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TESTO INTEGRALE DEGLI INTERVENTI DEI DEPUTATI STEFANIA PRESTIGIACOMO, DANIELE GALLI E PIETRO MARCENARO IN SEDE DI DISCUSSIONE SULLE COMUNICAZIONI DEL GOVERNO
STEFANIA PRESTIGIACOMO. Signor Presidente, signor Presidente del Consiglio, onorevoli colleghi, questo dibattito, il cui esito è scontato dati i numeri in questo ramo del Parlamento, ne siamo tutti consapevoli e ce lo ha confermato il suo stesso discorso, non segna l'inizio di una nuova fase di un nuovo cammino programmatico.
Siamo tutti al capezzale di un moribondo cui è stato somministrato un palliativo sapendo comunque che la sua sorte è segnata.
Dal libro dei sogni del programma dell'Unione, 280 pagine, siamo passati alla lista della spesa.
Non c'è speranza, non c'è futuro nei suoi dodici punti, che sono le ceneri del suo programma.
Ma pure su quelli già si sa che non c'è un'intesa, ma non c'è soprattutto chiarezza sulle scelte strategiche per il paese: non c'è sulla politica estera, non c'è sulle liberalizzazioni, non c'è sulle pensioni, non c'e sulle infrastrutture urgenti per il Paese.
Per non parlare dei Dico, di cui non sono rimaste nemmeno le ceneri, ma solo l'impressione, che in tanti avevamo intuito, di una sontuosa presa in giro ai conviventi e di una rapida ritirata strategica.
Onorevole Presidente del Consiglio, l'attuale situazione, che era inevitabile, è il risultato del suo travisamento dell'esito elettorale, che, riconta o non riconta dei voti, è stato politicamente e numericamente un pareggio di cui non avete voluto prendere atto.
Un anno fa, invece di percorrere strade di maggiore responsabilità, di maggiore senso delle istituzioni e di maggiore ragionevolezza per il bene del Paese, il centrosinistra ha preteso di imporre agli italiani, che per metà non vi avevano votato, il Governo più spostato a sinistra della storia della Repubblica. Un Governo Pag. 107che, oltre a non avere i numeri, non ha la coesione politica sui principali temi strategici.
L'unica cosa su cui in un anno siete stati d'accordo, dopo aver moltiplicato poltrone e sgabelli ministeriali, è stata una finanziaria di tasse non motivate dalla situazione economica che il Governo della Casa delle libertà vi aveva lasciato, eccezionalmente favorevole, e di aumento della spesa pubblica.
A proposito di aumento della spesa, i famosi ministeri senza portafoglio, che dovrebbero essere di indirizzo, sono diventati erogatori di spesa, non in sostituzione, ma in aggiunta alle spese dei ministeri con portafoglio.
E mistificando la reale condizione dei conti pubblici, sui quali la verità è finalmente emersa, avete inventato una stangata fiscale in una fase di ripresa economica, quando le imprese e i cittadini di ben altro avevano bisogno.
Ed anche il sostegno ai bassi redditi si è rivelato una presa in giro. Le buste paga dei lavoratori sono tutt'altro che migliorate; del cuneo fiscale tagliato, gli italiani non hanno visto niente, ma hanno capito benissimo che gli avete scippato i fondi del TFR.
Gli italiani, anche i vostri elettori, onorevole Prodi, sanno d'essere stati beffati. Sanno che dovranno pagare di più l'addizionale Irpef, che era bloccata da anni, e aspettano l'aumento dell'ICI, che adesso cercate di camuffare con espedienti retorici.
Abbiamo letto nei giorni scorsi le imbarazzatissime repliche del viceministro Visco, che ha tentato invano di replicare alle documentate analisi de Il Sole 24 Ore che ha dimostrato come le tasse locali che la finanziaria ha innescato peseranno soprattutto sulle famiglie a reddito medio-basso.
È questa, colleghi del centrosinistra, l'Italia che avete in mente? Con una politica demagogica state tentando di affossare una ripresa che era finalmente arrivata e che l'Italia, dopo aver resistito negli anni di congiuntura negativa, oggi dovrebbe assecondare, non deprimere.
E sapete perfettamente che la cosa che più nuoce all'economia, alle imprese, è la instabilità politica, l'incertezza, la mancanza di solide e chiare condizioni per lavorare e per crescere. Ancora pochi giorni fa il presidente di Confindustria, che certo non vi era ostile, ha denunciato i rischi di un black-out, a causa della instabilità politica, e non è un caso se il leader dei giovani industriali si è schierato fra i sostenitori del referendum elettorale, che la sinistra radicale e i cespugli di lotta e di Governo della sua variopinta coalizione vedono come il fumo negli occhi.
Io sono tra coloro i quali convintamente si battono per il referendum elettorale, ma naturalmente è il Parlamento che dovrebbe affrontare questo tema. Però si sentono discorsi strani. Si sentono discorsi su un sistema alla tedesca, magari «saltato all'amatriciana». Di tedesco alla fine rischia di restare solo il proporzionale. Di italiano invece si riaffacciano la mancanza di vincolo di coalizione e le preferenze. Questo significherebbe due cose: la fine del bipolarismo, con il ritorno alle vecchie liturgie governative che hanno garantito quarantacinque anni di inamovibilità della classe dirigente, e il ritorno del potenziale di inquinamento politico e clientelare che il sistema delle preferenze porta con sè.
Parlo di queste cose da siciliana, da persona che ha conosciuto quale pericolo mortale sia per la politica il meccanismo delle preferenze dove la società è più debole, dove il bisogno è più forte.
Reintrodurre le preferenze, magari per ingraziarsi un potenziale alleato di domani, significa restituire la politica di grandi aree del paese ai signori delle tessere, dei favori. Significa cancellare il voto di opinione, significa ripristinare meccanismi di selezione della classe politica legati al mercato dei consensi.
Io credo che il bipolarismo sia un valore non contrattabile, sia l'assicurazione del ricambio di politiche e classi dirigenti, sia un valore fatto di chiarezza nei confronti degli elettori, che non possono e non vogliono più rilasciare deleghe in bianco alla politica, ma vogliono scegliere Pag. 108chi li governerà e vogliono avere la possibilità, col voto, di cambiare governi e maggioranze.
Questa legge elettorale è certamente imperfetta, ma cambiarla non può significare tornare al passato, alla politica che produceva un Governo l'anno fotocopia del precedente, alla politica che per quasi cinquant'anni, qualunque fosse l'esito delle urne, ci ha dato sempre gli stessi governi e gli stessi governanti.
Onorevole Prodi, cambiare la legge elettorale si deve e si può. Ma a spingere questo cambiamento sarà la pistola puntata dal referendum. Quel referendum è lo scudo contro ogni attacco possibile al bipolarismo, contro ogni possibile intento dilatorio, contro chi vuole ricacciare indietro il nostro sistema, contro chi vuole chiudere le porte al ricambio della classe dirigente.
Io non credo che questa maggioranza abbia la capacità di avviare una stagione di confronto su questi temi, penso invece che ci sia chi punta a compromessi al ribasso.
Mi avvio a concludere parlando delle politiche femminili, che lei inserisce sempre nei suoi discorsi come elemento retorico di circostanza.
Lei ha giustamente affermato che i livelli d'occupazione delle donne italiane sono più simili a quelle dei paesi africani che di quelli europei. È vero; è anche vero però che sono cresciuti significativamente nei cinque anni di Governo Berlusconi, ma molto resta da fare.
Abbiamo sempre detto che i provvedimenti che sarebbero stati promossi su questo tema avrebbero avuto da parte nostra un'attenzione particolare e un serio impegno per convergere su soluzioni condivise.
Onorevole Prodi, lei, oggi come in campagna elettorale, parla tanto di questione femminile, ma in un anno cosa ha fatto? Quali scelte strategiche, quali nuove opzioni? Niente.
Non è un caso che la senatrice Franco abbia sviluppato il suo intervento di ieri al Senato proprio su questo tema.
Continuiamo a sentire «solo parole» sui servizi sociali e sugli asili nido; cercate di rivendere a noi le nostre stesse proposte che voi per cinque anni avete osteggiato, come ad esempio gli asili nido nei luoghi di lavoro. E intanto costringete i comuni ad aumentare i costi dei servizi per far fronte alle vostre stangate.
Colleghi del centrosinistra, ma pensate davvero che le donne italiane non riconoscano le vostre «patacche»?
Noi voteremo contro questo Governo, ma se aveste consapevolezza e lucidità politica dovreste prendere atto che, anche se riuscirete a mettere assieme una fiducia rabberciata dalle Camere, la fiducia degli italiani ormai l'avete persa.
E la scelta più responsabile e dignitosa sarebbe stata quella di passare la mano. L'Italia ve ne sarebbe grata.
DANIELE GALLI. Onorevoli colleghi, vi chiedo un atto di sincerità. Dareste voi fiducia a chi dichiara una coesione della maggioranza a parole, e viene smentito dai fatti?
Il Presidente Prodi parla di coesione, di nuovo slancio della maggioranza, di un elemento identitario riformista che unirebbe il centrosinistra nell'azione di governo.
Questo significa, in parole semplici che hanno però il pregio della chiarezza, negare l'evidenza.
Il collante riformista non può esistere in una coalizione dove si aggirano personaggi totalmente slegati da comportamenti di coerenza istituzionale; dove la cultura comunista rivoluzionaria, violenta e intollerante, che si alimenta della contrapposizione e dello scontro, tiene in scacco un'incerta componente moderata per puro peso elettorale.
L'animo riformista nella vostra coalizione non ha spazio e non ha che un filo di voce, troppo esile per essere ascoltato.
Una nave con troppi capitani non arriverà mai in porto: sarà la sua stessa ciurma che l'affonderà, perché troppi e continui saranno gli ammutinamenti.
Quando si parlerà di rifinanziamento della missione militare in Afghanistan, si Pag. 109discuterà di pensioni, o saremo ancora di fronte alla riforma del lavoro o alle grandi infrastrutture TAV? Dove andrà a finire il riformismo?
Dove andrà a finire la coesione della maggioranza?
Perché una coesione vera, stante le premesse, non ci può essere.
Onorevoli colleghi, l'unico elemento di coesione di questa maggioranza è l'odio - personale, prima che politico - contro Silvio Berlusconi.
Si tratta di una coalizione nata per dire no a qualcuno, non per governare: le sue troppe anime contrastanti le impediscono di agire concretamente ed efficacemente.
In sostanza possiamo dire che dopo aver vinto le elezioni ha esaurito il suo compito e la sua funzione: è sopravvissuta ai suoi stessi scopi, insiste a vivere e non si accorge che è già morta.
E tutto questo perché non ha una voce unica, ma parla con troppe lingue fra loro spesso incomprensibili.
Mandato a casa Berlusconi nello scorso aprile, più o meno legittimamente, a Prodi non resta che prendere atto - è solo questione di tempo - che ora a casa deve andarci lui. Ha cessato la sua funzione.
Non può governare, può solo agonizzare, continuando l'inutile sopravvivenza fra le mura del Palazzo e ad umiliare l'Italia all'estero.
È per onestà intellettuale e buon senso che non va concessa la fiducia a Romano Prodi, prima ancora che per le convinzioni politiche.
Il Presidente del Consiglio è ridotto come il famoso Arlecchino servitore di due padroni: la parte moderata e quella radicale massimalista del suo schieramento.
Per non scontentarne nessuna finirà, come ha già fatto, per scontentare tutti, soprattutto gli italiani.
Nessuno merita una simile maggioranza, nemmeno chi l'ha votata nel segreto dell'urna.
Negare oggi la fiducia a questo governo significa confermare la fiducia negli italiani: fiducia che gli italiani, in occasione delle prossime consultazioni elettorali, sapranno fare la scelta giusta, ricacciando questa maggioranza litigiosa e inaffidabile al ruolo di opposizione.
Cosa ha fatto questa maggioranza fino ad oggi?
Quelle che sono divenute patologie di sistema, erano fino a poco tempo fa problemi risolvibili che non sono stati risolti né affrontati, preferendo attuare soluzioni annacquate e di facciata, per non alterare gli equilibri politici.
Se una volta non si poteva scontentare il Pci, oggi hanno solo cambiato nome i titolari dei trasformismi, dei trasversalismi e degli inciuci.
State riproponendo i medesimi schemi della prima Repubblica, state riesumando il moloch politico che vi permette di sopravvivere, ma che porta allo sfascio il paese.
Signor Presidente del Consiglio, lei dichiara 12 punti - ben due oltre le tavole bibliche - come capisaldi non negoziabili, in nome dei quali si dovrebbe accordarle la fiducia: se questi punti sono il collante che determina la sopravvivenza di questa vostra bizzarra alleanza, e sono la sintesi delle circa 300 pagine di parole fumose gettate negli occhi dell'elettorato italiano dieci mesi or sono, credo che accordarle tale fiducia, da parte di chi lo farà, sia accanimento terapeutico.
Non eravate voi, non era per buona parte la sua maggioranza propensa all' eutanasia?
Ecco, è giunto il momento per dimostrare il coraggio di applicarla su di voi.
Ogni punto del programma che avete provato a realizzare ha di fatto messo in luce il nervo scoperto delle vostre divisioni: divisi su cosa realizzare, su come realizzarlo e sul perché realizzarlo.
Gli esempi forniti agli italiani durante il vostro fin troppo lungo recente passato sono molteplici: dalla politica estera che vi ha fatto cadere malamente; alla gestione della base di Vicenza; alle politiche sulle infrastrutture; all'«omunculus giuridico» della proposta Dico, che ora è divenuto figlio di nessuno, su cui non potete neppure esprimere un parere personale, pena Pag. 110la defezione dei vostri alleati, a riprova del fatto che come sempre vi distinguete per mancanza di coesione politica.
Come potrete essere concordi e uniti nel voto di fiducia di domani, basandovi sulla genericità e sull'ambiguità dei 12 punti, quando ognuna delle diverse anime che sostengono la maggioranza ha punti di vista e soluzioni diverse?
Parliamo ad esempio di un tema sociale, solo a parole un vostro cavallo di battaglia: parliamo di pensioni.
Lei cita generalmente un riordino.
L'Europa di cui lei è stato Presidente ci indica una chiara direzione, la sinistra massimalista che la sostiene ha una posizione diametralmente contraria a quella europea.
Lei parla di riordino: quale? In quale direzione intende agire? Come? Lo dichiari senza mezzi termini, vorremmo esserne edotti.
Torneremo a prima della riforma Dini? manterremo lo scalone? anche in virtù delle scadenze relative al Tfr credo che i lavoratori, in particolare i giovani, abbiano necessità di certezze comportamentali e non di rimandi ed illusioni a mero scopo elettorale.
Intende riconoscere e seguire la virtuosa strada del presidente Berlusconi sulla quale, nel pieno della più grande crisi economica degli ultimi decenni, si è realmente aumentato le pensioni minime a più di un milione di italiani, senza aumentare le tasse?
Lei con la sua finanziaria ha fatto strage nel portafoglio degli italiani con 67 nuove tasse, ponendo alla ripresa economica italiana un'ulteriore palla al piede, cosa intende fare di concreto e non solo a parole?
Un altro dei 12 punti annunciati per l'azione di Governo, è la «riduzione significativa della spesa pubblica», che lei cita come sempre senza indicarne il metodo di risoluzione. Tra l'altro siamo prossimi al rinnovo del contratto con i dipendenti pubblici, i cui stipendi sono mediamente aumentati negli ultimi cinque anni di circa il 15 per cento rispetto al settore privato.
Sembra, e la stampa lo evidenzia, che buona parte di questi aumenti sia avvenuta attraverso la contrattazione integrativa di ogni singola amministrazione, e tali aumenti sembrano essere stati generalmente concessi sotto forma di promozioni, come sempre contrattate e decise con il sindacato, su criteri basati ben poco sulla valutazione della reale capacità di lavoro di ciascuno, quanto sulla semplice anzianità di servizio, nonché su quelle valutazioni tanto care a certo mondo sindacale e a certa sinistra.
Quindi quale riforma propone per la pubblica amministrazione e per il pubblico impiego, ammesso che possa farlo senza disgregare la sua maggioranza?
Il sistema di tutela dei lavoratori della pubblica amministrazione, nell'univoca interpretazione dei bisogni della categoria espressa dal mondo sindacale, ha ciecamente e volutamente tenuto conto solo dell'assicurazione del posto fisso, evolvendosi recentemente solo sulla trasformazione dei contratti da tempo determinato a tempo indeterminato, e il mantenimento degli status collettivi, tralasciando di considerare come aspetto fondamentale l'incentivo alla gratificazione individuale, che gioca un ruolo significativo nell'efficienza dei dipendenti, giovando per ricaduta all'intero sistema. Una pubblica amministrazione efficiente determina un maggiore efficienza del sistema paese.
È nell'estraneità al contesto reale del paese che caratterizza la pubblica amministrazione che si ritrova gran parte della responsabilità del lievitare dei costi pubblici: è nel considerare il dipendente della pubblica amministrazione un semplice ingranaggio, o peggio un voto di scambio, che trova radici la difficoltà del risanamento della spesa pubblica.
Lei, Presidente, con la sua conclamata esperienza comunitaria e gli ottimi esempi dai quali avrà potuto cogliere ampia ispirazione, perché in questi mesi di governo non ha applicato minimamente quella esperienza?
Un Governo serio dovrebbe porsi la domanda e poi agire sul motivo per cui la pubblica amministrazione degli altri Pag. 111grandi paesi comunitari necessita solo del 50 per cento del personale da noi impiegato nel medesimo settore; un 50 per cento che garantisce il doppio della nostra efficienza.
Per questo e per innumerevoli altri motivi che il tempo concesso non mi permette di illustrare, le nego la fiducia.
PIETRO MARCENARO. Signor Presidente della Camera, signor Presidente del Consiglio, signori deputati, con questa crisi e con il suo superamento può aprirsi una fase nuova nella vita del Governo, in quella della maggioranza, nei rapporti tra maggioranza e opposizioni e, soprattutto, nel rapporto tra il Governo, la coalizione che lo sostiene e il paese e i cittadini italiani.
L'intesa politica tra le forze della maggioranza, sulla base della quale l'onorevole Prodi ha chiesto al Parlamento il rinnovamento della fiducia, è un fatto politico nuovo. La destra lo banalizzi pure. Noi tutti del centrosinistra dovremmo invece prenderne pienamente coscienza e adeguare ad essa i nostri comportamenti collettivi e individuali.
Nelle sue comunicazioni alla Camera, il Presidente del Consiglio ha tenuto a sottolineare senza minimizzazioni la natura politica della crisi che si è aperta e ha conseguentemente dichiarato che il Governo e la maggioranza intendono trarne fino in fondo gli insegnamenti conseguenti: insegnamenti di metodo e insegnamenti di merito.
Perché, in che senso, quella che abbiamo vissuto e della quale il Parlamento - sia pure in una atmosfera resa diversa dal voto di ieri del Senato - sta ancora discutendo deve essere considerata una crisi politica? Io mi soffermerò su due punti tra i molti che potrebbero essere affrontati: il primo, di merito, riguarda la politica estera del Governo; il secondo, di metodo, riguarda il centrosinistra, il suo pluralismo, la sua coesione. Gli italiani non si sbagliano quando, interpellati sul loro giudizio sul Governo, indicano la politica estera come il campo nel quale la novità è stata più rilevante e l'azione dell'esecutivo più efficace e - pur in un tempo estremamente breve - già ricca di risultati importanti.
L'azione del Governo non è stata caratterizzata dal navigare a vista e dalla logica del caso per caso. E neppure ci si è fermati per il timore delle differenze che potevano esistere tra le diverse forze della coalizione. È emersa invece con chiarezza una ispirazione, una visione, un progetto. E a mio parere questa chiarezza ha fatto sì che sia stato possibile comunicare con il paese e esserne capiti. E ha fatto sì che - nonostante i senatori Rossi e Turigliatto - la politica estera sia stato il campo di una dialettica positiva tra azione di Governo, opinioni pubbliche e movimenti e tra gli stessi partiti della coalizione.
Quelli che chiedono oggi il ritiro del contingente italiano dall'Afghanistan non vogliono la pace, semplicemente ricoprono con una patina ideologica la scelta di farsi gli affari propri e di lasciare che il mondo vada dove gli pare. Al contrario, i rappresentanti delle organizzazioni di volontariato che agiscono direttamente in Afghanistan sono venuti a dirci, nelle audizioni in Commissione nelle settimane scorse, che non di exit strategy ma di success strategy c'era e c'è bisogno. Certo che prima o poi bisogna venir via e che i contingenti militari possono contribuire a gestire una transizione, non sostituire in modo permanente una forza e una legittimità che per qualsiasi Governo può venire solo - in Afghanistan o altrove - da un diverso rapporto con il paese. Ma per dare davvero alla pace una possibilità il problema non è di venire via, ma di venire via bene, avendo ottenuto i risultati necessari.
Noi siamo oggi di fronte a una crisi politica e di consenso di quell'unilateralismo che ha trovato nell'intervento in Iraq la sua manifestazione più netta e più drammatica: ma una alternativa convincente e efficace è ancora lontana dall'essere stata costruita. Il punto è se si vuole partecipare nella comunità internazionale e in primo luogo nell'ambito del nostro sistema di alleanze alla costruzione di questa alternativa, se si vuole svolgere un ruolo positivo per costruire le condizioni Pag. 112di quel multilateralismo efficace del quale tante volte abbiamo parlato. Se lo si vuole fare e non semplicemente ritirarsi di fronte a un compito tanto arduo, è necessario prendersi le proprie responsabilità, e anche costruire un equilibrio tra principi e realismo senza il quale la politica sparisce e cessa di avere alcun significato.
Se con Max Weber la politica è il campo dell'etica della responsabilità, questo è vero elevato a potenza per quanto riguarda la politica estera. Declamare principi senza valutare le conseguenze e i risultati delle proprie azioni e senza misurare ogni volta il valore relativo delle diverse scelte, senza chiedersi ogni volta non solo cosa è bene e cosa è male ma anche cosa è meglio e cosa è peggio, costituisce sul tema della pace - se fatto da un uomo politico e non da un religioso - un comportamento profondamente immorale.
Noi, il centrosinistra, la maggioranza di governo dobbiamo sulla politica estera uscire da questa crisi, avendo rafforzato la convinzione che il nostro paese e il suo Governo possono svolgere un ruolo, dare un contributo nei prossimi anni per affermare in Europa e nel mondo nuovi indirizzi, nuove regole, istituzioni rinnovate che ridiano fiducia alla prospettiva della pace, della sicurezza, della giustizia, del riconoscimento dei diritti umani e della democrazia. Questa scelta che costituisce la vera novità della politica estera italiana - una novità che è resa possibile non solo dalle intenzioni soggettive ma da una esigenza e da una domanda che la crisi delle vecchie strategie pone a tutta la comunità internazionale - è praticabile solo se si fa fronte ai propri impegni e alle proprie responsabilità. E lo stesso rispetto degli impegni e degli obblighi che derivano all'Italia dall'appartenenza alla NATO - e che peraltro tutti i partiti del centrosinistra hanno riconosciuto sottoscrivendo il programma dell'Unione - non dovrebbero essere considerati solo come una necessità che viene da una vecchia eredità del passato, ma anche come una delle condizioni per partecipare alla costruzione di un nuovo futuro.
C'è bisogno di una discussione? Facciamola, e non solo in Parlamento. Perché per sostenere una linea di politica estera così ambiziosa e impegnativa noi abbiamo vitale bisogno di una opinione pubblica attiva, di una grande partecipazione, e di quelle straordinarie energie che hanno animato i movimenti per la pace in Italia e nel mondo. Bisogna che queste energie e queste forze siano attive, siano in campo, siano mobilitate, perché oggi la lotta per la pace e quella per dare al mondo forme di governo legittime che non sostituiscano semplicemente l'arbitrio del più forte al principio della sovranità nazionale, è a un passaggio cruciale. Facciamo vivere il pluralismo della coalizione non come una polemica confusa e insopportabile, nella quale l'unico obbiettivo sembra essere quello di portare via un iscritto o un voto al partito più vicino, ma come un confronto di contenuti, di argomenti, di proposte rivolte a tutti i cittadini, impegnandoci a partecipare a un dibattito pubblico trasparente, del quale le forze politiche avrebbero il dovere di innalzare e non di deprimere la qualità.
Naturalmente questo significa anche sapere come si decide e come il pluralismo della nostra coalizione non si traduce in paralisi dell'azione di Governo. Senza regole per decidere il pluralismo si traduce in potere di veto, una volta dei partiti più grandi, una volta di quelli più piccoli. Se dobbiamo in questa discussione essere sinceri e cercare di vedere la effettiva dimensione dei problemi che abbiamo di fronte noi dobbiamo sapere - anche e per questo Prodi ha fatto bene a parlare di crisi politica - che oltre alla crisi determinata nei giorni scorsi dal voto di alcuni senatori, noi attraversiamo da molte settimane una seria difficoltà nel rapporto con il paese, e anche con settori importanti dei nostri elettori. Questa difficoltà nasce in massima parte dal fatto di non essere stati capaci di dare una risposta soddisfacente ai problemi di coesione della coalizione e dello stesso Governo. E contrariamente a quanto qualcuno pensa, il manifestarsi di questa difficoltà lungi dall'accrescere la partecipazione, accentua la Pag. 113distanza dei cittadini dalla politica e la disincentiva drasticamente. Senza una risposta convincente su questo punto, anche con il voto di qualche senatore in più, le difficoltà della maggioranza e del Governo erano destinate a crescere.
Bene ha fatto quindi Prodi a porre come essenziale questa questione e a darne una soluzione - e questa volta è davvero il caso dire last but not least - nel dodicesimo punto.
A me pare che questo dodicesimo punto, che stabilisce il dovere della decisione, sia la condizione perché dopo questi mesi il Governo e la maggioranza escano dalle difficoltà che hanno conosciuto. Voglio solo ricordare, in primo luogo a me stesso, che il dovere di decidere - e sottolineo ancora la parola dovere - vale in particolare per i problemi difficili, che non possono essere accantonati.
Anche perché problemi facili non ce ne sono. Ogni volta la politica sembra dovere far «quadrare il cerchio» tra esigenze diverse e molto difficilmente conciliabili. E tuttavia Hic Rodus, hic salta.
È un impegno forte che viene chiesto a Prodi e a tutti noi, ai partiti più grandi e ai partiti più piccoli. Ma se viene meno questo punto la coalizione entra in crisi, non so se in Senato, certo nel suo rapporto con la società.
Se ci avrà permesso di affrontare e di dare una risposta accettabile a questo problema io penso che non sia di circostanza affermare, a proposito di questa crisi, che col voto di domani della Camera ci lasceremo alle spalle, «paion traversie, sono opportunità».