Giunta per le autorizzazioni - Giovedì 28 settembre 2006


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ALLEGATO 1

RELAZIONE DELL'ONOREVOLE LANFRANCO TENAGLIA

1. - Il Collegio per i reati ministeriali presso il Tribunale dei ministri di Firenze fu investito dal Procuratore della Repubblica in sede degli atti relativi al procedimento penale nei confronti dell'on. Altero Matteoli, all'epoca dei fatti Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, per i reati di cui agli articoli 378 e 326 del codice penale (favoreggiamento e rivelazione di segreti d'ufficio).
In particolare, nella notitia criminis si ipotizzava che l'on. Matteoli aveva informato il Prefetto di Livorno, dr. Lorenzo Gallitto, Giuseppe Pesce ed altri dell'esistenza di indagini penali a loro carico.
Il Collegio per i reati ministeriali, all'esito delle indagini, sulla richiesta del P.M. di trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Pisa, in ragione della ritenuta natura non ministeriale dei reati in questione, con provvedimento del 4 aprile 2005:
a) osservava «che dagli atti processuali e dall'istruttoria svolta non sono emersi elementi che possano ragionevolmente far ritenere che, sul piano fattuale, la funzione di Ministro rivestita dal Matteoli abbia in qualche modo svolto un ruolo determinante o comunque concausale nell'acquisizione, prima, e propalazione, poi, di notizie segrete provenienti in primis da Pubblici Ufficiali appartenenti sicuramente ad uffici del tutto estranei rispetto a quelli facenti capo al Ministero dell'ambiente e la cui identità è rimasta peraltro ignota»;
b) riteneva, quindi, «l'incompetenza funzionale del Tribunale dei Ministri a delibare il fumus della fondatezza della accusa, non avendo i reati contestati all'on. Matteoli alcun rapporto - se non di mera occasionalità - con la sua carica», affermando che «resta ferma l'applicabilità delle ordinarie regole di procedura penale così come disposto dall'articolo 2, comma 1, ultima parte, della Legge n. 219/1989, per cui gli atti vanno trasmessi alla procura della Repubblica presso il Tribunale di Pisa (...) per le determinazioni del caso»;
c) nel dispositivo così provvedeva: «dichiara la incompetenza funzionale del Tribunale dei Ministri di Firenze a giudicare dei reati contestati a Matteoli Altero (...). Ordina la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Pisa».
Il P.M. presso il Tribunale di Livorno, con decreto del 4 maggio 2006, ha poi disposto la citazione a giudizio dell'on. Altero Matteoli per il reato di cui all'articolo 378 del codice penale per avere rivelato a soggetti indagati nel corso di un procedimento penale instaurato dal P.M. di Genova l'esistenza di dette indagini e di intercettazioni telefoniche disposte nei loro confronti.

2. - L'on. Altero Matteoli, con istanza rivolta al Presidente della Camera dei Deputati in data 18 aprile 2005 ha dedotto che il succitato provvedimento del Collegio per i reati ministeriali ha impedito che della questione sia stata «immediatamente investita la Camera dei Deputati con una formale richiesta di autorizzazione a procedere in ottemperanza a quanto (...) previsto dall'articolo 8 della legge costituzionale 16 gennaio 1989 n. 1, trattandosi di presunto reato ministeriale» ed ha chiesto che di essa fosse «investita la Giunta per le autorizzazioni a procedere, al fine di verificare se la condotta del Collegio per i reati ministeriali presso il Tribunale di Firenze configuri una violazione delle prerogative parlamentari».


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L'on. Altero Matteoli, con successiva istanza al Presidente della Camera dei Deputati ed al Presidente della Giunta per le autorizzazioni a procedere in data 18 luglio 2006, ha esposto che la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Livorno lo ha citato a giudizio per il reato di favoreggiamento e, dopo avere affermato l'assoluta infondatezza dell'imputazione, ha dedotto l'erroneità del citato provvedimento del Collegio per i reati ministeriali pressò il Tribunale di Firenze. Egli ha prospettato al Presidente della Camera dei Deputati ed al Presidente della Giunta per le autorizzazioni, che con detto provvedimento sono state «eluse le garanzie previste dalla Costituzione e soprattutto la necessaria richiesta di autorizzazione ministeriale» prevista dagli articoli 96 Cost. ed 8 della legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1». Pertanto, l'on. Matteoli ha chiesto che l'Autorità giudiziaria di Livorno sia invitata «a procedere nelle forme previste dalla richiamata legge costituzionale e dalle relative norme di attuazione, in modo da consentire alla Camera dei Deputati l'esercizio delle proprie prerogative in merito alla concessione dell'autorizzazione a procedere per un reato commesso in ipotesi da un Ministro».
L'on. Matteoli ha concluso deducendo: «nella denegata ipotesi in cui l'Autorità giudiziaria non dovesse prestare ossequio alle norme costituzionali richiamate, lascio alla Sua autorevole valutazione sulla tempestiva [protezione] della tutela lesa che potrebbe quindi essere garantita unicamente mediante la proposizione di un conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato innanzi alla Corte costituzionale».
3. - A seguito della trasmissione della prima delle due istanze richiamate nel § 2, la Giunta per le autorizzazioni è stata chiamata ad offrire al Presidente della Camera le valutazioni di propria competenza.
L'esame dell'istanza è stata avviata nella precedente legislatura, nella seduta del 27 aprile 2005. Il Presidente della Giunta precisò che «la questione posta dalla documentazione trasmessa dal ministro (...) concerne l'esatta individuazione della nozione di reato ministeriale», designando quali relatori gli onorevoli Kessler e Lezza.
3.1. - L'on. Giuseppe Lezza, in una prima relazione del 17 maggio 2005, ha approfondito i presupposti necessari per la configurazione di un reato come «reato ministeriale», prospettando che l'istanza dell'on. Matteoli «potrebbe trovare accoglimento soltanto attraverso un conflitto di attribuzione che la Camera, accogliendo la sua tesi, dovrebbe sollevare d'innanzi alla Corte costituzionale». Tuttavia, il Relatore non ha escluso «che il Ministro abbia, anche o piuttosto, voluto fare riferimento alla tesi di taluni dottrinari, secondo cui le ipotesi normative di cui all'articolo 9, comma 3, l. costituzionale n. 1 del 1989 non starebbero ad indicare i casi nei quali si applica la procedura derogatoria rispetto all'ordinario processo penale, ma soltanto quelli in cui è consentito alla Camera competente il diniego dell'autorizzazione, la quale resterebbe sempre necessaria per procedere contro ogni reato in qualsiasi modo (anche occasionale ed indiretto) connesso alle funzioni»
Nella relazione aggiuntiva del 14 giugno 2005, l'on. Lezza ha sostenuto che l'articolo 1, legge cost. n. 1 del 1989, dispone che «la «sottoposizione» dei membri dell'esecutivo alla «giurisdizione ordinaria» specializzata, cui è demandata la competenza per i reati ministeriali, è sempre preceduta dalla investitura del Parlamento e dalla sua autorizzazione».
L'articolo 2, comma 1, l. 5 giugno 1989, n. 219, stabilisce che il Collegio per i reati ministeriali «dispone l'archiviazione (...), se la notizia di reato è infondata, ovvero manca una condizione di procedibilità diversa dall'autorizzazione di cui all'articolo 96 della Costituzione, se il reato è estinto, se il fatto non è previsto dalla legge come reato, se l'indiziato non lo ha commesso ovvero se il fatto integra un reato diverso da quelli indicati nell'articolo 96 della Costituzione; in tale ultima ipotesi il collegio dispone altresì la trasmissione degli atti all'autorità giudiziaria competente a conoscere del diverso reato».


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Secondo il Relatore, nell'ipotesi disciplinata dalle ultime due proposizioni dell'articolo 2, comma 1, cit., non ricorrendo l'eccezione disciplinata dall'articolo 8, legge costituzionale n. 1 del 1989 - in virtù del quale la Camera competente non è investita della delibazione esclusivamente qualora sia disposta l'archiviazione -, e non essendo configurabile il provvedimento del Collegio come provvedimento di archiviazione, il Parlamento dovrebbe comunque essere investito della notitia criminis e pronunciarsi sulla riconducibilità o meno del reato tra i reati ministeriali. In caso positivo, «alla giurisdizione ordinaria spetterebbe successivamente l'onere di far valere una nozione eventualmente più restrittiva del reato ministeriale, attraverso la possibile proposizione di un conflitto di attribuzioni davanti alla Corte costituzionale».
Nella relazione conclusiva del 6 luglio 2005, l'on. Lezza ha precisato che la Giunta non è chiamata «a decidere se i reati contestati al Matteoli sono «ministeriali» o meno».
L'istanza dell'on. Matteoli ha contenuto più limitato e pone un «quesito estremamente specifico» al quale la Giunta deve dare risposta, che riguarda una violazione procedurale e può essere così sintetizzato: «è stato legittimo il provvedimento del Tribunale dei Ministri di Firenze che, dichiarando la propria incompetenza funzionale, ha ordinato la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica di Pisa? O non è piuttosto fondata la denuncia del Ministro Matteoli, secondo il quale il Collegio inquirente, compiute le indagini preliminari, avrebbe dovuto rimettere «immediatamente» gli atti, tramite la Procura, al Presidente della Camera?».
La conclusione del Relatore è nel senso che, qualora non sia disposta l'archiviazione della notitia criminis, quindi anche nel caso disciplinato dalle due ultime proposizioni dell'articolo 2, comma 1, cit., gli atti debbano essere trasmessi alla Camera competente perché si pronunci anche sulla «ministerialità» dei reati.
Secondo l'on Lezza, questo risultato è imposto da un'interpretazione sistematica di detta norma e dall'articolo 8 della legge costituzionale n. 1 del 1989, il quale stabilisce espressamente che il Collegio ministeriale può soltanto disporre l'archiviazione, ovvero investire la Camera della richiesta di autorizzazione a procedere, non già emettere un provvedimento che realizza la sottrazione al Parlamento del potere di pronunciarsi sul carattere 'ministeriale' del reato. Erroneamente il Collegio per i reati ministeriali presso il Tribunale di Firenze avrebbe accolto un'interpretazione meramente letterale dell'articolo 2 cit., lesiva delle prerogative della Camera, mentre la autorità giudiziaria da questo investita del reato neppure avrebbe un obbligo, ovvero una facoltà, di rimettere gli atti alla Camera, e ciò comporterebbe che il Ministro è stato «privato (...) di quella guarentigia, costituita dalla valutazione motivata del Parlamento sulla finalizzazione politica della condotta posta in essere».
Diversamente, ha concluso il Relatore, «nella fattispecie sussiste una ipotesi di parziale incostituzionalità dell'articolo 2 della legge ordinaria n. 219/89, rispetto all'articolo 8 della legge costituzionale n. 1/89», in quanto avrebbe inserito tra le fattispecie «delle archiviazioni (...) le pronunce di incompetenza funzionale», con il risultato di «traslocare» al tribunale dei Ministri quella funzione di «filtro», e dunque quella competenza a decidere per primo, che (...) gli articoli 1 ed 8 della legge cost. n. 1/89, correttamente ed opportunamente assegnavano al Parlamento.
Pertanto, l'on. Lezza ha precisato che «sarebbe davvero opportuno che della delicata questione in esame (...) fosse investita, con rituale conflitto di attribuzione, la Corte costituzionale».
3.2. - L'on. Giovanni Kessler, in una prima relazione del 15 giugno 2005, ha premesso che, «poiché il Ministro Matteoli sostiene che, nel dichiararsi incompetente per un'ipotesi che sarebbe di reato ministeriale il Tribunale dei ministri ha sostanzialmente aggirato la procedura garantita dal combinato disposto dell'articolo 96 Cost. e degli articoli 8 e 9 della 1. cost. n. 1 del 1989, la questione si centra


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sulla condivisione o meno della mancata riconduzione dell'ipotesi di fatto contestata all'on. Matteoli alla categoria dei reati ministeriali».
Il Relatore ha quindi approfondito la nozione di «reato ministeriale», prospettando che:
a) il Collegio per i reati ministeriali sarebbe «incorso soltanto in un inadempimento di carattere formale», laddove ha omesso di comunicare alla Camera dei Deputati la disposta archiviazione;
b) il provvedimento di detto Collegio ha invece correttamente escluso il carattere «ministeriale» del reato.

In una successiva relazione del 19 luglio 2005 l'on. Kessler prende in esame la prospettiva del correlatore, secondo la quale la questione non dovrebbe «più essere impostata verificando la natura ministeriale dei reati (...) ma solo giudicando della correttezza del procedimento del Tribunale dei ministri», che l'on. Lezza censura, ritenendolo frutto di una applicazione meramente letterale dell'articolo 2, legge n. 219 del 1989, ovvero di una sua corretta interpretazione, che sarebbe però costituzionalmente illegittimo. L'articolo 2 cit. - in violazione dell'articolo 8, comma 1, legge costituzionale n. 1 del 1989 - avrebbe infatti introdotto una terza alternativa rispetto alle due previste da quest'ultima norma, stabilendo accanto alle ipotesi della trasmissione degli atti al P.M. per l'inoltro dell'istanza di autorizzazione a procedere e del provvedimento di archiviazione, ne ha previsto «una terza (la declaratoria di incompetenza) che non sarebbe consentita».
Secondo l'on. Kessler quest'ultima configurazione non sarebbe condivisibile nel merito. In ogni caso, il Tribunale ha fatto corretta applicazione della norma e, comunque, «non sembra certo una soluzione istituzionalmente praticabile» quella di denunciare il vizio di costituzionalità della norma attraverso il conflitto di attribuzioni. In ogni caso, l'articolo 96 Cost., la legge costituzionale n. 1 del 1989 e l'articolo 18-bis del regolamento della Camera dei deputati attribuiscono al P.M. prima ed al Tribunale dei ministri poi il compito di giudicare della natura ministeriale del reato, stabilendo che il Parlamento debba essere investito dell'istanza di autorizzazione a procedere «solo dopo che sia stata giudicata la natura ministeriale dei reati» e, «al di fuori di tale formale investitura non vi è potere parlamentare che possa essere affermato».
4. - La sintesi della vicenda sottoposta alla valutazione della Giunta e le considerazioni svolte dai Relatori in occasione dell'esame svolto nella precedente legislatura permettono di ritenere che la preliminare questione alla quale occorre dare risposta è se il Tribunale dei ministri di Firenze, con il provvedimento del 4 aprile 2005, dichiarando che i fatti ascritti all'on. Matteoli integrano reati diversi da quelli di cui all'articolo 96 Cost. (e cioè non configurano «reati ministeriali») e disponendo la trasmissione degli atti all'autorità giudiziaria competente a conoscere dei reati, senza previamente sottoporli alla Camera dei Deputati, abbia leso le attribuzioni costituzionalmente garantite di quest'ultima.
Si tratta di una questione che attiene alla disciplina del procedimento regolata, nella parte qui di interesse, dagli articoli 8, legge cost. n. 1 del 1989 e 2, legge n. 219 del 1989.
La mera lettura dell'ultima di queste due norme è sufficiente a dimostrare che, come prospettato nella Relazione dell'on. Kessler, l'A.g. ha correttamente applicato l'articolo 2 cit.
La norma, stabilendo, tra l'altro, che il Tribunale di ministri «dispone l'archiviazione (...) se il fatto integra un reato diverso da quelli indicati nell'articolo 96 della Costituzione; in tale ultima ipotesi il collegio dispone altresì la trasmissione degli atti all'autorità giudiziaria competente a conoscere del diverso reato», non lascia margini a dubbi sul fatto che, qualora il Collegio ritenga che il reato non sia qualificabile come «ministeriale» non è tenuto a sottoporre gli atti al Parlamento. Tanto è appunto accaduto nella specie ed è inutile soffermarsi sulla correttezza della


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forma del provvedimento adottato, perché da essa non può derivare alcun vulnus delle attribuzioni della Camera. Peraltro, una siffatta lesione - come ancora ha condivisibilmente precisato l'on. Kessler - neppure può derivare dall'inadempimento consistente nell'omessa comunicazione del provvedimento (peraltro ascrivibile al P.M.).
Anche l'on. Lezza si è dimostrato consapevole della circostanza che l'osservanza del procedimento così come disciplinato dalla lettera dell'articolo 2 cit. fa escludere la configurabilità di un atto lesivo delle attribuzioni della Camera che, tuttavia, egli reputa ipotizzabile attraverso due diversi, non conciliabili, percorsi argomentativi: a) in primo luogo, prospettando un'interpretazione della norma che implicherebbe l'obbligo dell'A.g. di adottare il provvedimento soltanto dopo avere investito la Camera; b) in secondo luogo, sostenendo che una lettura della disposizione diversa da quella sub a) pone in luce l'illegittimità costituzionale della medesima, che ritiene debba essere fatta valere sollevando conflitto di attribuzione.
L'interpretazione sintetizzata al punto a) non sembra corretta, in quanto è in contrasto con la chiara lettera della norma e neppure è sostenibile attraverso una sua esegesi svolta alla luce degli articoli 96 Cost., e 1 e seguenti, legge costituzionale n. 1 del 1989. L'articolo 96 Cost. stabilisce, infatti, che l'autorizzazione del Parlamento è imprescindibile soltanto nel caso che debba procedersi nei confronti dei Ministri «per i reati commessi nell'esercizio delle loro funzioni»; l'articolo 9, legge cost. n. 1 del 1989, prevede che la Camera competente debba pronunciarsi esclusivamente sull'istanza di autorizzazione a procedere, e cioè nel caso in cui l'A.g. abbia ipotizzato la commissione di un reato che essa abbia configurato come ministeriale. Dunque, le norme costituzionali non prevedono un intervento diverso ed ulteriore rispetto a quello che condiziona la procedibilità dell'azione penale nei confronti del Ministro per un reato che l'A.g. ipotizza essere stato commesso nell'esercizio delle funzioni ministeriali.
Peraltro, la stessa relazione dell'on. Lezza dà conto di quanto sia arduo sostenere un'interpretazione dell'articolo 2 cit. diversa da quella accolta dal Tribunale dei ministri e, infatti, egli finisce con il preferire la tesi dell'illegittimità costituzionale, che propone di denunciare nel corso del giudizio per conflitto di attribuzione da sollevare in relazione ai provvedimenti giurisdizionali in esame.
4.2. - La seconda soluzione ipotizzata richiede, in linea preliminare, di valutare se vi siano margini per denunciare l'illegittimità costituzionale nel giudizio per conflitto di attribuzioni e, successivamente, di apprezzare la consistenza dell'ipotizzato vizio della norma.
Secondo l'on. Kessler, «non sembra certo una soluzione istituzionalmente praticabile» quella di denunciare il vizio di costituzionalità della norma attraverso il conflitto di attribuzioni. Questa considerazione è meritevole di approfondita attenzione e, tuttavia, la questione, forse, non riguarda la percorribilità di tale strada dal punto di vista istituzionale, quanto la stessa possibilità di denunciare siffatto vizio nel giudizio per conflitto di attribuzioni.
L'esame della giurisprudenza costituzionale permette di ritenere che, in linea di principio, non sussistono ostacoli a far valere l'illegittimità costituzionale di una norma, sia pure allo scopo di ottenere dalla Corte costituzionale l'autoremissione della questione. In tal senso, è sufficiente ricordare la vicenda relativa al conflitto sollevato dal Comitato promotore del referendum abrogativo della legge n. 152 del 1975, nei confronti dell'Ufficio centrale per il referendum della Corte di cassazione, in riferimento all'ordinanza che aveva dichiarato legittima la richiesta di referendum, salvo che in relazione all'articolo 5, in quanto abrogato perché integralmente sostituito dall'articolo 2 della successiva legge n. 533 del 1977.
La Corte, dopo avere dichiarato ammissibile il conflitto, con ordinanza n. 44 del 1978, sospese il relativo giudizio e sollevò, di ufficio, la questione di legittimità costituzionale dell'articolo 39 della


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legge n. 352 del 1970, in quanto detta norma non distingueva, ai fini della pronuncia dell'Ufficio centrale, tra le diverse ipotesi di abrogazione e con ciò stesso poteva dare luogo ad applicazioni lesive delle attribuzioni costituzionalmente riconosciute al Comitato promotore. Per quanto qui interessa, la Corte costituzionale, nella citata ordinanza, precisò che «non sussiste dubbio sulla rilevanza di detta questione ai fini della decisione di questa Corte sul sollevato conflitto, dovendosi stabilire se nel caso di specie l'Ufficio centrale per il referendum, dichiarando cessate, in applicazione dell'articolo 39 della legge n. 352 del 1970, le operazioni del referendum relative alla disposizione dell'articolo 5 della legge n. 152 del 1975, sostituita da quella dell'articolo 2 della successiva legge n. 533 del 1977, abbia leso le attribuzioni costituzionalmente garantite» dei ricorrenti.
La sentenza n. 68 del 1978 dichiarò quindi illegittimo l'articolo 39 cit. e la sentenza n. 69 del 1978, definì il giudizio per conflitto di attribuzione, osservando che l'Ufficio centrale per il referendum aveva fatto una «puntuale applicazione del disposto dell'articolo 39 della legge n. 352 del 1970» e, tuttavia, a seguito della «parziale illegittimità costituzionale dell'articolo 39 della legge n. 352 del 1970» detto ufficio era chiamato a compiere una diversa valutazione e, conseguentemente, accolse il conflitto, annullando l'ordinanza.
Successivamente, l'astratta ammissibilità della denunzia del vizio nel corso di un giudizio per conflitto di attribuzione - con relativa sollecitazione dell'autorimessione da parte della Corte - è stata affermata dalla sentenza n. 502 del 2000 (che non ha accolto la relativa istanza per difetto di rilevanza della questione).
Pertanto, se è certo che, secondo la giurisprudenza costituzionale, il giudizio. per conflitto di attribuzione non può essere utilizzato come un improprio strumento diretto ad ottenere la dichiarazione di illegittimità di una norma (tra le molte, ordinanze n. 144 del 2000; n. 398 del 1999), la denuncia del vizio della norma - mediante la sollecitazione della autorimessione - resta però ammissibile soltanto qualora ciò non possa accadere nel corso di un giudizio incidentale e la lesività dell'atto derivi dalla circostanza che esso ha dato applicazione alla norma.
Tanto, in tesi, è ipotizzabile nella specie, perché il Ministro investito dell'ipotesi accusatoria, come si precisa infra, può avvalersi dei rimedi processuali stabiliti in sede ordinaria per far valere l'erronea qualificazione del fatto-reato, sia pure sempre all'interno della giurisdizione ordinaria, anche denunciando l'illegittimità costituzionale della norma. La Camera competente - che è la titolare dell'attribuzione lesa - ciò invece non può fare e, peraltro, neppure potrebbe intervenire nel giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale che fosse stato eventualmente promosso (sentenza n. 163 del 2005).
4.3.- L'astratta ammissibilità del conflitto richiede allora di saggiare la fondatezza delle censure prospettate nella relazione dell'on. Lezza che ha però esito negativo.
La modificazione dell'articolo 96 Cost, come bene ha osservato la dottrina, ha segnato la riconduzione del giudizio sui reati ministeriali nell'alveo della giurisdizione ordinaria, avendo cura di mantenere alcuni elementi di tutela differenziata limitatamente al caso in cui l'autorità giudiziaria ritenga esistente un reato di tale natura. L'articolo 96 Cost. e la legge cost. n. 1 del 1989 hanno distinto due fasi, attribuendole ad organi di diversi poteri: le indagini sul fatto e una prima valutazione in ordine alla fondatezza delle accuse spettano all'autorità giudiziaria; la valutazione di natura politica in ordine alla procedibilità dell'azione penale per il reato ritenuto ministeriale spetta alla Camera competente.
L'articolo 96 Cost. stabilisce infatti che il Presidente del Consiglio dei Ministri ed i Ministri «sono sottoposti, per i reati commessi nell'esercizio delle loro funzioni, alla giurisdizione ordinaria, previa autorizzazione del Senato della Repubblica o della Camera dei deputati, secondo le norme stabilite con legge costituzionale».


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La legge costituzionale prevede l'intervento della Camera competente esclusivamente dopo che l'autorità giudiziaria abbia ritenuto sussistente il fumus del reato ministeriale, allo scopo appunto di concedere o negare l'autorizzazione a procedere (cfr. articoli 5, e 9), fungendo il giudice ordinario da filtro rispetto alla notitia criminis, diretto a vagliare la ricorrenza di elementi idonei a dare avvio alla successiva fase parlamentare che ha ad oggetto la delibazione in ordine ai presupposti stabiliti dall'articolo 9, comma 3, legge costituzionale n. 1 del 1989. Coerentemente con questa disciplina, gli articoli 18-bis a 18-quater del regolamento Camera disciplinano l'attività della Giunta in riferimento alla sola valutazione concernente la concessione o negazione dell'autorizzazione a procedere in ordine al reato che l'autorità giudiziaria ordinaria abbia qualificato come ministeriale.
L'articolo 6 della legge n. 1 del 1989 non dispone infatti che il Procuratore della Repubblica trasmetta «in ogni caso» gli atti al Collegio previsto dall'articolo 7, bensì che trasmetta «i rapporti, i referti e le denunzie concernenti reati indicati dall'articolo 96 Cost.», e dunque solo le informative riguardanti reati ministeriali, sicché occorre la «concreta possibilità» (e cioè una certa ragionevole probabilità) che il fatto ricada nella fattispecie prevista dall'articolo 96 Cost.
La riforma del 1989 ha quindi inteso soltanto condizionare il procedimento per il reato ministeriale all'autorizzazione a procedere della Camera, ferma restando la delibazione dell'A.g. in ordine alla natura del reato. In tal senso si è infatti condivisibilmente orientata la giurisprudenza della Corte di cassazione, ritenendo che l'obbligo di trasmissione al c.d. «tribunale dei ministri» degli atti concernenti i reati indicati nell'articolo 96 Cost. previsto dall'articolo 6 1. cost. n. 1 del 1989 sussiste a condizione che venga ravvisata, quantomeno sotto il profilo del dubbio, l'ipotizzabilità di un reato «ministeriale» (commesso, cioè, da un ministro nell'esercizio delle sue funzioni) e, quindi, non sussiste quando tale ipotizzabilità è esclusa dal p.m. o, successivamente, dal Gip (Cass., sez. VI, 6 agosto 1982; analogamente Cass. Sez. un. 20 luglio 1994, dichiarativa della nullità dell'ordinanza emessa dal G.i.p. che erroneamente aveva negato la natura ministeriale del reato).
Analogo principio è implicitamente sotteso all'affermazione che il Collegio per i reati ministeriali neppure costituisce un organo giurisdizionale straordinario e, quindi, l'errore nella qualificazione del reato come non ministeriale e l'erronea pronuncia di atti da parte di un giudice diverso dal Tribunale dei ministri integra un atto emanato da un giudice sprovvisto di competenza, non già carente di giurisdizione (Cass. Sez. un. 20 luglio 1994).
Pertanto, sembra arduo ipotizzare che l'articolo 2 cit. sia inficiato da un vizio denunciabile - nei modi e nei termini sopra precisati - nel corso di un eventuale giudizio per conflitto di attribuzione sollevato in relazione al provvedimento del Tribunale dei ministri di Firenze.
4.4. - La conclusione raggiunta non lascia peraltro la Camera competente priva di strumenti di tutela delle attribuzioni costituzionali che, in tesi, è ipotizzabile siano lese da un provvedimento dell'autorità giudiziaria ordinaria inficiato da un'erronea qualificazione come non ministeriale del reato.
La configurazione della competenza del Tribunale dei ministri quale competenza funzionale fa escludere che, in linea di principio, l'eventuale contrasto interno agli organi della giurisdizione ordinaria possa costituire materia di un conflitto di attribuzione; la corretta applicazione della disciplina che concorre all'individuazione della diversa competenza non può che spettare alla Corte di cassazione (Cass. Sez.un. 20 luglio 1994). Inoltre, deve ritenersi che la parte - e cioè il Ministro interessato -, avvalendosi degli strumenti processuali stabiliti a detto scopo, possa contestare innanzi all'autorità giudiziaria ordinaria la qualificazione che egli ritenga erronea.
Tuttavia non può escludersi che un atto abnorme, frutto sostanzialmente di una sorta di eccesso di potere, conseguente da


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una valutazione e qualificazione manifestamente erronea offerta dall'autorità procedente possa condurre all'elusione della norma costituzionale e del procedimento di garanzia disciplinato da questa e dalla legge costituzionale n. 1 del 1989, sino ad incidere sul potere attribuito dalla Costituzione alla Camera di stabilire se possa o meno procedersi per un «reato ministeriale».
Tanto può accadere sia qualora il P.M. non investa il Tribunale dei ministri, con iniziativa condivisa nelle successive fasi processuali dagli organi giudicanti, sia qualora il Tribunale dei ministri adotti un provvedimento quale quello qui in esame, offrendo una configurazione fatta propria dagli organi che procedono in seguito in sede «ordinaria».
In siffatte ipotesi - come accade, in linea generale, in tutti i casi di esercizio abnorme del potere giurisdizionale (Corte cost. n. 121 del 1999; n. 150 del 1981) - è configurabile un conflitto di attribuzioni e la Camera competente deve ritenersi legittimata a denunciare la lesione innanzi alla Corte costituzionale.
4.5. - Le considerazioni svolte conducono a ritenere che - una volta esclusa sia la configurabilità di un error in procedendo produttivo di una lesione delle attribuzioni costituzionali della Camera, sia una lesione conseguita dalla corretta applicazione di una norma che sarebbe però costituzionalmente illegittima - l'affermazione dei presupposti per sollevare conflitto di attribuzioni richiede di accertare se il Tribunale dei ministri, prima, e l'autorità giudiziaria di Livorno, poi, escludendo la natura «ministeriale» del reato e disponendo di procedere in sede 'ordinaria' nei confronti dell'on. Matteoli, abbiano adottato decisioni abnormi ed appunto per questo lesive delle prerogative della Camera.
La risposta a tale ulteriore questione, in questa sede, nella precedente legislatura, è stata convincentemente offerta dall'on. Kessler nelle relazioni più volte richiamate.
La questione non è delle più semplici e le divergenti opinioni registrate nella dottrina e gli indirizzi emersi sul punto - per la cui individuazione è opportuno rinviare, per ragione di sintesi, alla relazione dell'on. Kessler del 15 giugno 2005 (v. allegati alla seduta del 26 luglio 2006) - costituiscono significativa dimostrazione di una siffatta difficoltà che, tuttavia, riguarda casi limite ed ipotesi per così dire di confine, dato che la giurisprudenza di legittimità ha delineato con argomentazioni convincenti e condivisibili i parametri che permettono di accertare in modo affidante la ricorrenza dei caratteri per affermare la natura «ministeriale» del reato (si vedano Cass. sez.un 20 luglio 1994; 17 settembre 1995; Cass., sez. VI, 20 maggio 1998, n. 8854).
In questa sede è sufficiente ricordare che l'articolo 96 Cost. non reca una specifica previsione di singole fattispecie, ma fa riferimento a tutte le ipotesi di reato ravvisabili nell'ambito dell'ordinamento positivo dello Stato. Gli elementi qualificanti della previsione sono stati quindi affidati alla concorrente presenza di due circostanze: la particolare qualificazione soggettiva dell'autore del reato nel momento in cui questo è commesso, ed il rapporto di connessione tra la condotta integratrice dell'illecito e le funzioni esercitate dal ministro. Quest'ultimo, a sua volta, è ritenuto sussistente «tutte le volte in cui l'atto o la condotta siano comunque riferibili alla competenza funzionale del soggetto», con la conseguenza che, da un canto, non va confuso con il nesso di mera occasionalità con l'esercizio delle funzioni; dall'altro, neppure richiede l'abuso dei poteri o delle funzioni, o la violazione dei doveri di ufficio, ovvero l'adozione di provvedimenti formali assunti dal Ministro nell'ambito della sua competenza, oppure il carattere «politico» del reato o del suo movente. Peraltro, non è inopportuno ricordare che la giurisprudenza costituzionale - sia pure in riferimento ad una norma e ad una questione diversa (e cioè all'articolo 68 Cost.) nell'interpretare la nozione di «nesso funzionale» ha privilegiato una esegesi restrittiva, allo scopo di evitare di ampliare i casi di deroga all'applicabilità delle norme ordinarie, che possano


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condurre ad un'indebita estensione della sfera di applicabilità delle guarentigie costituzionali (in particolare, a partire dalle sentenze n. 10 ed 11 del 2000, sino - tra le molte, e da ultimo - alle sentenze n. 258, 260 e 286 del 2006).
Alla luce di questi principi, fermo restando che in nessun modo deve vagliarsi in questa sede la consistenza, nel merito, dell'ipotesi accusatoria, è la stessa formulazione dell'imputazione e la mancata contestazione della violazione di obblighi funzionali a rendere difficilmente sostenibile l'esistenza di un rapporto di connessione tra la condotta integratrice del fatto-reato così come contestato e le funzioni di ministro esercitate all'epoca dall'on. Matteoli. Inoltre, se si ha riguardo alle funzioni assegnate al Ministro dell'ambiente e la circostanza che in nessun modo è individuabile una connessione tra il loro esercizio e l'eventuale conoscenza dell'esistenza di indagini e di intercettazioni, appare davvero difficile ipotizzare che l'autorità giudiziaria, negando il carattere ministeriale del reato, abbia posto in essere provvedimenti abnormi, viziati da un manifesto eccesso di potere, che hanno determinato la sottrazione alla Camera del potere attribuitole dall'articolo 96 Cost., quindi inficiati da un vizio denunciabile mediante conflitto di attribuzioni innanzi alla Corte costituzionale.

Lanfranco TENAGLIA


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ALLEGATO 2

RELAZIONE DELL'ONOREVOLE NINO MORMINO

Onorevoli Colleghi,
La questione posta dal Sen. Matteoli pone due diversi problemi: il primo attiene al merito delle accuse formulate a suo carico circa la natura ministeriale delle condotta che gli viene addebitata; il secondo, di carattere procedimentale, riguarda l'individuazione dell'organo chiamato a decidere sulla correlazione o meno di tale condotta alla funzione di Ministro allora da lui esercitata.
A me pare che la nostra attenzione debba essere dedicata preliminarmente alla soluzione di questo ultimo aspetto, giacché la questione posta in ordine all'individuazione dei parametri di riferimento necessari per definire la pertinenza del fatto alla funzione ministeriale diventerebbe esercizio inutile se poi si dovesse ritenere che tale compito non appartenga all'organo parlamentare; d'altra parte, ritengo che, comunque, per risolvere il merito della questione sarebbe necessario quanto meno un approfondimento sui termini della vicenda, anche attraverso l'audizione del Sen. Matteoli.
Ritengo, quindi, che sia compito della Giunta verificare e stabilire se nella specie, sulla base della normativa vigente, alla Istituzione parlamentare debba essere riconosciuto il compito e la prerogativa primaria di decidere sulla pertinenza della condotta dell'allora Ministro al suo ruolo istituzionale e, quindi, se debba essere da essa o meno consentita la prosecuzione della iniziativa del Giudice Ordinario.
Occorre, a mio avviso, tenere conto preliminarmente dello stato del sistema normativo preposto alla garanzia della prerogativa degli organi istituzionali dello Stato, seppure nella limitata estensione che si è via via definita attraverso le graduali modificazioni che nel corso degli ultimi anni sono state apportate.
Ed occorre, in primo luogo, riconoscere che, comunque, il principio secondo il quale le Istituzioni politiche debbano essere tutelate di fronte alle iniziative giudiziarie è stato mantenuto in maniera diffusa, anche se modulato con una diversa estensione a seconda dei soggetti da garantire.
Fermo è rimasto in ogni caso il principio secondo il quale l'esistenza dei presupposti per il riconoscimento di tale garanzia debba sempre essere valutato e deciso dagli organismi parlamentari.
Ciò riguarda, anche se con una diversità di estensione, la tutela del Presidente della Repubblica (articolo 90 Cost.) la cui competenza a decidere sulla natura degli atti da lui compiuti è attribuita al Parlamento in seduta comune; quella del Presidente del Consiglio dei Ministri e dei Ministri, per i quali la competenza per il giudizio anche se ormai demandata al Giudice Ordinario, è tuttavia sempre sottoposta all'autorizzazione del ramo del Parlamento competente (articolo 96 Cost); così pure, infine, quella che riguarda i membri del Parlamento, anche se nelle limitate ipotesi della tutela delle opinioni espresse nell'esercizio delle loro funzioni e del loro stato di libertà personale.
Si tratta di un principio di rilievo normativo assoluto sancito, anche nella sua graduale evoluzione, da norme di natura costituzionale che quindi non sopportano deroghe o limitazioni se non di pari rilievo.
Nessuna questione è stata, in verità, posta sulla diretta applicazione di detto principio nella ipotesi della sua applicazione nei confronti del Capo dello Stato; e neppure, per il valore significativo che il


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riferimento assume ai fini della risoluzione del nostro problema, nei confronti dei parlamentari, rispetto ai quali l'obbligo di interpellare l'organismo parlamentare è imposto al magistrato procedente, ovvero, come nel caso del diritto di insindacabilità, esercitato anche attraverso la semplice richiesta del parlamentare nei confronti del quale si procede, ed alla quale il giudice ordinario non può sottrarsi (articolo 3, commi 4 e 7, 1. 140 del 2003).
D'altra parte il sistema appronta uno strumento di controllo sulla legittimità della decisione dell'organismo parlamentare, nel caso in cui essa paralizzi radicalmente l'azione, costituito dall'istituto del conflitto di attribuzione la cui risoluzione, è demandata comunque all'organo di massimo livello giurisdizionale.
In tale quadro deve, quindi, necessariamente collocarsi il diritto invocato dal Sen. Matteoli che non può soffrire alcuna compressione quale quella della decisiva interferenza determinata dalla discrezionalità della valutazione da parte del giudice ordinario circa la applicabilità della tutela costituzionalmente riconosciutagli.
Vero è che tale possibilità sembra sorgere dal contenuto della legge 5 giugno 1989 n. 219, laddove viene regolato il procedimento presso il c.d. Tribunale dei Ministri (previsto dall'articolo 7 della legge costituzionale del 16 gennaio 1989) nella parte in cui è previsto il caso che se il predetto Collegio dovesse ritenere che «il fatto integra un reato diverso da quelli indicati nell'articolo 96 della Costituzione», esso «dispone l'archiviazione» ma nello stesso tempo «dispone la trasmissione degli atti all'autorità giudiziaria competente a conoscere del diverso reato». (articolo 2 L. 5 giugno 1989 n. 219).
È di tutta evidenza, però, come tale previsione si ponga in netto contrasto col sistema generale di cui ci si è in precedenza occupati, rispetto al quale costituisce una grave ed inammissibile deroga al principio della competenza degli organi parlamentari a decidere della tutela dei soggetti istituzionali garantiti nelle loro prerogative.
Evidente e significativo appare, ad esempio, proprio il contrasto tra la regola che prevede che il giudice ordinario procedente in caso di «semplice» insindacabilità delle opinioni dei parlamentari non possa in alcun modo autonomamente decidere negativamente sulla natura istituzionale della condotta e ciò possa fare invece, in un caso sicuramente più rilevante, nei confronti di un esponente di ben più alto rilievo, verso il quale il nostro ordinamento costituzionale, seppure nella rigorosa dinamica modificatrice delle norme sulle immunità, ha tuttavia mantenuto la massima delle garanzie, cioè quella della stessa improcedibilità in mancanza della autorizzazione parlamentare.
D'altra parte la sostanziale incompatibilità della previsione contenuta nella legge ordinaria e la improprietà della sua formulazione sta nel fatto che l'articolo 8 della legge costituzionale 1/89 prevede che «se non si ritiene che si debba disporre l'archiviazione il Collegio trasmette gli atti con relazione motivata al Procuratore della Repubblica per la loro immediata rimessione al Presidente della Camera competente ai sensi dell'articolo 5» (e cioè per pronunciarsi sulla autorizzazione a procedere).
È però di chiara evidenza che al provvedimento di archiviazione, come è peraltro nella sua natura propria, debba attribuirsi il valore di atto conclusivo della fase preliminare del procedimento, e che, nel sistema processuale ordinario, esso possa essere rimosso solamente con un provvedimento motivato del Giudice di riapertura delle indagini solo nel caso in cui il P.M. prospetti la esigenza di nuove investigazioni (articolo 414 del codice di procedura penale). Nel nostro caso, invece, non può riconoscersi al provvedimento di archiviazione, così come regolato dall'articolo 2 della L. 219/89 un carattere conclusivo della fase procedimentale affidata al Tribunale dei Ministri, bensì quello di una decisione interlocutoria affidata allo stesso Giudice di proseguire nella iniziativa giudiziaria, da lui demandata direttamente al Pubblico Ministero.


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Tale anomalia è peraltro confermata dal fatto che nel caso in specie il Tribunale dei Ministri di Firenze non ha neppure adottato il provvedimento di archiviazione previsto dalla legge costituzionale, ma si è limitato a rimettere gli atti al P.M. il quale ha conseguenzialmente promosso l'azione penale nei confronti del Sen. Matteoli.
In realtà in questo caso si verte sostanzialmente nella ipotesi prevista dal citato articolo 8 della L. 1/89 trattandosi di una delle ipotesi per le quali il Tribunale non ritiene di dovere concludere il procedimento da lui avviato con un'archiviazione che esaurisca l'azione intrapresa nei confronti del Ministro; anche in tale caso, quindi, esso deve promuovere il procedimento autorizzativo da parte dell'autorità parlamentare.
L'anomalia sancita dall'articolo 2 della legge 5 giugno 1989 n. 219, non può quindi, contrapporsi al sistema normativo costituzionale, nella specie regolato dalla legge costituzionale del 16 gennaio 1989, e, ciò, per il semplice motivo che la deroga proverrebbe da una norma ordinaria con essa incompatibile, quale quella invocata per eludere la richiesta del Sen. Matteoli.
Ritengo, quindi, che parallelamente a quanto avviene per i procedimenti che riguardano la sindacabilità delle opinioni dei parlamentari, questa Giunta debba dare seguito alle richieste del Sen. Matteoli a deliberare essa stessa se il fatto che viene a lui contestato abbia connessione con l'esercizio delle sue funzioni ministeriali. In caso contrario, qualora si dovesse ritenere legittima, con riferimento all'articolo 2 della Legge 219/89, la decisione del Tribunale dei Ministri di Firenze e, quindi la iniziativa del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Livorno, non potrebbe negarsi il diritto della Camera dei Deputati di sollevare un conflitto di attribuzione davanti la Corte costituzionale che trova il suo fondamento nel palese contrasto normativo tra la legge 1/1989 di rango costituzionale e quell'altra di natura ordinaria che ne inficia un principio fondamentale.

Nino MORMINO