Giovedì 29 marzo 2007. - Presidenza del vicepresidente della VII Commissione, Emerenzio BARBIERI. - Interviene il sottosegretario di Stato per le comunicazioni, Luigi Vimercati.
La seduta comincia alle 15.05.
Disposizioni per la disciplina del settore televisivo nella fase di transizione alla tecnologia digitale.
La Commissione prosegue l'esame dei provvedimenti, rinviato nella seduta del 27 marzo 2007.
Silvano MOFFA (AN) fa presente che il disegno di legge n. 1825 si presta a rilevanti critiche di ordine giuridico ed economico-concorrenziale, derivanti dallo scenario evolutivo dei mercati e delle risorse frequenziali in Italia, cosi come del resto emerse in numerosi interventi degli operatori e delle Autorità di settore nel corso dell'indagine conoscitiva appena conclusa e nel recente dibattito. Quanto agli aspetti di carattere giuridico, rileva che il provvedimento parte da presupposti erronei in primo luogo sulle posizioni della Corte costituzionale e delle Autorità di garanzia. A tale proposito, intende infatti precisare come non corrisponda al vero che la Corte costituzionale avrebbe bocciato le discipline transitorie succedutesi sino ad oggi; la Corte, al contrario, ne ha affermato la legittimità, invitando il legislatore ad approfittare dei miglioramenti tecnologici per aumentare il numero delle voci del sistema televisivo. La stessa Corte costituzionale, inoltre, non ha mai invitato il legislatore a «spegnere» emittenti o ad impoverire le imprese radiotelevisive, risultato evidentemente opposto alla salvaguardia del pluralismo. Allo stesso modo, non corrisponde al vero sostenere che le Autorità di garanzia avrebbero sollecitato la modifica delta disciplina esistente; tali Autorità, al contrario, ne hanno fatto costante applicazione, intervenendo nei casi in cui hanno ravvisato situazioni di pericolo per il pluralismo o la concorrenza. Non è poi neppure vero che l'Autorità garante per la concorrenza ed il mercato avrebbe ravvisato situazioni di dominanza nel mercato delle frequenze per le trasmissioni televisive, come è provato dalla circostanza che la medesima Autorità ha invece autorizzato
tutte le operazioni di concentrazione realizzate da Mediaset e dalla Rai, ritenendo quindi il mercato sufficientemente aperto e concorrenziale. Quanto poi alla presunta necessità di dare urgente riscontro ai rilievi della Commissione europea, sottolinea che lo stesso organo comunitario ha inviato allo Stato italiano una lettera di messa in mora che, di per sé, non obbliga ad alcuna modifica normativa. La pronuncia sulla compatibilità della disciplina interna con il diritto comunitario spetta infatti alla Corte di Giustizia, che avrebbe dovuto essere investita del caso ove il Governo italiano, come normalmente accade, avesse difeso il diritto interno. Per mera scelta politica, il Governo ha invece deciso di non procedere in tal senso, condividendo le contestazioni mosse dalla Commissione. Quest'ultima ha posto due questioni di fondo, concernenti il titolo abilitativo all'esercizio dell'attività di operatore di rete televisivo e l'accesso delle imprese alle frequenze, che deve essere garantito mediante procedure eque, trasparenti e non discriminatorie. Fa presente che sulla prima questione, il disegno di legge del Governo non prende posizione, mentre sulla seconda questione, il provvedimento impone la migrazione sul digitate di due reti nazionali, disinteressandosi però dei procedimenti di assegnazione dette frequenze così ottenute e della loro destinazione. Inoltre, il disegno di legge non affronta per nulla la questione della pianificazione delle frequenze e della toro gestione una volta conclusa la fase della digitalizzazione. Quanto all'attuale stato del sistema televisivo, il provvedimento del Governo parte del presupposto che esso, negli ultimi dieci anni, avrebbe mostrato una situazione di stallo cagionata dalla staticità del «duopolio» realizzatosi nel contesto analogico. Ma se gli ipotizzati problemi del sistema radiotelevisivo italiano fossero davvero nell'anatogico, protrarre la sopravvivenza di questo sistema fino al 2012 non sarebbe altro che un modo per ritardarne la soluzione. Peraltro, il «duopolio», ove mai esistito, non sussiste più ormai da tempo, dal momento che sia la diversificazione delle piattaforme di trasmissione tra digitale terrestre, satellite, cavo e IPTv, e sia quella concernente le modalità di visione della tv, tra pay tv, pay per view e mobile tv, impongono ai presunti «duopolisti» di confrontarsi con concorrenti agguerriti, come il gruppo NewsCorp-Sky. Oltre a tale gruppo, negli ultimi anni, importanti nuovi editori sono entrati nel mercato televisivo, quali H3G, Gruppo Editoriale L'Espresso, o, come il gruppo Telecom, hanno incrementato la loro presenza proprio grazie all'attuale disciplina detta digitatizzazione, che il disegno di legge ritiene invece nefasta per concorrenza e pluralismo. Nuove imprese sono entrate e altre accederanno al mercato con la digitalizaazione, sia quali operatori di rete, sia quali fornitori di contenuti, anche grazie agli obblighi di cessione di capacità trasmissiva imposti a chi ha più di una concessione analogica. Il provvedimento ignora poi del tutto il ruolo della concessionaria pubblica, che dovrebbe essere definito congiuntamente rispetto alle misure che lo stesso disegno di legge ipotizza. L'asserito deficit di pluralismo è del tutto ipotetico e virtuale, anche considerando la natura sostanzialmente indefinita del concetto e l'assenza di univoci parametri di valutazione confermata dal dibattito comunitario. Non vi è alcuna certezza che le misure proposte nel disegno di legge abbiano effetti benefici in tema di pluralismo. Fa presente quindi che il provvedimento contiene norme incostituzionali in quanto è una «legge-provvedimento», palesemente finalizzata ad infliggere un danno al gruppo Mediaset in maniera del tutto gratuita, non munita di giustificazione razionale e animata da finalità esclusive di ritorsione politica. In particolare, il disegno di legge mira ad impoverire Mediaset sotto tre diversi profili: sottraendole risorse pubblicitarie di cui non beneficerà alcun altro editore, imponendole la precoce migrazione al digitale di una rete, al di fuori di ogni contesto di pianificazione e di garanzia del futuro efficiente utilizzo dette frequenze e, infine, ridefinendo in modo arbitrario il perimetro del sistema integrato delle comunicazioni, allo scopo di avvicinare la
stessa Mediaset alla soglia critica. In proposito non può non evidenziare come l'inflizione di un danno non basata su alcun concreto interesse pubblico è incompatibile con la Costituzione, che si fonda sul principio di eguaglianza e che salvaguarda la libertà d'impresa. L'uso dello strumento legislativo, oltre a concretizzare un chiaro esempio di «legge-provvedimento», impedisce altresì all'impresa interessata di ricorrere ad una tutela diretta dei propri interessi di fronte al giudice, in violazione, quindi, del principio costituzionale di tutela dei diritti e interessi. Inoltre, l'adozione di un disegno di legge impedisce al soggetto interessato di partecipare al provvedimento, con ciò violando il principio del giusto procedimento, di norma affidato alle competenze delle Autorità di garanzia. Fa presente che tali osservazioni sono state recentemente esposte da eminenti esperti costituzionalisti nel corso di un incontro organizzato dalla Fondazione Magna Carta a Roma il 15 marzo 2007 e, in particolare, dai professori De Vergottini, Zanon, Morbidelli, Nicotra e Pitruzzella. Rileva poi che il provvedimento fraintende il ruolo e la natura delle norme antitrust in relazione alle misure in materia di tetti pubblicitari, come è stato ampiamente confermato anche nelle audizioni dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato e dall'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni. La fissazione per via legislativa, e quindi politica, di un tetto di fatturato pubblicitario, superato il quale si presume l'esistenza di una posizione dominante, è infatti estranea ad ogni logica antitrust. L'applicazione della disciplina antitrust deve fondarsi su considerazioni tecniche, non politiche, sulla situazione economica del mercato e sulla necessità, per salvaguardare l'interesse pubblico, di limitazioni alla libertà d'impresa. Per questa ragione sono state create Autorità amministrative indipendenti, il cui compito è proprio accertare, in applicazione di criteri generali e astratti, l'esistenza di posizioni dominanti lesive della concorrenza o del pluralismo (AGCom), nonché prevenire la creazione di potere di mercato mediante operazioni di concentrazione e reprimere eventuali abusi di tale potere (AGCM). Le direttive Telecom impediscono di imporre misure di prevenzione di possibili abusi di posizioni dominanti al di fuori di un'analisi di mercato, che deve essere condotta dall'Autorità di garanzia, con adeguate tutele giurisdizionali per le parti interessate. Le Autorità dispongono già dei poteri necessari per tutelare la concorrenza e il pluralismo. Non ha senso prevedere la riduzione dell'indice di affollamento in caso dì superamento del tetto: questa equivale ad una riduzione della disponibilità di spazi pubblicitari, con possibile incremento del relativo prezzo, a danno degli inserzionisti e indirettamente dei consumatori. Ove, nonostante la riduzione dell'affollamento, la soglia continuasse ad essere superata, l'AGCom sarebbe obbligata a disporre ulteriori misure anticoncentrative, senza tuttavia avere in questo caso la possibilità di esercitare l'indispensabile discrezionalità nell'individuare l'effettiva esistenza di posizioni dominanti. In particolare, la limitazione della possibilità di trasmettere telepromozioni, in maniera opposta rispetto a quanto previsto in sede comunitaria, priva le emittenti di una fonte di introiti e i consumatori di una fonte di informazioni su imprese e prodotti più minuziosa e dettagliata rispetto agli spot, mette le imprese italiane in posizione svantaggiata nel libero mercato europeo. Passa quindi ad esaminare le altre misure relative atte reti, segnalando la totale assenza di incentivi alla digitalizzazione, con il rischio di generare inefficienze nell'uso dello spettro. Ritiene peraltro che non ha alcun senso, in un contesto digitale, il riferimento al numero delle reti analogiche per misurare il potere di mercato di un'impresa. Il provvedimento rende comunque più onerosi i limiti anticoncentrativi nel settore digitale, introducendo il limite del 20 per cento della capacità trasmissiva complessiva utilizzata a carico dei fornitori di contenuti e includendo i servizi pay per view nel numero dei «canali» di ciascun soggetto: si tratta di limiti non necessari atto stato attuale del sistema, che deprimono l'innovazione e riducono
l'offerta per i consumatori. Il trasferimento precoce di due reti sulla piattaforma digitale rischia di dare luogo ad un ingiustificato e dannoso impoverimento del sistema e dell'offerta tv gratuita. Al riguardo, anche la Rai ha sottolineato l'antieconomicità dell'ipotizzato trasferimento, ritenendo ad esempio più percorribile la liberazione di una parte della capacità trasmissiva. Evidenzia quindi la totale assenza di regole procedimentali circa la futura assegnazione delle frequenze liberate nonché della garanzia che le stesse saranno utilmente impiegate. Addirittura, neppure si dice che le frequenze dovranno essere usate per trasmissioni digitali. Inoltre gli investimenti effettuati da Mediaset e Rai per l'acquisizione e lo sviluppo dette reti di trasmissione non vengono minimamente salvaguardati e, in questo senso, la misura realizza in effetti un grave e illegittimo «esproprio». La stessa esclusione dal frequency trading costituisce poi un ingiustificato ostacolo ad ulteriori investimenti nella digitalizzazione delle reti e la stessa Autorità di tutela del mercato, nei numerosi provvedimenti in tema di acquisizioni di impianti di trasmissione, non ha ravvisa alcuna necessità di una norma siffatta. Ritiene comunque che la disciplina del settore radiotelevisivo sia migliorabile con l'adozione di misure alternative e meno invasive di quelle contenute nel disegno di legge n. 1825. Le contestazioni mosse dalla Commissione europea costituiscono comunque un'opportunità per completare e migliorare il quadro normativo attuale, tenendo presente che questo fa già propri in maniera chiara gli obiettivi voluti dal legislatore comunitario. Occorre quindi un'opera di completamento ed eventualmente di limitata correzione affrontando il problema della pianificazione delle frequenze. Mediante una pianificazione delle frequenze accurata e aggiornata e l'esercizio del potere attuativo di cui all'articolo 42 del Testo unico della radiotelevisione, l'Autorità di settore può far sì che si realizzino i presupposti di fatto per la futura gestione amministrativa dello spettro. Eventuali modificazioni di reti esistenti dovrebbero pertanto essere limitate a situazioni ben definite ed essere realizzate soltanto ove strettamente necessarie. Ritiene possibile prevedere l'apertura anche formale del frequency trading a qualunque soggetto in possesso dei requisiti necessari per svolgere attività di operatore di rete digitale. Passando agli aspetti di carattere economico e concorrenziale, fa presente che pluralismo e concorrenza sono concetti diversi e potenzialmente confliggenti. Il pluralismo nei media è già garantito da norme che derogano alla disciplina a tutela della concorrenza, mentre il provvedimento tradisce di fatto lo spirito stesso della norma di cui all'articolo 43 del Testo unico della radiotelevisione che, pur stabilendo una deroga alla normativa antitrust, fa salvi i criteri di accertamento della posizione dominante. In particolare l'articolo 2 del disegno di legge n. 1825 prevede che «fino al 30 novembre 2012 e comunque fino alla completa conversione delle reti alla tecnologia digitale, il conseguimento, anche attraverso soggetti controllati o collegati, di ricavi pubblicitari superiori al 45 per cento del totale dei ricavi pubblicitari del settore televisivo riferito alle trasmissioni via etere terrestre in tecnologia analogica e digitale, via satellite e via cavo, costituisce una posizione dominante vietata ai sensi dell'articolo 43 del decreto legislativo 31 luglio 2005, n. 177». Con questa previsione normativa, l'eccezionale divieto di posizione dominante viene completamente disancorato dal basilare presupposto di ogni opportuno intervento regolatorio ovvero l'esistenza stessa di una dominanza, secondo i canoni antitrust. Ritiene inoltre che l'imposizione di un tetto alla raccolta pubblicitaria su mezzo televisivo rappresenti una misura contraria ai principi di promozione e tutela della concorrenza. A tale proposito cita la segnalazione AS231 del 20 marzo 2002, nella quale l'AGCM afferma espressamente il proprio «generale sfavore verso norme di legge che non si limitino a imporre alle imprese in posizione dominante dismissioni di impianti ma fissino tetti amministrativi, sia pure temporanei, alle quote di mercato, giacché
questi tetti possono avere l'effetto perverso di congelare il mercato anche accrescendo artificialmente il potere di mercato degli altri operatori». Tale linea e stata confermata dall'intervento del professor Catricalà davanti alle Commissioni VII e IX. Egli ha infatti dichiarato che «ai fini dell'individuazione di tale indipendenza di comportamento, e quindi di una posizione dominante, non è sufficiente rilevare un determinato livello di quota di mercato» e che «non appare comunque opportuna, in un'ottica antitrust, una definizione di posizione dominante normativamente stabilita, alla luce delle rigidità che potrebbero derivarne in sede applicativa, in particolare in un settore, dinamico come è attualmente quello televisivo». Sulla stessa linea richiama anche la segnalazione AS226, relativa alla riforma della regolazione e promozione della concorrenza, nella quale l'AGCM sottolinea come «l'imposizione di vincoli alla quota di mercato dell'impresa dominante può produrre effetti perversi in termini di efficienza, ponendo ostacoli ingiustificati alla crescita interna dell'impresa stessa la cui quota di mercato, peraltro, non dipende esclusivamente dai suoi comportamenti specifici, ma anche dall'evoluzione del mercato e dalle scelte dette imprese concorrenti. L'Autorità ritiene che non debbano essere posti tetti alle possibilità di espansione delle imprese mediante la fissazione di quote di mercato e che le iniziative di promozione della concorrenza siano più efficaci quando gli interventi non debbano richiedere un costante monitoraggio.» Fa presente quindi che il senatore Debenedetti, in una sua recente pubblicazione, si domanda testualmente: «Che concorrenza c'è se la si limita? Se poi il tetto è retroattivo e impone di ridurre il proprio fatturato la cosa appare ancora più singolare e, se riguarda una sola azienda, assume connotazioni politiche che sollevano preoccupanti interrogativi. Se, infine, questa azienda è quotata, le conseguenze del non garantire i diritti di proprietà investono tutto il sistema economico». In tal senso cita anche le considerazioni di Penati nell'articolo del 27 ottobre 2006 su «La Repubblica», nel quale si sostiene che il disegno di legge guarda al mercato televisivo con lo specchietto retrovisore. Anche le associazioni sindacali del settore, e in particolare FISTEL CISL, ritengono che porre dei limiti antitrust soltanto all'interno di un singolo comparto, in un mondo sempre più convergente, e non in termini più generali di sistema, può costituire un freno allo sviluppo delle imprese nazionali, tarpando le ali alla loro capacità di espansione, con conseguenze negative anche in termini di posti di lavoro. La UILCOM-UIL ritiene poi che le misure danneggino gli operatori attuali del nostro paese e si preoccupa per gli effetti delle stesse sulle politiche retributive-sindacali attinenti i lavoratori del settore. Intende quindi fare presente che le imprese televisive competono su mercati a più versanti (multi-sided markets), su uno dei quali le imprese televisive vendono spazi e, dunque, contatti agli inserzionisti pubblicitari, mentre l'altro versante, al quale concorrono anche le altre piattaforme televisive è quello dell'audience. In proposito fa presente che secondo la letteratura economica e antitrust più recente limitare l'analisi concorrenziale ad uno solo dei versanti che formano un mercato a più versanti porta ad importanti errori di valutazione. Non ha senso parlare di una posizione dominante di un'impresa in un singolo versante di un mercato multi-sided. Ne segue che l'imposizione di regole solo su un versante, quello pubblicitario, determina significative distorsioni al funzionamento del mercato. Anche il presidente dell'AGCOM, nel suo intervento davanti alle Commissioni riunite, ha avanzato dubbi sulla legittimità di imporre un limite parametrato alla sola raccolta pubblicitaria, chiedendosi: «non sarebbe più appropriato avere riguardo anche ad altre risorse del sistema intrinsicamente collegate all'attività imprenditoriale radiotelevisiva, come già abbonamenti e i proventi della pay tv?». Fa presente quindi che il tetto del 45 per cento imposto nel disegno di legge determina una distorsione sul versante della raccolta pubblicitaria che si traduce in una riduzione degli investimenti
pubblicitari effettuati sul mezzo televisivo, in un incremento del prezzo per contatto sopportato dagli inserzionisti e nella riduzione del volume delle transazioni. Secondo una stima prudenziale degli effetti economici del provvedimento, la riduzione degli investimenti pubblicitari su mezzo televisivo sarebbe pari al 3 per cento, per un valore di circa 134 milioni di euro. Ciò sarebbe l'effetto di un incremento del prezzo medio pagato dagli inserzionisti del 9 per cento circa e di una riduzione del numero di contatti venduti dell'11 per cento. Con riferimento a Mediaset, le norme contenute nel disegno di legge implicherebbero una perdita di ricavi compresa tra il 23 e il 30 per cento. Ritiene poi che l'entrata di nuove imprese televisive su piattaforma terrestre analogica sia estremamente improbabile, atteso che il disegno di legge non determina condizioni sostanzialmente idonee a superare la naturale concentrazione del mercato televisivo e a favorire nuovi ingressi, mentre è assai più probabile che, ritardando il pieno sviluppo della piattaforma terrestre digitale, il provvedimento ostacoli lo sviluppo di nuove imprese televisive e diminuisca il grado di pluralismo esistente nel sistema. A suo avviso il principale beneficiario del disegno di legge è Sky, che otterrebbe maggiori entrate comprese tra 100 e 200 milioni di euro e che, considerando l'insieme delle risorse del mercato televisivo, diventerebbe il secondo operatore televisivo, dietro la Rai, con una quota compresa tra il 26 per cento e il 28 per cento. Rileva poi che il provvedimento ha tra i suoi obiettivi quello di favorire un riequilibrio degli investimenti pubblicitari tra tv e stampa. L'idoneità dell'intervento normativo a produrre le conseguenze desiderate dipende dagli effetti che esso determina sul versante della raccolta pubblicitaria su mezzo tv e dalla relazione esistente tra il consumo di spazi pubblicitari da parte degli inserzionisti sui due mezzi. Le premesse e le finalità del provvedimento, in realtà, appaiono viziate da alcune contraddizioni che generano un «cortocircuito» nel ragionamento. Infatti, il disegno di legge postula una relazione di sostituibilità tra tv e stampa. Se così fosse, l'esistenza di un mercato televisivo non concorrenziale dovrebbe determinare prezzi più elevati, che si tradurrebbero in una maggiore domanda per gli editori detta stampa. In questa prospettiva, un intervento volto ad aumentare la concorrenza tv, asseritamente carente, porterebbe a una riduzione del prezzo dei contatti pubblicitari disponibili nei programmi e ad una riduzione degli investimenti destinati alla stampa. Le premesse teoriche del provvedimento e i due obiettivi dichiarati, consistenti nell'accrescimento della concorrenza nel mercato televisivo e nel riequilibrio delle risorse pubblicitarie tra tv e stampa, sono evidentemente inconciliabili. Se ne deve concludere che una delle predette asserzioni del ragionamento sia falsa e senza dubbio è tale il presupposto in base al quale il disegno di legge rende il versante della raccolta pubblicitaria su mezzo televisivo più concorrenziale ed efficiente. In realtà, l'intervento normativo ha l'effetto e, a suo avviso l'intento consapevole, anche se non dichiarato, di creare distorsioni concorrenziali nella raccolta di pubblicità televisiva, determinando un incremento dei prezzi per contatto pagati dagli inserzionisti e riducendo il valore complessivo degli investimenti pubblicitari destinati alta televisione. Queste distorsioni del settore della raccolta pubblicitaria su mezzo televisivo creano solo costi e nessun vantaggio per la stampa. La pubblicità televisiva e quella su carta stampata costituiscono forme dì comunicazione commerciale indipendenti o, al più, complementari. Gli effetti depressivi sul versante della raccolta pubblicitaria su mezzo televisivo prodotti dal disegno di legge non producono pertanto conseguenze sugli investimenti pubblicitari destinati alla stampa. Ne deriva che il provvedimento non appare efficace ai fini del perseguimento dell'obiettivo di ridistribuire le risorse pubblicitarie a favore della stampa. Peraltro, le distorsioni create dal disegno di legge si ripercuotono su una pluralità di mercati collegati, sia all'interno del sistema delle comunicazioni sia al suo
esterno. Mediaset e Rai forniscono un contributo ad altri mercati del settore della comunicazione e delta produzione di contenuti audiovisivi sostanzialmente maggiori di quelli forniti da altre imprese televisive e in particolare da Sky. La forte limitazione dei ricavi di Mediaset determinata dalle norme contenute nel provvedimento comporterà necessariamente una riduzione della sua disponibilità a mantenere gli attuali livelli di investimento, con effetti depressivi sulle produzioni italiane. La stessa Anica ha espresso la sua profonda preoccupazione per l'intero settore derivante dalle conseguenze di una riduzione dell'impegno dei due principali operatori televisivi italiani con una ripercussione sulla programmazione ed in particolare sul prodotto cinematografico già di per sé televisivamente più debole rispetto ad altri generi. Altre norme del provvedimento idonee ad introdurre indebiti vincoli agli equilibri concorrenziali del mercato sono contenute nei commi 8 e 9 dell'articolo 3 e nel combinato disposto tra il comma 6 dell'articolo 2 e il comma 1, lett. a) e d), dell'articolo 6. I commi 8 e 9 dell'articolo 3 istituiscono, infatti, un ulteriore «tetto amministrativo» alle quote di mercato, sancendo che, di fatto, sia prima che dopo, il completamento della conversione delle reti televisive «i fornitori di contenuti in ambito nazionale non potranno utilizzare più del 20 per cento della capacità trasmissiva complessiva». Questo tetto si aggiunge a quelli gìà stabiliti dai commi 7 e 8 dell'articolo 43 del Testo unico della radiotelevisione, che prevedono un limite alla titolarità di autorizzazioni che consentano di diffondere più del 20 per cento del totale dei programmi televisivi) e dal comma 1 dell'articolo 2-bis della legge n. 66 del 2001, che stabilisce in capo ai titolari di più di una concessione televisiva l'obbligo di riservare il 40 per cento della capacità trasmissiva su ogni blocco di programmi a fornitori di contenuti indipendenti. Fa presente poi che anche il combinato disposto del comma 6 dell'articolo 2 e del comma 1, lett. a) e d), dell'articolo 6 del provvedimento incide in maniera rilevante sulla normativa in materia di tetti, inasprendone di fatto la portata. Infatti, tramite le abrogazioni ivi contenute, il servizio pay per view non è più incluso tra quelli tipici dell'attività del fornitore di servizi mediante reti di comunicazione elettronica ed è quindi da computare nel limite anticoncentrativo ai programmi di titotarità dì ciascun fornitore di contenuti di cui all'articolo 43 del Testo unico. I servizi pay per view erogati sulla piattaforma digitale terrestre dal gruppo Mediaset (mediaset premium) e da La7-Telecom Italia Media hanno rappresentato la principale innovazione apparsa nel panorama radiotelevisivo dopo t'avvento della tecnologia digitate terrestre. Essi hanno reintrodotto un minimo di competizione nel segmento della pay tv, dopo la concentrazione che ha eliminato la concorrenza tra Stream e Telepiù e ha dato vita a Sky-NewsCorp. Inoltre, l'offerta di servizi televisivi a pagamento sulla piattaforma digitale terrestre si caratterizza per la flessibilità ed economicità. Ciò ha permesso di accedere a contenuti premium, incluse le partite del Campionato di calcio, a fasce di pubblico non interessate - o non in grado di accedere dal punto di vista economico - alle offerte in abbonamento. Fa presente quindi che il gruppo Telecom, nel corso della sua audizione, ha anch'esso rilevato la penalizzazione dell'offerta a pagamento, in quanto l'adozione di tale norma «rinvìa la redditività degli investimenti effettuati configurandosi come una misura a protezione del monopolio di Sky nel settore a pagamento».
di potere di mercato potrebbero anche trovare un vantaggio strategico nell'innalzamento dei costi che, sebbene riguardino se stesse, come i concorrenti, incidono sul conto economico di questi ultimi e sulle loro condizioni di profittabilità in misura maggiore, riducendo la loro pressione concorrenziale, attuale o potenziate, sulle imprese leader. L'insieme di questi effetti ha sicuramente la conseguenza di rallentare la crescita economica, aumentare la pressione inflazionistica e ostacolare lo sviluppo dell'occupazione. Infine, ritiene opportuno svolgere alcune considerazioni in merito al comma 6 dell'articolo 3 del disegno di legge, che impedisce a Rai e Mediaset di acquisire impianti o rami di azienda al fine della realizzazione di reti digitali. Tale disposizione, insieme alla previsione di una restituzione forzosa delle frequenze relative a due reti analogiche, svilisce gli investimenti finora effettuati da Rai e Mediaset, soprattutto per lo sviluppo della piattaforma digitale terrestre. La norma impedisce a Rai e Mediaset di ampliare in modo efficiente la copertura del territorio e della popolazione delle reti digitali già iniziate e pregiudica la toro capacità di affiancare a quella editoriale un'attività di operatori di reti idonea a favorire lo sviluppo di nuovi servizi. Ad esempio, Mediaset, mediante apposite acquisizioni - che sarebbero impedite dal provvedimento - ha allestito un intero multiplex da destinare alle trasmissioni in tecnica DVB-H, favorendo la diffusione commerciale di questa tecnologia in Italia. Inoltre, l'adozione di misure deconcentrative ex post, come quella prevista dall'articolo 3 del disegno di legge, che comporta la restituzione di frequenze da parte di Rai e Mediaset, ha l'effetto di privare le imprese della possibilità di ottenere i ritorni economici programmati e posti atta base dette proprie decisioni di investimento. A livello di sistema, ciò determina un contesto economico e giuridico che non favorisce l'adozione di piani di impresa nuovi e coraggiosi, quelli che maggiormente contribuiscono alla crescita economica di un paese. Interventi ex-post, che «puniscono» la crescita di un'impresa aggiungono al normale rischio economico di un investimento il rischio di un quadro giuridico instabile e soggetto agli umori mutevoli e imprevedibili della politica. Passa quindi ad affrontare gli aspetti dì scenario evolutivo dei mercati, facendo presente che il provvedimento, intervenendo sul solo mercato della televisione terrestre, analogica e digitale, trascura completamente le dinamiche complessive dei mercato televisivo, di quello audiovisivo e del più ampio mercato della comunicazione, nel momento in cui questi sono esposti a radicali processi di trasformazione. Il disegno di legge ignora peraltro le specifiche forme di evoluzione dello stesso mercato della televisione terrestre, sul quale vuole intervenire, non considerando che esso si immette nel più ampio e integrato mercato della televisione digitale, multicanale e multi-piattaforma. Non è la prima volta che in Italia la riflessione sul sistema televisivo, ma anche la stessa attività dei decisori, risulta fortemente dominata da pregiudizi ideologici e da una scarsa comprensione delle dinamiche reati del mercato. Alla componente ideologica si aggiunge anche l'indiscutibile difficoltà nel comprendere le più recenti trasformazioni dì un sistema che è attraversato da numerosi e forti processi di evoluzione strutturale, che alterano i confini fra i diversi ambiti che compongono t'intero mercato detta televisione. L'insieme di questi elementi spinge parte degli osservatori, ma anche dei decisori politici e dei regolatori, del sistema televisivo a preferire punti di osservazione e posizioni di retroguardia, ripiegando nella comoda osservazione di ciò che è più facilmente conosciuto, individuabile e riconoscibile: la televisione terrestre per come era negli anni '80 e '90. In una fase di forte evoluzione tecnologica e strutturate, come quella attuale, un sistema di regole dovrebbe mostrare cautela e prudenza e, soprattutto, dovrebbe tenere in attenta considerazione il contesto evolutivo dei mercati e te prospettive di crescita dei diversi operatori che ti presidiano. Al contrario, il disegno di legge propone un approccio punitivo verso quegli
operatori, leader di mercato dell'offerta televisiva gratuita, che sono esposti alla difficile sfida del passaggio alla televisione digitale, su una piattaforma aperta, in un contesto di forte incremento delta concorrenza.
Nicola BONO (AN), intervenendo sull'ordine dei lavori, segnala alla presidenza l'assenza di entrambi i relatori sui provvedimenti in titolo, facendo presente che il significativo intervento del deputato Moffa meriterebbe la loro attenzione.
Emerenzio BARBIERI, presidente, condividendo l'osservazione formulata dal deputato Bono, sospende brevemente la seduta, in attesa del ritorno del presidente Meta, relatore per la IX Commissione.
La seduta, sospesa alle 15.55, riprende alle 16.
Silvano MOFFA (AN), proseguendo il suo intervento, passa al raffronto della situazione italiana con gli altri paesi europei, fa presente che se il limite del 45 per cento alla raccolta pubblicitaria, proposto dal provvedimento venisse applicato in Europa, in ben 3 paesi, Germania, Gran Bretagna e Francia, i principali operatori di televisione commerciale sarebbero costretti a ridurre ì propri ricavi da pubblicità televisiva. Ciò, in una fase in cui questi stessi operatori fronteggiano una riduzione strutturale delle loro quote di mercato derivanti dalla crescita della televisione a pagamento. La situazione italiana non è anomala: l'analisi dette quote di mercato mette in evidenza che in Germania, in Italia e in Gran Bretagna gli operatori pubblici hanno le quote di mercato, calcolate sul totale del mercato TV, più elevate fra tutti gli operatori televisivi, pari, rispettivamente al 48 per cento, congiuntamente per ARD e ZDF, al 36 per cento per la RAI, e al 31 per cento per la BBC. In testa alla classifica, con quote di mercato, sul totale mercato della TV, pari o superiori al 30 per cento, si collocano, oltre ai citati operatori di servizio pubblico, anche l'operatore di pay tv BSkyB, con il 36 per cento, Mediaset, con il 31 per cento, e gli altri due operatori di pay tv CanaLPlus in Francia e Sogecabte in Spagna con il 30 per cento a testa. Considerando i soli ricavi da pubblicità televisiva, sono ben 4 gli operatori commerciali che hanno una quota superiore al 45 per cento. Si tratta di: ProSiebenSat1 in Germania, che ha il 46 per cento; ITV in Gran Bretagna, con il 47 per cento, ma con un dato in realtà superiore includendo l'insieme dei canali editati; TF1 in Francia con il 50 per cento e Mediaset con il 56 per cento. Mentre crescono a tassi elevatissimi le quote di mercato degli operatori di pay tv, stagnano o decrescono le quote degli operatori di televisione terrestre a prevalente offerta gratuita. In tutti i paesi europei, e anche in Italia, le risorse del mercato televisivo vedono crescere rapidamente i ricavi da pagamento diretto degli utenti a fronte di una stagnazione dei ricavi da inserzioni commerciali. Fanno eccezione i ricavi da inserzioni commerciati dei canali specializzati, prevalentemente pay, che crescono a tassi elevatissimi. I principati operatori di televisione generalista, pubblici e privati-commerciali, hanno quote di mercato in genere elevate, ereditate dagli assetti oligopolistici dei mercati della televisione analogica terrestre. Tali quote tendono a ridursi a causa dello spostamento significativo, a seguito della maggiore penetrazione delle piattaforme di TV digitale multicanale, delle risorse economiche dalla televisione free-to-air a quella a pagamento che, ad esempio, in UK si appresta nel 2008 a sorpassare come valore percentuale la televisione gratuita, nonché della conseguente crescita delle quote degli editori di canali e servizi di televisione a pagamento e dell'incremento delle loro quote di mercato sia sul totale mercato che, marginalmente, su quello pubblicitario. Quanto più rapido e marcato risulta lo sviluppo della tv digitale, tanto maggiore risulta l'erosione delle quote degli operatori di tv generatista gratuita. La riduzione delle quote di mercato dei broadcaster generalisti a prevalente offerta gratuita è l'effetto fisiologico dello sviluppo della tv multicanale e multipiattaforma. Ritardandone lo sviluppo, si
rallenta il processo di evoluzione del mercato televisivo. Fa presente poi che la progressiva riduzione del numero dette famiglie che ricevono il solo segnate analogico terrestre, fino alla loro scomparsa definitiva, ha esposto ed espone gli operatori del broadcasting terrestre, in genere titolari di offerte generaliste free-to-air, ad un nuovo contesto fortemente concorrenziale. Questi, infatti, avevano formato e mantenuto il proprio potere di mercato grazie alta relativa scarsa penetrazione iniziate di offerte alternative specializzate, gratuite e a pagamento, che, a partire dagli anni '90, avevano fatto la loro comparsa sul mercato. La scarsità di capacità trasmissiva e la conseguente offerta limitata aveva contribuito a creare una notevole concentrazione di audience su pochi canali ed editori. Questo è accaduto, in genere, con le dovute differenze, in tutti i paesi europei. Ciò anche perché l'offerta terrestre ha visto una forte presenza degli operatori di servizio pubblico finanziati dal canone o direttamente dallo Stato. Lo sviluppo dell'ambiente multicanale genera un aumento detta concorrenza sul mercato televisivo per quegli operatori prevalentemente attivi nel broadcasting hertziano, le offerte gratuite. Ma lo sviluppo della televisione multicanale vede anche la moltiplicazione delle piattaforme distributive: l'offerta televisiva viene veicolata attraverso quattro diverse piattaforme; cavo, satellite, rete terrestre e linee telefoniche a banda larga. L'unica piattaforma a non avere un unico aggregatore di contenuti - e dunque un gestore-proprietario del pacchetto/bouquet - e al contempo delle utenze, è la televisione digitale terrestre, la quale è allo stesso tempo la piattaforma che risulta più esposta a un incremento della concorrenza derivante dal passaggio dall'analogico al digitate. Infatti, nella migrazione dall'analogico al digitale, gli operatori presenti sulla piattaforma analogica terrestre registrano l'ingresso di nuovi operatori che sulla stessa piattaforma offrono nuovi canali. Numero di editori e numero di canali aumentano notevolmente con il passaggio atta tecnica digitale, ma ciò accade non in un contesto proprietario come per il cavo, il satellite o la IPTV. II satellite vede operatori con fortissimo potere di mercato formatosi, grazie al decoder proprietario e atte fusioni che hanno fatto nascere in tutti i Paesi europei operatori unici, da ultimo il caso francese con la fusione fra CanaPlus e TPS). Nel settore della tv via cavo si va sviluppando un forte processo di concentrazione e si va verso la formazione di operatori unici in quasi tutti i Paesi europei. Per tutte le piattaforme tv, tranne che per la televisione digitale terrestre, il passaggio dall'analogico al digitale non ha determinato una maggiore concorrenza. Anzi, ha spinto e sta spingendo verso assetti di forte concentrazione. Ritardando lo sviluppo della televisione digitale terrestre e penalizzando i principali operatori che la presidiano e che sostengono l'onere detta digitalizzazione della rete analogica, si favorisce lo sviluppo di un ambiente multicanale basato su piattaforme a pagamento, proprietarie e gestite da operatori unici. Lo spostamento al 30 novembre 2012 della data di switch-off appare pertanto un elemento contraddittorio rispetto agli obiettivi del provvedimento, dilata il tempo di offerta televisiva ridotta e impoverita per una larga parte della popolazione, facilita la crescita dì ambienti multicanali a pagamento, rafforza la posizione di piattaforme presidiate da operatori unici, come per il satellite, e indebolisce la capacità di penetrazione dell'unica piattaforma aperta e caratterizzata da un maggior grado concorrenziale, vale a dire la televisione digitale terrestre. Il sistema già si evolve e potrebbe evolversi ulteriormente in tempi più ristretti, e quindi il 2010 invece del 2012, verso una maggiore concorrenza e pluralismo, senza ridurre dimensioni e capacità competitiva dette imprese. L'impianto del disegno di legge determina una mancata valorizzazione dei requisiti richiesti per il reale decollo e consolidamento del digitale, sotto i profili del numero di canali, dell'assortimento e gratuità dell'offerta, nonché dell'innovazione tecnica.
economiche sull'analogico le frequenze lasciate libere dai due canali hertziani, il provvedimento non spinge il sistema a «incassare immediatamente il digital dividend», ma ottiene il duplice effetto di impoverire l'offerta digitale e di impoverire l'offerta analogica per quelle famiglie che non hanno ancora adottato il decoder. Il presidente di AGCM ha affermato nella sua recente audizione che il perseguimento dell'obiettivo indicato dal provvedimento «richiederebbe che le frequenze riassegnate siano destinate all'utilizzo per trasmissioni in tecnica digitale: l'ingresso di nuovi operatori, che presumibilmente dall'inizio del 2009 trasmettano in tecnica analogica, renderebbe infatti più difficile e complicata la trasmigrazione completa al digitale entro il 2012». Alla fine del 2009 i canali nazionali analogici diventerebbero solo 8 in virtù detto spostamento su rete digitale di due canali televisivi editati da Rai e Mediaset. Considerando che nessun canale venga realmente lanciato in tecnica analogica terrestre fra il 2009 e il 2012, e cioè che nessun editore entri sul mercato con una nuova offerta analogica, circa 9 milioni di famiglie televisive, pari al 40 per cento del totale, fruirebbero ancora nel 2009 di una offerta estremamente limitata. Un'accelerazione della conversione al digitale permetterebbe una riduzione significativa e rapida del numero di famiglie «television poor» e permetterebbe la creazione anticipata di un ambiente maggiormente concorrenziale e plurale, in termini di numero di editori e di canali offerti a un maggior numero di famiglie. Inoltre, il posticipo dello switch-off ha un impatto significativo anche sull'emittenza locale che, come è noto, costituisce sul mercato italiano una sorta di «televisione multicanale analogica» che non ha pari in Europa e che ha, in maniera significativa, incrementato la ricchezza detta offerta televisiva fruibile da ogni singola famiglia. Per le televisioni locali analogiche che non hanno possibilità di trasmettere in simulcast, cioè in contemporanea tramite segnale analogico e digitale, uno switch-over rallentato significa una drastica perdita di audience e dunque di ricavi pubblicitari. Il ritardo dello switch-off e l'assenza di meccanismi per una reale accelerazione della migrazione al digitale, impoverisce atto stesso tempo la televisione analogica e quella digitale gratuita a evidente vantaggio delle piattaforme digitali proprietarie a pagamento che diventerebbero l'unica via per accedere a un'offerta televisiva ricca. Passa quindi all'analisi dello scenario delle risorse frequenziali in Italia, facendo presente che dall'indagine conoscitiva è emerso chiaramente che in Italia non sussiste alcuna carenza di risorse frequenziali e il mercato è aperto e dinamico. Le frequenze vanno catalogate in base alta potenza irradita dal trasmettitore associato. Vi sono frequenze considerate primarie e altre secondarie. Con relativamente pochi impianti/frequenze primari, circa 300, pari a circa il 3 per cento del totale, si realizza una rete con copertura del 90 per cento della popolazione. Mediaset e Rai detengono il 41 per cento delle frequenze primarie e il 55 per cento di quelle secondarie, che sono quelle di norma utilizzate per irradiare le parti più difficilmente raggiungibili del territorio con minore densità di popolazione. È ancora disponibile un elevato numero di frequenze secondarie. Le emittenti locali utilizzano un elevato numero di frequenze primarie, pari al 48 per cento, ben superiore al limite di legge del 33 per cento, ed un numero limitato, pari al 25, 5 per cento, di frequenze secondarie. Mediaset utilizza il 16.8 per cento delle frequenze primarie, pari a 6 reti equivalenti, in linea con le 6 effettivamente gestite, di cui 1,8 reti equivalenti destinate a terzi (dvb-h e dvb-t), mentre Rai utilizza il 24,5 per cento circa delle frequenze primarie con 5 reti gestite. L'evoluzione del mercato, realizzatosi sulla base detta normativa ora vigente, ha dimostrato che lo stesso è aperto a tutti gli operatori. La creazione di 5 nuovi multiplex nazionali, su un totale di 10 ora attivi, è avvenuta senza impoverire l'emittenza locale in quanto nessuno soggetto di quelli che hanno ceduto impianti da digitalizzare ha cessato la propria attività. L'ulteriore conversione delle reti analogiche permetterà di diminuire ulteriormente
l'incidenza dei costi relativi alla rete. Il numero delle reti nazionali digitali, pari a 10, ha già superato il numero di quelle analogiche, che è pari a 8. La norma anticoncentrazione per i fornitori di contenuti non può basarsi sulla capacità trasmissiva perché disincentiva il servizio universale e lo sviluppo di nuove tecnologie avanzate (hd) che necessitano di maggiore capacità. Il percorso verso il digitale e' reso difficile dalla sottrazione di risorse e dall'imposizione di vincoli ingiustificati agli operatori trainanti nella delicata fase di transizione che, peraltro, viene protratta fino al 2012 senza ipotizzare nel frattempo misure graduali per il raggiungimento dell'obbiettivo finale. Tali misure, così come anche suggerito dalla Rai, potrebbero concretizzarsi attraverso «una digitatizzazione che avvenga per aree territoriali anziché per reti», situazione peraltro già verificata nell'esperienza che riguarda le regioni Sardegna e Valle d'Aosta. A questo proposito particolarmente illuminanti sono state le testimonianze rese da DGTV1 e Elettronica Industriale nel corso delle rispettive audizioni.
Emerenzio BARBIERI, presidente, nessun altro chiedendo di intervenire, rinvia il seguito dell'esame ad altra seduta.
La seduta termina alle 16.10.
C. 1825 Governo e C. 2077 Beltrandi.
(Seguito dell'esame e rinvio).
Estendendo l'analisi al di fuori del settore degli audiovisivi, osserva che la comunicazione commerciale costituisce una risorsa utilizzata da numerose imprese per informare il consumatore e favorire la vendita dei propri prodotti. La pubblicità è, dunque, un input produttivo i cui costi sono, in parte, scaricati sui consumatori finali. L'aumento dei costi della pubblicità, in virtù della struttura oligopolistica di diversi mercati collegati, può favorire le imprese incumbent e rendere meno probabile l'ingresso di nuovi concorrenti, costretti a sostenere investimenti iniziati più elevati. Le imprese dotate
Riallocando in maniera del tutto improbabile per ovvie ragioni temporali ed