Criminalità organizzata transnazionale

La legge 16 marzo 2006, n. 146 ha per oggetto la Ratifica ed esecuzione della Convenzione e dei Protocolli delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale, adottata dall’Assemblea generale il 15 novembre 2000 ed il 31 maggio 2001.

 

A seguito dell’emergere di nuove forme di cooperazione tra organizzazioni criminali a livello transnazionale, più evidente a partire dagli anni novanta, la comunità internazionale ha ritenuto di doversi dotare di strumenti per combattere efficacemente questa nuova forma di criminalità. La globalizzazione economica e l’enorme sviluppo delle tecnologie, specialmente nel settore delle comunicazioni, hanno creato grandi opportunità di progresso, ma anche il crimine organizzato se ne è avvantaggiato: la partecipazione di oltre 100 Stati membri ai negoziati per la stesura della Convenzione contro il crimine organizzato transnazionale e dei suoi Protocolli è il segno che esso è riconosciuto come problema collettivo, che richiede un’ampia collaborazione perché sia sconfitto. Più di recente, anche il documento finale adottato dal World Summit 2005, a margine dell’Assemblea generale dell’ONU (New York, 15 settembre 2005) ha espresso grave preoccupazione per il crimine transnazionale e, in particolare, per il traffico di esseri umani, il commercio di sostanze stupefacenti, di piccole armi e di armamenti leggeri: nello stesso documento viene dunque rinnovato l’invito a tutti gli Stati ad aderire alle Convenzioni internazionali di lotta al crimine organizzato e alla corruzione, e a conformare ad esse le rispettive legislazioni nazionali.

La Convenzione contro il crimine organizzato transnazionale ed i suoi Protocolli sono stati elaborati dalla Commissione ad hoc istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite che, per giungere alla loro stesura, ha lavorato dal gennaio 1999 all’ottobre 2000. La Convenzione e i primi due Protocolli riguardanti, rispettivamente, la tratta di persone, specialmente donne e bambini, e il traffico illecito di migranti via terra, via aria e via mare, sono stati adottati il 15 novembre 2000 nel corso del Meeting del Millennio dell’Assemblea generale dell’ONU (con risoluzione A/RES/55/25), e sono stati aperti alla firma nella Conferenza di Palermo dal 12 al 15 dicembre 2000. Il terzo Protocollo, relativo alla fabbricazione e al traffico illecito di armi da fuoco, è stato adottato dall’Assemblea generale il 31 maggio 2001 (con risoluzione 55/255). Sia la Convenzione che i Protocolli sono in vigore: la prima dal 29 settembre 2003; il Protocollo contro la tratta delle persone dal 25 dicembre 2003; il Protocollo contro il traffico illecito dei migranti dal 28 gennaio 2004; il Protocollo sulle armi da fuoco dal 3 luglio 2005.

 

In particolare, i principali profili di novità contenuti nel provvedimento riguardano:

§         l’estensione delle ipotesi di responsabilità amministrativa delle società per i reati di associazione a delinquere, riciclaggio, traffico di migranti, reato di intralcio alla giustizia;

§         la nozione uniforme di reato transnazionale;

§         le operazioni sottocopertura, ammesse ad ampio raggio per l’acquisizione di elementi di prova sui delitti terrorismo, riciclaggio, riduzione in schiavitù, immigrazione clandestina, delitti concernenti armi e munizioni;

§         l’estensione delle ipotesi di confisca obbligatoria nei casi di reati transnazionali per un valore corrispondente al prodotto, profitto o prezzo del reato;

§         l’attribuzione al Procuratore distrettuale antimafia di specifiche competenze in materia di crimini transnazionali.

Per qual che concerne, in misura più puntuale il contenuto della legge, dopo gli articoli 1 e 2 - relativi, rispettivamente all’autorizzazione al Presidente della Repubblica alla ratifica della Convenzione e dei Protocolli delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale ed al relativo l’ordine di esecuzione a decorrere dalla data della rispettiva entrata in vigore - le successive disposizioni della legge modificano l’ordinamento interno, oltre che per dare attuazione alla Convenzione e ai Protocolli ONU, anche per riordinare taluni istituti già oggetto di disciplina nel campo della lotta al crimine organizzato e al terrorismo. L’Italia è, infatti, già dotata di un consistente apparato normativo finalizzato alla prevenzione e al contrasto del crimine organizzato, integrato di recente da una disciplina volta a contrastare il fenomeno in ordine ai reati di immigrazione clandestina. Gli interventi operati dalla legge sarebbero, dunque, preordinati a completare la legislazione nazionale e a consentire “una coerente esecuzione della Convenzione e dei Protocolli”.

L’articolo 3 fornisce la definizione di reato transnazionale ai fini della legge. E’ così definito il delitto punibile con la reclusione non inferiore nel massimo a 4 anni: commesso in più di uno Stato; commesso in uno Stato ma con una sua parte sostanziale preparata, diretta o controllata in altro Stato; commesso in uno Stato da parte di un gruppo criminale operante in più Stati; commesso in uno Stato ma producente effetti sostanziali in altro Stato.

L’articolo 4 inquadra una circostanza aggravante applicabile ai reati “gravi” ai sensi dell’articolo 2, lettera b), della Convenzione.

In particolare, si stabilisce che la implicazione di un gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato costituisce circostanza aggravante (che determina l’aumento della pena da un terzo alla metà) nella commissione di reati puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni.

 

Per quanto concerne le fattispecie di reato cui è da riferire la circostanza aggravante in oggetto, il richiamo al “coinvolgimento di un gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato” riguarda specifiche figure di reato associativo, già previste dal nostro ordinamento agli articoli 416 e 416-bis del codice penale, rispettivamente associazione per delinquere ed associazione di tipo mafioso, ma anche agli articoli 270-bis e 270-ter (introdotti dall’articolo 2 del decreto-legge 18 ottobre 2001, n. 374, convertito con modificazioni dalla legge 15 dicembre 2001, n. 438) sulle associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico e sulla assistenza agli associati. Si tratta di fattispecie per le quali il legislatore italiano, in ragione della speciale gravità, ha comunque previsto pene non inferiori nel massimo a quattro anni di reclusione.

L’articolo 4 disponendo, inoltre, l’applicazione del comma 2 dell’articolo 7 del DL 13 maggio 1991, n. 152, convertito con modificazioni dalla legge 12 luglio 1991, n. 203 (in materia di provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell'attività amministrativa), stabilisce che le circostanze attenuanti, diverse da quelle previste dagli articoli 98 e 114 del codice penale, concorrenti con l'aggravante delle condizioni previste dall'articolo 416-bis del codice penale (ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni di tipo mafioso), non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a questa e le diminuzioni di pena si operano sulla quantità di pena risultante dall'aumento conseguente alla predetta aggravante.

L’articolo 5 della legge 146/2006 individua nel Ministro della giustizia l’autorità centrale di cui all’articolo 18, paragrafo 13, della Convenzione, rinviando ad un D.P.C.M., da adottare entro centoventi giorni dalla data di entrata in vigore, per l’individuazione delle autorità di riferimento per gli ulteriori versanti di attività previsti dalla Convenzione e dai Protocolli. La Convenzione individua, infatti, una pluralità di ulteriori autorità, istituite a livello nazionale, cui spetta lo svolgimento di attività rilevanti ai fini della sua attuazione.

L’articolo 6 introduce specifici obblighi informativi del Governo nei confronti del Parlamento. È stabilito, così, l’obbligo per il Ministro della giustizia di informare ogni anno le Camere sullo stato di attuazione delle previsioni recate dalla Convenzione sulla collaborazione tra Stati Parte in materia di estradizione e di assistenza giudiziaria.

 

Non risulta che la Convenzione e i Protocolli rechino disposizioni in ordine a tali obblighi. La previsione contenuta all’articolo 6 è spiegabile nel quadro del sistema costituzionale italiano e dunque alle luce dei principi di diritto interno ai quali la Convenzione e i Protocolli fanno ripetuti rinvii. Allo stato attuale, tra gli obblighi informativi del Governo italiano al Parlamento non figura nulla di specifico per quanto riguarda l’estradizione e l’assistenza giudiziaria; esistono invece obblighi informativi in ordine alle materie trattate in generale dalla Convenzione e dai Protocolli.

 

L’articolo 7 della legge, sul trasferimento dei procedimenti penali, operando un rinvio all’articolo 21 della Convenzione delle Nazioni Unite, dispone che esso avvenga esclusivamente nelle forme e nei limiti degli Accordi internazionali che sono ratificati previa autorizzazione data con legge del Parlamento.

 

L’articolo 21 della Convenzione prevede che ciascuno Stato valuta la possibilità di trasferire ad un altro i procedimenti relativi al perseguimento di reati compresi nella Convenzione nei casi in cui tale trasferimento è ritenuto nell’interesse della corretta amministrazione della giustizia, in particolare nei casi in cui sono coinvolte più giurisdizioni, al fine di concentrare l’accusa

 

La norma dettata dalla Convenzione attiene al tema della competenza territoriale del giudice penale ed incide sulla disciplina nazionale della riunione dei processi.

L’articolo 7 prospetta la eventualità di una nuova disciplina derogatoria sulla competenza territoriale del giudice italiano anche per quanto concerne i reati commessi in tutto o in parte all’estero - che potrebbe essere introdotta con intervento normativo di rango primario in occasione della ratifica degli Accordi internazionali di tipo bilaterale, prospettati dall’articolo. D’altra parte, l’articolo 21 della Convenzione affida un simile intervento ad una valutazione di opportunità da parte di ciascuno Stato anche in relazione alla presenza, all’interno degli ordinamenti nazionali, di un compiuto sistema di regole in tale settore.

L’art. 7 dispone, inoltre, un ulteriore obbligo informativo a carico del Ministro della giustizia nei confronti delle Camere con cadenza annuale sullo stato di attuazione dell’articolo 21 della Convenzione in merito al quadro complessivo degli Accordi di trasferimento raggiunti con gli altri Stati Parte, al numero dei procedimenti penali effettivamente trasferiti e ad eventuali problemi applicativi. Come già osservato, nulla è previsto dalla Convenzione in ordine ad eventuali oneri informativi a carico degli Esecutivi degli Stati Parte.

L’articolo 8 della legge prevede ancora un obbligo di informazione annuale al Parlamento – stavolta da parte del Ministro dell’interno - in ordine allo stato di attuazione dell’articolo 27 della Convenzione, sulla cooperazione di polizia, con specifico riferimento alle azioni intraprese sulla base di tale disposizione ed al quadro delle intese o accordi conclusi ai sensi del paragrafo 2 del medesimo articolo 27.

 

L’articolo 27 della Convenzione promuove la stretta collaborazione di polizia tra gli Stati Parte per il rafforzamento dell’azione delle strutture preposte al contrasto dei reati disciplinati dalla Convenzione stessa e segnala le misure da adottare a tal proposito. Queste concernono una pluralità di strumenti operativi e informativi alquanto articolati, la cui adozione avviene nel pieno coinvolgimento di autorità, istituzioni e servizi competenti. Il paragrafo 2 dell’articolo 27 rinvia alla valutazione di opportunità da parte dei singoli Stati in ordine alla conclusione di intese o accordi bilaterali o multilaterali utili a conferire efficacia alla cooperazione.

 

L’articolo 9 della legge 146 disciplina le cd. cosiddette operazioni sotto copertura, già previste dal nostro ordinamento e disciplinate da diversi strumenti normativi tra cui, tra gli ultimi, l’articolo 4 del decreto-legge 18 ottobre 2001, n. 374, (Disposizioni urgenti per contrastare il terrorismo internazionale), convertito dalla legge 15 dicembre 2001, n. 438.

Le “operazioni sotto copertura” consistono in attività di tipo investigativo affidate in via esclusiva ad ufficiali di polizia giudiziaria infiltrati sotto falsa identità negli ambienti malavitosi al fine di reperire prove e accertare responsabilità.

Ai fini della attuazione della Convenzione, l’articolo è da porre in diretta connessione con l’articolo 20 della stessa, relativa alle “tecniche speciali di investigazione”.

L’art. 20 della Convenzione, a fini di contrasto della criminalità organizzata, individua, in particolare, lo strumento della consegna controllata, la sorveglianza elettronica e le operazioni sotto copertura, promuovendo il raggiungimento di accordi per l’impiego di tali tecniche nella cooperazione internazionale. La norma prevede che in mancanza di accordi le tecniche possano essere impiegate con decisioni assunte caso per caso; sulla consegna controllata a livello internazionale, si dispone che la decisione in ordine a tale misura possa includere la intercettazione della merce.

 

L’articolo 9 si propone di introdurre una disciplina unitaria delle operazioni sotto copertura provvedendo pertanto alla abrogazione espressa delle norme attualmente vigenti in tale materia. Peraltro, la relazione illustrativa che accompagnava il disegno di legge segnalava che la finalità della norma è quella di estendere lo strumento alle indagini per i reati di riduzione in schiavitù e tratta delle persone, nonché per i reati di immigrazione clandestina.

La norma introdotta nell’ordinamento appare, nei suoi undici commi, particolarmente complessa ed articolata; fermo restando quando dettato dall’articolo 51 c.p. in materia di esercizio di un diritto o adempimento di un dovere, l’art. 9 stabilisce, intanto, una causa di non punibilità per specifici soggetti in relazione allo svolgimento di operazioni sotto copertura nel quadro della azione di contrasto al crimine organizzato, nelle sue diverse specificazioni, ed al terrorismo.

La lettera a) del comma 1 fa riferimento agli ufficiali di polizia giudiziaria della Polizia di Stato, dell’Arma dei Carabinieri e del Corpo della Guardia di Finanza, appartenenti alle strutture specializzate o alla Direzione investigativa antimafia.

La disposizione individua specifici requisiti per l’applicazione della causa di non punibilità.

In particolare, tali soggetti non sono punibili quando – anche per interposta persona – e nei limiti delle proprie competenze, nel corso di specifiche operazioni di polizia ed al solo fine di acquisire elementi di prova per una serie di delitti (riciclaggio, art. 648-bis c.p.; impiego di denaro, beni o utilizzo di provenienza illecita, art. 648-ter c.p); delitti contro la personalità individuale, artt. 600-604 c.p.; delitti concernenti armi, munizioni ed esplosivi, delitti previsti dal T.U. 309/1990 sugli stupefacenti; specifici reati di immigrazione clandestina, art. 12, commi 3, 3-bis e 3-ter del T.U. 286/1998; sfruttamento della prostituzione, art. 3, L. 75/1958, n.75) danno rifugio o comunque prestano assistenza agli associati, acquistano, ricevono, sostituiscono od occultano denaro, armi, documenti, stupefacenti, beni ovvero cose che sono oggetto, prodotto, profitto o mezzo per commettere il reato o altrimenti ostacolano l’individuazione della loro provenienza o ne consentono l’impiego.

La lettera b) del comma 1 fa riferimento, come beneficiari della causa di non punibilità, agli ufficiali di polizia giudiziaria appartenenti agli organismi investigativi della Polizia di Stato e dell’Arma dei Carabinieri e della Guardia di finanza specializzati nell’attività di contrasto al terrorismo e all’eversione e del Corpo della impegnato nel contrasto al finanziamento del terrorismo sulla base dei presupposti già menzionati ma in ordine ai delitti commessi per finalità di terrorismo.

Il comma 2 stabilisce che, in tali casi, gli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria possono utilizzare documenti, identità e indicazioni di copertura anche per entrare in contatto con soggetti e siti telematici utili ai fini delle indagini dandone informazione al pubblico ministero entro 48 ore.

L’esecuzione delle operazioni sotto copertura è disposta – in relazione all’appartenenza del personale di polizia giudiziaria - dagli organi di vertice, di livello almeno provinciale, d’intesa con gli uffici nazionali (Direzione centrale per i servizi antidroga o Direzione centrale dell’immigrazione e della polizia delle frontiere). Di tali attività deve comunque essere data preventiva informazione al PM, che – in caso di operazione in corso . deve ricevere informazione senza ritardo in ordine alle sue modalità di svolgimento, ai soggetti coinvolti e ai risultati (comma 4).

In analogia a quanto disposto dal comma 6 dell’articolo 4 del decreto-legge 374/2001, sono estese le cause di non punibilità agli eventuali ausiliari, di cui gli ufficiali di polizia giudiziaria possono avvalersi. Si opera un rinvio ad un decreto del Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro della giustizia e con gli altri Ministri interessati, per la definizione delle modalità di utilizzo di eventuali beni mobili e immobili, documenti di copertura, attivazione di siti nonché di svolgimento di determinate attività funzionali alle operazioni e per la definizione delle forme e modalità di coordinamento anche internazionale tra i diversi organismi investigativi (comma 5).

Sempre l’art. 9 autorizza gli ufficiali di polizia giudiziaria e le autorità doganali - limitatamente ai delitti previsti dal DPR n. 309 del 1990 (Testo unico tossicodipendenza), ai reati sopraelencati, nonché ai reati di estorsione (art. 629 c.p.) e usura (art. 644 c.p.) - ad omettere o ritardare atti di competenza al fine di ottenere elementi probatori o per individuare o catturare i responsabili, dandone immediato avviso al pubblico ministero, anche oralmente, e provvedendo a trasmettere un motivato rapporto entro le successive quarantotto ore (comma 6).

Analoga disposizione è prevista dal comma 7 relativamente alla possibilità per il pubblico ministero, con decreto motivato, di ritardare l’esecuzione dei provvedimenti che applicano una misura cautelare, del fermo, dell’ordine di esecuzione di pene detentive o del sequestro. Nei casi di urgenza tale iniziativa può esser disposta oralmente salva la emissione del decreto entro le successive 48 ore. Il pubblico ministero si avvale della polizia giudiziaria per lo svolgimento di attività di controllo degli sviluppi dell’attività criminosa. Il PM è tenuto a comunicare tali provvedimenti al giudice del luogo in cui l’operazione deve concludersi dove si prevede che le cose che sono oggetto, prodotto, profitto o mezzo per commettere delitti siano in transito in entrata o uscita dal territorio dello Stato.

Le comunicazioni e i provvedimenti adottati per lo svolgimento delle attività di copertura devono essere trasmesse al procuratore generale presso la corte d’appello o al procuratore nazionale antimafia per i reati di cui all’articolo 51, comma 3-bis, c.p.p. (comma 8).

Il comma 9 prevede la possibilità che l’autorità giudiziaria affidi materiali e beni sequestrati in custodia giudiziale con facoltà d’uso agli organi di polizia giudiziaria che ne facciano richiesta per lo svolgimento delle attività di contrasto al crimine organizzato o al terrorismo. Il comma 10 individua una nuovo illecito penale consistente nella divulgazione indebita dell’identità personale di polizia giudiziaria che agisce in operazioni sottocopertura; il reato è punito con la reclusione da due a sei anni.

Infine, il comma 11 reca una serie di abrogazioni di disposizioni vigenti riguardanti lo svolgimento di operazioni sotto copertura, disposizioni ormai incompatibili con la nuova disciplina introdotta.

 

L’articolo 10 della legge 146 introduce una serie di disposizioni che disciplinano la responsabilità amministrativa degli enti (v. D.Lgs 8 giugno 2001, n. 231) in relazione alla commissione di una serie specifica di delitti ovvero alla utilizzazione dell’ente allo scopo di consentire o agevolare la commissione dei reati . Le sanzioni previste sono quelle amministrative pecuniarie “per quote” nonché quelle interdittive di cui al citato D.Lgs 231.

Il comma 2 prevede l’applicazione di una sanzione pecuniaria da 400 a 1.000 quote qualora l’ente sia coinvolto nella commissione dei seguenti reati associativi: associazione per delinquere semplice (art. 416 c.p.) e di tipo mafioso (art. 416-bis c.p.), finalizzata al traffico di stupefacenti (art. 74 DPR 309/1990) o di tabacchi lavorati esteri (art. 291-quater DPR 43/1973).

Il comma 3 dispone poi che, nel caso di condanna per uno dei delitti citati, si applicano all’ente, oltre alla sanzione pecuniaria, le sanzioni interdittive di cui all’articolo 9, comma 2, del D.Lgs. 231 del 2001, per una durata minima di un anno (l'interdizione dall'esercizio dell'attività; la sospensione o la revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell'illecito; il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio; l'esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l'eventuale revoca di quelli già concessi; il divieto di pubblicizzare beni o servizi).

Il comma 4 dell’art. 10, riproducendo il contenuto dell’articolo 16, comma 3, del decreto legislativo 231, inquadra una circostanza aggravante da cui deriva l’applicazione dell’interdizione definizione dall’esercizio dell’attività. Tale circostanza consiste nell’utilizzo in via stabile dell’ente o di una sua unità organizzativa allo scopo unico o prevalente di consentire o agevolare la commissione di reati.

Il comma 5 stabilisce le sanzioni da applicarsi alle persone giuridiche in caso di riciclaggio commesso da loro esponenti; la norma prevede l’applicazione di una sanzione pecuniaria all’ente nella misura da 200 a 800 quote in relazione ai reati di: riciclaggio ex articolo 648-bis c.p.; impiego di denaro, beni o utili di provenienza illecita ex articolo 648-ter c.p..

Anche in tal caso, alla condanna consegue l’applicazione delle citate sanzioni interdittive previste dall’articolo 9, comma 2, dello stesso decreto legislativo 231/2001, fissandone la durata massima in due anni (comma 6).

E’, poi, previsto dal comma 7, che l‘ente coinvolto nel traffico di migranti (per i reati di immigrazione clandestina di cui all’articolo 12, commi 3, 3-bis e 3-ter, del testo unico 286/1998) sia soggetto ad una sanzione pecuniaria da 200 a 1.000 quote oltre che alle indicate sanzioni interdittive di cui all’articolo 9, comma 2, del D.lgs 231/2001, anche in tal caso di durata massima biennale (comma 8).

 

L’intervento operato persegue le finalità specifiche del Protocollo Addizionale della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità transnazionale organizzata per combattere il traffico illecito di migranti via terra, via mare e via aria, annesso alla Convenzione e adottato dall’Assemblea generale il 15 novembre 2000 ed il 31 maggio 2001.

 

Infine, il comma 9 dell’art 10 dispone l’applicazione di una sanzione pecuniaria fino a 500 quote all’ente in relazione ai reati di intralcio alla giustizia (articoli 377, Intralcio alla giustizia[1], 377-bis, Induzione a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria e 378, Favoreggiamento personale, del codice penale). La norma attua le previsioni dell’art. 23 della Convenzione (Penalizzazione dell’intralcio alla giustizia)

Va ricordato come il reato di intralcio alla giustizia (introdotto dall’art. 14 della legge) non era esplicitamente previsto dal nostro codice penale.

L’articolo 11 della legge contempla ipotesi speciali di confisca obbligatoria e di confisca per equivalente; la norma è volta ad attuare l’articolo 12 della Convenzione delle Nazioni Unite, in materia di confisca e sequestro.

Per i reati transnazionali di cui all’art. 3 della legge, quando, non sia possibile confiscare le cose costituenti prodotto, profitto o prezzo del reato (confisca penale), il giudice ordina la confisca delle somme di denaro, beni od altre utilità di cui il reo abbia la disponibilità, anche per interposta persona fisica o giuridica, per un valore corrispondente a tale prodotto, profitto o prezzo (confisca per equivalente). Nel caso di usura viene comunque disposta la confisca (obbligatoria) di un importo pari al valore degli interessi o degli altri vantaggi o compensi usurari.

In tali casi il giudice con sentenza di condanna determina le somme di denaro o individua i beni o le utilità assoggettati a confisca di valore corrispondente al prodotto, al profitto o al prezzo del reato.

L’articolo 12 della legge 146/2006 attua anch’esso l’articolo 12 della Convenzione delle Nazioni Unite in materia di confisca e sequestro, con particolare riferimento al paragrafo 2 con cui si invitano gli Stati Parte ad adottare le misure necessarie per consentire la identificazione, la localizzazione, il congelamento o il sequestro di qualsiasi elemento ai fini di una eventuale confisca. Inoltre, il paragrafo 6 dell’articolo 12 dispone che ogni Stato Parte conferisca autorità ai suoi tribunali o altre autorità competenti per ordinare che documenti bancari, finanziari o commerciali siano prodotti o sequestrati, senza al riguardo potere opporre il segreto bancario.

La norma prevede - in relazione ai reati transnazionali di cui all’art. 3 della legge - la possibilità del pubblico ministero di svolgere attività integrativa di indagine finalizzata all’individuazione dei beni oggetto di confisca obbligatoria o per equivalente ai sensi dell’art. 11 della legge e dell’articolo 12-sexies del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, (legge 7 agosto 1992, n. 356), che prevede ipotesi speciali di confisca antimafia (beni di cui il condannato non sa giustificare la provenienza). La norma è volta ad offrire alla magistratura inquirente uno strumento di indagine che può essere utilizzato dopo il rinvio a giudizio. Allo stato attuale infatti, superata la fase delle indagini preliminari, le indagini sui patrimoni di origine criminale sono particolarmente difficoltose, limitando l’articolo 430 c.p.p. tali indagini alle attività che non prevedano la partecipazione dell’imputato o del difensore.

L’articolo 13 della legge, in relazione ai reati di cui all’art. 3 della legge, estende le competenze del procuratore distrettuale antimafia, ora compreso tra i soggetti (ad oggi il procuratore della Repubblica o il questore) cui spetta lo svolgimento di rilevanti attività di indagine e prevenzione nel quadro delle finalità perseguite dalla legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro la mafia).. Tali competenze trovano riscontro negli articoli 2-bis, 2-ter, 3-bis, 3-quater e 10-quater della citata legge 575.

Va osservato che l’intervento non trova riscontri nel quadro delle norme recate dalla Convenzione e dai Protocolli addizionali

E’, quindi, consentito anche al procuratore distrettuale antimafia:

§         lo svolgimento di indagini sul tenore di vita, sulle disponibilità finanziarie e sul patrimonio dei soggetti nei cui confronti possa essere proposta la misura di prevenzione della sorveglianza speciale della pubblica sicurezza con o senza divieto od obbligo di soggiorno, nonché, avvalendosi della guardia di finanza o della polizia giudiziaria, ad indagini sull'attività economica facente capo agli stessi soggetti allo scopo anche di individuare le fonti di reddito (comma 1, articolo 2-bis).

§         richiedere al presidente del tribunale il sequestro anticipato - prima della fissazione dell'udienza - quando vi sia concreto pericolo che i beni di cui si prevede debba essere disposta la confisca vengano dispersi, sottratti od alienati (comma 4, articolo 2-bis).

§         richiedere ad ogni ufficio della pubblica amministrazione, ad ogni ente creditizio nonché alle imprese, società ed enti di ogni tipo informazioni e copia della documentazione ritenuta utile ai fini delle indagini (comma 6).

§         fare richiesta, nei casi di particolare urgenza, affinché sia disposto il sequestro dei beni della persona nei cui confronti è iniziato il procedimento quanto risulta che il loro valore sia sproporzionato al reddito dichiarato o all’attività economica svolta ovvero quando vi è motivo di ritenere che essi siano il frutto di attività illecite (comma 2 ,articolo 2-ter).

§         richiedere i provvedimenti previsti dall’articolo 2-ter anche dopo l'applicazione della misura di prevenzione, ma prima della sua cessazione (comma 6, articolo 2-ter).

§         proporre al tribunale l’inizio o la prosecuzione del procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione anche in caso di assenza, residenza o dimora all'estero della persona (comma 7, articolo 2-ter);

§         proporre al tribunale, dopo la confisca della cauzione per violazione da parte del soggetto degli obblighi di prevenzione, il rinnovo della cauzione anche per somma superiore a quella originaria (comma 7, articolo 3-bis);

§         proporre al tribunale, qualora vi siano sufficienti indizi in ordine ad attività economiche svolte nell’ambito della fattispecie ex 416-bis c.p. e non vi siano i presupposti per l’applicazione delle misure di prevenzione, di disporre ulteriori indagini e verifiche su tali attività economiche nonché di disporre l'obbligo, nei confronti di chi ha la proprietà o la disponibilità, a qualsiasi titolo, di beni o altre utilità di valore non proporzionato al proprio reddito o alla propria capacità economica, di giustificarne la legittima provenienza (comma 1, art. 3-quater);

§         richiedere al tribunale il sequestro dei beni di cui sia stata disposta la sospensione temporanea dell’amministrazione quando vi sia concreto pericolo che essi siano sottratti, dispersi alienati (comma 5, art. 3-quater);

§         l) richiedere al tribunale, quando ne ricorrano le condizioni ed anche dopo l’applicazione della misura di prevenzione, che i divieti e le decadenze quinquennali da licenze, concessioni, iscrizione ad albi, finanziamenti, ecc. operino anche nei confronti dei conviventi dei soggetti sottoposti alla misura nonché di imprese, associazioni, società di cui la persona soggetta alla misura sia amministratore o sia comunque in grado di determinarne scelte ed indirizzi (comma 2, articolo 10-quater).

 

Le modiche disposte dall’articolo 14 della legge all’articolo 377 c.p. sono da porre in relazione con quanto disposto all’articolo 10, comma 9, in materia di responsabilità degli enti.

Peraltro, come già osservato in quella sede, tale disposizione è da considerare attuativa di quanto disposto dalla Convenzione della Nazioni Unite all’articolo 23, relativo alla penalizzazione dell’intralcio alla giustizia.

L’intervento è volto non soltanto alla modifica della rubrica dell’articolo 377 - prima denominata “Subornazione” ed ora “Intralcio alla giustizia” - così da renderla conforme al dettato della Convenzione, ma anche ad estendere la nuova fattispecie di reato al di là di quanto revisto al primo comma dell’articolo 377 c.p.p.

L’integrazione di due ulteriori commi all’art. 377 configura come intralcio alla giustizia (terzo comma ) la condotta di chi usi violenza o minaccia al fine di indurre la vittima ai reati di cui agli articoli 371-bis (False dichiarazioni al pubblico ministero), 371-ter (False dichiarazioni al difensore) 372 (Falsa testimonianza) e 373 (Falsa perizia o interpretazione). In tali casi l’autore della condotta, nel caso in qui il fine non sia conseguito, soggiace alle pene stabilite per tali reati, diminuite nella misura non eccedente un terzo.

Si prevede, poi, (quarto comma) un aumento delle pene sancite dai commi 1 e 3 dell’articolo 377 quando ricorrano le circostanze aggravanti di cui all’articolo 339 c.p.

L’art. 14 dispone, infine, una modifica all’articolo 7 della citata legge 575/1965, recante disposizioni contro la mafia, che inserisce il descritto reato di cui all’art. 377, terzo comma, c.p., nel novero dei delitti per cui le pene sono aumentate da un terzo alla metà, quando il fatto sia commesso da persona sottoposta, con provvedimento definitivo, ad una misura di prevenzione durante il periodo previsto di applicazione e sino a tre anni dal momento in cui ne è cessata l'esecuzione,.

 

L’articolo 15 della legge interviene sulla disciplina in materia di armi da fuoco di cui al TULPS (Testo unico di pubblica sicurezza) di cui al R.D. 18 giugno 1931 n. 773.

E’ modificato, infatti, il comma 2 dell’articolo 35 del TULPS, al fine di prevedere che il registro delle operazioni giornaliere tenuto dal fabbricante, dal commerciante di armi e da chi esercita l'industria della riparazione delle armi recante le generalità delle persone con cui le operazioni stesse sono compiute deve essere conservato per 10 anni anziché 5, come in precedenza previsto.

Tale registro deve essere esibito a richiesta degli ufficiali od agenti di pubblica sicurezza e deve essere conservato anche dopo la cessazione dell'attività.

E, inoltre. disposta una modifica dell’articolo 11 della legge 18 aprile 1975, n. 110 “Norme integrative della disciplina vigente per il controllo delle armi, delle munizioni e degli esplosivi”, relativamente alla immatricolazione delle armi comuni da sparo. La modifica concerne la previsione, nel caso di importazione dell’arma da Paese esterno all’Unione Europea, della indicazione del luogo di produzione e della sigla della Repubblica italiana o di altro Paese tra i dati che devono essere impressi in modo indelebile ed a cura del produttore sulle armi comuni da sparo prodotte nello Stato.

 

L’intervento operato con l’articolo 15 appare volto ad integrare la legislazione italiana rispetto a quanto richiesto dal Protocollo contro la fabbricazione ed il traffico illecito di armi da fuoco e di loro parti, allegato alla Convenzione delle Nazioni Unite sul crimine organizzato transnazionale con particolare riferimento all’articolo 7 del Protocollo, che richiede la conservazione delle informazioni relative alle armi da fuoco per almeno dieci anni, e all’articolo 8 sui requisiti di marcatura delle armi da fuoco.

 

L’articolo 16 riguarda, infine, l’entrata in vigore della legge.


 



[1]     Vedi art. 14 della legge.