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Svolgimento di interpellanze urgenti.
(Condizione dei detenuti all'interno delle carceri italiane ed iniziative per garantire una detenzione rispettosa del diritto alla vita e degli altri diritti fondamentali degli individui - 2-00575)
PRESIDENTE. La deputata Balducci ha facoltà di illustrare la sua interpellanza n. 2-00575 (Vedi l'allegato A - Interpellanze urgenti sezione 5).
PAOLA BALDUCCI. Signor Presidente, sintetizzerò l'illustrazione della mia interpellanza, riservandomi un tempo maggiore in sede di replica.
L'oggetto di questa interpellanza urgente ha come riferimento una serie di suicidi che si sono verificati negli ultimi mesi. Lo spunto nasce dal suicidio avvenuto nella notte tra il 28 ed il 29 maggio 2007, secondo quanto si è appreso dalle agenzie di stampa. Un cittadino polacco di 26 anni, detenuto nel carcere romano di Rebibbia, nuovo complesso, si è tolto la vita, impiccandosi nella cella; secondo le notizie di stampa, questo detenuto lavorava in Italia da cinque anni, era padre di una bambina di sette anni residente in Polonia e da circa tredici mesi era in attesa di giudizio. L'uomo non aveva mostrato durante il trattamento penitenziario particolari segni di squilibrio mentale.
Questo nuovo e triste episodio riporta in primo piano la questione degli atti di autolesionismo che avvengono in carcere. Si deve segnalare che, dall'inizio dell'anno, nel solo carcere romano, si sono già verificati tre suicidi: quello di una detenuta tossicodipendente, in carcere da circa tre mesi, quello di un detenuto rumeno di 31 anni, che, anche in questo caso, si è tolto la vita in maniera drammatica e, infine, quello già citato, del cittadino polacco.
Nello stesso carcere, nel corso degli ultimi mesi del 2006, si erano registrati altri suicidi, ma non indicherò i nominativi, perché risultano nel testo dell'interpellanza.
Tali episodi impongono una seria riflessione sulla condizione dei detenuti all'interno degli istituti di pena italiani. ÈPag. 56necessario, infatti, rammentare che, ai sensi dell'articolo 27 comma 3 della Costituzione, le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.
Questa esigenza di umanizzazione del carcere si traduce nel bisogno di salvaguardare la dignità della persona detenuta durante tutto il periodo di permanenza in carcere.
Arrivando, in estrema sintesi, all'oggetto di questa interpellanza urgente - salvo aggiungere che il 4 giugno 2007 un giovane detenuto tunisino si è tolto la vita nella casa circondariale di Don Bosco in Pisa e che un altro suicidio è avvenuto il 2 giugno all'Aquila - vorrei sapere quali iniziative intenda intraprendere il Governo per tutelare la vita umana all'interno delle carceri e, conseguentemente, se ritenga necessario modificare il regolamento sull'ordinamento penitenziario, al fine di assicurare, attraverso una maggiore personalizzazione del trattamento, una detenzione giusta (rispettosa del diritto alla vita e degli altri diritti fondamentali degli individui), istituendo, se del caso, in ogni carcere degli appositi presidi specializzati per prevenire il rischio di suicidi e le altre emergenze legate ai disagi psicologici.
PRESIDENTE. Il sottosegretario di Stato per la giustizia, Daniela Melchiorre, ha facoltà di rispondere.
DANIELA MELCHIORRE, Sottosegretario di Stato per la giustizia. Signor Presidente, in risposta all'interpellanza si fa presente che il problema dei suicidi all'interno degli istituti penitenziari italiani è costantemente all'attenzione del Ministero della giustizia, che, soprattutto negli ultimi anni, ha cercato di intraprendere ogni iniziativa utile a ridurre tale drammatico fenomeno.
Come è noto, lo stato di detenzione può costituire una delle cause dell'autolesionismo e del suicidio. Anche se la sola detenzione non può ritenersi la causa di un disturbo psichiatrico, la stessa ne può comunque rappresentare un fattore scatenante, soprattutto in quei soggetti già affetti da un equilibrio mentale fragile prima dell'ingresso in carcere.
Il gesto autolesionistico o suicidario può essere dettato da diverse motivazioni conscie o inconscie, genuine o amplificate ed è condizionato sia da fattori estrinseci legati all'ambiente, sia da fattori psichici legati alle caratteristiche individuali.
L'atto autosoppressivo può assumere un significato liberatorio ed essere inteso come fuga da una situazione vissuta come insopportabile oppure assumere un carattere dimostrativo.
Talvolta, il detenuto ritiene che l'unico modo per farsi ascoltare sia quello di compiere un gesto di particolare gravità che può assumere connotazioni autolesive.
Sulla base di tali premesse, il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria fa presente che rilevare tempestivamente una possibile sindrome presuicidaria non è semplice e gli errori nella valutazione possono dipendere anche dalle ansie dello stesso valutatore.
Spesso, la cosiddetta sindrome da ingresso in carcere, che può comportare perdita dell'identità e abbattimento dell'autostima, compare tanto più frequentemente quanto più elevato è il livello di educazione, di sensibilità e di cultura del detenuto e si accentua quanto maggiore è il divario tra la vita fuori dalle mura del carcere e quella al suo interno.
Per evitare che si verifichino situazioni come quelle segnalate, l'amministrazione penitenziaria ha sempre impartito disposizioni, affinché il carcere diventi un luogo dove, oltre alla sicurezza, sia assicurato in modo costante anche il trattamento e la cura.
Linee guida atte a limitare il fenomeno del suicidio sono state già dettate con la circolare n. 3524/5974 del 12 maggio 2000.
Nel quadro dell'azione rivolta alla prevenzione del rischio suicidario, il Dipartimento ha recentemente predisposto una bozza di testo unico delle disposizioni che regolamentano i criteri da seguire a tal fine nei confronti dei detenuti. Tale bozza è in attesa di essere definitivamente emanata.Pag. 57
Si deve, altresì, far presente che, malgrado i recenti e tragici episodi ricordati dall'interrogante, il fenomeno dei suicidi all'interno delle nostre strutture penitenziarie è in netta diminuzione, poiché, alla data del 5 giugno 2007, il loro numero era pari a quattordici dall'inizio dell'anno mentre, alla stessa data dell'anno scorso, era pari a venticinque.
Per tutti i decessi indicati dall'interpellante sono state disposte inchieste amministrative, di cui non sono ancora noti gli esiti, ad eccezione di quelle relative ai detenuti Vollaro Ciro e Mariossi Giampiero che hanno escluso la sussistenza di responsabilità amministrative o disciplinari a carico di operatori penitenziari e sanitari.
Per quanto concerne il decesso del detenuto Mauro Bronchi, le relazioni sanitarie hanno evidenziato che questi è stato sempre tenuto sotto osservazione psichiatrica e sono stati posti in essere i necessari interventi psicoterapeutici, i quali non hanno avuto esito positivo, dato il rilevante stato ansioso del soggetto, verosimilmente collegato all'omicidio di una bimba di cinque anni, del quale lo stesso era imputato.
Quanto allo specifico tema delle modifiche all'attuale regolamento dell'ordinamento penitenziario, attualmente lo stesso non costituisce oggetto di interventi normativi da parte del Ministero della Giustizia.
Tuttavia, il delicato tema in argomento richiede un approccio di più ampio respiro. Infatti, nella maggior parte dei casi, il profondo disagio vissuto dai detenuti costituisce il portato - a valle - di un sistema sanzionatorio che - a monte - appare totalmente incentrato sulla pena detentiva.
Un diritto penale moderno non può non essere finalizzato al reinserimento sociale del condannato - principio canonizzato dall'articolo 27 della Costituzione - e tale finalità non può essere perseguita se non tramite la realizzazione di un diritto penale minimo, incentrato sulla depenalizzazione di condotte minori e sulla considerazione della sanzione detentiva quale extrema ratio.
In tale prospettiva, la commissione per la riforma del codice penale, presieduta dall'avvocato Giuliano Pisapia, prevede, nella delega relativa alla riforma della parte generale del codice, un cospicuo ampliamento del sistema sanzionatorio, mediante l'inserimento, quali pene principali, di sanzioni interdittive e, soprattutto, prescrittive, volte ad imporre al condannato comportamenti e divieti che, da un lato, impediscano la reiterazione del reato e, dall'altro, consentano allo stesso un completo reinserimento sociale, evitando il rischio di recidiva.
Quanto ai detenuti in attesa di giudizio, il problema tocca, oltre al regime sanzionatorio, un altro delicatissimo aspetto: quello della durata del processo penale.
Al riguardo, di recente il Consiglio dei Ministri ha approvato un disegno di legge presentato alla Camera dei deputati con il n. 2664, dal titolo: «Disposizioni per l'accelerazione e la razionalizzazione del processo penale, nonché in materia di prescrizione dei reati, tenuità del fatto, recidiva, confisca e criteri di ragguaglio tra pene detentive e pene pecuniarie».
Il disegno di legge si pone l'ambizioso obiettivo di coniugare le esigenze di garanzia dell'imputato con il principio costituzionale di ragionevole durata del processo, sancito dall'articolo 111 della Costituzione, mediante una revisione degli istituti del processo penale, al fine di tagliare numerosi tempi morti dello stesso.
Lo stesso obiettivo di fondo, del resto, è perseguito - con un lavoro di più ampia portata - dalla Commissione di riforma del codice di procedura penale, presieduta dal professore Giuseppe Riccio, il quale, nel rimeditare profondamente gli attuali istituti processuali, sta improntando il proprio lavoro al principio del cosiddetto garantismo efficientista nei termini sopra delineati.
PRESIDENTE. La deputata Balducci ha facoltà di replicare.
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PAOLA BALDUCCI. Signor Presidente, ringrazio il sottosegretario per le precise indicazioni, ma vorrei aggiungere alcune considerazioni.
Sono contenta che il sottosegretario abbia fatto riferimento a due riforme che, tuttavia, sono attese da troppi anni: mi riferisco alla riforma del codice penale e a quella del codice di procedura penale.
Ci troviamo infatti di fronte alla paradossale situazione di avere un codice penale che risale al 1930, e un codice di procedura penale, riformato nel 1988, ma che abbisogna ormai di una attenta rivisitazione.
In via preliminare, vorrei precisare che, anche se il mio intervento trae occasionalmente origine da recenti casi di suicidi, esso non è assolutamente un atto d'accusa nei confronti del sistema carcerario né degli operatori carcerari, i quali, ogni giorno, si battono con dedizione, capacità e disponibilità per migliorare le condizioni dei detenuti.
Allo stesso tempo, però, con estrema franchezza ritengo che un problema suicidi esista.
Dobbiamo partire da una realtà ineludibile e constatare - lo dico con amarezza - che, al di là delle oscillazioni dei dati che possono variare da un anno all'altro, in carcere si continua a morire. Come rilevato con attenzione anche dal sottosegretario, diverse sono le cause che possono determinare eventi così infausti: la disperazione scaturente dallo stato di abbandono psicologico, la mancanza di una prospettiva di reinserimento o la rassegnazione di essere relegati a vivere in un ambiente difficile che, a volte, non è in grado di cogliere le criticità individuali né di impostare - e questo tema mi sta molto a cuore - un trattamento personalizzato di recupero anche psicologico.
Non si deve commettere l'errore di considerare il carcere come un luogo di semplice espiazione, dove confinare tutte quelle persone che sono state espulse dal consorzio civile. I principi costituzionali ci ricordano che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.
L'articolo 27, comma 3, della Costituzione obbliga il legislatore ad improntare il sistema delle pene, ma anche le strutture penitenziarie e il trattamento carcerario al rispetto delle esigenze di umanizzazione e di risocializzazione.
Credo che l'azione legislativa debba rivolgersi verso due direzioni. In primo luogo - tema già annunciato ed affrontato dal sottosegretario - si tratta di rivedere le misure alternative alla detenzione, rilanciandone l'efficacia e la finalizzazione riabilitativa.
Allo stesso tempo, occorre ripensare l'istituzione penitenziaria, migliorando il regime di vita all'interno degli istituti, garantendo ai reclusi alcuni diritti inalienabili, tra cui quello di avere una vita attiva, impegnata nelle diverse attività rieducative, ricreative e di lavoro, nonché un'alimentazione corretta e il riconoscimento effettivo del diritto alla salute.
Insisto sulla necessità di garantire un trattamento finalmente individualizzato. Solo in questo modo il carcere potrà cogliere gli eventuali segnali di disagio e prevenire atti di autolesionismo. Ma non basta. Il carcere deve anche consentire ai reclusi di migliorare le proprie potenzialità lavorative e di coltivare gli studi, così da preparare il ritorno nella società senza traumi e lontano dal rischio di emarginazione. Vogliamo un carcere che ammetta, entro certi limiti, anche il diritto all'affettività. Per far questo, occorre creare spazi e strutture realmente idonee. Si tratta di un fattore importantissimo, che può contribuire a curare quelle fratture che si vengono a creare all'interno dei nuclei familiari e delle coppie a causa della detenzione.
Un esempio importante per il legislatore nazionale proviene dalla regione Lazio, che ha recentemente approvato una legge recante interventi a sostegno della popolazione detenuta, finalizzata a rendere effettivo il godimento dei diritti umani dei cittadini reclusi, nell'ambito della quale è prevista l'erogazione di serviziPag. 59sanitari e sociali attraverso un sistema integrato tra le istituzioni e il volontariato. In tale legge, ad esempio, la regione si impegna ad assicurare livelli di assistenza sanitaria equiparabili a quelli previsti per i soggetti liberi; si prevedono misure per l'esercizio del diritto al lavoro e alla formazione professionale dei detenuti. C'è il tentativo di favorire il ricorso alle misure alternative, potenziando il sistema integrato di rete sociale regionale e, inoltre, c'è l'impegno a favorire l'attività motoria e la pratica sportiva, nonché la vita relazionale dei detenuti. A mio avviso, tale iniziativa costituisce un segnale importante.
Tuttavia, ritengo sia giunto il momento di avviare una riforma complessiva dell'ordinamento penitenziario, in modo da potenziare le misure alternative alla detenzione, ad esempio aumentando il personale specializzato operante negli istituti. Sarà importante, inoltre, imporre precisi obblighi all'amministrazione sulle caratteristiche degli istituti penitenziari. Bisognerà, altresì, riconoscere uno statuto dei diritti del detenuto, nell'ambito del quale siano anche previste forme effettive di tutela.
Ritengo che ci siano tutte le condizioni per arrivare a questo. Noi Verdi siamo grati al Ministero della giustizia, che è stato sempre attento a tutte le nostre sollecitazioni, non solo per quanto concerne questo tema, ma anche per altre riforme che riguardano la giustizia penale, che deve essere efficiente, rigorosa e garantista per tutti i cittadini.
Infine, mi sia consentita un'ultima digressione. Se si vuole davvero trasformare i luoghi di detenzione, un primo e fondamentale passo verso l'effettiva umanizzazione del carcere potrebbe essere compiuto attraverso l'approvazione di una proposta di legge, che mi sta molto a cuore, già licenziata dalla Commissione Giustizia della Camera e che riguarda le detenute madri. Si tratta della proposta di legge Buemi, della quale sono relatrice, recante norme in materia di tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori, in cui si prevede, tra l'altro, l'istituzione di apposite case famiglia protette, da realizzare fuori dagli istituti, in cui potranno essere ospitati, e non più segregati, i figli minori delle detenute. Se si opererà nella direzione di umanizzare il carcere, sono convinta che saranno indirettamente favorite anche le esigenze di difesa sociale, poiché i detenuti verranno finalmente riconsegnati alla società come persone davvero riabilitate e pronte ad un reinserimento effettivo e duraturo nel mondo del lavoro.