L'Assemblea generale dell'ONU
adotta la risoluzione n. 181 sul "governo futuro della
Palestina" comprendente il piano di spartizione che
prevede la fine del mandato britannico entro il 1948, la costituzione di uno
Stato palestinese e di uno Stato ebraico con un'unione economica per tutta la
Palestina, un regime internazionale speciale per Gerusalemme, costituita in corpus separatum e amministrata dalle
Nazioni Unite in base ad apposito statuto.
Il 15 maggio, giorno successivo
alla scadenza del mandato britannico sulla Palestina, il Consiglio nazionale
per lo Stato ebraico proclama, con decisione autonoma, la creazione dello Stato
d'Israele. Immediatamente le forze degli Stati arabi (Egitto, Siria,
Transgiordania, Libano, Iraq, Arabia Saudita), che si oppongono alla
spartizione della Palestina ed alla creazione di uno Stato ebraico, invadono il
territorio israeliano.
Dopo lunghi negoziati sotto
l'egida dell'ONU, la prima guerra arabo-israeliana si conclude con la
stipulazione di quattro accordi di armistizio generale (accordi di Rodi) che
fissano una linea di demarcazione che reggerà fino al 1967: Israele, oltre a
riconquistare tutto il territorio ad esso assegnato dal piano di spartizione
dell'ONU, estende il suo controllo su altre zone arabe; la Transgiordania
occupa il territorio arabo ad ovest del Giordano (Cisgiordania) che, in base al
piano dell'ONU, avrebbe dovuto far parte del previsto Stato palestinese.
L'annessione formale di questo territorio alla Transgiordania avverrà poi
nell'aprile del 1950 con la proclamazione del Regno Hashemita di Giordania. La
striscia di Gaza, anch'essa parte dello Stato arabo previsto dal piano di
spartizione, resta in mano all'Egitto.
Dopo la nazionalizzazione da parte
dell'Egitto della Compagnia universale del Canale di Suez, l'esercito israeliano
passa la frontiera con il Sinai e avanza verso Suez. Due giorni dopo Gran
Bretagna e Francia, con l'obiettivo di garantire il libero transito del Canale,
intervengono militarmente contro l'Egitto. In pochi giorni le truppe israeliane
occupano l'intero Sinai e la striscia di Gaza, mentre le forze anglo-francesi
bloccano entrambi gli accessi al Canale occupando postazioni chiave lungo la
riva. La crisi viene risolta con l'intervento delle Nazioni Unite, che inviano
una propria Forza d'emergenza per garantire il ritiro dall'Egitto delle truppe
israeliane e anglo-francesi. Il ritiro sarà ultimato nel marzo del 1957.
Nel corso del primo summit arabo
al Cairo viene fondata l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), che si riunisce per la
prima volta lo stesso anno nel settore arabo di Gerusalemme. L'organizzazione Al Fatah, il Movimento per la
liberazione della Palestina fondato da Yasser Arafat nel 1957, si unirà all'OLP
nel 1968 e da allora Arafat sarà ininterrottamente eletto capo del Comitato
esecutivo.
Al culmine di un periodo di
estrema tensione con i Paesi arabi
confinanti, sfociata nel ritiro delle forze di polizia internazionale dell’ONU
e nel blocco egiziano del golfo di Aqaba, Israele lancia un attacco su larga
scala nei confronti di Egitto, Giordania, Siria e Iraq, anche come reazione
all’adesione giordana e irachena al Patto militare siro-egiziano. Il 10 giugno,
al momento del cessate il fuoco, le forze israeliane controllano l'intero
Sinai, la Cisgiordania, la striscia di Gaza e le alture del Golan. Israele si
assicura così il controllo dell'intera Palestina, compresa la città di
Gerusalemme: il settore arabo della città, con la rimozione delle mura e delle
barriere di divisione, viene di fatto annesso e il 29 giugno il Knesset (il Parlamento israeliano) vota
una deliberazione con la quale Gerusalemme viene riunita sotto la sovranità
israeliana. L'Assemblea generale delle Nazioni Unite condanna le misure prese
da Israele nei confronti della città di Gerusalemme considerandole "non
valide" con la risoluzione n. 2253, adottata all'unanimità il 4
luglio.
In un summit a Khartum alla fine di
agosto i Capi di Stato arabi dichiarano la loro ferma decisione di non
negoziare direttamente con Israele, di non riconoscerlo e di non firmare nessun
trattato di pace. Il Governo israeliano, d'altra parte, annuncia di essere
disposto ad intraprendere solo negoziati diretti; in caso contrario manterrà le
forze israeliane sui territori occupati. Intanto, fin da settembre, coloni
israeliani iniziano ad insediarsi nei territori occupati.
Il 22 novembre il Consiglio di
Sicurezza delle Nazioni Unite adotta all'unanimità la risoluzione n. 242,
con la quale afferma che alla base di una pace giusta e duratura in Medio
Oriente stanno due princìpi: il ritiro delle forze armate di Israele dai
territori occupati nel recente conflitto ed il riconoscimento della sovranità,
integrità territoriale e indipendenza politica di ciascuno Stato nell'area,
sottolineando anche la necessità che si giunga ad una giusta soluzione del
problema dei profughi.
Il 6 ottobre, giorno della
festività ebraica di Yom Kippur, le
forze egiziane e siriane attaccano Israele in Sinai e sulle alture del Golan.
Dopo una prima avanzata degli arabi, gli israeliani contrattaccano e il 25
ottobre, quando si arriva al cessate il fuoco, questi ultimi hanno riguadagnato
le loro posizioni.
Il 21 dicembre si apre a Ginevra la
Conferenza per la pace in Medio Oriente, frutto delle numerose missioni
diplomatiche del Segretario di Stato americano Henry Kissinger, convocata dal
Segretario generale dell'ONU con la copresidenza di Stati Uniti e Unione Sovietica.
Risultato della Conferenza di
pace di Ginevra è la conclusione di tre accordi sul disimpegno delle forze: due
riguardanti le forze egiziane ed israeliane a confronto nella zona del Canale
di Suez e del Sinai, stipulati rispettivamente il 18 gennaio 1974 e il 4
settembre 1975; il terzo relativo alle forze siriane ed israeliane sul fronte
del Golan, concluso il 31 maggio 1974. Gli accordi prevedono l'intervento di
forze delle Nazioni Unite chiamate a garantire la tregua ed il ritiro delle
truppe dietro le linee concordate, anche mediante la costituzione di
zone-cuscinetto occupate dai caschi blu.
L'Assemblea generale dell'ONU adotta
due risoluzioni: la n. 3236 con la quale riconosce il diritto dei
palestinesi all'indipendenza e all'autodeterminazione, e la n. 3237 con
la quale accorda all'OLP lo status di
osservatore permanente. Con un'altra risoluzione, la n. 3379 del 1975,
l'Assemblea generale che denuncia il sionismo quale "forma di razzismo e
discriminazione razziale".
Sfidando la posizione contraria
del resto del mondo arabo, il 19 novembre il Presidente egiziano Sadat si reca
a Gerusalemme ed il giorno seguente, davanti al Parlamento israeliano, lancia
un appello per una pace giusta e duratura in Medio Oriente.
In settembre, il Presidente
americano Carter invita i governi di Egitto ed Israele a Camp David negli Stati
Uniti per riprendere il negoziato di pace. Il 17 settembre, dopo 12 giorni di
negoziati, il Presidente Carter annuncia che il Primo Ministro israeliano Begin
e il Presidente egiziano Sadat hanno concluso due accordi: il primo è un
"accordo quadro per la pace in Medio Oriente" che prevede un periodo
di transizione di cinque anni, durante il quale le popolazioni della
Cisgiordania e della striscia di Gaza possono progressivamente acquisire
autonomia e indipendenza, ed alla fine del quale si sarebbe stabilito lo status definitivo dei territori
attraverso ulteriori negoziati ed un trattato di pace con la Giordania; il
secondo documento è un "accordo quadro per la conclusione di un trattato
di pace fra Egitto ed Israele" che prevede la firma di un trattato di pace
entro tre mesi, il ritiro delle truppe israeliane dal Sinai e lo stabilimento
di normali relazioni diplomatiche fra i due paesi. Solo quest'ultimo accordo
troverà effettiva applicazione: il 26 marzo 1979, Egitto ed Israele firmano a
Washington il trattato di pace ed Israele inizia il progressivo ritiro dal
Sinai che sarà completato il 25 aprile 1982; il 26 gennaio 1980 saranno
stabilite le relazioni diplomatiche fra i due paesi. Il giorno dopo la firma
del trattato di pace la Lega araba, riunitasi a Bagdad, condanna pesantemente
la politica di Sadat e dispone un boicottaggio politico ed economico contro
l'Egitto.
Il Consiglio di Sicurezza delle
Nazioni Unite adotta all'unanimità la risoluzione n. 465 che condanna la
politica di colonizzazione dei territori occupati da parte di Israele,
chiedendo la cessazione della pianificazione di nuovi insediamenti e lo
smantellamento di quelli esistenti.
Il 30 luglio il Knesset approva la Legge fondamentale su "Gerusalemme
riunificata, capitale eterna d'Israele". La reazione internazionale è
immediata: il Consiglio di Sicurezza dell'ONU approva la risoluzione n. 478
nella quale afferma che l'adozione della Legge fondamentale su Gerusalemme è un
ostacolo all'instaurazione della pace in Medio Oriente, costituisce una
violazione del diritto internazionale, e va quindi considerata nulla. In
ottemperanza alla richiesta dell'ONU tutti i paesi che mantenevano missioni
diplomatiche a Gerusalemme le trasferiscono a Tel Aviv.
Il 14 dicembre 1981 il Knesset vota l'annessione del territorio
siriano delle alture del Golan. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite
approva la risoluzione n. 497, nella quale afferma di considerare
l'azione israeliana inammissibile e di conseguenza nulla.
Il 6 giugno, sorretto da massicci
bombardamenti, l'esercito israeliano invade il Libano con l'obiettivo di
distruggere le basi dei terroristi palestinesi; si trova a fronteggiare la
Siria, che mantiene ingenti forze in territorio libanese. In pochi giorni gli
israeliani sono alle porte di Beirut ed iniziano l'assedio della città, nella
quale si trovano circa 9000 uomini dell'OLP; dopo due mesi di assedio i
palestinesi accettano di evacuare la città e viene inviata una forza delle
Nazioni Unite per controllare l'evacuazione. Il 23 agosto il falangista Bachir
Gemayel, pro-israeliano, è eletto Presidente del Libano. Il 14 settembre
Gemayel viene assassinato ed il giorno seguente le truppe israeliane invadono
il settore musulmano di Beirut, contravvenendo agli accordi sul cessate il
fuoco. Pochi giorni dopo le milizie falangiste compiono un massacro nei campi
profughi palestinesi di Sabra e Chatila. Le forze israeliane si ritireranno da
Beirut nel settembre 1983, attestandosi nel sud del paese, mentre il nord
resterà sotto controllo siriano.
L'11 febbraio Re Hussein di
Giordania e Yasser Arafat sottoscrivono ad Amman un accordo per un'azione
comune giordano-palestinese nei futuri negoziati di pace. Tale accordo segue di
pochi mesi un'altra iniziativa giordana per la ricostituzione di un fronte
comune arabo: prima fra tutte le nazioni arabe dopo gli accordi di Camp David,
la Giordania riprende i rapporti diplomatici con l'Egitto.
Tra febbraio e maggio Israele si
ritira dal Libano, mantenendo al confine una "zona di sicurezza", e i
siriani riprendono il controllo dell'intero paese, distruggendo le ultime basi
dell'OLP (il cui quartier generale si era trasferito a Tunisi nel 1983, in
piena crisi libanese).
Il 19 febbraio Re Hussein di
Giordania annuncia la fine della collaborazione politica con l'OLP. Le ragioni
del dissenso sono fondamentalmente due: la priorità data dall'OLP al principio
dell'autodeterminazione, a discapito di quello della liberazione della terra
sostenuto dalla Giordania, ed il rifiuto dell'OLP di accettare la risoluzione
n. 242 dell'ONU a causa dell'implicito riconoscimento di Israele che essa
comporta. Tale accettazione costituisce la condizione preliminare richiesta
dagli Stati Uniti per l'avvio di qualsiasi negoziato.
Dopo un periodo di violenti
scontri episodici, ed un conseguente inasprimento della repressione israeliana,
il 9 dicembre scoppia nei territori occupati una rivolta di massa dei
palestinesi (che verrà chiamata Intifada,
ovvero sollevamento). Il movimento, nato spontaneamente, viene ben presto
coordinato da un apposito comitato direttivo nel quale sono rappresentate le
diverse componenti dell'OLP.
Il 15 novembre il Consiglio
Nazionale Palestinese, riunito ad Algeri, approva una dichiarazione che
proclama l'indipendenza dello Stato di Palestina, con capitale Gerusalemme. La
dichiarazione, che avviene dopo la rinuncia della Giordania alla sovranità sui
territori della Cisgiordania, richiama i principi contenuti nella risoluzione
n. 181 del 1947 dell'Assemblea generale dell'ONU. Una dichiarazione politica
separata chiede l'apertura di una conferenza internazionale di pace sul Medio
Oriente sotto la supervisione delle Nazioni Unite, sulla base delle risoluzioni
del Consiglio di Sicurezza 242 del 1967 e 338 del 1973. Con tale accettazione
da parte dell'OLP delle risoluzioni dell'ONU viene così soddisfatta una delle
condizioni richieste dagli Stati Uniti ai fini di una conferenza di pace. Il 13
dicembre Arafat presenta all'Assemblea generale dell'ONU un piano di pace,
dichiara la volontà di riconoscere esplicitamente Israele e di rinunciare
definitivamente al terrorismo. Pochi giorni dopo gli Stati Uniti intraprendono
un dialogo ufficiale con l'OLP.
In ottobre il Segretario di Stato
americano James Baker propone un nuovo piano di pace, sul quale il governo
israeliano si divide: mentre la corrente di destra della Likud, il partito del Primo Ministro Itzhak Shamir, annuncia che
non accetterà nessun compromesso, il partito laburista minaccia di abbandonare
il governo di coalizione se Shamir non intraprenderà iniziative concrete per
risolvere la questione dei territori occupati.
Il 6 marzo, alla fine della
guerra del Golfo, il Presidente americano Bush dichiara che la soluzione del
conflitto arabo-israeliano è uno degli impegni prioritari del suo governo. Dopo
numerose missioni diplomatiche del Segretario di Stato Baker e con l'appoggio
dell'Unione Sovietica, il 30 ottobre si apre a Madrid la Conferenza di pace. La
Conferenza avvia i negoziati bilaterali israelo-palestinesi e quelli
multilaterali tra Israele e gli altri Stati arabi. Viene stabilito che lo
status definitivo dei territori potrà avere inizio solo dopo la messa in
pratica di un periodo transitorio di autogoverno.
Il 16 dicembre l'Assemblea generale
delle Nazioni Unite revoca la posizione sul sionismo come forma di razzismo e
discriminazione razziale adottata con la risoluzione n. 3376 del 1975.
Il 23 giugno, alle elezioni
legislative, il partito laburista guidato da Itzhak Rabin conquista la
maggioranza persa nel 1977. Rabin, che ha basato la sua campagna elettorale
sulla priorità per Israele di giungere ad un accordo di pace, nel discorso di
investitura del nuovo governo di centro-sinistra afferma che il primo passo
verso una soluzione permanente del conflitto è la concessione dell'autonomia ai
palestinesi.
Mentre viene avviato il dialogo
ufficiale tra il governo israeliano e l'OLP, hanno luogo negoziati segreti in
Norvegia che conducono, il 28 agosto 1993, alla firma di una dichiarazione di
principi su un piano d'autonomia dei territori occupati, cominciando da Gaza e
Gerico. Nel settembre viene firmato l'accordo di riconoscimento reciproco tra
lo Stato ebraico e l'OLP, nonché la dichiarazione di principi sugli accordi
transitori di autonomia. Il ritiro delle truppe israeliane da Gaza e Gerico, fissato
per il 13 dicembre, sarà rinviato fino al maggio 1994, a seguito della firma
del successivo accordo del Cairo, in base al quale i territori passano sotto
l'amministrazione di un'Autorità Nazionale Palestinese appositamente nominata,
in attesa delle elezioni del Consiglio Palestinese, e la sicurezza è affidata
ad un corpo di polizia palestinese.
Durante una funzione religiosa
per il periodo del Ramadan un colono israeliano fa fuoco con un fucile
automatico in una moschea affollata di fedeli a Hebron, in Cisgiordania, e
uccide 50 palestinesi. La strage è condannata dalla risoluzione dell'ONU n. 904
che dispone anche l'invio ad Hebron di una presenza internazionale temporanea
per garantire la sicurezza dei civili. La missione, cui partecipano Italia,
Danimarca e Norvegia, si svolgerà dal maggio all'agosto 1994.
Dall'ottobre 1994 si assiste ad una
violenta ondata di attentati terroristici rivendicati dal movimento
fondamentalista islamico Hamas,
spesso compiuti da terroristi suicidi, che provocano numerosissime vittime. Gli
attentati proseguiranno per tutto il 1995, conducendo, nel marzo 1996, al
vertice di Sharm el-Sheikh contro il terrorismo, cui partecipano 27 Capi di
Stato e di Governo.
Dopo la firma di Israele e
Giordania, nel settembre 1993, dell'Agenda per la pace, che ha stabilito un
programma di normalizzazione dei rapporti tra i due paesi entro due anni, nel
giugno 1994 vengono firmati tra i due paesi a Washington una serie di accordi
settoriali (collaborazione nel campo dei trasporti, delle risorse idriche e
naturali). Nel luglio, il Primo Ministro israeliano Rabin e il Re Hussein di
Giordania, incontratisi per la prima volta, firmano una dichiarazione che mette
ufficialmente fine allo stato di belligeranza che opponeva i due paesi da 46
anni, mentre nell'ottobre 1994, sulle rive del Giordano, alla frontiera fra
Israele e Giordania, i due Capi di Stato
firmano lo storico accordo di pace.
Dopo la firma di un accordo tra
Israele ed OLP che estende alla Cisgiordania i poteri amministrativi, nel
settembre viene concluso un altro accordo (Oslo II), contenuto in 400 pagine di
documenti, che prevede, nella prima fase, il ritiro completo delle truppe
israeliane dalle sei città dei territori occupati, da 450 villaggi ed in parte
da Hebron. Viene inoltre fissata la data delle elezioni del Consiglio
palestinese e viene stabilito un calendario che riguarda la liberazione dei prigionieri
palestinesi, la definizione della situazione di Gerusalemme, degli insediamenti
e dei rifugiati palestinesi. Il calendario verrà rispettato fino al maggio
1996, quando, subito prima delle elezioni israeliane, si apre la fase finale
del negoziato, ad oggi non ancora conclusa.
Il 4 novembre 1995, uno studente
israeliano di 25 anni, Igal Amir, uccide il Primo Ministro Ytzak Rabin mentre
lascia il palco allestito a Tel Aviv in occasione della manifestazione della
pace. E' la prima volta dalla creazione dello Stato d'Israele che viene ucciso
un Primo Ministro. Alla carica succede Shimon Peres.
Il 20 gennaio 1996 si svolgono le
elezioni nei territori palestinesi. Yasser Arafat è eletto Presidente del
Consiglio con oltre l'88 % dei voti ed il partito di al-Fatah ottiene il 51%
dei voti per l'Assemblea legislativa. Il Consiglio nazionale palestinese si
pronuncia a grande maggioranza per l’eliminazione dalla Carta dell'OLP dei
paragrafi contrari all'esistenza dello Stato ebraico, che alla fine dell’anno
lamenterà tuttavia la mancata attuazione di tale indirizzo.
Mentre continua l'ondata di
violento terrorismo di Hamas ed ha
inizio una fase di scontri tra gli israeliani e gli hezbollah libanesi, il 29
maggio si svolgono le elezioni politiche anticipate ad Israele. Con uno scarto
dello 0,6 per cento è eletto primo ministro il leader del Likud, Benjamin
Netanyahu. Ma la nuova legge elettorale, che prevede l'elezione diretta del
premier, ha provocato una frammentazione dei voti confluiti ai singoli partiti,
costringendo il governo ad allearsi con i gruppi religiosi.
Gli accordi su Hebron del 16
gennaio 1997 rappresentano la prima tappa del processo negoziale realizzata
durante il periodo di governo Netanyahu. Quegli accordi, che sono in realtà un
protocollo aggiuntivo all'Accordo 'Oslo II', definiscono le modalità del
ridispiegamento israeliano da Hebron e prevedono la ripresa dei negoziati sulle
parti non attuate dell'accordo interinale (c.d. non Hebron related issued). I
palestinesi riaffermano la volontà di combattere il terrorismo e rifiutare la
violenza, e gli israeliani accettano di attuare gli ulteriori tre ritiri dalla
Cisgiordania previsti dall'Accordo interinale, benché prolungandone il
calendario. Il negoziato tuttavia si arena sull'ampiezza del territorio dal
quale Israele dovrebbe ritirarsi, non definita dagli Accordi interinali.
Il 23 ottobre, con la mediazione
americana e dopo una paralisi dei negoziati durata quasi 20 mesi, viene
raggiunto un accordo tra israeliani e palestinesi che prevede: un primo ritiro
israeliano entro 90 giorni dal 13,1 per cento della Cisgiordania; un secondo
ritiro dal 14,2 per cento della Cisgiordania; l’impegno israeliano ad attuare
una terza fase del ritiro; l’apertura dell’aeroporto di Gaza. In cambio,
l’autorità palestinese disarmerà i gruppi estremisti ed arresterà un trentina
di terroristi; sarà inoltre convocato il Consiglio nazionale palestinese per
abrogare le clausole dello statuto che prevedono la distruzione di Israele[1].
Dopo l’avvio della prima fase del
ritiro, il processo di pace subisce un nuovo arresto, determinato anche dalla
decisione israeliana di andare ad elezioni politiche anticipate.
Il 17 maggio 1999 si svolgono le
elezioni anticipate della Knesset e del Premier israeliano, che portano
all’elezione del candidato laburista Ehud Barak alla carica di Primo Ministro
di Israele, nonché ad una sostanziale frammentazione delle forze politiche
rappresentate in Parlamento, con un ridimensionamento sia del Partito
laburista, sia del Likud. Il nuovo esecutivo si appoggia pertanto su una
maggioranza composita, in cui entrano due partiti degli “ebrei russi” e due
partiti di ispirazione religiosa.
Con un Memorandum firmato il 4
settembre 1999 (c.d. Wye II), si decide di superare lo stallo nei reciproci
rapporti tra israeliani e palestinesi, fissando una serie di principi per cui
le parti si impegnano a dare attuazione agli Accordi di Wye Plantation e ad
avviare i negoziati sullo status finale dei territori palestinesi. Dopo la
firma dell’accordo, tuttavia, nonostante una serie di importanti passi in avanti,
si apre una nuova fase di crisi, legata soprattutto al rispetto delle scadenze
fissate nello stesso Memorandum.
Circa due mesi prima del 13
settembre 2000, data stabilita da israeliani e palestinesi per arrivare ad un
accordo definitivo, inizia a Camp David (11 luglio 2000) una “maratona
negoziale” tra il premier israeliano Barak e il leader palestinese Arafat, con
il ruolo preponderante di mediazione degli Stati Uniti. Il negoziato si
conclude il 25 luglio con un “nulla di fatto”. Tra i problemi rimasti in
sospeso vi è soprattutto la questione dello status
di Gerusalemme, che i palestinesi rivendicano come capitale del futuro
Stato indipendente. Il 29 luglio i colloqui riprendono a Gerico su questioni
più tecniche, ma non vengono toccati i punti più delicati del negoziato. Il 10
settembre il Parlamento palestinese (Consiglio legislativo) rinvia sine die la proclamazione
dell’indipendenza dello Stato palestinese, che era stata fissata il 3 luglio
dal Consiglio centrale dell’OLP per il 13 settembre.
Il 28
settembre, alla testa di un gruppo di propri sostenitori, l'esponente del Likud
Ariel Sharon si reca alla spianata delle Moschee, alle cui pendici di trova il
Muro del pianto, con l’intento, non espressamente dichiarato, di ribadirvi la
sovranità ebraica: a seguito di ciò si verificano violentissimi incidenti con
numerose vittime palestinesi e con il coinvolgimento anche della polizia
palestinese, a fronte di un impiego israeliano di armi pesanti. Una risoluzione
(n. 1322) del Consiglio di sicurezza dell’ONU, adottata il 7 ottobre con il
voto di astensione degli USA, condanna gli atti di violenza e in particolare
l'uso della forza contro i palestinesi. Il linciaggio di due soldati israeliani
a Ramallah (12 ottobre) provoca peraltro una dura reazione militare da parte di
Israele, che per la prima volta bombarda alcune città palestinesi, tra cui la
stessa Ramallah, nei pressi della sede del “quartier generale” di Arafat.
Il vertice di Sharm el Sheikh,
convocato per mettere fine agli scontri, si conclude il 17 ottobre con una mera
intesa di principio tra Barak e Arafat: nessun documento congiunto firmato
dalle Parti in causa, quindi, ma una semplice dichiarazione del Presidente
americano Clinton che fissa le condizioni per il “cessate il fuoco”, annuncia
la creazione di una commissione d’inchiesta[2] guidata dagli USA e si
impegna per una ripresa dei negoziati di pace. L’intesa prevede il ritiro
dell’esercito israeliano alle posizioni precedenti al 28 settembre, la
riapertura delle frontiere dei Territori palestinesi e dell’aeroporto di Gaza.
Ciononostante non cessano gli scontri in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.
L'intesa di Sharm el Sheikh viene infatti respinta dalle frange estremiste
delle due Parti: Hamas,
l'organizzazione islamica che combatte per l'indipendenza dello Stato
palestinese, e Tanzim, la milizia giovanile di Al-Fatah, si oppongono agli
accordi, mentre Ariel Sharon annuncia la rottura delle trattative con Barak per
la formazione di un governo di unità nazionale.
Il 20 ottobre l'Assemblea
Generale dell'ONU adotta una nuova risoluzione, di contenuto analogo alla n.
1322 del Consiglio di sicurezza. I voti favorevoli sono 92, quelli contrari 6,
mentre si registrano 46 astensioni, tra cui quella dell'Italia.
Successivamente, nel corso del Consiglio europeo di Nizza del dicembre 2000, i
paesi UE adottano una Dichiarazione a sostegno della ripresa dei negoziati di
pace, sollecitando l'impegno personale dei leaders
delle due Parti e promuovendo l'avvio dei lavori della commissione
d'inchiesta, cui è designato a partecipare anche Javier Solana, in qualità di
Alto rappresentante PESC dell'Unione europea.
Il 10 dicembre
il premier israeliano Barak presenta le proprie dimissioni al Capo dello Stato
Moshe Katzav. Le nuove elezioni si svolgeranno agli inizi di febbraio 2001. Per
il momento, si ritiene che debbano tenersi le sole elezioni per il premier, ma
non si esclude ancora, in via definitiva, che possa essere sciolto anche il
Parlamento (Knesset). Barak, che resta in carica per il disbrigo degli affari
correnti, è proclamato candidato ufficiale del Partito laburista alle nuove
elezioni, a seguito di una difficile riunione dei vertici del partito.
Dopo tre mesi di violenze, il
Presidente americano Clinton riapre, alla fine del 2000, le porte al negoziato,
presentando a israeliani e palestinesi una proposta di mediazione al fine di
portare ad un accordo di pace. I punti principali della proposta riguardano:
- Ai palestinesi andrebbe il 95
per cento della Cisgiordania. Di tali terrritori, Israele acquisirebbe in via
transitoria, per 20 anni, il tre per cento della Cisgiordania, corrispondente
al centro di Hebron, e l'uno per cento nel Nord della striscia di Gaza. In
cambio del cinque per cento della Cisgiordania, che resterebbe sotto il suo controllo,
Israele dovrebbe cedere i territori a Sudest della striscia di Gaza.
- Israele manterrebbe inoltre il
controllo degli insediamenti ebraici più grandi intorno a Gerusalemme,
rinunciando in cambio a 60-70 insediamenti in Cisgiordania e nella striscia di
Gaza.
- E’ infine prevista la
realizzazione di un corridoio di circa 15 chilometri, che dividerebbe in due
parti la Cisgiordania, portando dal Mar Morto a Gerusalemme.
Il piano prevede la sovranità
palestinese sulla Spianata delle Moschee, il terzo luogo sacro dell'Islam:
Israele manterrebbe il controllo dei siti archeologici sotto la superficie e
sul sottostante Muro del Pianto e su tutto il pendio occidentale della collina.
Ai palestinesi andrebbe inoltre il controllo dei quartieri arabi di
Gerusalemme.
Le truppe di Israele rimarrebbero
nella valle del Giordano pattugliando i confini per un periodo di tempo fra tre
e sei anni. In seguito, le truppe sarebbero sostituite da una forza
internazionale.
Il piano americano metterebbe da
parte, per il momento, il "diritto al ritorno" per buona parte dei
tre milioni e mezzo di palestinesi usciti da Israele e dai Territori dal 1947.
Soltanto una parte dei profughi troverebbe infatti posto nel nuovo stato
palestinese, ancora di meno in Israele. Verrebbe inoltre costituito un
“pacchetto” di aiuti internazionali, per compensare i profughi e favorirne
l'insediamento definitivo in Libano, Siria e Giordania, dove attualmente
vivono.
Di fronte al proseguire
dell’ondata di violenze, il 18 gennaio 2001, poche ore dopo l'assassinio a Gaza
del direttore generale della televisione palestinese Hisham Miki, il leader
palestinese Arafat e il Ministro degli esteri israeliano Ben Ami decidono di
tenere un nuovo incontro al Cairo, per discutere alcune questioni legate al
futuro dei negoziati e ai punti principali della proposta di mediazione
americana. Al termine dell’incontro, il Presidente del Consiglio nazionale
palestinese, Ahmed Qrei, riferisce di un accordo di massima raggiunto per una
ripresa dei colloqui “ad oltranza” tra palestinesi e israeliani, da realizzare
a Taba, sul Mar Rosso (Egitto), secondo quanto proposto da Arafat, a partire
dal 21 gennaio 2001. Obiettivo della nuova “maratona negoziale” è quello di
raggiungere un accordo-quadro, prima delle elezioni israeliane del 6 febbraio
2001. I colloqui tra le due delegazioni terminano però il 27 gennaio con una
mera dichiarazione congiunta, in cui si sottolinea che, date le circostanze e
le ristrettezze di tempo, non è stato possibile giungere a un’intesa su tutti i
punti, anche se sono stati fatti alcuni progressi. In particolare, sono stati
discussi quattro temi principali: i rifugiati palestinesi, la sicurezza, i
confini e lo status di Gerusalemme.
Sono state prese inoltre in considerazione anche le proposte avanzate dal
Presidente Clinton.
Il 6 febbraio si svolgono in
Israele le elezioni per il Primo Ministro. Risulta vincitore Ariel Sharon, leader del Likud, che ottiene il 62,5 per
cento dei voti contro il 37,5 per cento del premier
uscente Barak. Il 21 febbraio Barak rinuncia definitivamente al ministero della
Difesa offertogli da Sharon e si dimette sia dalla direzione del partito
laburista sia dalla carica di deputato alla Knesset. I 26 ministri e i 13
sottosegretari, tra cui spicca il nome di Simon Peres agli Esteri, appartengono
ad una coalizione di sette partiti, che si avvale di una maggioranza
numericamente solida (73 seggi su 120). Il nuovo Governo ottiene la fiducia del
Parlamento il 7 marzo 2001, data in cui viene anche abrogata la legge per
l’elezione diretta del premier (in
vigore dal 1996), reintroducendo il vecchio sistema proporzionale.
Malgrado l’aggravarsi del conflitto israelo-palestinese dopo lo
scoppio della seconda Intifada (settembre 2000), la Comunità internazionale non
ha smesso di perseguire l’obiettivo del raggiungimento di un accordo per la
cessazione delle violenze. La Commissione Mitchell già il 21 maggio 2001 aveva
depositato il proprio rapporto, in base al quale si auspicava una distensione
in più fasi, in primis con la
cessazione di ogni ostilità per un breve ma congruo periodo, poi con l’avvio
immediato di reciproche iniziative di ristabilimento della fiducia e, in un
momento successivo, la ripresa dei negoziati per il raggiungimento di intese di
fondo sulla scorta dei numerosi accordi degli anni precedenti. Il rapporto
Mitchell richiedeva da parte palestinese la chiara dimostrazione di
voler perseguire il terrorismo con atti concludenti, quali l’incarceramento
degli estremisti e il blocco sul nascere delle azioni suicide. Agli israeliani
veniva invece richiesto di fermare l’ulteriore espansione degli insediamenti in
Cisgiordania e a Gaza, e di rispondere alle proteste di piazza palestinesi in
modo più proporzionato e possibilmente non letale. Di poco successivo è il piano proposto dal Direttore della CIA,
George Tenet, reso noto il 13 giugno 2001, che prevedeva l’ottenimento di
un cessate il fuoco credibile e duraturo quale condizione necessaria per
l’applicazione delle indicazioni contenute nel rapporto Mitchell.
Il rapporto
Mitchell – per la cui applicazione Israele esige la cessazione totale e
duratura di ogni attacco terroristico - ha costituito la base di tutti i
successivi tentativi della Comunità internazionale di tamponare la gravissima
situazione mediorientale.
In
particolare, sia il comunicato congiunto USA-UE, nel contesto del Consiglio europeo di Goteborg di metà
giugno 2001, sia le posizioni del G8 di
Genova (20-22 luglio), hanno fatto esplicito riferimento al rapporto, e in
quest’ultima sede si è ipotizzata la presenza di osservatori internazionali
neutrali, sempre respinta però dagli israeliani.
Il Consiglio europeo di Laeken (14-15
dicembre 2001) ha ribadito, in un Allegato alle Conclusioni della Presidenza,
la prospettiva di un meccanismo neutrale di sorveglianza nella regione,
premessa per la fine delle sanguinose ostilità e la ripresa di colloqui di
pace, con l’obiettivo finale di giungere ad una pacifica coesistenza di due
Stati. Da Laeken è uscita la richiesta a Israele di cessare ogni azione
militare e ritirarsi dalle aree palestinesi, e ad Arafat – di cui è stata
ribadita la centralità come unica controparte credibile degli israeliani – di
rafforzare la propria autorità nell’ANP. L’impegno economico della UE per
alleviare le critiche condizioni materiali dei palestinesi per mezzo di un
piano di aiuti vasto e organico è stato un altro punto nodale dell’Allegato di
Laeken.
Il 30 marzo 2002, al termine di una
sessione di emergenza aperta dal Segretario Generale Kofi Annan, il Consiglio di sicurezza dell’ONU - che
il 12 marzo aveva adottato una risoluzione (la n. 1397) in cui si auspicava la
coesistenza di due Stati, Israele e Palestina, all’interno di confini sicuri e
riconosciuti - ha approvato la risoluzione
n. 1402 chiedendo il ritiro delle truppe israeliane dalle città palestinesi,
inclusa Ramallah. Il Consiglio di sicurezza ha inoltre approvato il 4 aprile la
risoluzione n. 1403, presentata dagli Stati Uniti, per chiedere l’applicazione
immediata della risoluzione n. 1402, cioè la cessazione delle operazioni
militari da parte israeliana.
L’attuazione
immediata della Risoluzione n. 1402 è stata ribadita anche nella Dichiarazione congiunta UE-USA-ONU e
Russia, approvata a Madrid il 10 aprile 2002.
Nella
Dichiarazione è stato accolto positivamente il piano di pace saudita approvato
a Beirut dalla Lega Araba e si è espresso un forte sostegno alla imminente
missione del Segretario di Stato americano in Medio Oriente.
La
Dichiarazione si chiude con un invito rivolto alla Comunità internazionale,
chiamata a tutelare, rafforzare e assistere l’Autorità Nazionale Palestinese,
sostenendo finanziariamente la ricostruzione economica e istituzionale della
stessa.
Un ulteriore tentativo di mediazione è stato quello del
Ministro degli esteri tedesco Joschka Fischer, reso noto in un’intervista
pubblicata dal settimanale tedesco Die
Zeit l’11 aprile 2002.
I primi
punti del c.d. Piano Fischer hanno
previsto una tregua senza condizioni e il ritiro delle forze israeliane da
tutti i territori palestinesi, con il blocco di nuovi insediamenti, vale a dire
l’attuazione immediata delle risoluzioni approvate dal Consiglio di sicurezza
dell’ONU. Il passo successivo alla tregua sarà, secondo Fischer, la “completa
separazione”, cioè il riconoscimento reciproco di israeliani e palestinesi.
Sarà compito della comunità internazionale (in particolare USA, Russia, ONU e
UE) fornire una efficace “componente di sicurezza”, cioè una forza
internazionale a garanzia del processo di pace. Un altro punto centrale della
proposta riguarda l’insistenza sulla creazione di istituzioni democratiche
palestinesi, basate sulla divisione dei poteri, l’autonomia dei tribunali e una
singola forza di polizia, in altre parole lo smantellamento di tutte le milizie
armate attualmente tollerate da Arafat. Per quanto riguarda le scadenze
temporali, la proposta di Fischer ha auspicato lo svolgimento di negoziati per
la chiusura della questione israelo-palestinese entro due anni, nonché la
normalizzazione dei rapporti israeliani con i paesi arabi.
Alla Quinta Conferenza euromediterranea (Valencia,
22-23 aprile 2002), i quindici Paesi dell’Unione si sono confrontati con
Israele e i palestinesi sulla possibilità di sbloccare la crisi in Medio
Oriente, ma Siria e Libano non hanno partecipato ai lavori della Conferenza.
Il 5 maggio 2002 è
stato siglato da israeliani e palestinesi un Memorandum d’intesa per l’evacuazione pacifica di 126 palestinesi
rimasti asserragliati nella Chiesa della
Natività a Betlemme.
Entrambe le
Parti hanno concordato che 39 militanti presenti nella chiesa costituivano “un
gruppo associato con precedenti attività nefaste che provocano preoccupazione a
Israele”, e, in quella lista, 13 erano da considerarsi militanti “duri”, da
inviare all’estero per un periodo da stabilire. Per quanto riguarda il
trasferimento all’estero di questi ultimi, il 9 maggio è stata trovata una
soluzione “europea”: secondo l’intesa messa a punto dalla presidenza di turno
spagnola i tredici sono stati trasferiti a Cipro per qualche giorno, in attesa
di raggiungere i Paesi[3] di destinazione finale.
Il 7 maggio 2002 l’Assemblea Generale
dell’ONU, riunita in sessione speciale di emergenza, ha approvato una risoluzione che condanna Israele per la sua
offensiva in Cisgiordania e per aver rifiutato di collaborare con le Nazioni
Unite per far luce sui presunti massacri avvenuti nel campo profughi di Jenin.
Al fine di
poter meglio contrastare l’escalation di
attentati terroristici, il Governo
israeliano ha deciso di avviare, a metà giugno 2002, la costruzione di una
barriera di reticolati e cemento per separare il territorio di Israele da
quello della Cisgiordania, un confine “virtuale” che per circa 360 Km corre a
ridosso della linea verde di demarcazione precedente all'armistizio del 1967.
I leader europei, riuniti
nel Vertice di Siviglia (21-22 giugno
2002), hanno ribadito la necessità di un intervento della Comunità
internazionale, attraverso una Conferenza con la partecipazione dei membri del
'quartetto', Ue, Usa, ONU e Russia, e dei paesi arabi moderati, accanto a
Israele e Anp. Insieme a una nuova ferma condanna da parte degli europei di
tutti gli attentati terroristici, i Quindici si sono pronunciati anche per la
fine dell'occupazione dei territori palestinesi e per la creazione di uno Stato
palestinese riformato - e qui vi è stato un richiamo alle responsabilità di
Arafat -, democratico, pacifico e sovrano. Nel complesso l'Unione europea ha
marcato una posizione distinta rispetto a quella americana, soprattutto in
merito al ruolo di Arafat, del quale gli europei non condividono
l'emarginazione, e alla necessità di una Conferenza internazionale.
Il 24 settembre il Consiglio di sicurezza
dell’ONU ha approvato, con 14 voti favorevoli e l’astensione degli Stati
Uniti, la Risoluzione n. 1435 che
chiede il sollecito ritiro delle forze di occupazione israeliane dalle città
palestinesi per tornare alle posizioni precedenti al settembre 2000 e la
cessazione delle misure dirette alla distruzione delle infrastrutture civili e
di sicurezza palestinesi. Le Nazioni Unite richiamano, nel contempo, l’Autorità
palestinese a conformarsi agli impegni assunti per contrastare il terrorismo,
consegnando alla giustizia i responsabili degli attacchi compiuti.
Alla fine
di ottobre 2002 si è aperta in Israele la crisi di Governo che ha
portato alla decisione di indire elezioni anticipate per il mese di gennaio.
La crisi è
stata innescata dal rifiuto dei ministri laburisti di votare a favore della
legge di bilancio per il 2003: il 5 novembre il Presidente israeliano Moshe
Katsav ha quindi disposto lo scioglimento della Knesset. Alle primarie dei
laburisti, nella scelta della nomination per
il futuro premier la vittoria non è
andata al leader ed ex Ministro della
difesa Ben Eliezer, bensì al sindaco di Haifa Amram Mizna. Sul versante
opposto, alle analoghe primarie del Likud per la candidatura a Primo ministro,
il premier Sharon ha nettamente
superato Benyamin Netanyahu.
Il Consiglio europeo di Copenhagen (12-13
dicembre 2002) non ha registrato sul Medio Oriente particolari novità,
mostrando peraltro particolare preoccupazione - oltre logicamente rispetto alla
situazione di perdurante violenza - per il proseguire della politica israeliana
degli insediamenti e della confisca di terre palestinesi per la costruzione di
barriere difensive, nonché per la situazione umanitaria sempre più deteriorata
a Gaza e in Cisgiordania. I Quindici hanno inoltre auspicato la sollecita
fissazione, da parte del Quartetto, di una road
map (tabella di marcia) che conduca alla fine, mediante negoziati in progress, alla creazione di uno Stato
palestinese entro il 2005. Proprio sui tempi della messa a punto di questo
piano di pace, tuttavia, la consultazione semestrale USA-UE, tenutasi a
Washington il 18 dicembre, non ha registrato alcuna intesa.
A metà
dicembre 2002, intanto, vi è stata una netta presa di posizione di Arafat
contro Al Qaida e Bin-Laden, esplicitamente accusato - in un'intervista al Sunday Times - di strumentalizzazione della causa palestinese e
diffidato dal continuare a percorrere questa via.
Il 22 dicembre la direzione politica
dell'ANP ha annunciato la temporanea rinuncia a far svolgere le elezioni
presidenziali e legislative palestinesi, previste per il 20 gennaio 2003,
motivando la decisione con l'occupazione israeliana di ampie zone dei Territori
formalmente sotto il proprio controllo. Anche il dibattito palestinese sulla
Costituzione nazionale, previsto a Ramallah per il 9 gennaio 2003, è stato di
fatto impedito dopo l'attentato di Tel Aviv del 5 gennaio che ha provocato
circa venti morti. Un appello di Arafat per una cessazione degli attentati in
vista delle elezioni israeliane è stato respinto dallo sceicco Yassin, capo
spirituale di Hamas, e l'incontro
promosso al Cairo (28 gennaio 2003) dal Governo egiziano tra i principali
raggruppamenti politici palestinesi si è concluso senza una dichiarazione
finale, soprattutto per l'incertezza sulla proposta egiziana di una tregua
annuale negli attentati contro Israele.
Uguale
continuità si è registrata nella prima
parte del 2003 per quanto concerne la stasi nelle iniziative internazionali
per giungere a una pace negoziata: in questo periodo è stata la crisi irachena
a calamitare la maggior parte dell'attenzione della Comunità internazionale,
vicenda peraltro strettamente connessa, per i riflessi nell'intera area
mediorientale, anche a quella del conflitto israelo-palestinese.
Il 28 gennaio 2003 si sono tenute le
elezioni in Israele: il Likud di
Sharon è risultato il primo Partito nella Knesset
con 37 seggi su 120: il Partito laburista è invece sceso al minimo storico, con
appena 19 seggi. Il terzo partito è risultato il laico Shinui, guidato da Tommy Lapid, passato da 6 a 15 seggi dopo una
campagna elettorale fortemente connotata in senso anticlericale (contro cioè
l'influenza politica e sociale dei gruppi ebraici ultraortodossi, in primo
luogo il Partito Shas, al quarto
posto con 11 seggi).
Una novità
nel campo palestinese - peraltro investito anche dall'inchiesta aperta
dall'Ufficio UE antifrodi (OLAF) sulla gestione degli ingenti finanziamenti
europei all'ANP - si è registrata il 14 febbraio 2003, quando Arafat ha annunciato ai rappresentanti del
'quartetto' la decisione di nominare un premier
palestinese.
Il 27 febbraio il nuovo Governo Sharon ha
ottenuto la fiducia della Knesset: la compagine rappresenta nel complesso
uno spostamento a destra, anche se Sharon ha potuto fare a meno del partito
ultraortodosso sefardita Shas, includendo nel Governo lo Shinui.
Il 14 marzo 2003 il Presidente USA Bush ha
annunciato che la consegna alle Parti in causa della road map sarebbe avvenuta
dopo la conferma, da parte del Consiglio legislativo palestinese, della nomina del moderato Abu Mazen[4]
a nuovo premier con effettivi poteri,
avvenuta quattro giorni dopo.
Tuttavia, i
rapporti tra Arafat e Abu Mazen si sono fatti tesi alla metà di aprile, quando
il primo ha respinto la lista di ministri presentatagli, e il contrasto si è
mostrato assai aspro in merito al Dicastero-chiave degli Interni. Le forti
pressioni internazionali hanno infine fatto pendere la bilancia a favore del
neo premier, che il 23 aprile ha
avuto il placet di Arafat, e il 29 aprile la fiducia del Consiglio
legislativo palestinese. Il 30
aprile è stata finalmente presentata alle Parti la road map.
Il piano
nella prima fase richiede da parte
palestinese l'immediata cessazione degli attacchi terroristici contro Israele,
accompagnata dalla ripresa di un dialogo sulla sicurezza con lo Stato ebraico e
da riforme politiche globali in seno all'Autorità palestinese. Israele, dal
canto suo, dovrà adoperarsi per la normalizzazione della vita dei palestinesi,
ritirandosi progressivamente - in corrispondenza con il ripristino di sempre
maggiori condizioni di sicurezza - dai territori rioccupati dopo l'inizio
(settembre 2000) della seconda Intifada e congelando ogni attività di
colonizzazione. Israele dovrà più precisamente smantellare gli insediamenti
successivi al marzo 2001, e dovrà riconoscere senza ambiguità il diritto alla
nascita di uno Stato palestinese indipendente e sovrano.
La seconda fase prevede la creazione entro
il 2003 di uno stato palestinese con frontiere provvisorie, riconosciuto dalle
Nazioni Unite, e dotato di istituzioni democratiche, da realizzare attraverso
libere elezioni. Verrà convocata una Conferenza internazionale per una pace
globale in Medio oriente.
La terza fase prevede lo svolgimento nel
2004 di una seconda Conferenza internazionale, al fine di giungere entro l'anno
seguente alla creazione entro confini definitivi di uno Stato palestinese. In
quel momento si affronteranno anche in via definitiva i nodi dello status di
Gerusalemme, degli insediamenti e del
ritorno dei profughi palestinesi.
L'itinerario
da perseguire continua tuttavia ad essere reso difficilissimo dal perdurare
degli attentati suicidi contro gli ebrei, e dalle reazioni militari di questi,
e ciò è proseguito quasi senza soluzione di continuità anche per tutto il 2003.
Per quanto
riguarda il premier israeliano
Sharon, questi, già nel contesto immediatamente successivo alla caduta del
regime di Saddam Hussein, ha rilasciato dichiarazioni di disponibilità - nel
nuovo clima mediorientale - a prendere in considerazione anche la rinuncia a
importanti siti storici ebraici in cambio di una vera pace, consentendo altresì
la nascita di uno Stato palestinese. Successivamente però Sharon - soprattutto
dopo la presentazione della road map
- è sembrato assumere una posizione assai più prudente in vista dei negoziati
connessi all'attuazione del tracciato di pace. Una sua visita negli USA,
programmata per il 20 maggio, è stata rinviata per gli ennesimi gravi attentati
a Gerusalemme e Hebron, e ciò ha impedito anche il viaggio di Abu Mazen - che tuttavia si è incontrato
per la prima volta con Sharon - a Washington. Sharon ha ribadito con
nettezza la sua contrarietà al perdurare di qualsiasi ruolo di Arafat,
ventilandone la possibile espulsione.
Il confronto
intorno al testo della road map è
comunque proseguito, con gli israeliani che hanno avanzato una serie di riserve[5], e che avrebbero voluto
poter modificare su alcuni punti la road
map: i palestinesi hanno insistito invece sull'inizio dell'attuazione della
road map senza alcun emendamento, pur
non escludendo di poter avanzare a loro volta, in un secondo momento, alcune
obiezioni al piano di pace.
In ogni
modo, il 25 maggio il Governo
israeliano ha dato il suo assenso alla road
map, precisando tuttavia che il via libera al piano di pace tiene conto
dell'atteggiamento americano di disponibilità a un esame serio e completo delle
riserve già avanzate. Inoltre, gli israeliani hanno separatamente affermato che
in nessun caso la questione dei profughi potrà mai risolversi con il loro
rientro nel territorio di Israele, poiché ciò snaturerebbe il carattere ebraico
dello Stato. Negative le reazioni di Abu Mazen - per tacere di quelle dell'ala
radicale palestinese -, contrario a qualunque modifica della road map.
Il 28 maggio è iniziata a Teheran la Conferenza dei ministri degli Esteri
dell'OCI (Organizzazione della Conferenza islamica): rispetto
all'evoluzione della crisi israelo-palestinese, l'OCI è apparsa piuttosto
divisa al proprio interno, tra le posizioni di adesione critica all'attuazione
della road map - sostenute dai
segretari generali dell'OCI e della Lega Araba - e quelle di rinnovato sostegno
alla resistenza palestinese (Iran) o di indifferenza per il piano di pace
(Siria).
Nella
serata del 30 maggio si verifica il secondo incontro tra Abu Mazen e Sharon,
da entrambi definito molto positivamente: il Governo di Israele si è impegnato
al rilascio di un centinaio di palestinesi, mentre le forze israeliane hanno
lasciato le città palestinesi della Cisgiordania, attestandosi tuttavia nelle
periferie. Inoltre Israele ha deciso alcune misure per attenuare il disagio
economico e sociale dei palestinesi, riammettendo nel Paese 25.000 pendolari e
8.000 uomini d'affari, e sbloccando le entrate fiscali e doganali di competenza
dell'ANP congelate dagli israeliani in concomitanza con l'Intifada. Tutto ciò
si pone nella prospettiva dell’imminente incontro
di Aqaba (Giordania) tra Sharon, Abu Mazen e il Presidente Bush, che ha luogo
il 4 giugno.
Yasser
Arafat, da Ramallah, ha commentato con forte scetticismo i risultati del
vertice di Aqaba, mentre il movimento Hamas
ha dichiarato doversi considerare interrotto il dialogo con Abu Mazen e l'ANP,
in ragione degli impegni assunti dal premier
palestinese, ignorando il fatto dell'occupazione israeliana di territori
palestinesi, i diritti dei profughi e quelli dei detenuti 'politici' nelle
prigioni israeliane.
La Siria e
il Libano, dal canto loro, hanno reagito con durezza alla missione
mediorientale di Bush, lamentando la mancanza di una road map che concerna il superamento dei contrasti di Israele con i
due Stati, e non dando eccessivo credito alla volontà di pace del Governo
Sharon.
Nonostante nuovi
cruenti attacchi dei gruppi armati palestinesi, e una dura contestazione subita
al congresso del proprio partito, il Likud, Sharon dispone il 9 giugno l'inizio dello smantellamento di alcuni
insediamenti ebraici illegali.
Tuttavia,
dopo un fallito attentato israeliano al numero due di Hamas, Rantisi, l'11 giugno
un kamikaze palestinese provoca una
strage in un autobus a Gerusalemme: Sharon dichiara una guerra totale contro Hamas - sostenendo che la difesa dagli
attacchi terroristici è una prerogativa di Israele che prescinde dagli impegni
assunti ad Aqaba -, con rappresaglie missilistiche immediate.
Dopo alcuni
giorni in cui ad azioni massicce di rappresaglia e di arresto di palestinesi da
parte dell'esercito israeliano hanno fatto da pendant divergenze all'interno di Hamas, e nuovi attacchi contro civili israeliani; il ministro
dell'ANP per la sicurezza interna Dahlan e il generale israeliano Ghilad hanno
raggiunto il 27 giugno un accordo sul
ritiro, a partire dal 30 giugno, delle truppe israeliane dalla parte nord della
striscia di Gaza e da Betlemme.
L'incontro tra Abu Mazen e Sharon del 1°
luglio, avvenuto a Gerusalemme in un clima di speranza, ha visto il premier palestinese accolto con tutti
gli onori. Nelle settimane successive la tregua è sembrata nel complesso
reggere, anche se vi sono stati isolati episodi di violenza - stigmatizzati da
Abu Mazen quali "atti di terrorismo" - che hanno provocato contenute
reazioni isreliane.
Tuttavia, con il trascorrere dei giorni il dissidio tra Arafat e Abu Mazen
riguardo alle trattative con Israele per l’attuazione della road map è divenuto sempre più aspro.
All'inizio di agosto, pur proseguendo
la successione di segnali contraddittori nei comportamenti delle parti in
conflitto, le tensioni si aggravano: all'annuncio della lista di prigionieri
palestinesi che il Governo di Tel Aviv intende rilasciare, Abu Mazen cancella
il previsto incontro del 6 agosto con Sharon, come segno dell'insoddisfazione
dell'ANP per la portata del provvedimento.
Il 12 agosto due attentati suicidi contro
Israele hanno riacceso le preoccupazioni: il movimento Hamas, rivendicando uno dei due attacchi, lo ha correlato
all'uccisione l'8 agosto di quattro palestinesi. L'attentato ha provocato il congelamento de facto, da parte israeliana, dell'attuazione della road map.
Il 19 agosto si verifica uno dei più gravi
attentati della storia di Israele: un kamikaze
palestinese, facendosi esplodere in un autobus pieno di famiglie religiose
ebree, provoca venti morti (tra cui diversi bambini) e oltre cento feriti: da
questo momento il già difficile processo
di attuazione della road map entra in
una fase di incertezza pressoché totale. Il 21 agosto l'aviazione
israeliana uccide a Gaza Abu Shanab, uno dei più alti dirigenti di Hamas: il movimento dichiara di non
considerarsi più vincolato dalla tregua di giugno, seguito subito dopo da
analoga presa di posizione della Jihad islamica.
Il Gabinetto per la sicurezza di Israele autorizza l'esercito a una serie di
operazioni repressive, comprese nuove eliminazioni mirate (il 29 agosto saranno
otto gli esponenti di Hamas liquidati). Gli Stati Uniti procedono intanto a congelare
i beni di sei esponenti politici di Hamas
e quelli di alcune Organizzazioni non governative europee sospettate di
finanziare il gruppo integralista palestinese.
Il 4 settembre il premier Abu Mazen riferisce al Consiglio legislativo palestinese
sui primi cento giorni del proprio mandato: nel corso dell’intervento, Abu
Mazen pone un aut aut, giudicando
insufficiente il consenso che fino a quel momento ha accompagnato la sua
azione, soprattutto per i problemi con Arafat (da ultimo sulla questione del
controllo complessivo dei servizi di sicurezza, che il premier ha rivendicato). In mancanza di un più forte sostegno, Abu
Mazen ha posto al Consiglio legislativo l’alternativa di revocargli il mandato.
Il Consiglio rinvia alla settimana successiva il voto di fiducia, ma il 6 settembre Abu Mazen presenta le
dimissioni.
L'8 settembre il Presidente del Consiglio
legislativo palestinese, Abu Ala[6], che il giorno precedente
aveva ricevuto da Arafat la richiesta di dar vita a un nuovo esecutivo,
scioglie la riserva, appellandosi a un forte sostegno USA e UE per l'attuazione
della road map. La reazione
israeliana è molto prudente, e comunque totalmente scettica sul perdurare del
ruolo politico di Arafat.
Mentre Abu
Ala rende note le condizioni poste per la prosecuzione del proprio tentativo di
formare un nuovo Governo (nuovo impulso internazionale per il rilancio della road map, libertà di movimento per Arafat,
fine delle operazioni militari israeliane nei terrirori e trattamento paritario
dell'ANP); Hamas consuma (9 settembre) la vendetta per il
fallito attacco contro lo sceicco Yassin, quando un kamikaze palestinese si fa esplodere vicino a una base israeliana,
uccidendo diversi militari.
L'11 settembre la dialettica politica in
seno ai Palestinesi costringe Abu Ala a rinunciare al progetto – utile per
acquistare credito presso USA e UE - di un Governo con pochi ministri e tutto
concentrato sui problemi della sicurezza: in base a quanto deciso dal Comitato
esecutivo dell’OLP e dal Comitato centrale di Al Fatah, il nuovo Governo si
profila come esecutivo di ampia rappresentanza, che oltretutto verrà affiancato
da un Consiglio per la sicurezza nazionale diretto dallo stesso Presidente
Arafat.
Nella
stessa giornata il Presidente egiziano Mubarak, in visita a Roma, ove ha avuto
un lungo colloquio con il premier
italiano e Presidente di turno della UE Silvio Berlusconi, ha ribadito il ruolo
centrale di Arafat nel processo di pace.
Da parte israeliana si è palesato
tutt'altro avviso: il Governo ha deciso
in linea di principio l'espulsione di Arafat dai Territori, rinviando però
l'esecuzione immediata del provvedimento, soprattutto per la contrarietà
degli Stati Uniti, preoccupati delle ripercussioni sul già arduo processo di
attuazione della road map. Anche
l'Italia ha espresso disappunto per la decisione israeliana, sia nella persona
del ministro degli Esteri Frattini a nome della Presidenza UE, sia in una dichiarazione
letta dal Capo dello Stato Ciampi a margine del proprio incontro (12 settembre)
con Mubarak. Le reazioni di contrarietà alla decisione israeliana coinvolgono
anche tutti gli altri principali Stati membri dell'Unione europea, nonché la
Russia, gli Stati arabi e lo stesso Segretario generale dell'ONU.
Sempre l'11
settembre l'Unione europea, facendo seguito a un'intesa politica raggiunta il 6
settembre nel Vertice informale dei ministri degli Esteri dei Quindici di Riva
del Garda, formalizza l'accordo - in vigore dal giorno successivo - per
l'iscrizione anche dell'ala politica di Hamas
nella propria "lista nera" dei movimenti terroristici, con il
conseguente congelamento nel territorio dell'Unione di tutti i fondi
riconducibili al movimento palestinese.
Il 16 settembre gli Stati uniti si
avvalgono del diritto di veto in seno al Consiglio di sicurezza dell'ONU per
bloccare un progetto di risoluzione presentato dalla Siria, con il quale si
chiedeva a Israele di cessare dalle minacce di espulsione nei confronti di
Arafat. Il 19 settembre un analogo
testo, emendato per iniziativa della Presidenza italiana della UE nel senso di
esprimere anche una condanna degli attentati contro civili israeliani, viene
approvata da una larga maggioranza dell'Assemblea Generale dell'ONU.
Il 4 ottobre un nuovo grave attentato
provoca 19 morti israeliani a Haifa: Abu Ala condanna l'episodio, chiedendo ai
gruppi armati palestinesi di porre fine al terrorismo, ma ambienti del Governo
di Tel Aviv accusano esplicitamente l'ANP per l'attentato. La ritorsione di
Israele, immediata (5 ottobre),
colpisce per la prima volta dopo 21 anni il territorio siriano, ove i jet israeliani attaccano un obiettivo definito
"campo d'addestramento di terroristi": il raid viene duramente condannato dal ministro degli esteri iraniano
Kharrazi. Il Consiglio di Sicurezza dell'ONU si riunisce in seduta d'urgenza.
Intanto Arafat nomina Abu Ala a capo di un Governo
di emergenza, composto di soli otto ministri, dichiarando nel contempo lo stato
di emergenza nei Territori: il nuovo esecutivo, in base alla legge
palestinese, può governare per decreto, proprio perché nominato in presenza di
uno stato di emergenza. Trascorso un mese, tuttavia, dovrà chiedere la fiducia
del Consiglio legislativo palestinese.
Il 13 ottobre si chiarisce che almeno
temporaneamente Arafat ha prevalso sugli oppositori interni: si riunisce
infatti per la prima volta il nuovo Governo di emergenza, presieduto da Abu Ala
(che ha ritirato le dimissioni presentate il 9 ottobre).
Il 22 ottobre, l’Assemblea
generale delle Nazioni Unite ha approvato, con 144 voti a favore, 4 contrari e
12 astensioni, una risoluzione che chiede al governo di Tel Aviv di porre
termine alla costruzione del muro nei territori occupati palestinesi. L'Unione
europea e la Russia - componenti del “Quartetto” di promotori del piano di pace
(Road map) - hanno votato a favore della risoluzione, mentre gli Stati Uniti
(insieme a Israele, isole Marshall e Micronesia) hanno votato contro.
Il 12 novembre il nuovo
governo di Abu Ala riceve la fiducia del Consiglio legislativo palestinese
(CLP). IL governo è formato da 26 ministri, dei quali 22 appartenenti ad Al
Fatah, il movimento palestinese fondato e guidato da Yasser Arafat, 2
indipendenti e 2 esponenti di partiti minori.
Per la prima volta il papa Giovanni Paolo II ha parlato (16 novembre) del muro che il governo
israeliano sta costruendo. Il papa ha rinnovato la ''ferma condanna'' per ogni
azione terroristica compiuta in Terra Santa aggiungendo però che ''la
costruzione di un muro tra il popolo israeliano e quello palestinese è vista da
molti come un nuovo ostacolo sulla strada verso una pacifica convivenza”.
Prima giornata (17 novembre) della
visita a Roma del Premier israeliano Sharon, che ha incontrato i Presidenti
di Camera e Senato e la Comunità ebraica italiana. Nel corso di quest’ultimo
incontro, Sharon ha dichiarato che “l’Italia è il più grande amico che abbiamo
in Europa”.
Il Consiglio di Sicurezza dell'ONU ha approvato (19 novembre 2003) all'unanimità una risoluzione (n. 1515), presentata dalla Russia, che approva la Road Map e fa appello alle parti affinché vengano rispettati gli obblighi da essa previsti per il raggiungimento di due Stati che possano coesistere fianco a fianco in condizioni di pace e sicurezza. In risposta all’approvazione della risoluzione 1515, il governo di Israele ha diffuso un comunicato nel quale si precisa che l’attuazione della Road Map è comunque subordinata alle 14 riserve poste da Israele[7] e agli accordi fra Israele e gli Stati Uniti. Il comunicato aggiunge anche che il piano di pace può essere realizzato solo con negoziati diretti e intese con i palestinesi.
In una situazione di permanente conflitto, senza che l’attuazione della road map segnasse progressi, la strategia israeliana nel 2004 si è
progressivamente incentrata sull’approccio unilaterale a una serie di
questioni aperte, accompagnato da una lotta senza quartiere contro i gruppi
armati palestinesi. In tale contesto si pone certamente come principale
risultato la messa a punto del piano
Sharon per il ritiro unilaterale di Israele da Gaza e da parte della
Cisgiordania.
In dettaglio, il Piano prevedeva l’abbandono israeliano di tutti gli insediamenti e di tutte le strutture militari della striscia di Gaza, con la creazione di un’amministrazione fiduciaria internazionale che ne avrebbe curato il trasferimento di proprietà ai palestinesi (con eventuale indennizzo parziale a Iasraele). Il confine tra Gaza e l’Egitto sarebbe rimasto, almeno in una prima fase, sotto controllo israeliano, come anche lo spazio aereo di Gaza e la relativa fascia costiera. Il ritiro dalla Cisgiordania, di portata limitata, doveva comprendere quattro insediamenti minori, ma progressivamente l’esercito avrebbe ridotto la propria presenza in tutte le città della Cisgiordania, e smantellato i posti di blocco; tuttavia, apparivano rilevanti le previsioni volte a facilitare – mediante la costruzione di adeguate infrastrutture - la mobilità della popolazione palestinese, nonché la revisione del tracciato della barriera di sicurezza fatta in modo da lasciarne fuori una porzione maggiore di territorio palestinese.
Respinto dapprima dal partito di Sharon, il Likud, il Piano veniva poi approvato dal Governo (giugno 2004) e
dal Parlamento (ottobre 2004), e si rivelava come propedeutico a un sensibile
cambiamento nello scenario politico: l’esecutivo guidato da Sharon, infatti,
dopo il ritiro del partito Shinui di
Tommy Lapid, si trovava in forte minoranza all’interno della Knesset. L’approvazione del Piano
rendeva possibile gettare un ponte verso l’opposizione laburista, alla quale alla fine lo stesso Likud accettava di allargare il Governo, con la formazione di una
compagine di unità nazionale con otto ministri laburisti, che il 10 gennaio
2005 otteneva l’approvazione parlamentare. Non va dimenticato il fatto-chiave
che ha costituito lo sfondo per l’evoluzione politica israeliana, ossia la morte di Yasser Arafat, avvenuta l’11
novembre 2004 in un ospedale militare nei pressi di Parigi. Per la
successione di Arafat come presidente dell’ANP è emersa quasi subito la candidatura di Abu Mazen, che, pur
avversato dalle frange palestinesi più estremiste, il 9 gennaio 2005 veniva eletto presidente dell’ANP con una larga
maggioranza di voti.
Grandi speranze ha destato il primo atto significativo della presidenza di Abu Mazen, ossia l’incontro di Sharm-el-Sheik con Sharon, avvenuto l’8 febbraio 2005 alla presenza del presidente egiziano Mubarak e del re di Giordania: l’incontro non ha definito impegni specifici, ma in esso sono state rilasciate dichiarazioni significative della volontà di pace delle due parti. Tuttavia le fazioni palestinesi estremiste si sono dichiarate non vincolate dalle posizioni dll’ANP, per la quale ultima un primo campanello di allarme sono state le elezioni amministrative a Gaza, nettamente dominate da Hamas. In ogni modo, l’incontro di Sharm-el-Sheik ha sancito pro-tempore la fine, dopo quattro anni, della seconda Intifada: il Governo di Tel Aviv, dal canto suo, ha compiuto dopo l’incontro alcuni gesti di disponibilità, come la liberazione di circa cinquecento prigionieri palestinesi e la riapertura di diversi transiti chiusi da mesi. Inoltre, e non meno rilevante, Israele si è impegnata a trasferire al più presto sotto controllo palestinese due città, tra le quali Gerico.
Ben più rilevante è stata, nel 2005, l’attuazione del Piano Sharon, accelerata dopo che nel giugno 2005
la Corte Suprema israeliana ha rigettato numerosi ricorsi di coloni, con
l’argomentazione – invero di grande momento – che i Territori palestinesi non
sono parte integrante dello Stato ebraico, in quanto occupati a seguito di
eventi bellici. Già nel mese successivo veniva impedito l’accesso a Gaza agli
attivisti ebrei contrari allo sgombero, mentre in Israele gli stessi elementio
inscenavano numerose manifestazioni di protesta. Nel clima politico
surriscaldato l’ex premier Netanyahu
si dimetteva da ministro delle finanze. Nonostante il successo dello sgombero
di coloni da Gaza, le ripercussioni politiche interne vedevano da un lato il
rafforzamento nel Likud delle istanze
più oltranziste, e dall’altro la sconfitta di Shimon Peres nelle primarie
laburiste, a favore del leader sindacale
Amir Peretz, contrario alla prosecuzione della collaborazione di governo con
Sharon. Nei mesi di settembre e ottobre 2005, peraltro, si verificavano diversi
attacchi israeliani proprio contro la striscia di Gaza, in risposta a lanci di
missili e attentati perpetrati da estremisti palestinesi.
A questa situazione Ariel
Sharon ha reagito come in passato con una clamorosa svolta, ossia l’uscita dal Likud e la fondazione del partito Kadima (Avanti!), cui avevano aderito molti importanti esponenti della
destra e della sinistra, che i sondaggi
– in vista delle lezioni politiche del 28 marzo 2006 – davano in netto
vantaggio sui due tradizionali partiti di Israele.
Il Piano Sharon, come si è visto, prevedeva originariamente che il confine tra Gaza e l’Egitto sarebbe rimasto, almeno in una prima fase, sotto controllo israeliano: in realtà l’accordo raggiunto a metà novembre 2005, soprattutto per le pressioni USA su Israele, sulla riapertura entro dieci giorni del passaggio di Rafah ha visto l’accettazione israeliana di un confine diretto tra Gaza e l’Egitto controllato dai plaestinesi e dagli egiziani, con una mera supervisione a distanza degli israeliani, e la presenza di osservatori dell’Unione europea - guidati da un generale dei Carabinieri italiani -, che potranno intervenire in caso di controversie, ma anche procedere al fermo di persone o mezzi sospetti. L’accordo, che riflette anche le preoccupazioni della Comunità internazionale per il deteriorarsi della situazione economica a Gaza, include inoltre un collegamento tra Gaza e Cisgiordania mediante autobus scortati, la risistemazione del porto di Gaza e la riapertura entro il 2005 del valico commerciale di Karni, posto tra Gaza e Israele, e che permetterà allo Stato ebraico il controllo sulle importazioni.
Il clima di ottimismo seguito allo sgombero di Gaza e all’accordo su Rafah è stato però subito offuscato da un attentato suicida palestinese a Netanya, al quale sono seguite misure di rappresaglia decise da parte israeliana, e l’annuncio della ripresa delle esecuzioni mirate di esponenti palestinesi contigui al terrorismo. E’ stata inoltre creata una zona cuscinetto di 2,5 km. Nel nord della striscia, per cercare di contenere i lanci di razzi verso il territorio israeliano. A Gaza la situazione si presentava in termini di semi anarchia, con lotte intestine nell’ANP e iniziative in ordine sparso degli altri gruppi palestinesi, sempre nel segno della violenza. Per sovrammercato, il 29 dicembre Al Qaeda rivendica il lancio di missili dal Libano meridionale contro Israele, attività che finora era stata monopolio degli sciiti filoiraniani Hezbollah, che non si pensava avrebbero consentito all’ultra sunnita e wahabita Al Qaeda di assumere un tale livello di controllo nel loro territorio.
Nei primi giorni del 2006 Sharon, già colpito in dicembre da un leggero ictus e in procinto di essere operato al cuore, viene colpito da una grave emorragia cerebrale, dalla quale l’anziano leader – tuttora in vita, ma in stato vegetativo – non si è più ripreso. La fine della vicenda politica di Sharon, i cui poteri sono subito passati al vice premier Ehud Olmert, è un evento non previsto, ma suscettibile di rimettere in discussione il cammino di superamento del conflitto israelo-palestinese, e lo stesso futuro del partito Kadima, a tale obiettivo quasi interamente votato, nel progetto di uno Stato israeliano più piccolo – ma proprio perciò capace di mantnero il carattere ebraico -, da far coesistere con analoga entità palestinese.
A complicare la situazione è venuta la netta vittoria di Hamas nelle elezioni legislative palestinesi del 26 gennaio 2006: il movimento integralista ha conquistato la maggioranza assoluta dei seggi e il diritto a dar vita al nuovo Governo (il premier Abu Ala, conseguentemente, ha subito rassegnato il mandato). Caute ma improntate al pessimismo le reazioni di Ehud Olmert, consapevole dei riflessi negativi che la vittoria di Hamas potrebbe avere anche sul successo del partito Kadima.
Dal canto suo Hamas si trova di fronte al problema delle risorse con le quali finanziare l’ampio ventaglio di misure sociali promesse ai palestinesi: infatti, in mancanza di pprese di posizione nette contro la violenza e in favore degli accordi tra ANP e Israele, il rischio – in qualche caso già realtà – è quello di un congelamento sia dei fondi internazionali, sia di quelli di origine doganale o fiscale, che proprio in ragione degli accordi pregressi Israele versava alla ANP.
Dopo un periodo di incertezza, determinata anche dai possibili risultati delle ripetute pressioni internazionali su Hamas, il Governo israeliano ha messo in atto un’azione di forza: alla metà di marzo 2006 è stato attaccato con ingenti forze militari il carcere di Gerico, città ormai sotto il controllo dell’ANP, ottenendo dopo una giornata di combattimenti la resa dei detenuti. L’obiettivo dell’attacco erano sei detenuti, dei quali Israele temeva l’imminente rimessa in libertà, e in particolare tra questi Ahmed Saadat, capo del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (di ispirazione marxista e nazionalista araba). Saadat si trovava nel carcere di Gerico in attuazione di un’intesa pregressa, in quanto mandante dell’omicidio, nel 2001, del ministro israeliano per il turismo Zeevi. Rifugiatosi nel quartier generale di Arafat a Ramallah, Saadat fu destinato alla detenzione di Gerico da un accordo mediato dagli Stati Uniti, e in base al quale gli israeliani tolsero un pesante assedio a Ramallah.
Le reazioni palestinesi al blitz sono state violente, con attacchi di manifestanti ad uffici dell’ONU e dell’Unione europea, nonché il sequestro di undici stranieri, presto tuttavia rilasciati. L’attacco è stato definito da Abu Mazen un crimine imperdonabile e un’umiliazione per i palestinesi, i quali hanno attuato uno sciopero generale. Senza dubbio l’operazione, che ha rafforzato la posizione di Olmert nei sondaggi pre-elettorali, si è rivelata invece come ulteriore fattore di indebolimento per Abu Mazen e la sua visione più moderata, allontanando ulteriormente la prospettiva di un Governo palestinese di coalizione tra Hamas e Fatah. Non a caso, dopo ulteriori contrasti in merito al mancato riconoscimento, da parte di Hamas, dell’OLP (Organizzazione per la liberazione per la Palestina) quale vertice rappresentativo di tutto il popolo palestinese; si è giunti alla formazione di un Governo del solo Hamas, guidato da Ismail Haniyeh, che il 28 marzo 2006 ha ottenuto la fiducia del Consiglio legislativo palestinese. Nello stesso giorno si sono svolte le elezioni politiche israeliane, nelle quali il Partito di Olmert, Kadima, ha conquistato 29 seggi alla Knesset, maggioranza relativa ma meno ampia del previsto. I laburisti di Peretz hanno ottenuto 20 seggi, mantenendo sostanzialmente le precedenti posizioni, mentre il Likud è franato, con appena 12 seggi, gli stessi del partito religioso sefardita Shas. 11 seggi sono andati al partito di estrema destra degli ebrei russi, 9 alle liste arabe, 6 all’altro Partito religioso (ashkenazita), 7 ai pensionati, 5 al partito di sinistra Meretz.
Il movimento Hamas al Governo ha subito confermato di non voler procedere al riconoscimento di Israele, preferendo inoltre parlare di “tregua” più che di pace con Tel Aviv. In questo contesto i ministri degli Esteri della UE, riuniti a Lussemburgo il 10-11 aprile 2006, hanno deciso di interrompere gli aiuti finanziari diretti al Governo palestinese, mantenendo solo gli aiuti a carattere umanitario somministrati dalla Comunità internazionale; la decisione coinvolge anche gli aiuti forniti a livello bilaterale dagli Stati membri. In precedenza anche gli Stati Uniti avevano congelato i finanziamenti, mentre le Nazioni Unite hanno imposto ai propri funzionari di evitare incontri di livello politico con esponenti di Hamas. Un grave contrasto tra il presidente Abu Mazen e il Governo in merito al controllo prevalente delle forze di sicurezza palestinesi non contribuisce certo a rasserenare il clima nell’ANP.
Il 27 aprile è stato siglato un
accordo di governo tra il Partito Kadima e i laburisti, nel quale si
ammorbidiscono i toni rispetto al Piano enunciato qualche settimana prima da
Olmert, e che prevedeva sì il ritiro da ampie zone della Cisgiordania, ma anche
l’annessione di quelle con i più omogenei e più territorialmente contigui
insediamenti ebraici. In conseguenza, il
4 maggio il Governo Olmert ha ricevuto la fiducia della Knesset.
[1] In effetti il 14 dicembre 1998 la rappresentanza del Consiglio nazionale palestinese, convocato a Gaza alla presenza di Arafat e del Presidente USA Clinton, conferma l’abrogazione dei paragrafi in questione, il cui superamento era stato comunque già attestato da Arafat in una lettera a Clinton, approvata il 10 dicembre 1998 dal Consiglio centrale palestinese. Il carattere ristretto di tale organo faceva tuttavia considerare insufficiente il pronunciamento al Governo israeliano, che insisteva appunto per il voto del Consiglio nazionale palestinese espresso poi il 14 dicembre.
[2] La commissione, giunta a Gerusalemme nel mese di dicembre 2000, è guidata dall’ex senatore americano George Mitchell; ne fanno poi parte il Ministro degli Esteri norvegese Thorbjoern Jagland, il rappresentante della UE per la politica estera Javier Solana, l’ex Presidente della Turchia Suleyman Demirel e un altro ex senatore americano, Warren Rudman.
[3] Con il decreto-legge 22 maggio 2002, n. 97 (convertito dalla legge 19 luglio 2002, n. 141) recante “Misure urgenti per assicurare ospitalità e protezione temporanea ad alcuni palestinesi” è stato autorizzato l’ingresso e la permanenza nel territorio italiano, per un periodo massimo di dodici mesi, di tre cittadini stranieri (palestinesi) inclusi nella lista dei tredici nominativi indicati nell’intesa raggiunta tra Israele e Autorità palestinese. Successivamente, il decreto-legge 21 maggio 2003, n. 111, convertito dalla legge 8 luglio 2003, n. 174, ha disposto la proroga della permanenza dei cittadini palestinesi al 31 dicembre 2003.
[4] Abu Mazen è il nome di battaglia di Mahmud Abbas.
[5] Le riserve sono contenute in un documento assai dettagliato apparso il 27 maggio sulla stampa israeliana: in 14 punti vengono riassunte le questioni principali che per Israele si connettono inscindibilmente all'attuazione della road map. In sintesi, il documento richiama l'attenzione sul fatto che non si potrà passare ad una nuova fase senza il totale completamento della precedente. In ambito palestinese dovrà emergere e consolidarsi una dirigenza del tutto nuova, che si coordini con Israele nel processo di consolidamento democratico. Mentre il monitoraggio sui progressi della road map dovrà essere controllato dagli USA, lo Stato provvisorio palestinese scaturirà da negoziati tra le due Parti, e in nessun caso potrà avere proprie Forze Armate, né concludere Accordi a carattere militare, e i suoi confini e lo spazio aereo saranno controllati da Israele. I futuri Accordi definitivi saranno negoziati direttamente tra le Parti, e dovranno contenere il riconoscimento all'esistenza di Israele quale Stato ebraico, nonché la rinuncia al ritorno dei profughi nel suo territorio.
[6] Prima di assumere nel 1996 la Presidenza del Consiglio legislativo, Abu Ala (Ahmed Qrea) era stato il principale architetto degli accordi di Oslo del 1993 sull'autonomia della Palestina.
[7] Vedi nota 5.