COMMISSIONE X
ATTIVITÀ PRODUTTIVE, COMMERCIO E TURISMO

Resoconto stenografico

AUDIZIONE


Seduta di mercoledì 19 luglio 2006


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE DANIELE CAPEZZONE

La seduta comincia alle ore 15,15.

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata, oltre che attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso, anche mediante la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.

Audizione del ministro dell'università e della ricerca, Fabio Mussi, sulle linee programmatiche del suo dicastero in relazione alle attività connesse alla ricerca scientifica e all'innovazione.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, ai sensi dell'articolo 143, comma 2, del regolamento, l'audizione del ministro dell'università e della ricerca, Fabio Mussi, sulle linee programmatiche del suo dicastero in relazione alle attività connesse alla ricerca scientifica e all'innovazione.
Iniziamo i nostri lavori con un ritardo di cui mi scuso, ma che è legato ai doverosi impegni dell'Assemblea.
Prima di dare la parola al ministro Mussi, avviso che necessariamente, per ragioni di tempo dipendenti dai lavori delle due Camere, il dibattito sulla sua relazione, nel quale i colleghi potranno porre quesiti e formulare osservazioni, avrà luogo in una seduta successiva.
Invito, dunque, il ministro a svolgere la sua relazione.

FABIO MUSSI, Ministro dell'università e della ricerca. Signor presidente, mi scuso anticipatamente, perché fra un'ora esatta interverrò nell'Assemblea del Senato sul VII Programma quadro europeo sulla ricerca. In questa sede, naturalmente, non esprimerò concetti diversi da quelli che illustrerò tra poco al Senato e che ho già avuto modo di esprimere presso la Commissione cultura della Camera. Aggiungerò solo qualche particolare, che ritengo possa interessare la Commissione attività produttive, per le competenze ad essa attribuite.
Comincio tracciando un quadro internazionale, perché se non ci si colloca prioritariamente in tale contesto, forse non si ha la percezione chiara dei problemi che il nostro paese si trova ad affrontare. Si può considerare come punto di partenza l'Agenda di Lisbona 2000, quando l'Unione europea si accorse che, se questa parte del mondo non voleva soccombere nell'era della competizione globale, entro il 2010 doveva prefiggersi l'obiettivo di diventare la prima economia knowledge based, vale a dire basata sulla conoscenza del mondo.
Forse non sarà ancora sufficiente per conseguire questo ambizioso obiettivo, ma il VII Programma quadro di ricerca e sviluppo tecnologico, di recente approvato dal Parlamento di Strasburgo e dalla Commissione europea (lunedì è previsto un altro step di questi lavori, che entro l'anno dovrebbero essere completati), con la discreta somma di oltre 53 miliardi di euro da investire nella ricerca scientifica e nell'innovazione tecnologica nei prossimi sette anni (2007-2013), è il passo concreto più lungo e deciso che l'Europa abbia compiuto in direzione del raggiungimento degli obiettivi stabiliti a Lisbona.


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Con il VII Programma quadro, dunque, l'Europa raddoppierà gli investimenti annui in scienza e tecnologia rispetto agli ultimi cinque anni, includendovi per la prima volta così decisamente la ricerca di base fondamentale (con il programma Ideas, finanziato con 7 miliardi e 500 milioni di euro). È molto - si tratta di un passo importante -, tuttavia non è ancora abbastanza, perché, se l'Unione europea accelera, gli altri certo non stanno a guardare. Il mondo, infatti, corre e l'Europa fa molta fatica a stargli dietro. Vorrei evidenziare che, in tal senso, sta accadendo qualcosa di strabiliante.
È vero che da Lisbona in poi formule come «società della conoscenza» diventano persino fastidiose da ripetere, ma sta avvenendo una rivoluzione che, forse, è la terza per importanza nella storia dell'umanità. Si è assistito alla prima circa diecimila anni fa, con l'avvento dell'agricoltura e dell'allevamento, mentre la seconda è rappresentata dalla rivoluzione industriale. Siamo, forse, dinanzi alla terza, destinata a cambiare radicalmente la società umana.
Negli ultimi quindici anni, infatti, la corsa si è accelerata enormemente. Sottolineo, dunque, qualche dato per far capire perché affermo che stanno accadendo eventi straordinari. Il primo dato riguarda la crescita degli investimenti. Un recente rapporto della National science foundation degli Stati Uniti ha rilevato come, tra il 1990 e il 2003, le spese per la ricerca scientifica e lo sviluppo tecnologico nei trenta paesi membri dell'OCSE e in altri otto paesi ad economia emergente che non ne sono membri (Argentina, Cina, Israele, Romania, Russia, Singapore, Slovenia e Taiwan) siano aumentate, al netto dell'inflazione, del 115 per cento, passando da 377 miliardi a 810 miliardi di dollari. Si tratta, quindi, di un investimento in ricerca e sviluppo di circa il 2 per cento della ricchezza prodotta ogni anno sul pianeta. Ciò non era mai successo.
Il secondo dato riguarda l'aumento degli investimenti privati. Se gli investimenti pubblici crescono in maniera sostenuta, infatti, quelli privati aumentano con un'accelerazione ancora maggiore. Vorrei rappresentare che, proprio questa mattina, ho avuto un lungo incontro con l'ambasciatore degli Stati Uniti, con il quale ho commentato i dati che vi sto fornendo. Ebbene, a metà degli anni sessanta, negli Stati Uniti ogni 3 dollari investiti in ricerca e sviluppo, 2 erano pubblici. Oggi, il dato si è completamente ribaltato: per ogni dollaro pubblico speso in tale settore ve ne sono contemporaneamente 2 privati.
La crescita degli investimenti privati ha interessato, naturalmente, anche l'Europa. Se nel 1990, infatti, il 41 per cento della spesa in ricerca e sviluppo era di origine pubblica, nel 2001 la percentuale è scesa al 34 per cento. Gli investimenti privati crescono ad un ritmo molto sostenuto in quasi tutti i paesi ad economia emergente, comprese l'India e la Cina.
Ecco, allora, il terzo grande fenomeno cui assistiamo: si modifica la geografia della conoscenza e della ricerca. Nelle scorse settimane, l'IBM ha annunciato che investirà 6 miliardi di dollari a Bangalore nei prossimi tre anni, raddoppiando il numero dei suoi lavoratori (vi saranno 43 mila nuovi dipendenti ai piedi dell'Himalaya). È presumibile, dunque, che, tra pochi anni, il primo istituto al mondo per quantità e per qualità dei risultati sarà non più il MIT, ma il centro tecnologico di Bangalore, situato in India.
L'Asia sta diventando un nuovo centro di sviluppo scientifico e tecnologico. Il 93 per cento degli investimenti proviene da paesi OCSE. Nel 2003 la percentuale si è assestata intorno all'84 per cento. In questo stesso periodo, gli investimenti della Cina sono passati da 12,4 miliardi di dollari a 84,6 miliardi di dollari, con un incremento del 580 per cento. Ogni anno, la Repubblica popolare cinese incrementa la sua spesa in ricerca e sviluppo del 22 per cento e, quindi, la raddoppia ogni quattro anni.
È chiaro, dunque, che sta emergendo un terzo polo tecnico-scientifico del mondo - un polo dell'indo-pacifico -, che già si affianca per investimenti, ricerca e


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produzione di alta tecnologia ai due classici poli atlantici, vale a dire USA ed Europa.
Le risorse umane che il nuovo polo è oggi in grado di dispiegare sono enormi. I calcoli dicono che, tra venti anni, il 90 per cento degli scienziati, degli ingegneri e dei tecnici di tutto il mondo vivrà in uno dei paesi dell'Asia orientale. È su tale terreno che l'Europa viene messa alla prova, ed è in questo contesto estremamente dinamico che l'Unione europea si accinge ad inaugurare il citato VII Programma quadro.
L'Unione europea, infatti, deve recuperare rispetto ai suoi competitori almeno tre ritardi, il primo dei quali verificatosi negli investimenti. In media, i venticinque paesi europei dell'Unione investono in ricerca e sviluppo almeno il 2 per cento del PIL, mentre gli Stati Uniti spendono in tale settore quasi il 3 per cento, il Giappone supera il 3 per cento e tra le economie emergenti dell'Asia, invece, il ritmo è spesso a due cifre. Bisogna innanzitutto intanto rispettare l'obiettivo fissato a Barcellona, allora, e cercare di raggiungere un livello di investimenti - per l'Italia molto arduo - intorno al 3 per cento del PIL entro il 2010.
Il secondo ritardo riguarda il capitale umano. L'Unione europea, infatti, può contare su 435 mila uomini e donne che si dedicano alla scienza e allo sviluppo tecnologico. Se si pensa al passato, sono numerosi, poiché si tratta di 5,5 ricercatori ogni mille lavoratori, ma non risultano abbastanza: negli Stati Uniti, infatti, i ricercatori sono 9 ogni mille lavoratori ed in Giappone sono 9,7 su mille.
D'altra parte, solo il 21 per cento della popolazione europea in età da lavoro possiede un'istruzione superiore, contro il 38 per cento negli Stati Uniti, il 36 per cento nel Giappone, il 26 per cento - ma è un dato in fortissima crescita - nella Corea del Sud.
Il terzo ritardo si è verificato nella programmazione. Fino al VI Programma quadro, infatti, solo il 5 per cento della spesa europea in ricerca era deciso a Bruxelles, nell'ambito della politica comunitaria, mentre il 95 per cento veniva deciso, in modo sostanzialmente indipendente, nei venticinque paesi membri della stessa Unione europea. Tale frammentazione ha impedito un'efficiente programmazione della politica e della ricerca nel vecchio continente.
Il VII Programma quadro di ricerca e sviluppo tecnologico non risolve tutti questi problemi, tuttavia rappresenta, comunque, un passo in avanti. In primo luogo, infatti, esso aumenta la spesa, la quale, per ogni anno, è doppia rispetto agli anni del quinquennio precedente. La Commissione Prodi aveva previsto un investimento maggiore, pari a 76 miliardi di euro, ma alla fine è stato fissato un importo più basso, vale a dire i citati 53 miliardi di euro.
Esiste la difficoltà di numerosi Governi dell'Unione europea nel superare l'ottica degli interessi nazionali immediati e ragionare su un piano europeo. Resta il fatto, tuttavia, che, nei prossimi anni, quasi il 10 per cento della spesa dell'Unione sarà gestito in maniera organica - ed auspichiamo anche efficiente - a Bruxelles. Non siamo ancora allo «spazio comune della ricerca», teorizzato per primo dal nostro Antonio Ruberti, ma si tratta di un passo significativo in tale direzione.
Un'altra importante novità è costituita dalla circostanza che parte rilevante di questa spesa (vale a dire 7 miliardi e 500 milioni di euro in sette anni) sarà gestita in piena autonomia dal nascente Consiglio europeo delle ricerche, il quale, sulla base del solo merito scientifico, finanzierà progetti di ricerca curiosity drived, vale a dire «guidati dalla curiosità». Ciò rappresenta una novità assoluta.
Spero, pertanto, che il Governo e il Parlamento sostengano con entusiasmo tale nuovo progetto, nonché la proposta avanzata dalla Commissione europea (si tratta di un'iniziativa concepita al di fuori del più volte citato VII Programma quadro) di istituire l'Istituto europeo di tecnologia. Pensiamo anche di poter avanzare qualche candidatura, poiché l'Istituto italiano di tecnologia, con sede a Genova - che è nato con qualche imperfezione e che bisogna migliorare, correggendone alcuni


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difetti iniziali di progettazione - potrebbe candidarsi ad essere la sede principale del costituendo Istituto europeo di tecnologia.
Il nostro paese ha grandi possibilità; tuttavia, deve a sua volta recuperare un ritardo in Europa. Noi, infatti, contribuiamo per circa il 14 per cento al bilancio comunitario, ma abbiamo un rientro finanziario che non supera il 9,5 per cento di tale bilancio. Il nostro sistema di imprese, inoltre, investe appena lo 0,4 per cento del PIL in ricerca. Ripeto: lo 0,4 per cento. Le imprese americane, invece, investono il 2 per cento del prodotto interno lordo di quel paese (vale a dire cinque volte di più) e quelle giapponesi spendono il 2,4 per cento (sei volte di più). Dobbiamo necessariamente tornare, dunque, ad avere standard europei.
Siamo profondamente consapevoli dei limiti costituiti da un sistema economico centrato su imprese piccole e piccolissime (le cosiddette microimprese), ma purtroppo abbiamo perso tempo lodandone le virtù; le piccole imprese sono sicuramente positive, ma solo quando poggiano su grandi sistemi economici e industriali. È sufficiente considerare il dato dell'investimento in ricerca e sviluppo sul valore aggiunto: il livello delle imprese italiane è pari al 2,3 per cento, mentre la media europea è pari al 5,8 per cento; le imprese della Germania investono il 7,7 per cento, quelle degli Stati Uniti l'8,5 per cento e le aziende del Giappone il 9,6 per cento.
Non lo affermo solo in questa sede, ma l'ho detto anche alla Confindustria, ove ho sollecitato tutti - pur partendo dalla consapevolezza del tipo di sistema esistente in Italia e delle note peculiarità delle piccole imprese - ad impegnarsi nel convertire «l'incontenibile passione» degli imprenditori italiani per banche, giornali e squadre di calcio in investimenti in ambiti più seri, quali la ricerca e lo sviluppo. In Confindustria non si sono offesi, ma hanno sorriso, riconoscendo l'esistenza del problema.
Il VII Programma quadro, quindi, e le piattaforme tecnologiche europee sono occasioni che, al fine di intraprendere questa strada, soprattutto le imprese non possono perdere.
Intendo adesso spiegare come il Governo pensi non solo di lanciare un appello, o di tentare la via della moral suasion (peraltro, sempre utile), ma anche di dare concretamente una mano, attraverso politiche fiscali ed economiche appropriate.
Per precisare il mio punto di osservazione, vorrei illustrare lo stato della ricerca italiana. Esistono dei paradossi e dei fenomeni curiosi. Sulla rivista Nature è stato recentemente pubblicato un rapporto del Governo inglese, il quale documenta il seguente dato: i ricercatori italiani sono ultimi nel G8 per spesa pro capite, ma sono terzi nello stesso G8 per produttività scientifica. Ciò significa che, nonostante l'esiguità della spesa nel settore, il nostro sistema di ricerca produce dei «gioielli». Il punto è che produciamo prevalentemente per il mercato altrui, che acquista i nostri ricercatori quasi gratis. Uno studente universitario che riesce a conseguire la laurea, infatti, è costato allo Stato 500 mila euro (quasi un miliardo delle vecchie lire); se ha fatto anche il dottorato di ricerca, la spesa sale a 600-700 mila euro (si tratta di un importo elevato). Con pochi soldi investiti in borse di studio, offerte di lavoro ed assegni, allora, ne vengono rastrellati solo dagli Stati Uniti 10 mila all'anno; molti altri vengono acquisiti dalla Germania e dalla Francia, e presto lo saranno anche dalle economie asiatiche.
Non mi lamento dell'export in tale ambito ma il problema è la bilancia commerciale dei «cervelli»: pur avendo investito nella formazione di tale capitale umano, esportiamo moltissimo ma importiamo pochissimo. Bisogna riequilibrare, pertanto, la bilancia commerciale in questo settore.
Vorrei ricordare che, in tale direzione, sono stati adottati anche provvedimenti come quello, che ritengo importante, per il rientro dei «cervelli» emigrati all'estero, il quale ne ha fatti rientrare circa quattrocento. Tuttavia, è un po' come vuotare il mare con un cucchiaio, perché, alla fine,


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i ricercatori inseguono, ovviamente, gli investimenti, le strutture, i progetti ed anche i trattamenti economici.
Il nostro sistema, in tal senso, è completamente rovesciato: l'ultimo dei consiglieri comunali guadagna 2 mila euro, mentre un ricercatore ne guadagna 1.100 euro ed il direttore degli Uffizi 1.400. Il sistema dei valori e delle premialità economiche, dunque, appare del tutto squilibrato:bisognerebbe provare a ripristinare un sistema di valori accettandone le conseguenze, avendo particolare cura verso professionalità di questo tipo, da cui dipende il destino del paese.
Ho già detto che produciamo il 14 per cento della ricchezza dell'Unione, ma partecipiamo solo con il 7 per cento agli investimenti europei in ricerca: è questa la causa profonda delle nostre difficoltà. Il nostro sistema, inoltre, presenta punti deboli ed è sottodimensionato rispetto a quello di altri paesi. Per la ricerca, infatti, spendiamo l'1,1 per cento del PIL; il settore pubblico vi investe lo 0,72 per cento del prodotto interno lordo, contro una media europea dello 0,68 per cento. Siamo persino leggermente al di sopra della media europea, ma bisogna fare ancora di più, data la struttura del sistema industriale italiano. Il problema è lo 0,4 per cento sul PIL investito dalle nostre imprese.
Penso che dobbiamo predisporre un programma per la ricerca che lasci ai ricercatori il loro bene più prezioso, vale a dire l'autonomia, che promuova la responsabilità e che istituisca un rigoroso sistema di valutazione. Innanzitutto, a mio avviso, bisogna investire sui giovani. Nelle nostre università, infatti, il personale docente è il più vecchio del mondo; anzi, è una sorta di «onda» che tende a spostarsi verso età assai elevate. Il 60 per cento della ricerca italiana, tuttavia, è sostenuto da giovani precari.
Ritengo, allora, che, in questa legislatura - e suggerisco anche di presentare una proposta concreta in Parlamento -, dovremmo assicurare un forte ingresso dei giovani ricercatori nelle università e negli enti di ricerca, predisponendo un piano straordinario in tal senso, che benefici anche del fatto che, nei prossimi dieci anni, è previsto il pensionamento del 47 per cento dei docenti attuali. Dobbiamo puntare, quindi, sui giovani. Non azzardo cifre, perché bisogna vedere ciò che ci sarà consentito dalla finanziaria per il 2007, nonché da quelle che saranno approvate nell'arco dell'intera legislatura. Ritengo, tuttavia, che dobbiamo pensare ad un numero di giovani che oscilli tra i 15 mila ed i 30 mila, realizzando quindi un forte rinnovamento e curando particolarmente certe figure ed alcuni ruoli.
Consideriamo, ad esempio, il ruolo del dottore di ricerca. Esiste una curiosa situazione riguardo al dottorato di ricerca, che rappresenta uno step preziosissimo nella vita delle persone che si dedicano alla ricerca ed alla formazione superiore. In quasi tutti i paesi del mondo, infatti, il dottorato è la via fondamentale per ottenere un'uscita «multipla», vale a dire per dirigersi verso l'insegnamento universitario, la ricerca negli enti pubblici e privati, il management dell'industria o le alte qualifiche della pubblica amministrazione. L'esempio più clamoroso è la Francia: infatti, voi trovate i dottori dell'ENA e del Polytechnique sparsi in tutti i settori della società. Nel nostro paese, invece, ciò non avviene, perché quel ruolo coincide, prevalentemente, con il primo passo per intraprendere la carriera universitaria; tuttavia, se il dottore di ricerca a 35 anni non intravede un qualsiasi spiraglio per diventare professore associato e, in seguito, cattedratico, si sente un fallito!
Si può pertanto intervenire su tale ambito. Ho peraltro scoperto che l'articolo 4 della legge n. 210 del 1988, concernente proprio il dottorato di ricerca, prevedeva l'adozione di decreti applicativi che, tuttavia, non sono mai stati varati. Quindi, possiamo risolvere molti di questi problemi senza approvare nuove leggi, ma semplicemente utilizzando quelle già esistenti e che non hanno mai avuto l'implementazione amministrativa sufficiente per farle entrare effettivamente in vigore. Vorrei segnalare che sono veramente numerose le norme e le leggi che non sono


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mai entrate in vigore per il solo fatto di non essere mai state implementate, dal punto di vista amministrativo, attraverso i necessari decreti attuativi.
Per quanto attiene agli enti pubblici di ricerca, vorrei segnalare che occorre procedere ad un riassetto complessivo. Preferisco usare con misura la parola «riforma», poiché non vorrei inviare il messaggio per cui nel settore dell'università e della ricerca, dopo dieci anni di riforme e di continue rivisitazioni, si fa tabula rasa e si ricomincia tutto daccapo. Immagino, infatti, l'eventuale disperazione di chi opera in tale comparto ed ha dovuto fronteggiare, per più di un decennio, continui provvedimenti di riforma.
Prediligo, parlare dunque, di «manutenzione» e di correzioni: mi riferisco, ad esempio, alla riforma dell'università del 1999 ed alle successive implementazioni. Il prossimo anno, tra l'altro, ci sarà il primo step, previsto dal cosiddetto processo di Bologna, di verifica dei tre livelli, del cosiddetto 3+2 e del sistema dei crediti formativi. È stata già convocata, al riguardo, la Conferenza di Londra, nel corso della quale i paesi europei che, attraverso tale processo, hanno tentato di armonizzare la loro legislazione nel settore effettueranno una verifica collettiva. Sarà quello il momento per avviare un ampio confronto, su basi scientifiche, non per realizzare un'ulteriore riforma ex novo, ma per apportare una seria correzione.
I tre livelli di laurea, infatti, sono a mio avviso positivi, tuttavia da nessuna parte era scritto che il primo livello dovesse diventare, per i più, un vicolo cieco professionale, o semplicemente il primo passaggio per salire un altro gradino nel sistema universitario. I crediti vanno bene, ma non era previsto che portassero da 2.500 a 5.300 i corsi di laurea. Ciò, infatti, è andato a vantaggio non della struttura del sapere, ma dei docenti singoli e delle cattedre. Tali aspetti vanno corretti in corso d'opera, e il prossimo anno ne fornirà l'occasione.
Credo che occorra intervenire, altresì, per procedere al riassetto ed alla riorganizzazione degli enti pubblici di ricerca.
Per avviare tale processo non è sufficiente l'azione del mio ministero, perché, come sapete, gli istituti di ricerca, compresi quelli strumentali, sono afferenti a numerosi dicasteri. L'ENEA, ad esempio, è legato prevalentemente al Ministero delle attività produttive (ora Ministero dello sviluppo economico), l'Istituto superiore della sanità è sotto il controllo di quello della salute; vi sono, inoltre, istituti di ricerca che operano nei settori dell'ambiente e dell'agricoltura. Bisogna realizzare, dunque, un'opera di concertazione tra i diversi ministeri. Dobbiamo ridurre la fortissima tendenza, verificatasi in questi anni, alla burocratizzazione degli enti, poiché niente contrasta maggiormente il libero sviluppo della scienza e della ricerca quanto le burocrazie, nonché le strutture piramidali e di comando. Occorre altresì prendere atto che, nel corso di questi ultimi anni, tutti gli enti si sono trovati schiacciati dal peso di profondi conflitti interni - vorrei informare che sto compiendo alcune verifiche in tal senso -, i quali hanno provocato, tra gli effetti collaterali verificatisi, un'ingiustificata e deprecabile perdita di posizioni di primato in sede europea. In tutti i settori, infatti, abbiamo perso posizioni in sede comunitaria anche per quanto attiene alle persone assegnate ad incarichi dirigenziali in ordine a grandi progetti ed a grandi istituti europei.
Ritengo si debba intervenire per diminuire il tasso di burocrazia esistente, anche sottraendo alla politica ed allo stesso Governo parte del loro potere. Penso che, quando si tratta di istituti di ricerca, la pratica dello spoils system sia un delitto. Quindi, anche senza approvare nuovi provvedimenti legislativi (dal momento che tutto ciò che la legge non proibisce è consentito), per le nomine da effettuare in futuro sarebbe opportuno usare il metodo dei search committees. Si tratta di comitati, composti da autorità indiscusse del management, dell'impresa e della scienza, che dovranno sottoporre al ministro competente delle «terne» entro le quali egli sia obbligato a scegliere le persone da nominare, al fine di ridurre - anche


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qualora essa fosse involontaria - una certa propensione della politica ad assumere il controllo di tali strutture amministrative. In questo campo, invece, bisogna restituire alla comunità scientifica la sua autonomia, nonché aiutarla a liberarsi dalla burocrazia e dai corporativismi interni.
Siamo in grado anche di effettuare una valutazione sull'attività degli enti di ricerca, anche se non sarò io a compierla. Presto, infatti, sarà presentato il primo rapporto triennale elaborato dal Comitato di indirizzo per la valutazione della ricerca (CIVR). È vero che esso si ferma al 2003, tuttavia fornisce indicazioni molto interessanti. Vi è, per esempio, un indicatore relativo alla percentuale di prodotti di qualità dei nostri istituti di ricerca. I dati sono i seguenti: l'Istituto nazionale di astrofisica (INAF) e l'Istituto nazionale per la fisica della materia (INFM) si attestano al di sopra del 60 per cento del livello di produzioni di qualità, mentre l'Istituto nazionale di fisica nucleare (INFN) sta sopra il 56 per cento, il Centro nazionale delle ricerche (CNR) è al 38 per cento e l'ENEA si attesta al 22 per cento. Per l'ENEA siamo, ormai, all'allarme rosso, ma il CNR ha bisogno di risalire i gradini della classifica delle produzioni qualità.
Per quanto riguarda il settore cui si destina circa il 40 per cento degli investimenti pubblici, vale a dire il comparto aerospaziale, si registra una situazione un po' imbarazzante nell'Agenzia spaziale italiana (ASI). Il presidente dell'ASI, infatti, era al contempo presidente anche del Centro interuniversitario regionale per l'astrofisica e la cosmologia (CIRAC), un'altra fondamentale agenzia che opera in questo campo e che intrattiene rapporti economici e di committenza con la stessa ASI.
Si tratta, dunque, di una situazione cui bisogna porre rimedio. Giovedì prossimo si riunirà il consiglio di amministrazione dell'Agenzia spaziale italiana, e spero si trovi una soluzione soddisfacente per tutte le parti coinvolte, al fine di tornare, in questo come in altri settori ,ad affrontare le sfide future, per così dire, in perfetto assetto di combattimento.
Concludo la mia relazione introduttiva accennando alle strategie di finanziamento che si intendono attivare. Ho già affermato che la mano pubblica, per quanto non ci trovi al di sotto delle medie europee, deve fare di più, data la struttura industriale italiana, sia attraverso investimenti diretti, sia agendo sulla leva fiscale.
Forse pochi se ne sono accorti, poiché i tassisti, in questi ultimi giorni, hanno attirato l'attenzione di tutti - compresa la mia! -, ma nell'ultimo decreto-legge del Governo (il cosiddetto decreto Bersani) è compresa una disciplina fiscale che riguarda, in modo particolare, le deduzioni di imposta per le spese di brevettazione e di trasferimento tecnologico delle imprese non più su tre esercizi fiscali, ma su due. Un'altra disposizione contenuta nel provvedimento in questione, inoltre, garantisce deduzioni di imposta nello stesso esercizio (non sul successivo) nel quale vengano effettuate spese in studi, ricerca e innovazione. Si tratta di norme a favore delle imprese che, se pienamente attivate, potrebbero valere, già dal prossimo anno, circa un miliardo di euro. Dal momento che il professor Pistorio, aveva fatto una dichiarazione pubblica in cui chiedeva 400 milioni di euro per risolvere tutto, segnalo che qui è disponibile un miliardo.
Prevedo, inoltre, che nel prossimo disegno di legge finanziaria verrà realizzato l'impegno assunto dal Presidente del Consiglio, Romano Prodi, nel pronunciare i suoi discorsi programmatici di insediamento alle Camere, vale a dire l'introduzione di un credito di imposta (che egli aveva anche quantificato). Vedremo se, come spero, sin dal primo anno sarà possibile concedere alle imprese un credito di imposta pari al 50 per cento della spesa sostenuta per la committenza alle università ed ai centri di ricerca pubblici.
Stiamo studiando con i ministri Bersani e Nicolais, infine, un intervento sul mercato dei capitali, avendo osservato che una parte imponente degli investimenti in ricerca e sviluppo effettuati in questi ultimi


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quindici anni (nell'arco dei quali si inserisce la vera e propria rivoluzione avvenuta nel mondo da me precedentemente descritta) è stata realizzata dagli Stati Uniti, da una parte dell'Europa, da Israele e dalle economie asiatiche attraverso fondi chiusi di venture capital. So che gran parte della Silicon Valley, per esempio, dello sviluppo del sistema biomedicale americano o di Google, il fondamentale motore di ricerca su Internet, sono stati realizzati proprio attraverso investimenti di venture capital.
Non vi descrivo il mio turbamento nello scoprire che molti (decine e centinaia) dei promotori di tali fondi, vale a dire i soggetti cui vengono delegate le decisioni di investimento negli Stati Uniti e nel resto del mondo, sono italiani! Adesso vi dirò il peccato e non il peccatore, raccontandovi di aver parlato del progetto del Governo che illustrerò a breve con un grande imprenditore italiano. Tale imprenditore l'ha ritenuta un'idea buona, ma la ha considerata velleitaria in Italia. Vi invito tuttavia ad immaginare il mio stupore nello scoprire, nel corso di tale conversazione, che egli aveva partecipazioni in settanta fondi di venture capital, sparsi fra Stati Uniti, Israele e Cina!
Vorrei evidenziare che, nel modello americano, il privato rischia tutto e tutto guadagna (quando si guadagna) e spesso si tratta di cifre rilevanti, mentre in quello asiatico una parte del rischio viene assunta dalla mano pubblica.
Stiamo lavorando attorno ad una proposta, volta ad alimentare la formazione di fondi di venture capital in Italia (si dovrebbe trattare di investimenti sia stranieri, sia italiani) che spero potremo presentare presto in Parlamento, contando anche sul fatto che potrebbe essere costituito un fondo pubblico in grado di assumere una parte del rischio. Non dovrebbe accollarsi tutti i rischi, però, perché, altrimenti, sarebbe un modo - peraltro, piuttosto noto in Italia - per privatizzare i guadagni e socializzare le perdite: se si rischia, devono farlo tutti. Resta il fatto, comunque, che il settore pubblico potrebbe assumere su di sé una parte del rischio che comportano tali investimenti.
Riteniamo, senza promettere miracoli, che tali strategie possano, nell'arco di qualche anno, accrescere significativamente quello 0,4 per cento sul PIL che viene speso dai privati e dalle imprese nel budget complessivo degli investimenti nazionali in ricerca e sviluppo.
Vorrei aggiungere anche ulteriori elementi, ma preferisco fermarmi qui. Spero, comunque, di aver fornito materia sufficiente per la discussione.

PRESIDENTE. Ringrazio il ministro Mussi per l'esauriente relazione svolta.
Purtroppo, il tempo è tiranno e non ci consente di avviare oggi il dibattito, dal momento che il ministro Mussi è atteso, fra poco, al Senato della Repubblica. Pertanto, compatibilmente con i suoi impegni, lo attendiamo molto presto in Commissione, prima dell'aggiornamento estivo dei lavori parlamentari, per poter ascoltare i quesiti e le valutazioni formulati dai componenti la Commissione, nonché le ulteriori osservazioni che il ministro Mussi vorrà esprimere in proposito.
Nel ringraziare ancora il signor ministro per aver partecipato ai nostri lavori, rinvio pertanto il seguito dell'audizione ad una data da concordare.

La seduta termina alle 16.