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Svolgimento di interpellanze urgenti (ore 15,01).
(Iniziative in favore della deputata afgana Malalai Joya - n. 2-00622)
PRESIDENTE. L'onorevole Venier ha facoltà di illustrare la sua interpellanza n. 2-00622 (Vedi l'allegato A - Interpellanze urgenti sezione 3), concernente iniziative in favore della deputata afgana Malalai Joya.
IACOPO VENIER. Signor Presidente, sottosegretario Di Santo, siamo stati costretti a presentare questa interpellanza urgente per la risposta del tutto insufficiente che abbiamo ottenuto dal sottosegretario Giovanni Vernetti ad un atto di sindacato ispettivo presentato in Commissione affari esteri la scorsa settimana. Spero davvero che oggi il Governo voglia dare una risposta diversa a ciò che sottoponiamo, attraverso questo atto parlamentare, alle istituzioni, al nostro Esecutivo e all'intero Paese.Pag. 48
Bisogna ricordare chi è Malalai Joya: si tratta di una deputata, la più giovane del Parlamento afgano, di una militante per i diritti civili, una donna coraggiosa impegnata nell'organizzazione della società civile afgana, la quale ha avuto un ruolo, con la sua organizzazione, nella denuncia della situazione terrificante e mostruosa delle donne, degli uomini e dei diritti civili in Afghanistan, ben prima che la comunità internazionale, sulla spinta degli Stati Uniti, aprisse gli occhi e intervenisse - anche in modo così sbagliato - in tale Paese.
Le donne in Afghanistan si sono battute, da decenni, contro tutti i fondamentalismi e hanno continuato a farlo contro le ipocrisie della cosiddetta esportazione della democrazia e dei suoi alleati in Afghanistan.
Malalai Joya è stata minacciata di stupro all'interno dell'aula del Parlamento afgano. Malalai Joya, che è una deputata, è stata espulsa e cacciata dallo stesso Parlamento perché si è permessa di ricordare come in quella sede - come riportano tutte le agenzie dei diritti umani e tutte le strutture che si occupano dell'Afghanistan - siedano criminali di guerra, macellai della propria popolazione, trafficanti di droga, ex talebani, ossia signori che si sono votati da soli - per sé - l'amnistia dalla responsabilità - come ha detto Malalai Joya - di aver abusato e strumentalizzato il termine jihad per realizzare un macello nel loro Paese e per trasformarlo in un inferno.
Insomma, siamo di fronte ad una personalità che dovrebbe rappresentare il punto di riferimento per chiunque abbia a cuore i diritti umani, lo sviluppo della democrazia e la crescita di una società civile; eppure questa espulsione da quella che è utilizzata come istituzione che formalmente legittima il Governo Karzai - il Parlamento afgano - non ha dato scandalo e, addirittura, il nostro stesso Governo, come ho avuto modo di dire e di replicare al sottosegretario Vernetti, ne ha dato una lettura minimalista, quasi che fosse un problema legato alla divisione dei poteri in Afghanistan.
Noi siamo a pochi giorni, sottosegretario Di Santo, dall'apertura qui a Roma di una conferenza internazionale proprio sull'Afghanistan e sulla situazione dello Stato di diritto e del bilancio dell'azione dell'Italia, la quale si è candidata in Afghanistan proprio per un ruolo nella costruzione di un sistema giuridico; quelle poche risorse che il nostro Stato non dedica all'intervento militare dichiara di investire proprio nella costruzione di un percorso che deve portare al primato della legge e dello Stato di diritto in Afghanistan.
In Afghanistan, in questi ultimi giorni, abbiamo avuto il sequestro, la detenzione senza processo, la probabile tortura e il rilascio - anche nelle forme in cui è avvenuto - di Abdullah Hanefi, uomo fondamentale per la soluzione del caso Mastrogiacomo, il quale è stato detenuto senza alcuna garanzia nelle carceri afgane, che tutte le agenzie indipendenti ci descrivono come luoghi dell'orrore e della violazione sistematica dei diritti fondamentali della persona e dell'umanità.
Abbiamo avuto, sottosegretario, stragi terrificanti operate dalle strutture militari della NATO, anche in zone sotto comando italiano, con operazioni che avevano quale motivazione quella di colpire organizzazioni terroristiche o criminali di guerra che, però, in forma diversa, siedono, come ho già detto, all'interno delle stesse strutture istituzionali del Governo afgano.
Abbiamo inoltre avuto - ed il caso è oggetto, appunto, dell'interpellanza in esame - l'espulsione di un membro del Parlamento per il semplice fatto di essersi permessa di denunciare questa situazione, di portare una critica politica, etica, morale alla situazione delle istituzioni afgane, di non essersi piegata ad essere portavoce degli interessi di questi tipi di organizzazioni criminali o degli interessi multinazionali, internazionali che agiscono in Afghanistan. Per tali motivi ci aspettiamo che il nostro Governo possa intervenire in modo diretto e molto deciso sulle autorità afgane, perché Malalai Joya possa tornare a svolgere la sua azione all'interno del Parlamento, ma, soprattutto, perché laPag. 49società civile sia il nostro interlocutore in Afghanistan, perché queste donne coraggiose sentano di essere loro lo strumento della costruzione di ogni ipotesi di democrazia, non certo questi personaggi che si sono riciclati, che hanno cambiato il colore del loro turbante e che oggi siedono nelle istituzioni cosiddette dell'Afghanistan.
Se noi faremo mancare il nostro appoggio a questa realtà, avremo davvero mancato di ogni efficacia nell'affrontare una situazione che è disperata non perché manchino interlocutori in Afghanistan ma perché gli interlocutori sono stati abbandonati per decenni secondo la logica degli interessi geopolitici che portavano gli Stati Uniti, prima ad armare quella jihad contro i russi, poi a sostenere, attraverso il loro alleato pakistano, la vittoria dei talebani e infine, in seguito, ad abbattere coloro che fino a pochi mesi prima erano agenti della CIA, come Bin Laden, per instaurare un nuovo regime, che ben poco si differenzia, come ci dicono gli osservatori indipendenti, da quelli precedenti.
Per tutte queste ragioni, siamo a fianco di Malalai, delle organizzazioni che la sostengono e vorremmo prendessero questa posizione anche il nostro Paese e il nostro Governo.
Mi riservo di replicare alla risposta che fornirà il Governo; però, ribadisco che l'iniziativa parlamentare e istituzionale non può piegarsi, non può essere subordinata ad alcuna azione di tipo militare. Guai se il nostro Paese non sapesse vedere la realtà di ciò che sta avvenendo e confondesse dei criminali con degli interlocutori!
PRESIDENTE. Il sottosegretario di Stato per gli affari esteri, Donato Di Santo, ha facoltà di rispondere.
DONATO DI SANTO, Sottosegretario di Stato per gli affari esteri. Signor Presidente, il tema sollevato dall'interpellanza è stato già oggetto di un'interrogazione a risposta immediata in Commissione, il 7 giugno scorso. Ricapitolo i fatti. Lo scorso 21 maggio, alla Camera bassa del Parlamento afgano, si è votato, per alzata di mano e senza conteggio dei voti, sull'espulsione della deputata Malalai Joya. La procedura è stata avviata in applicazione dell'articolo 70 del regolamento parlamentare, che proibisce ai deputati di insultarsi reciprocamente, dopo che, in un'intervista, la deputata aveva espresso opinioni gravemente offensive nei confronti dei colleghi.
L'onorevole Malalai Joya ha ora fatto appello alla Corte suprema afgana. La sua posizione si basa non solo su un'interpretazione del regolamento parlamentare diversa da quella portata avanti dall'istituzione, ma soprattutto sull'articolo 101 della Costituzione afgana, che stabilisce che nessun membro dell'Assemblea nazionale è perseguibile per le opinioni espresse nell'esercizio delle proprie funzioni. Il rango di tale norma dovrebbe porla al di sopra di ogni altra fonte legislativa.
In questo momento non è chiaro quale possa essere l'esito della vicenda, anche perché in questo momento il Parlamento afgano è chiuso e riaprirà solo a metà luglio. È tuttavia fin d'ora possibile affermare che una parola definitiva di chiarezza potrà essere data dalla Corte suprema afgana.
La questione riguarda quindi, in questa fase, i rapporti fra due poteri della Repubblica afgana - la Corte suprema e il Parlamento - le cui prerogative sono chiaramente stabilite dalla Costituzione di quel Paese.
In questo contesto un intervento sul Governo afgano rischierebbe di apparire quantomeno contraddittorio.
Proprio noi abbiamo incoraggiato e incoraggiamo l'Afghanistan, nel quadro delle attività di assistenza alle operazioni di institution building, ad adottare una piena separazione fra i poteri esecutivo, legislativo e giudiziario.
Sarebbe quindi difficile giustificare un intervento sul Governo afgano per modificare una decisione che il Parlamento afgano ha adottato sulla base del proprio regolamento interno e che è attualmente al vaglio della massima istanza giudiziaria del Paese.Pag. 50
E questo, torno a ripetere, indipendentemente dalla valutazione di merito sulla vicenda menzionata dall'onorevole interpellante.
Ciò che potrebbe essere fatto, semmai, è individuare forme di interazione paritaria fra Parlamenti che consentano ai nostri rappresentanti di far pervenire ai colleghi afgani le proprie opinioni, in attesa che la Corte di giustizia afgana si esprima sulla vicenda e di avviare, se del caso, forme proficue di collaborazione e di cooperazione interparlamentare.
Vorrei comunque aggiungere alcune valutazioni di carattere generale sulla tutela dei diritti umani e sul rispetto dei principi dello Stato di diritto in Afghanistan.
L'Italia, come noto, è fortemente impegnata nella stabilizzazione e nella ricostituzione dell'Afghanistan e, dal 2001, coordina lo sforzo internazionale nel settore della giustizia e dello stato di diritto, nella convinzione del ruolo fondamentale che la giustizia ed i principi dello Stato di diritto possono svolgere nel quadro complessivo della ricostruzione del Paese: senza giustizia infatti non si può avere sicurezza, democrazia, diritti umani e sviluppo economico.
In tal senso ci si è sempre espressi nei frequenti contatti intrattenuti ai più alti livelli delle istituzioni afgane. E proprio nella direzione di tale sforzo si colloca l'organizzazione della conferenza Rule of law in Afghanistan, che si terrà a Roma i prossimi 2 e 3 luglio.
Purtroppo la situazione in Afghanistan - a causa anche delle tormentate vicende storiche attraversate da quel Paese, poc'anzi richiamate dall'onorevole Venier - rimane a livelli ben lontani da quegli standard necessari per ogni sistema basato su di un reale Stato di diritto, sul pieno rispetto dei diritti umani e delle libertà individuali. Proprio tale situazione è d'altronde all'origine del poderoso impegno intrapreso dalla comunità internazionale, nel quale l'Italia svolge un ruolo importante, per avviare quel processo di formazione e sostituzione di un sistema compatibile con i principi di uno Stato di diritto. Tale processo, come ho appena ricordato - ma giova ribadirlo ed averlo sempre bene a mente - è estremamente lungo e complesso.
Va detto, al tempo stesso, che peraltro l'Afghanistan è parte di alcuni strumenti in materia di salvaguardia dei diritti umani: la Convenzione contro la tortura, la Convenzione sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne e la Convenzione per i diritti del fanciullo. Il Paese ha inoltre firmato - ma non ancora ratificato - il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, la Convenzione sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale ed i Protocolli opzionali alla Convenzione sui diritti del fanciullo (il primo riguardante il diritto dei bambini coinvolti nei conflitti armati e il secondo la vendita dei bambini e la pedo-pornografia), ed ha ratificato lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale, a dimostrazione che l'azione internazionale gradualmente inizia dare i suoi frutti.
Siamo, dunque, consapevoli delle mancanze che, certamente, ancora persistono nel sistema dello Stato di diritto afgano e il caso della parlamentare Malalai Joya ne è l'ennesima prova. Il Governo ritiene, tuttavia, che pur fra infinite difficoltà e con tempi certamente lunghi si possa dire che, con lo sforzo congiunto della comunità internazionale, a livello di Stati e organizzazioni internazionali, e con l'appoggio della società civile, oltre che con l'impegno dello stesso Governo afgano, ci si sia avviati sulla strada del ristabilimento delle condizioni minime di uno Stato di diritto.
PRESIDENTE. L'onorevole Venier ha facoltà di replicare.
IACOPO VENIER. Mi dispiace, sottosegretario Di Santo, non poter assolutamente dichiararmi soddisfatto della «seconda» risposta da parte del nostro Governo su tale caso.
Nascondersi dietro una presunta divisione dei poteri, in un Paese dove il Presidente Karzai rappresenta poco più che l'autorità sulla capitale e dove chiunquePag. 51si batta per i diritti civili - anzitutto, le donne per le loro libertà - rischia la vita e paga con la vita questo impegno; nascondersi dietro questo presunto ruolo delle istituzioni afgane, che sono ancora oggi strumenti nelle mani di organizzazioni legate al narcotraffico e di uomini che hanno commesso orrendi crimini contro le proprie popolazioni (criminali che ancora oggi controllano parti del proprio Paese con le loro bande armate); ebbene, condursi in tal modo, significa abbandonare tale persona e anteporre il presunto interesse dello Stato alla propria collocazione in quel contesto ai veri interlocutori che potrebbero fare crescere un'alternativa in quel Paese. Significa non mandare un messaggio chiaro alla società civile di quel Paese, che faticosamente e difficilmente tenta di trovare una sua strada attraverso le interlocuzioni internazionali.
È tutta qui la nostra critica al doppio standard seguito che ci ha fatto scegliere una via militare, e non politica, nella relazione con quel Paese: faremo una conferenza sul ruolo della legge mentre non sappiamo dire una parola decisa e ferma sul fatto che la legge, il luogo stesso della legge, in Afghanistan vengono violati (e ne viene travolto il significato) proprio attraverso l'espulsione di una donna ovvero di quell'elemento femminile che, secondo le comuni affermazioni, giustificava, più di altri, l'azione e l'intervento militare. L'espulsione di tale voce dal luogo della legge! In nome di cosa? In nome del fatto che tale donna ha avuto il coraggio di affermare ciò che sappiamo tutti e che facciamo finta di non dire, ovvero il ruolo che ancora oggi il traffico di droga, i signori della guerra e le bande criminali che controllano quei luoghi hanno nella spartizione delle istituzioni di quel Paese.
Quali passi avanti potremo compiere mascherandoci dietro tale tipo di formalismi? Ritengo che qui vi sia un punto politico da affrontare subito, perché ovviamente vi è un nesso tra tutto ciò e il modo in cui il nostro Paese è situato in quel contesto.
Come già affermato, noi abbiamo approvato il rifinanziamento della missione militare in Afghanistan nel quadro di una stabilizzazione e di una conferenza di pace che devono portare ad un ruolo diverso la nostra presenza: non militare, ma costruita intorno ad un progetto delle Nazioni Unite. Qui si misurano gli insuccessi della nostra presenza!
Non riusciamo ad ottenere la conferenza di pace e le istituzioni afgane vengono trasformate, anche attraverso atti di questo tipo, in istituzioni che legalizzano, che concedono l'amnistia a quanti sono stati (e sono ancora) protagonisti della tragedia della guerra civile in Afghanistan. Guerra che ha visto contrapposti fondamentalismi opposti sul piano militare, ma coerenti nel negare i diritti di quel popolo.
Ecco perché non possiamo essere soddisfatti della risposta del rappresentante del Governo; certo, svilupperemo un'azione parlamentare, ma il nostro Governo non sta in Afghanistan come un osservatore neutro, è parte della legittimità stessa di quelle istituzioni che, senza l'appoggio del nostro Paese, crollerebbero come un castello di carte.
Pertanto, lo ripeto, torneremo ad agire politicamente nei confronti del Governo italiano; però, si tratta di un fatto, di un passaggio che ci segna politicamente. Se non riusciamo ad affermare posizioni come queste, sarà sempre meno accettabile e comprensibile dare un sostegno a quella che da alcuni, anche dentro la maggioranza, viene ancora considerata una missione in grado di contribuire ad una evoluzione positiva di quel Paese. In realtà, invece, tale missione rischia di tradursi semplicemente in una sostituzione di regime senza alcuna modifica strutturale delle relazioni civili e della qualità dello Stato di diritto, dell'affermazione dei diritti di quelle popolazioni.
Per tutte queste ragioni, non siamo soddisfatti e penso vi sia la necessità che nel nostro Governo si apra una riflessione ancora più profonda su quali possano essere le conseguenze di giustificazioni molto formali, molto burocratiche, ma che cambiano la natura politica dei mandati che abbiamo conferito.