrazione riconducibili a interessi della proprietà, quando non addirittura delle classi dirigenti.
Proprio alla luce della posizione da lei assunta, che condivido, le chiedo quali iniziative di politica economica potrebbero essere adottate per indurre le banche italiane a muoversi con maggiore coraggio, in modo tale da andare oltre luoghi comuni largamente superati e sostenere di più le iniziative a maggiore valenza innovativa, a prescindere dal fatto che le stesse siano collegate al nord, al nord est, al sud, piuttosto che al nord ovest.
Le chiedo, altresì, come diventare, a tutti gli effetti, attori globali in grado di intermediare in maniera più efficace l'ingente massa di risparmio accantonato ogni anno dagli italiani, in modo da privilegiare gli investimenti in grado di assicurare una più elevata redditività, partecipando attivamente - non soltanto come prede - ai processi di revisione degli assetti proprietari che stanno investendo l'economia reale, anche al di fuori dei confini nazionali (in sostanza, tentando di sprovincializzare le banche italiane).

PRESIDENTE. Abbiamo terminato così la seconda serie di domande. Do la parola al Governatore della Banca d'Italia, professor Mario Draghi.

MARIO DRAGHI, Governatore della Banca d'Italia. Inizierò rispondendo all'onorevole La Malfa circa la previsione di crescita nell'arco pluriennale del DPEF. Certamente, 1,7 per cento invece di 1,3 per cento non è un tasso di crescita particolarmente ambizioso per un paese come l'Italia.
Al riguardo, vorrei esprimere due considerazioni. La prima è che in fase di preparazione di bilanci pluriennali è probabilmente più saggio essere cauti sulle previsioni di crescita, che non essere eccessivamente ottimisti e proiettare un tasso di crescita delle entrate che poi non si verifica. La seconda, più di sostanza, è che tassi di crescita più elevati significano per l'Italia - ma questo è vero anche per altri paesi europei - riuscire a cambiare il sentiero di crescita potenziale del prodotto. Per farlo occorrono riforme strutturali.
Immaginare che queste riforme strutturali siano già fatte, nel momento in cui si stende il primo DPEF di un arco pluriennale, sarebbe stato veramente uno sforzo di ottimismo. Continuare a puntare a questo è essenziale, altrimenti non si ristabilisce un sentiero di crescita.
La domanda sulle privatizzazioni forse avrebbe dovuto rivolgermela prima, quando ero direttore del Tesoro. Intendo dire che le privatizzazioni sono una scelta eminentemente politica, quindi, come Governatore, oggi, non mi sento di commentare se sarebbe stato meglio avere dieci miliardi di euro di privatizzazioni in più o in meno nel DPEF. Lascerei questo alla decisione della politica.
L'onorevole Ventura mi chiede se il risanamento sia centrale. Lo è, ma non è dissociabile dalla crescita. Vedo la situazione attuale come un grosso debito pubblico seduto su una seggiola, che è il prodotto; se il prodotto non riprende a crescere, chi sta seduto sulla seggiola diventa sempre più grosso ma la seggiola diventa sempre più piccola. La crescita stessa è essenziale per la stabilità finanziaria, ma lo è anche il risanamento: le due cose vanno insieme. Questo intendo quando dico che ogni provvedimento dovrebbe essere valutato sotto il profilo del contributo che dà alla crescita e al risanamento oppure al risanamento e alla crescita. Le due cose, lo ripeto, devono essere sempre viste insieme.
Per il risanamento occorre, come ho detto prima, affrontare la spesa primaria corrente nei quattro comparti di spesa. Sul fronte delle entrate, occorre recuperare la base imponibile. Non sono un fiscalista, ma la sensazione che vi siano dei forti squilibri nella base imponibile in questo paese, che vi sia un ampio spazio di recupero di equità, attraverso un allargamento della base imponibile, è una sensazione diffusa. Direi che è quasi universale: non scopro la ruota. Che poi questo sia propedeutico, preliminare ad ogni decisione di politica fiscale finalizzata alla


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crescita, non ho alcun dubbio. Da questo punto di vista, i primi passi, che consistono sostanzialmente nell'abbandono del condono come strumento di politica fiscale, sono passi ben fatti, nella giusta direzione. Per la crescita, però, restano essenziali le riforme strutturali.
Rispondo all'onorevole Crosetto, che ritorna sulla domanda del senatore Vegas, a proposito delle aspettative del decreto del 30 giugno. Sgombriamo il campo: non si parla della parte del ministro Bersani. L'impressione che ho - correggetemi se sbaglio - è che il ministro dell'economia abbia già detto che è pronto a una rettifica di alcuni aspetti di questo decreto. Prima di pronunciarci, dunque, aspettiamo di vedere questa rettifica e speriamo che sia una buona rettifica, che raddrizzi le aspettative.
Molte domande si sono concentrate sul decreto Bersani. Si è detto che, in fondo, nel decreto si affrontano questioni abbastanza marginali per il rilancio dell'economia e che, certamente, non cambierà il mondo se si liberalizzano le licenze sui taxi, e così via. Sono assolutamente convinto che una maggiore concorrenza, che elimini sacche di rendita, di privilegio, è prima di tutto un importante fattore di equità, oltre che di crescita. Detto questo, quel provvedimento ha il merito di aver riaperto il dossier concorrenza. È chiaro che se questo dossier si richiude domani, tutto quello che è stato detto a proposito della scarsa incisività di queste prime misure resta vero; se, invece, è l'inizio di un dossier che si estenderà nel corso dei prossimi mesi e dei prossimi anni, ben venga.
In questo senso, dico che questi primi passi si muovono nella giusta direzione. Concordo nel ritenere che questi passi debbano essere estesi ad altri settori, in primis ai settori di pubblica utilità.
Il SIOPE, onorevole Armani, già copre gran parte degli enti e, comunque, dal 1o gennaio 2007 coprirà il 100 per cento degli enti.

PIETRO ARMANI. È una bella notizia!

MARIO DRAGHI, Governatore della Banca d'Italia. Ogni tanto riusciamo a darle!
Torno alla domanda dell'onorevole La Malfa (vedo che si è allontanato, sul cuneo fiscale che peraltro mi era stata rivolta anche dall'onorevole Morgando.
Indubbiamente, le modalità di finanziamento di questo sgravio sono cruciali, perché l'entità potenziale è notevole. Ritengo che sia una misura appropriata perché, nel confronto internazionale, l'incidenza del fisco in questo settore è in Italia tra le più elevate. Nel 2005 il fisco ha prelevato il 45,4 per cento del costo del lavoro, senza contare l'IRAP, contro una media dei paesi OCSE del 37,3 per cento.
Come dicevo, le modalità di finanziamento di questa misura sono cruciali perché indubbiamente l'entità del finanziamento è notevole, specialmente se ne viene fatta un'applicazione non selettiva. È una misura appropriata? La risposta è sì, perché il prelievo del fisco sul lavoro, in Italia, è tra i più alti nel confronto internazionale.
Nel 2005, lo ripeto, il fisco ha prelevato il 45,4 per cento del costo del lavoro, senza contare l'IRAP. Di per sé, dunque, lo sgravio ha un effetto di diminuzione delle distorsioni e deve essere selettivo. Si vuole che questa misura dia competitività alle imprese, quindi è destinata principalmente ai datori di lavoro, soprattutto nei comparti più esposti alla concorrenza internazionale.
Questa è la finalità della misura. Che poi sia effettivamente possibile realizzarla, è un altro discorso, ma questo è il punto fondamentale.
Tuttavia, i benefici di questa misura sono temporanei, quindi occorre che, nello stesso tempo, per avere un vantaggio permanente aumenti la produttività, ed ecco che riforme strutturali o misure strutturali a livello di organizzazione d'impresa sono importanti. In secondo luogo, tale misura richiede una copertura certa e immediata, altrimenti si apre di nuovo un punto d'incertezza nel bilancio.
Vengo alla domanda dell'onorevole Morgando: serve il DPEF? Penso di sì. Intanto, è un passo presente in quasi tutti gli altri paesi con cui noi ci confrontiamo. Esso consente di anteporre la fissazione


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degli obiettivi di finanza pubblica alla definizione in dettaglio degli interventi correttivi, quindi ha il merito di «spezzare in due» e contribuisce sicuramente a contenere le spinte alla crescita della spesa.
Se torniamo indietro con la memoria, vediamo che prima del 1988 il Parlamento incrementava sistematicamente e significativamente l'obiettivo di disavanzo stabilito dal Governo. Dopo quella data, l'effetto sul saldo degli emendamenti parlamentari è sempre stato sostanzialmente nullo. Secondo me, questo basta per giustificare il mantenimento di questo passaggio.
Sulla tassazione dei rendimenti (preferisco chiamarli in tal modo piuttosto che rendite) da capitale, secondo me la parola d'ordine - come vediamo in un'area diversa, quella dei fondi pensione - è uniformità.
Non occorre distinguersi, né in un senso, né nell'altro, anche perché le attività finanziarie sono la cosa più mobile che ci sia. Se si assumono atteggiamenti asincroni rispetto a quelli dei paesi con cui noi più ci confrontiamo, che sono parte dello stesso mercato finanziario, presumibilmente con gran facilità queste attività si sposteranno nei paesi dove la tassazione è più favorevole.
Onorevole Musi, non è un refuso il 15,4 per cento, ma è la cifra Istat che include tutte le prestazioni e le rendite pensionistiche.
Mi si chiede: risanamento o sviluppo? Torno a dire che tutte e due sono importanti, e credo che su questo siamo d'accordo. Lo sviluppo, però, non si raggiunge aumentando la spesa o tenendo le attuali dinamiche della spesa corrente: si raggiunge facendo riforme strutturali che, per forza di cose, incidono sia su quei quattro comparti di spesa, sia su tutti i mercati dei fattori e dei beni.
Giustamente si rimprovera la confusione che si fa spesso tra spesa pensionistica e spesa sociale. Indubbiamente, nella categoria di spesa pensionistica c'è un elemento sociale. Un aspetto importante - che credo, tra l'altro, rientri nei programmi di questo Governo- consiste nell'aumentare la parte che corrisponde agli ammortizzatori sociali (quegli ammortizzatori che permettono un funzionamento del mercato del lavoro più equilibrato).
Per quanto riguarda la previdenza complementare, se il suo punto è che le due parole d'ordine sono portabilità e libera scelta del lavoratore, siamo fondamentalmente d'accordo.
L'ultima domanda dell'onorevole Giudice riguarda le banche. Se non sbaglio, mi chiede se occorrano delle leggi per accelerare il processo di rinnovamento del settore bancario. Credo di no. Più che leggi occorrono comportamenti, in particolare, delle persone a cui mi sono rivolto nel discorso sul sistema bancario, ossia, delle persone che si trovano oggi in posizione chiave per promuovere decisioni di rinnovamento, di consolidamento, oppure per stacolarle (cioè i presidenti e gli amministratori delegati di queste banche).

PRESIDENTE. Ringrazio il Governatore Draghi per la sua presenza e dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 16,20.