COMMISSIONE VII
CULTURA, SCIENZA E ISTRUZIONE

Resoconto stenografico

AUDIZIONE


Seduta di marted́ 4 luglio 2006


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE PIETRO FOLENA

La seduta comincia alle 14,20.

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata, oltre che attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso, anche mediante la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.
(Così rimane stabilito).

Audizione del ministro dell'università e della ricerca, Fabio Mussi, sulle linee programmatiche del suo dicastero.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione, ai sensi dell'articolo 143, comma 2, del regolamento, del ministro dell'università e della ricerca, Fabio Mussi, sulle linee programmatiche del suo dicastero.
È con particolare piacere che do il benvenuto al ministro Fabio Mussi, che è a capo del nuovo dicastero dell'università e della ricerca. Credo che questa sia una novità di grande importanza che caratterizza l'azione del Governo.
Do quindi la parola al ministro dell'università e della ricerca.

FABIO MUSSI, Ministro dell'università e della ricerca. Prometto che in tutte le prossime occasioni la mia brevità sarà di tipo europeo. Oggi, però, vorrei invocare la vostra pazienza, perché è mia intenzione dare un'informazione il più possibile completa, nonché un riferimento di cornice che ci consenta di collocare i problemi del nostro sistema nazionale.
Di una cosa sono certo, ed è che abbiamo poco tempo. Il nostro sistema dell'istruzione superiore e della ricerca produce buona - spesso eccellente - materia prima. Il Nature ha pubblicato uno studio che colloca i ricercatori italiani ultimi per i finanziamenti, ma al terzo posto per la produttività scientifica, tra i paesi del G8. Materia prima buona per l'esportazione, pronta per essere utilizzata altrove - resto d'Europa, Asia e soprattutto Stati Uniti - nella produzione di cultura, sapere e tecnologia.
Abbiamo poco tempo, perché il nostro sistema nazionale rischia di diventare rapidamente periferico nella vera e propria rivoluzione in corso: la formazione sempre più accelerata di un sistema globale dell'educazione e della ricerca.
Qui, ovviamente, parliamo dell'Italia e del suo destino, ma anche del contributo che l'Italia può dare all'umanità, considerato che abbiamo di fronte un breve periodo cruciale. Uno dei più grandi biologi viventi, Edward O. Wilson, sostiene che i prossimi vent'anni saranno un «collo di bottiglia» per l'umanità, nel quale dobbiamo evitare la fine degli abitanti dell'isola di Pasqua - mirabilmente raccontata da Jared Diamond, in «Collasso» - estinti per l'incapacità di affrontare i nuovi problemi da loro stessi creati.
I nuovi problemi, in estrema sintesi, sono i seguenti: crescita fino a 9 miliardi di individui, urbanizzazione e invecchiamento della popolazione mondiale; nuove disuguaglianze, dal cibo all'informazione, prodotte dalla globalizzazione, che pure ha effetti benefici su una parte crescente di uomini; fine annunciata dell'età del


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petrolio ed esigenza vitale di nuove energie rinnovabili; effetti di due secoli di industrializzazione sul clima e sull'ambiente, fin dentro ai meccanismi di produzione e riproduzione della vita.
L'umanità è a un bivio e la nostra speranza si chiama conoscenza, scienza e salto tecnologico. Il programma di lavoro del Governo è semplice da enunciare, ma non semplicissimo da realizzare. Vogliamo e dobbiamo far entrare l'Italia da protagonista nella società della conoscenza; vogliamo e dobbiamo invertire il lungo percorso di declino del nostro paese - a cui mi permetto di rilevare che le politiche del Governo precedente hanno dato una qualche accelerazione - e passare da un modello non più sostenibile di sviluppo, peraltro sempre più scarso senza ricerca, all'unico modello sostenibile, quello dello sviluppo fondato sulla ricerca, anzi del progresso fondato sulla ricerca.
Dobbiamo riportare l'Italia in Europa, i giovani nelle università e nei laboratori, la ricerca nei luoghi di produzione. Dobbiamo accettare la grande sfida, quella che abbiamo inserito nel nostro programma di Governo: rimettere il sapere al centro della politica, dell'economia e della società.
Per realizzare questo programma si devono valorizzare tutti e tre gli elementi su cui si fonda la conoscenza, che sono la formazione - ci compete in questa sede discutere su quella universitaria -, la ricerca e l'innovazione tecnologica. Occorre, altresì, qualificare questi tre elementi col perseguimento contemporaneo di tre grandi obiettivi: qualità, equità ed efficienza, che peraltro era lo slogan della recente conferenza OCSE sull'università che si è tenuta ad Atene lo scorso 28 e 29 giugno.
Qualità: il nostro Paese ha bisogno di produrre, diffondere ed applicare la conoscenza al più alto livello possibile. Molti studi e un ultimo rapporto Science and Engineering Indicators 2006 della National Science Foundation degli Stati Uniti rilevano il ruolo decisivo che l'educazione superiore e la ricerca scientifica assolvono nei processi di innovazione tecnologica e di sviluppo economico.
Equità: il nostro Paese ha bisogno, come d'altra parte il mondo intero, che la cultura sia accessibile a tutti e che il sapere costituisca un'opportunità per tutti. L'opportunità della conoscenza dev'essere offerta a tutti. Lo afferma la Carta costituzionale: compito della Repubblica è «rimuovere gli ostacoli», sapendo che le opportunità si presentano fin dall'inizio, avvolte nella disuguaglianza.
D'altronde, è un'idea antica. Già nel XVII secolo Francis Bacon scriveva che la scienza, in una fase molto più precoce di oggi, non può essere a vantaggio di questo o di quello, ma deve essere a beneficio dell'intera umanità.
Per aumentare la qualità e l'equità dell'Italia della conoscenza occorre una strategia e occorre anche che gli interventi e le riforme non siano realizzati dall'alto, contro o anche solo senza gli studenti, i docenti e i ricercatori tecnici, ma insieme a loro, nel pieno rispetto del valore più prezioso coltivato dalla comunità scientifica, cioè l'autonomia.
Infine, l'efficienza: le risorse finanziarie non sono infinite, tantomeno nell'Italia di oggi, con i problemi che conoscete bene. Dunque, i soldi disponibili devono essere prima di tutto spesi bene.
Come abbiamo già detto, il mondo non sta aspettando l'Italia. Nei paesi più sviluppati gli spazi relativi alla produzione di beni materiali - quella che una volta chiamavamo industria manifatturiera - si sono ristretti e si vanno ulteriormente restringendo, a vantaggio della produzione di beni immateriali, di servizi, comunque di prodotti ad alto valore di conoscenza aggiunto.
Siamo di fronte alla terza grande rivoluzione produttiva, e quindi sociale, nella storia dell'umanità. Dopo quella dell'agricoltura e dell'allevamento - parliamo di 7-8 mila anni fa - e dopo la rivoluzione dell'industria, poco più di 200 anni fa, l'uomo sta realizzando la rivoluzione dell'informazione e della conoscenza, e il mondo si sta attrezzando.


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Negli Stati Uniti il Presidente Bush ha annunciato il raddoppio - e da che base partono gli Stati Uniti! - degli investimenti in ricerca fondamentale in dieci anni. Il Giappone, da alcuni anni, ha fortemente aumentato la spesa pubblica in ricerca di base.
Ahimè, pochi sembrano essersene davvero accorti, qui da noi, ma i protagonisti dalla terza rivoluzione produttiva dell'umanità non risiedono solo nelle regioni del mondo che hanno realizzato la rivoluzione industriale - non solo nord America, Europa e Giappone, per intenderci. Ci sono aree del mondo dove vivono centinaia di milioni, miliardi di persone che stanno entrando nella società della conoscenza. Penso al Brasile e ad altri paesi dell'America Latina, penso a diversi paesi che nell'Asia orientale stanno modificando la geopolitica della conoscenza.
La Corea del Sud, pur avendo la metà del nostro reddito nazionale, investe in ricerca scientifica più dell'Italia in termini assoluti. Con la tendenza attuale, in pochi anni ci sostituirà nel G8. L'India, da sola, laurea più tecnici e ingegneri dell'intera Unione europea. La Cina è già diventata il terzo esportatore al mondo di prodotti ad alta tecnologia e aumenta gli investimenti in ricerca a un ritmo superiore al 20 per cento annuo. Ogni quattro anni, dunque, raddoppia quasi la spesa.
Qualche tempo fa, il New York Times ha colto la novità e, non senza qualche preoccupazione, ha rilevato che nel 2003, per la prima volta nella sua storia, la Physical Review, prestigiosa rivista di fisica americana, ha pubblicato più articoli scientifici di autori cinesi, che non di autori statunitensi. E dire che molti di noi, in Italia, si preoccupano della concorrenza cinese nel settore delle scarpe o delle t-shirt! Preoccupiamoci, piuttosto, dell'hi-tech!
Insomma, si spalancano nuovi panorami tecnologici ed economici e nuovi panorami culturali e geopolitici. L'Unione europea è in un qualche ritardo: solo il 21 per cento della popolazione europea in età da lavoro ha un'istruzione superiore, contro il 38 per cento degli Stati Uniti, il 36 per cento del Giappone e il 26 per cento della Corea.
L'Unione può contare solo su 5,5 ricercatori ogni mille lavoratori, contro i 9 degli Stati Uniti e i 9,7 del Giappone. Tuttavia, l'Unione europea ha mostrato di avere percepito la posta in gioco (e qui vengo ad un quadro essenziale per capire quel che possiamo provare a immaginare di fare). E infatti a Lisbona, nel 2000, si è data una strategia ambiziosa per diventare, entro il 2010, la prima economia knowledge-based, fondata sulla conoscenza, del mondo.
Successivamente, a Barcellona, ha indicato anche obiettivi precisi, primo fra tutti investire in ricerca scientifica il 3 per cento del prodotto interno lordo, evitando che si crei un ulteriore gap, non solo rispetto a Stati Uniti e Giappone, ma - su questo insisto sempre - rispetto all'economia dell'Asia orientale. Creare uno spazio europeo della formazione superiore e della ricerca, superando quella frammentazione che a tutt'oggi vede il 95 per cento della spesa europea in ricerca decisa in sede nazionale, nelle 25 capitali dell'Unione, e solo il 5 per cento decisa a Bruxelles, in sede comune, con la politica unitaria, oggi è essenziale.
Il settimo programma quadro, appena approvato dal Parlamento europeo, contiene buone novità. In primo luogo, come sapete, aumenta la spesa. Nei prossimi sette anni l'Unione europea investirà oltre 53 miliardi di euro in ricerca e - novità assoluta - una parte rilevante di questa spesa andrà a finanziare i progetti di scienza di base, o meglio di scienza curiosity-driven, valutati con grande autonomia scientifica in sede di Consiglio europeo delle ricerche. In questo organismo, voglio ricordarlo, sono presenti due italiani, il professor Claudio Bordignon del San Raffaele di Milano e il professor Salvatore Settis, direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa, non indicati dal Governo, ma cooptati direttamente dalla comunità scientifica europea.
È la prima volta che l'Unione ha un programma organico di investimenti nella


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ricerca guidata dalla curiosità. Noi abbiamo intenzione non solo di tornare in Europa, dopo cinque anni - vorrei che questa frase venisse interpretata per quella che è, una critica politica - di tentazioni autarchiche, ma anche di inserirci tra le locomotive dell'integrazione europea nello spazio della ricerca e dell'educazione.
Per questo parteciperemo con entusiasmo non solo al settimo programma quadro, ma anche all'affermazione del Consiglio europeo delle ricerche, così come appoggeremo con entusiasmo la costituzione dell'Istituto europeo di tecnologia ed ogni altra iniziativa - altre sono in campo - volta a creare uno spazio comune dell'innovazione tecnologica.
Anche nel campo dall'alta formazione l'Europa si è data obiettivi ambiziosi. L'Unione europea può contare su un potenziale di valore assoluto: 4 mila istituzioni universitarie, 435 mila ricercatori, 1,5 milioni di personale in organico, 17 milioni di studenti. Questo potenziale deve essere valorizzato in una rete che faccia sistema.
Il cosiddetto processo di Bologna prevede proprio questo, maggiore qualità e maggiore integrazione europea. Entro il 2010 il nucleo delle riforme di Bologna deve essere realizzato - questi sono gli impegni - e devono essere raggiunti gli standard di qualità e di integrazione previsti dal processo che prende il nome dalla più antica università italiana.
Noi vogliamo non solo partecipare, ma accelerare questo processo, ponendoci all'altezza della sfida. Per fare questo occorrono risorse. La spesa in istruzione superiore in Europa deve raddoppiare, giungendo in breve al 2 per cento del PIL, e la spesa italiana deve fare altrettanto.
Ovviamente, il problema non è solo di quantità, ma di qualità del nostro sistema universitario. La nostra università vive una crisi che ha una doppia natura: una strutturale, di lungo periodo, che coinvolge gli atenei di tutto il nostro continente, e forse dell'intero mondo occidentale; l'altra, contingente, è legata alle specifiche scelte politiche e culturali effettuate nel nostro paese, non solo - lo voglio dire per onestà - in anni recentissimi e non solo dall'ultimo Governo. Non sarebbe onesto, francamente, dire il contrario.
La crisi strutturale nasce dalla crisi del modello di università ottocentesca. Da allora, sono successe cose straordinarie nel campo delle scienze. Qui sarebbe interessante fare una valutazione, solo per restare nel campo delle scienze fisiche e matematiche, di cosa significhi culturalmente il passaggio dalla meccanica classica a quella quantistica. Tuttavia, quell'idealtipo di università europea ed italiana non aveva conosciuto quel pluralismo di valori che oggi caratterizza la nostra società e la nostra cultura.
La società è cambiata, la crisi è profonda e richiede una nuova università. Da un'università per pochi stiamo passando ad un'università per molti e tendenzialmente per tutti; da un'università di valori assoluti ad un'università laica; da un'università ancorata al mondo epistemologico delle certezze ad un'università ancorata al mondo epistemologico della probabilità e degli scenari possibili; da un'università che vive nello Stato nazione ad un'università che vive nel mondo dell'informazione globale e del mercato globale; da un'università monade sociale delocalizzata ad un'università «glocale», dove il sapere globale si incontra con i bisogni locali; da un'università per soli maschi - le prime pochissime donne sono entrate nell'università, a Parigi e a Zurigo, solo alla fine dell'800 - ad un'università che è stata attraversata dalla rivoluzione femminile. Oggi le studentesse sono più numerose e, spesso, ottengono migliori risultati, sono più brave dei maschi.
Esiste però ancora un «tetto di cristallo», come viene chiamato, che impedisce alle donne non tanto di entrare nei ruoli accademici, quanto di raggiungere i vertici della carriera.
Siamo passati da un'università a cui viene chiesto di formare ristrette classi dirigenti, in un ciclo breve e definito d'istruzione rigidamente disciplinare, ad un'università a cui viene richiesto di formare insiemi sempre più numerosi di


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persone, in un ciclo di istruzione continua e senza fine (long life learning) e in una rete elastica che superi le barriere disciplinari.
Questi punti esprimono oggi più i bisogni della società della conoscenza che già un loro soddisfacimento. Abbiamo molto da inventare, perché nuovi bisogni vivono in ambiti accademici vecchi. Dobbiamo trovare le nuove forme e i nuovi contenitori dell'istruzione superiore, per soddisfare i bisogni complessi ed enormi della società della conoscenza. Dobbiamo, altresì, tenere sempre presente che questi nuovi saperi fluidi e dinamici, laici e globali, devono essere accessibili a tutti, che l'ingresso nella nuova università dev'essere garantito non solo ai ricchi e ai potenti, ma anche, se possibile, ai figli degli operai e agli operai stessi, o più in generale agli strati più deboli della popolazione.
Questo non solo per una questione elementare di giustizia sociale - non sarebbe poca cosa - ma anche per mera convenienza. Una società in cui la conoscenza e il sapere diffuso è patrimonio di larghi strati della popolazione è una società che si sviluppa più dinamica e più equilibrata.
Non sarà facile realizzare questa nuova università. In ogni caso, poiché sono realista, la possibilità non è tutta nei poteri di un ministro e di un Governo; forze di lungo periodo, culturali, sociali, economiche e tecnologiche operano in questa dimensione. Tuttavia, non va trascurato ciò che è nel potere e quindi nella responsabilità della politica, Parlamento e Governo.
Tra i poteri e le responsabilità della politica vi sono quelli di rimuovere le cause contingenti che ostacolano la transizione dalla vecchia alla nuova università. Il primo ostacolo è quello delle scarse risorse umane. Abbiamo un numero di ricercatori per unità di lavoro che è la metà di quello europeo, un terzo rispetto agli Stati Uniti. Inoltre, il 42 per cento dei nostri docenti ha un'età superiore ai 50 anni. La percentuale sale all'80 per cento per i professori ordinari, tra i quali oltre il 40 per cento ha più di 60 anni. Esiste un vero e proprio picco di docenti di età compresa tra i 55 e i 60 anni che, come una specie di onda anomala - hanno scritto Stefano Zapperi e Francesco Sylos Labini -, si sposta nel tempo e si avvicina alla costa dell'età pensionabile. Se non interveniamo, tra 15 anni si creerà un buco di personale, paradossale in un paese che ha tanti giovani che vorrebbero fare ricerca e non possono, dando così origine ad un abbandono della carriera o al brain drain, il drenaggio dei cervelli. Tutto questo mentre ben 50 mila studenti, in gran parte nel Mezzogiorno d'Italia, che sono riconosciuti meritevoli, ma sono bisognosi, non usufruiscono di una borsa che li aiuti a continuare gli studi per i quali sono versati. L'ingiustizia è enorme e il danno per il paese grande. Non c'è dubbio, ripensare alla radice il rapporto tra i nostri giovani e la nostra università è un problema assolutamente prioritario.
Il secondo ostacolo è quello delle risorse finanziarie, ambito nel quale, come dirò a breve, non prometto miracoli. In questi anni, la domanda di istruzione superiore in Italia è cresciuta del 20 per cento; il numero di laureati, anche se resta tra i più bassi in Europa, è aumentato del 33 per cento, anche in virtù della riforma del «3+2», e il numero degli abbandoni è diminuito dal 70 al 35 per cento. Tuttavia, mentre negli ultimi quattro anni degli scorsi Governi di centrosinistra - tra il 1998 e il 2001 - i fondi a disposizione erano aumentati complessivamente del 54,72 per cento (3,2 miliardi di euro in più rispetto alla dotazione del 1997), nei primi quattro anni del Governo di centrodestra, fra il 2002 e il 2005, il finanziamento è diminuito complessivamente del 10,48 per cento (750 milioni di euro in meno rispetto al 2001), e un ulteriore taglio è stato previsto per il 2006, l'anno in corso.
Ancor più grave, se possibile, è il taglio dell'edilizia universitaria operato dal Governo Berlusconi. Eppure il nostro paese offre un posto letto solo al 2 per cento dei suoi studenti fuori sede, contro il 7 per cento della Francia, il 10 per cento della Germania e il 20 per cento di Svezia e Danimarca.


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Gli unici finanziamenti aumentati sono quelli a favore delle università private, alle quali tuttavia non pensiamo affatto di toglierli. È uscito un testo sbagliato sul Sole 24 Ore, che prevedeva una voce di riduzione ai finanziamenti delle università private, che però sulla Gazzetta Ufficiale non trova riscontro.
Un terzo ostacolo è di ordine culturale. Sono passate, in questi anni, delle idee che sono veri e propri luoghi comuni, come quella che il mondo dell'università è il mondo del privilegio improduttivo e parassitario. Certo, la cronaca ci ha dato notizia di molti casi di mala università, di baronie e di nepotismi, di carriere improbabili e di concorsi strani. Vi annuncio che sto verificando la possibilità, per il Ministero, di costituirsi parte civile in questi processi, perché questo è un danno gravissimo all'università e all'Italia. Questi comportamenti vanno combattuti e perseguiti con la massima severità. Bisogna spezzare la crosta corporativa, tanto più in questo settore, che si alimenta di qualità, mobilità, libertà.
Tuttavia, non è affatto vero che l'università italiana, nel suo complesso, è improduttiva e divora solo, in stipendi e privilegi, tutta la dotazione dei fondi. I dati pubblicati dal comitato per la valutazione dimostrano che in due atenei su tre le spese per il personale non superano il 61 per cento del totale.
Come abbiamo già detto, i ricercatori italiani hanno una produzione scientifica del tutto in linea con quella europea, nonostante il minore investimento pro capite.
Nei primi giorni del mio mandato ho voluto dare un segnale chiaro al mondo dell'università, nel senso della serietà e del rigore. Abbiamo bloccato il decreto con il quale il ministro uscente, la signora Letizia Moratti, nel marzo scorso aveva introdotto il cosiddetto doppio canale a Y delle nuove lauree, con un anno comune e poi la biforcazione: un biennio pratico-professionale e un quadriennio metodologico-specialistico. Il decreto si era guadagnato l'avversione generalizzata del mondo universitario, perché conteneva dei rischi di abbassare la qualità della formazione. Entro questa estate lo riproporremo in una nuova versione - niente azzeramenti, ma «manutenzioni», correzioni - più equilibrata, in modo che nel 2007 le università possano partire con i nuovi corsi.
Vorrei introdurre, a questo punto, anche una nota metodologica. Lo prometto: mai più riformismo dall'alto. Faremo ogni sforzo per ascoltare il parere dei vari attori che operano nelle università e andremo nelle università e nei centri di ricerca per parlare con docenti, ricercatori, ricercatori precari, studenti e tecnici, per poi prendere le decisioni e proseguire, ogni volta che si può, piuttosto che con leggi con atti amministrativi.
Intanto, ho sospeso altri due decreti, il n. 216 del 10 aprile e il n. 217 dell'11 aprile, che riguardano il finanziamento all'università e la programmazione triennale, perché vogliamo vederci più chiaro. Ho notato anche effetti collaterali che, se confermati, vanno corretti. Per esempio, si prevede per un'ultima tranche, con quei criteri, che il 75 per cento dei fondi vada al nord (il 20 per cento a Milano), mentre il 20 per cento è attribuito alle università del centro e appena il 5 per cento a quelle del sud. È necessaria una distribuzione più equilibrata, adottando criteri e parametri oggettivi.
Ho ritirato anche il decreto che autorizzava il riconoscimento dell'Università «Francesco Ranieri» di Villa San Giovanni. Vogliamo verificare se ha i titoli per nascere. Abbiamo rilevato, inoltre, l'abuso del sistema delle convenzioni e delle cosiddette lauree privilegiate, comprese le lauree delle cosiddette università telematiche.
Nel 2001, all'inizio della scorsa legislatura, sono state sciolte le briglie, anche se la legge non obbligava agli abusi. Allora, noi abbiamo intenzione di tirare nuovamente quelle briglie, proprio per evitare gli abusi. Ci sono stati anche rilievi degli organi giurisdizionali sul decreto Moratti relativo alle abilitazioni e all'accesso agli ordini professionali: una materia sulla quale deve logicamente far premio il recepimento della direttiva comunitaria sulle


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qualifiche professionali superiori. La Corte dei conti, visto il ritiro del decreto sulle classi di laurea, ci ha invitato al ritiro anche di questo decreto, per poterlo esaminare meglio.
Se l'università è una priorità assoluta, non mi nascondo che la questione delle risorse è fondamentale. Tuttavia, non posso ancora assumere impegni precisi su questa questione perché saranno discussi in sede di legge finanziaria (li discuteremo anche qui, ovviamente, per quanto riguarda i capitoli di nostra competenza). Ricordo, però, che è impegno di questa maggioranza e di questo Governo perseguire il risanamento e nel contempo lo sviluppo, quindi gli investimenti, che in questo campo sono essenziali.
Gli studenti sono il nuovo centro gravitazionale dell'istruzione superiore. Vogliamo aprire le porte dell'università ai giovani e rimuovere gli ostacoli, anche di genere, che impediscono l'accesso all'istruzione superiore, abbattendo tutte le barriere che ostacolano la diffusione nella società dei giovani che escono dall'università.
Per questo organizzeremo, in tempi abbastanza rapidi, una conferenza nazionale sulla condizione studentesca. È necessario definire, finalmente, uno statuto dello studente, con ben definiti tutti i diritti e anche tutti i doveri che comporta l'iscrizione all'università; realizzare un programma di borse di studio che rimuova tutti gli ostacoli finanziari che impediscono agli studenti meritevoli e privi di mezzi di iscriversi e/o di frequentare l'università; realizzare un programma per le residenze universitarie; rendere più flessibile - questo è un punto importante - il sistema della tassazione universitaria, modulandola in rapporto al reddito dello studente e alla qualità dell'ateneo.
Per quanto riguarda la riforma - didattica e ricerca - intendiamo verificare l'efficacia della legge del 1999 e le successive modifiche e correggere, dove occorre, la cosiddetta riforma «3+2». Sia chiaro, non vogliamo cancellare la riforma e cominciare daccapo - credo che sarebbe un messaggio devastante - ma proseguire sul cammino intrapreso e realizzare le verifiche già previste per il 2007 e 2010 dal processo di Bologna.
Confermiamo che i tre livelli di laurea vanno bene, ma non era scritto da nessuna parte che il primo fosse per molti un vicolo cieco professionale o una semplice tappa di passaggio verso livelli superiori. Pensiamo che anche il sistema dei crediti vada bene, ma non era scritto che occorresse arrivare alla frammentazione degli insegnamenti e all'abnorme proliferazione dei corsi (dai 2500 del vecchio sistema ai 5500 del nuovo, nonostante che il ministro Moratti ne abbia cancellati meritoriamente un buon numero). Dobbiamo ridurre frammentazione e proliferazione, elevando gli standard, che si debbono poter esigere per la qualità dei corsi.
Per quanto riguarda il dottorato di ricerca, esso oggi viene concepito essenzialmente come una tappa verso la carriera universitaria. Noi pensiamo che giovani altamente formati non siano necessari solo per il nostro sistema pubblico di ricerca, ma siano necessari anche per la pubblica amministrazione e per le imprese. In altri paesi, in Europa e non solo, i dottori di ricerca escono dalle università e si diffondono nella società. Se in Italia le imprese continueranno a fare a meno di questi giovani altamente qualificati, difficilmente riusciranno a competere sui mercati globali dei beni ad alto valore aggiunto di conoscenza. E anche la pubblica amministrazione avrà difficoltà a raggiungere standard di livello internazionale.
Sarà nostro impegno rimodulare il dottorato e aprire le porte della pubblica amministrazione ai giovani dottori di ricerca, attribuendo uno specifico punteggio al loro titolo per i concorsi.
Più in generale, deve svilupparsi il dialogo tra scienza, università e società. Quella della comunicazione con l'opinione pubblica è la terza mission dell'università. Occorre riformare globalmente il long life learning. Entro il 2050, cioè domani, l'Italia sarà il paese con più persone anziane d'Europa e forse del mondo. Il repentino innalzamento dell'età media, insieme al tumultuoso evolvere delle conoscenze e


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alla nuova flessibilità del lavoro, ci impone di prolungare nel tempo e di rendere continuo per tutta la vita l'apprendimento.
Vogliamo dedicare una specifica attenzione al long life learning, e valga qui ricordare che l'agenda di Lisbona prevede per tutti i paesi dell'Unione, entro il 2012, la presenza del 12,50 per cento della popolazione adulta inserita nel sistema di formazione («galleggiamo» intorno al 2 per cento).
Vogliamo più autonomia per l'università e, quindi, più responsabilità da parte dell'università medesima. L'autonomia deve fondarsi su meno norme e meno burocrazia, e la responsabilità deve fondarsi su una rigorosa valutazione del merito. Vorrei qui annunciare che, con adeguata preparazione - non è cosa di poche settimane, ma richiederà tempo -, sarà presentato un provvedimento certo molto impegnativo di riforma della governance universitaria.
Per questo, pensiamo anche alla delicata riforma del sistema stesso dei concorsi. Ogni università deve essere autonoma, non solo nel gestire il suo budget e la sua immagine, ma, almeno tendenzialmente, anche i suoi docenti, pur mantenendo il principio della valutazione comparativa.
Dobbiamo progressivamente spostare il baricentro della selezione dalla procedura - i concorsi - alla valutazione dei risultati. Dobbiamo, pertanto, organizzare un sistema di valutazione del merito estremamente rigoroso, in cui tutti, all'interno dell'università, sono valutati con standard internazionali, chi è selezionato e chi seleziona, chi entra per la prima volta nell'università e chi ci sta da sempre.
Da questo punto di vista, voglio ricordare l'apprezzamento per il lavoro del CIVR e del CNSU e annunciare che presenteremo molto presto - e la discuteremo, naturalmente, in questa sede - la legge istitutiva, molto importante, dell'agenzia per la valutazione, indipendente e dotata di forti poteri. È evidente che, esistendo l'agenzia, una quota crescente del budget negli anni deve essere assegnata non con criteri automatici, ma sulla base della valutazione dei risultati.
Nella scorsa legislatura il Parlamento è stato impegnato in una farraginosa discussione su un testo di riforma della docenza, contestato dal mondo universitario, che in realtà mostra di non avere risolto nessuno dei problemi sul tappeto; anzi, esso presenta tali difficoltà interpretative e applicative da richiedere, caso unico, commissioni di consulenza del Ministero - non istituite da me, le ho trovate - per l'interpretazione della legge e atti amministrativi che ne attenuino il disastroso quadro. Sono già dovuto intervenire due volte in un mese, per consentire l'attribuzione di incarichi e supplenze da parte dei rettori, cosa che sulla base della legge n. 230 era impossibile, e per evitare che il CUN dovesse approvare tutti gli atti dei concorsi degli ultimi cinque anni, con il conseguente inevitabile blocco totale della didattica.
Su questo tema procederemo gradualmente. Abbiamo già riportato alla normativa precedente la disciplina di approvazione degli atti dei concorsi, che rischiava di essere inapplicabile. Altre norme verranno gradualmente abrogate o modificate, in attesa di una riforma complessiva della carriera dei docenti, che sarà possibile in presenza di un buon rodaggio del nuovo sistema di valutazione.
Vengo, molto più brevemente, alla questione della ricerca. Consegnerò la parte di analisi della situazione internazionale e nazionale. Come vedrete, i dati sono preoccupanti: produciamo il 14 per cento della ricchezza dell'Unione, ma partecipiamo solo al 7 per cento degli investimenti europei in ricerca. Siamo tra le prime otto potenze economiche mondiali, ma ci collochiamo tra il ventesimo e il trentesimo posto in quasi tutte le classifiche sull'intensità del sapere. Spendiamo l'1,1 per cento in ricerca (quest'anno ci avviciniamo all'1 per cento), un terzo o un quarto di quanto spendono i nostri partner.
Questo dipende non tanto dall'investimento pubblico, che si attesta sulle medie


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europee, quanto dall'investimento privato (0,38-0,4 per cento del PIL), che deriva in parte dalla struttura industriale italiana (piccole, piccolissime e microimprese), in parte da una certa scarsa propensione dell'imprenditoria italiana a scommettere su ricerca e innovazione. C'è, qualche volta, un'irresistibile passione per banche, giornali e squadre di calcio, meno per la ricerca. Credo, perciò, che dovremmo fare anche uno sforzo di conversione culturale di tutti gli attori in campo.
La ricerca applicata e di base sono entrambe essenziali, e la ricerca curiosity-driven trova sempre più spesso concreta applicazione. L'aveva capito anche Galileo Galilei, che affermava: «La luce della scienza cerco e il beneficio». Noi dobbiamo cercare la luce della scienza e il beneficio, quindi prevedere investimenti forti nella ricerca di base - abbiamo l'occasione straordinaria dei fondi strutturali della Comunità e del VII programma quadro - e sviluppare il sistema del trasferimento tecnologico e dell'innovazione tecnologica. Per questo, c'è bisogno anche di politiche di integrazione verso l'alto, verso l'Unione europea, verso le regioni e il livello locale.
Vogliamo intervenire nel riassetto degli enti pubblici di ricerca. Consideriamo il processo di burocratizzazione messo in atto dal passato Governo nei principali enti pubblici una colpa grave. In generale, consideriamo in questo campo la pratica dello spoil system un delitto. Vogliamo diminuire il tasso di burocrazia e spogliarci anche di una parte del potere che, attualmente, viene attribuito al Governo.
Pensiamo che i ricercatori degli enti pubblici debbano partecipare in maniera decisiva alla formazione dei propri gruppi dirigenti. Intendiamo, quindi, per le nomine introdurre il metodo dei search committees, formati da grandi personalità indipendenti, che presentano autonomamente rose di nomi al ministro, che si impegna a scegliere in quell'ambito.
Vogliamo intervenire anche per correggere alcuni errori compiuti negli ultimi anni, per esempio riportando fuori dal CNR l'Istituto nazionale di fisica della materia (INFM), che vi è stato inglobato senza apparente ragione. L'INFM era un istituto che funzionava bene, produceva buoni risultati, era un esempio di organizzazione e di autonomia. In un ambiente nuovo e diverso, quello del CNR, ha perso smalto e dinamismo. Occorre, quindi, restituirgli l'autonomia perduta.
Porremo grande attenzione anche a molte problematiche che ci vengono dai distretti e dalle piattaforme tecnologiche. In particolare, è urgente la questione, anche per l'imponenza dei finanziamenti ad esso destinato, dell'Istituto italiano di tecnologia di Genova, che potrà procedere correggendo alcuni errori iniziali. Si era detto che doveva imitare il Massachusetts Institute of Technology, ma quello di Boston non è solo un centro di ricerca, bensì anche una grande università che forma i giovani. Si può forse collegarlo meglio con gli altri centri di ricerca e magari con il nascente Istituto europeo di tecnologia. Genova potrebbe essere una buona candidata anche come sede dell'Istituto europeo.
Stiamo preparando, infine, in tempi brevi, un disegno di legge che reca una delega per il riordino degli enti di ricerca, la ricostituzione dell'INFM, una più rigorosa definizione dei limiti entro i quali le università possono stipulare convenzioni - perché l'esperienza va laureata ma le lauree non si regalano e soprattutto non si comprano -, e infine una delega per definire la base normativa - attualmente molto confusa - e i requisiti per il riconoscimento delle lauree telematiche.
Permettetemi di spendere ancora pochi secondi sulla questione dei finanziamenti. Vedremo quanto si possono incrementare le ordinarie fonti di finanziamento pubblico, ma c'è da fare un'operazione più vasta cui faccio solo un breve accenno, perché è bene che questa Commissione ne sia informata, ma è la Commissione finanze la sede deputata per discuterne, dal momento che le innovazioni e le strategie di trasferimento tecnologico richiedono una politica fiscale ed economica mirata.
Nell'ultimo decreto-legge del Governo sono già contenuti due provvedimenti -


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nessuno o quasi se n'è accorto, salvo qualche piccola nota su qualche giornale, poiché tutti siamo presi dalla questione, sia pure calda, dei tassisti - sulla deducibilità delle spese per brevettazione, studi e ricerche di sviluppo che valgono per le imprese un miliardo di euro. Intendiamo proseguire usando lo strumento fiscale, graduato nel tempo e fortemente selettivo, ad esempio intervenendo con il sistema dei crediti di imposta per la committenza delle imprese all'università e ai centri pubblici di ricerca.
Stiamo valutando, infine - siamo ancora a livello di studio -, con i ministri Bersani e Nicolais, un intervento sul mercato dei capitali, con un sostegno pubblico alla costituzione di fondi di privati venture capital orientati a ricerca e innovazione. Ci incoraggiano tante esperienze europee, quella americana e quelle delle economie asiatiche emergenti, che fanno centro su questi strumenti per aumentare enormemente le disponibilità finanziarie per le voci di ricerca ed innovazione, tanto nel pubblico quanto nel privato.
Mancherebbe un capitolo che riguarda l'alta formazione artistica e musicale, ma mi riservo, se il presidente consente, di aggiungere più avanti qualche breve dettaglio anche su questa materia.
Non avendo letto alcune parti di analisi del sistema della ricerca che contengono dati di riferimento utili alla nostra discussione, consegno il testo integrale della relazione. Mi scuso per la lunghezza del mio intervento e vi ringrazio della vostra cortesia e pazienza.

PRESIDENTE. Grazie signor ministro; il testo integrale delle sue comunicazioni sarà allegato al resoconto stenografico della seduta odierna.
Ci informano che alle 15,30 riprenderanno i lavori dell'Aula, nei quali, come sapete, siamo direttamente impegnati (il primo provvedimento, relatrice la deputata Sasso, riguarda gli esami di maturità). Abbiamo, dunque, 20 minuti a disposizione.
Do la parola ai colleghi che intendano porre quesiti o formulare osservazioni.

NICOLA BONO. Innanzitutto desidererei sapere se le parti sull'educazione musicale e artistica - cui ha fatto solo cenno il ministro Mussi - sono contenute nella relazione o se, invece, non le ha proprio esplicitate.

FABIO MUSSI, Ministro dell'università e della ricerca. No. Mi riserverei un'aggiunta alla relazione nel corso dei nostri lavori.

NICOLA BONO. Ne prendo atto, però se dobbiamo replicare alla relazione del ministro Mussi, dovremmo conoscere tutto il suo intervento.

FABIO MUSSI, Ministro dell'università e della ricerca. D'accordo, posso allora aggiungere subito questa parte in modo che risulti nel resoconto.

NICOLA BONO. La mia richiesta era che l'aggiunta risultasse agli atti, così avremmo la possibilità di approfondirla. Questo era un primo aspetto che, se chiarito nei termini espressi dal ministro Mussi, nulla osta. Non è necessario che la svolga ora, l'importante è che sia agli atti prima della replica.
In secondo luogo, vorremmo concretamente conoscere l'ordine dei lavori, dal momento che alle ore 15,30 dovremo interrompere la seduta. È già stabilito quando potrà tornare il ministro per proseguire la discussione? Personalmente mi riservo di intervenire la prossima volta, perché, come sempre, avrei bisogno di riflettere sulla relazione.

PRESIDENTE. Procederemo con il prosieguo dell'audizione del ministro Mussi esattamente come abbiamo proceduto con le altre audizioni. Il ministro Mussi ha già dato la sua disponibilità. Questa settimana ascolteremo, domani, il sottosegretario Levi, e giovedì il ministro Gentiloni. Appena possibile concluderemo l'audizione del ministro Mussi.
Comunque, poiché esiste una richiesta sul punto relativo agli AFAM, e poiché gli Istituti di alta formazione artistica e musicale


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rappresentano una branca di grande qualità e specificità, chiederei al ministro Mussi - da quanto abbiamo sentito è in condizione di farlo - di fare ora l'integrazione sulla questione AFAM.

FABIO MUSSI, Ministro dell'università e della ricerca. Sarò brevissimo. I punti programmatici su cui sta lavorando il Ministero sono cinque. Primo: attuare la legge del 1999 di riforma dell'alta formazione artistica e musicale. La legge non è stata accompagnata da tutti gli adeguati decreti attuativi; inoltre, non è stato mai eletto il Consiglio nazionale dell'alta formazione artistica e musicale, da sei anni in carica provvisoria (ho appena convocato le elezioni).

NICOLA BONO. Fu nominato da voi!

FABIO MUSSI, Ministro dell'università e della ricerca. C'è una parte della mia relazione in cui sottolineo che non me la sentirei di dire che tutte le colpe sono del Governo immediatamente precedente, e lo ribadisco. Naturalmente, come delle cose positive avvenute in questi anni dobbiamo prenderci un po' di merito tutti, così dobbiamo condividere anche le negative. Penso che l'ultimo Governo abbia commesso molti errori, ma ci sono errori che risalgono anche a stagioni precedenti. In particolare, questo è qualcosa che non riguarda solamente il precedente Governo. Ho appena convocato le elezioni del Consiglio nazionale dell'alta formazione artistica e musicale.
Secondo: è al parere del Consiglio di Stato il regolamento attuativo degli organi di governo relativo a conservatori e accademie, che oggi sono tutti commissariati. Stiamo sollecitando il parere del Consiglio di Stato affinché il regolamento attuativo entri in funzione e si superi la penosa situazione di commissariamento.
Terzo: occorre - e qui stiamo valutando l'eventuale necessità di uno strumento legislativo - ripensare ruolo e struttura dell'Accademia nazionale di arte drammatica e dell'Accademia nazionale di danza, due punti di qualità essenziali per l'Italia, dei quali non possiamo accettare la decadenza o il lento declino.
Quarto: bisogna dare certezze di ruolo a chi insegna in questi organismi. Occorre una legge sullo stato giuridico. Come è stata fatta per l'università, è necessaria anche una legge che riguardi la certezza di ruolo per chi lavora in questi organismi.
Quinto: bisogna recuperare lo scandalo del 35 per cento in meno di finanziamento al sistema dell'Alta formazione artistica e musicale. In un paese come l'Italia, che possiede in questo sistema uno degli assi del mazzo di carte da giocare, con le ultime finanziarie è stato eliminato il 35 per cento dei trasferimenti. Con la gradualità imposta dalla situazione economica, con le prossime finanziarie - mi impegno personalmente in questo - bisogna restituire il maltolto.
In sintesi, ho rappresentato i punti programmatici su cui sta lavorando il Ministero.

ANDREA MARTELLA. Presidente, anch'io, come ha fatto lei ad inizio di seduta, voglio augurare al ministro Mussi, che oggi abbiamo ascoltato con molta attenzione, di proseguire l'ottimo lavoro iniziato nel corso delle ultime settimane, che già - come ci ha riferito - ha prodotto qualche risultato importante per l'università e per la ricerca nel nostro paese.
Nel rivolgere questo augurio di buon lavoro al ministro Mussi, voglio anche esprimere la convinzione che il ministro saprà essere un interlocutore privilegiato di questa Commissione, affinché i provvedimenti che qui sono stati annunciati e la prospettiva che è stata indicata possano essere profondamente esaminati da questa Commissione, sancendo un primo grande atto di discontinuità rispetto al precedente Governo.
Noi ci siamo trovati, in passato, a discutere in Aula di provvedimenti che non avevano concluso l'iter in Commissione, oppure a discutere di provvedimenti che non avevano avuto la precedente e necessaria interlocuzione in Commissione. Mi pare che l'impegno che oggi ci si debba


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assumere è di evitare che si verifichi un riformismo dall'alto, un riformismo che abbia come oggetto penalizzato il Paese o il Parlamento. Da questo punto di vista, credo che questo impegno debba essere tradotto in atti concreti nel prossimo futuro, sancendo così - lo ripeto - un atto di discontinuità nei confronti del precedente Governo e del modo di rapportarsi con il Parlamento proprio del ministro Letizia Moratti.
Infine, signor ministro, vorrei dirle che sull'attuazione di queste linee programmatiche, sulla loro attuazione legislativa e in atti amministrativi, avrà il pieno sostegno dell'Ulivo - gruppo che in questa sede rappresento -, convinti come siamo che la prospettiva da lei indicata sia quella che noi dobbiamo saper concretizzare per vincere le sfide che abbiamo di fronte.
Questo, naturalmente, come ho detto anche in altre audizioni, non a vantaggio dell'Ulivo o del centrosinistra, ma a vantaggio del nostro paese e del suo sistema dell'università e della ricerca, quindi a vantaggio del nostro futuro.
Ha ragione, signor ministro, abbiamo poco tempo. In un mondo che sta profondamente cambiando, in una società che è profondamente cambiata nel corso di questi ultimi anni, dobbiamo ricollocare l'Italia al centro dell'Europa, vincere la sfida di rimettere al centro dell'economia, della società e delle scelte pubbliche il tema della conoscenza, del sapere, della ricerca, come un fattore propulsivo del benessere personale dei cittadini e come fattore propulsivo dell'equità sociale.
Questo è un elemento decisivo - lo ha ricordato anche lei, in maniera puntuale, con una relazione molto corposa che, in accordo con l'onorevole Bono, trovo debba essere meditata in tutti i suoi aspetti, perché mi pare abbia indicato una prospettiva di medio-lungo periodo assolutamente convincente - per rilanciare la competitività del nostro paese, per uscire dal declino che, prima ancora di essere economico, è di sapere e di conoscenza, un declino culturale.
Il Governo ha mosso i primi passi importanti, anche nel corso di questi ultimi giorni, per recuperare competitività e per sostenere la concorrenza. Non c'è dubbio che, anche in questo settore, debba compiersi un grande salto in avanti - come lei ha indicato - sul terreno della formazione universitaria, della ricerca e dell'innovazione tecnologica, ben sapendo come le università nel nostro paese possano diventare luogo primario di conoscenza, in modo molto più rilevante di quanto avvenuto fino ad oggi.
Insieme alle università, cito anche gli enti di ricerca, con i cambiamenti che lei ha indicato e che le università hanno conosciuto negli ultimi anni, come fattore propulsivo di una competitività del nostro paese, ma anche come capacità di produrre molta più mobilità sociale di quanto si sia fin qui prodotto.
Alle università va assegnata una nuova missione istituzionale e una nuova responsabilità. Credo sia questo il lavoro sul quale bisognerà concentrarci e bisognerà che si impegni soprattutto il Ministero da lei presieduto. Certo, lei giustamente ha rilevato che non tutte le responsabilità attengono al ministro, che spetta alla politica, al Parlamento e al Governo rimuovere alcuni ostacoli. Tuttavia, sono certo che lei ha un grande lavoro da fare, perché il quinquennio precedente è stato assolutamente fallimentare.
Lei non ha fatto polemiche e neanch'io voglio farne: piuttosto, voglio usare qualche argomento ancora più preciso per dire che questi ultimi cinque anni sono stati molto negativi per l'università e per la ricerca nel nostro paese.
Innanzitutto, è stata attuata un'operazione di delegittimazione del sistema universitario di fronte all'opinione pubblica. Tale delegittimazione, fuori dai reali limiti del nostro sistema universitario, molto spesso è stata utilizzata in maniera strumentale e demagogica anche da parte di rappresentanti del Governo.
Non sono stati affrontati né risolti i temi cruciali dell'università e della ricerca italiana. Non c'è stato nessun provvedimento organico, ma una serie di norme improvvisate, spesso confuse e dal sapore in qualche modo passatista. C'è stato un


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cospicuo, considerevole, eccessivo taglio dei finanziamenti, che ha portato alla riduzione delle risorse destinate all'università e alla ricerca.
Sono stati anni di blocco delle assunzioni e dei concorsi, di rilancio del centralismo burocratico, spesso anche di natura ministeriale, a scapito dell'autonomia dell'università e del sistema. Sono stati anni in cui c'è stata un'accentuazione del particolarismo e, più precisamente, del clientelismo in alcune scelte e in alcune allocazioni di risorse, delle quali anche lei ha citato qualche esempio. Abbiamo, inoltre, assistito ad un utilizzo intensivo dello spoil system invasivo anche nei confronti delle autonomie scientifiche.
Questo è il quadro che abbiamo di fronte, risultato dei cinque anni precedenti, che ha prodotto - chiunque di noi abbia girato per le università italiane o partecipato a qualche dibattito ha potuto accorgersene - un disagio diffuso, una mobilitazione continua, manifestazioni anche fuori da quest'Aula che mai prima si erano viste su temi di tale importanza.
È vero, ministro, che lei non può avere tutte le responsabilità, che occorre da svolgere un lavoro di lungo periodo di rinnovamento culturale, di rimozione di ostacoli, ma tuttavia ha il grande compito di invertire immediatamente questa tendenza, di fare in modo che le scelte compiute nel corso di questi anni possano conoscere, con questo Governo, una profonda inversione, che induca a centrare gli obiettivi a favore dell'università e della ricerca italiana. Università e ricerca che hanno bisogno innanzitutto di innovazione, dal punto di vista degli obiettivi, dal punto di vista normativo, della produzione legislativa, nonché in merito al controllo e alla valutazione delle università e del sistema nel suo complesso.
Lei ha detto che non promette miracoli. Tuttavia, signor ministro, è necessario aumentare e qualificare le spese per l'università e per la ricerca. Urgono risorse più cospicue di quelle attuali, perché con quelle attuali non si può guardare con serenità e fiducia al futuro. Bisogna anche fare in modo che risorse che sono state allocate spesso con scelte velleitarie e non sostenibili dal precedente Governo, vengano finalizzate ad altri importanti obiettivi. Si possono anche recuperare risorse, ma bisogna progressivamente pensare - ne discuteremo nel DPEF e nella finanziaria - a nuove e crescenti risorse finanziarie, che in questo comparto sono assolutamente necessarie e che, quindi, devono rappresentare una scelta strategica del Governo di centrosinistra. Il tema delle risorse, quindi, è prioritario e assolutamente fondamentale.
In secondo luogo, vorrei dire che bene ha fatto a ritirare i decreti di cui ha parlato.

GUGLIELMO ROSITANI. L'unico augurio che abbiamo fatto al ministro è quello di recuperare quel 35 per cento in meno di risorse.

ANDREA MARTELLA. Vedremo poi in concreto se a questi auguri seguirà un sostegno anche da parte vostra. Abbiamo parlato di obiettivi di medio periodo.
Come dicevo, ha fatto bene a ritirare quei decreti di cui qui ci ha parlato e a ribadire - ho già enunciato questo concetto - che non ci sarà più un riformismo dall'alto.
Noi pensiamo, signor ministro, che debba esserci un quadro normativo nuovo, leggero, intelligente, che punti ad aumentare l'autonomia e la responsabilità dell'università, e questo è un punto qualificante.
Le voglio indicare quattro scelte di campo, la prima delle quali relativa ai giovani. È necessaria una nuova apertura verso di loro: non possiamo permetterci di disperdere i giovani talenti e di deludere aspettative e aspirazioni di quanti possono impegnarsi nella docenza o nella ricerca.
Anche per i dati che lei ha qui citato, quali il valore dei nostri ricercatori, l'età media del corpo docente e dei ricercatori nel nostro paese, c'è bisogno di avviare un piano straordinario di assunzioni di giovani studiosi da dedicare all'insegnamento e alla ricerca nel nostro paese.
Questa è una proposta che abbiamo avanzato spesso, in passato, e sulla quale


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credo debba esserci un impegno di medio e lungo periodo da parte di questo Governo.
La seconda scelta di campo che voglio indicare è quella relativa al merito. Noi pensiamo che solo un'attenta politica di premio del merito sia in grado di migliorare e accrescere la qualità del sistema, quindi pensiamo che questa debba essere la bussola fondamentale in base alla quale orientare le politiche del Ministero dell'università e della ricerca.
La terza scelta di campo, che lei ha indicato prima con molta energia, è quella relativa alla valutazione. Nel corso della precedente legislatura, abbiamo sentito parlare di valutazione di docenti, del sistema, delle università: nulla di tutto questo è stato fatto, la parola «valutazione» è stata solo uno slogan, qualche volta un annuncio, talvolta - come dicevo prima - uno strumento per delegittimare il sistema universitario.
Noi pensiamo che la scelta di istituire un'agenzia per la valutazione del sistema universitario nel suo complesso ...

ANGELA FILIPPONIO TATARELLA. Per favore, non chiamatela agenzia!

FABIO MUSSI, Ministro dell'università e della ricerca. Si chiama proprio agenzia, l'unica alternativa sarebbe quella di denominarla Authority, ma non so se il Parlamento sarebbe propenso ad accoglierne un'altra.

ANDREA MARTELLA. L'onorevole Tocci, che cito da un altro dibattito, ha proposto di chiamare questo organismo «agenzia», oppure «authority», o in qualunque altro modo. Sono convinto che si debba chiamare «agenzia», ma soprattutto che debba servire per valutare in maniera severa standard di qualità e per legare a questi i finanziamenti, come ha detto prima il ministro Mussi.
Questo al fine di aumentare la fiducia dei cittadini nel sistema universitario, di valutare il sistema nel complesso, le singole università e anche la produttività scientifica e la qualità didattica dei docenti. Pertanto, dovrà essere un'agenzia indipendente, che non dipenda né dal ministro né dall'università.
Abbiamo visto quanto bisogno ci sia, nel nostro paese, di un sistema valutativo di questo genere, indipendente, probabilmente non solo in questo settore.
Infine, come quarta e fondamentale scelta di campo, che ritrovo nel suo intervento, signor ministro, individuo la necessità di rilanciare la ricerca libera, come stimolo per le università e fonte inesauribile del nuovo sapere, della ricerca spinta in qualche modo anche dalla curiosità del ricercatore, in tutti i campi scientifici, tecnologici e umanistici. Si tratta, naturalmente, di fare in modo che questa nuova politica di grande attenzione per la ricerca possa portare a politiche coordinate - come lei ha detto - tra i diversi Ministeri, possa mettere in rete i centri di ricerca, orientare il trasferimento tecnologico, sostenere la creazione di imprese innovative.
Colgo con molto piacere, signor ministro, il suo annuncio che verrà ridata autonomia all'Istituto nazionale di fisica della materia, così come credo ci si debba impegnare in un progetto di riqualificazione dell'Istituto italiano di tecnologia, che attualmente non può produrre grandi risultati, ma per cui lei ha auspicato una dimensione europea e una possibilità di qualificazione attraverso progetti specifici.
Si tratta di rilanciare la ricerca applicata, quella di base, di intervenire nel riassetto degli enti e di cancellare un uso invasivo dello spoil system, che di fatto ha portato ad un controllo politico della ricerca del nostro paese, nel corso di questi ultimi anni, cosa che noi riteniamo debba essere assolutamente esclusa.
Concludo con alcuni riferimenti alle università.

PRESIDENTE. Chiedo scusa, vorrei segnalare che sono le ore 15,25.

ANDREA MARTELLA. Presidente, va benissimo così. Sono intervenuto perché, come abbiamo fatto esattamente la volta scorsa, abbiamo deciso di proseguire la


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discussione, e come in tutte le altre occasioni non abbiamo fissato dei tempi.

PRESIDENTE. Non è un'osservazione, ma dobbiamo essere in Aula tra poco. Se quindi ha ancora degli argomenti...

ANDREA MARTELLA. Posso concludere anche qui il mio intervento per riprenderlo, se lei consente, nelle prossime sedute.

FABIO MUSSI, Ministro dell'università e della ricerca. Dal momento che, nella preoccupazione di parlare troppo, ho saltato alcune parti della relazione, vorrei segnalarvene una, a cui mi preme molto richiamarmi, a pagina 14.
Io ho annunciato due leggi di sistema importanti: quella sull'agenzia (o comunque la chiameremo) e quella sulla governance. Ne esiste una terza, che riguarda un piano straordinario di massiccio ingresso di giovani ricercatori nelle università. Sebbene abbia saltato questa parte, nella relazione è riportata con un certo rilievo. Quanto al finanziamento di questo piano, ricorreremo, ad esempio, ai soldi che risparmieremo dal pensionamento, nei prossimi 10 anni, del 47 per cento dei docenti universitari.

PRESIDENTE. Ringrazio nuovamente il ministro e i colleghi.
Il seguito dell'audizione è rinviato ad altra seduta.

La seduta termina alle 15,25.


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