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Si riprende la discussione (ore 12,34).
(Ripresa discussione sulle linee generali - A.C. 3178-A)
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Burgio. Ne ha facoltà.
ALBERTO BURGIO. Signor Presidente, signori membri del Governo, colleghe e colleghi, su una considerazione, a mio avviso, siamo tutti d'accordo: l'Assemblea si accinge a discutere - se il Governo non prenderà la decisione, a nostro parere non opportuna, di porre la questione di fiducia - un provvedimento importante che comprensibilmente ha destato, fin dall'inizio, grande attenzione e anche polemiche.
PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE
PIERLUIGI CASTAGNETTI (ore 12,35)
ALBERTO BURGIO. Il disegno di legge in esame «tocca» aspetti molto rilevanti della condizione sociale e di quella lavorativa: dalla previdenza ad aspetti fiscali e retributivi, a figure contrattuali di primaria importanza. Data la sua complessità, il giudizio non può che essere articolato, d'altra parte la ristrettezza dei tempi ci impone in questa sede una valutazione riferita ai soli aspetti cruciali, sui quali si è concentrato anche l'esame della XI Commissione.
La decisione di porre la questione di fiducia, ventilata in questi giorni e ancora al vaglio del Governo, non ci sembra opportuna; non vediamo infatti la ragione di blindare il provvedimento, impedendo una discussione che si svilupperebbe con ogni probabilità in modo costruttivo, come è accaduto sin qui nella Commissione di merito.
Stiamo, dunque, seguendo un iter del tutto regolare e non vi è alcun bisogno di introdurre «blindature». Per tale motivo, chiediamo al Governo di non cedere a questa tentazione, almeno fin quando non vi sarà la «prova provata» che la Camera non è in condizione di rispettare il calendario che si è data.
In quel caso - ma solo in quel caso - la posizione della questione di fiducia rientrerebbe in una prassi regolare e sarebbe a nostro giudizio accettabile, purché - beninteso - il testo di riferimento fosse quello licenziato dalla Commissione che è, sino a prova contraria, l'istituzionePag. 28parlamentare che nel pieno delle proprie prerogative ha lavorato e deliberato sulla materia.
Una decisione diversa, che cancellasse questo lavoro, costituirebbe ai nostri occhi una forzatura incomprensibile, che rischierebbe di apparire lesiva delle prerogative del Parlamento, costituendo un precedente decisamente negativo. Il Ministro Ferrero ha parlato in proposito di uno sfregio all'ordinamento democratico e siamo del tutto d'accordo con tale giudizio.
Riguardo al lavoro della Commissione, sappiamo che proprio su questo si sono scatenate le polemiche di chi teorizza la presunta intangibilità del Protocollo. Sappiamo che si è preso a pretesto il lavoro della Commissione per sostenere che il Protocollo sarebbe stato stravolto. Sono state dette a tale proposito enormità anche da parte di personaggi molto autorevoli, che dovrebbero, in quanto tali, misurare attentamente le parole.
Secondo una tesi sostenuta in modo convergente da alcuni imprenditori e da taluni dirigenti sindacali, il Parlamento si sarebbe dovuto astenere da qualsiasi modifica, trattandosi di un accordo tra le parti sociali.
Si è aggiunto con toni vagamente minacciosi che qualunque cambiamento del testo del 23 luglio, peraltro già lievemente modificato, sarebbe responsabile di un crimine capitale: niente meno che la definitiva messa a morte - così si sono espressi sia il presidente della Confindustria, sia il senatore Dini - della concertazione.
Circa la concertazione possiamo avere opinioni diverse, ma lasciamo da parte questo discorso e occupiamoci della pretesa che il Parlamento si limiti a ratificare un accordo tra le parti sociali e il Governo. Tale pretesa mi pare rifletta una concezione corporativa, in base alla quale le leggi - perché di una legge stiamo parlando e non di un contratto - debbano essere emanate dai corpi intermedi, diretta emanazione degli interessi particolari. È una concezione che semplicemente nega in radice l'esistenza stessa di una società quale fonte dell'interesse generale e, per tale ragione, fonte della sovranità.
Si capisce che la tesi esposta piaccia agli industriali e alla destra; inquieta e allarma il fatto che seduca anche taluni dirigenti delle maggiori organizzazioni sindacali, che, evidentemente, non vedono i pericoli che si annidano in un modello del genere, qualora si affermasse. Infatti, se tutto si riduce al conflitto tra interessi particolari, è poi inevitabile che vinca l'interesse più forte, senza che possa darsi alcun terreno di regolazione, alcun intervento arbitrale sovraordinato.
Ad ogni modo, quanti in questi giorni «tuonano» e «s'impancano» a maestri di teoria politica, farebbero buona cosa a rileggersi la Costituzione, che - lo sappiamo - sta stretta a molti ma è ancora vigente: a Costituzione vigente le leggi sono emanate dal Parlamento.
Tuttavia, appare fondata una critica al metodo seguito dal Governo. Mi pare lo abbia riconosciuto anche l'onorevole Soro, che ha giustamente osservato che il Governo avrebbe dovuto cominciare il percorso dal Parlamento per ottenere una delega circostanziata, in base alla quale impostare il confronto con le parti sociali.
L'onorevole Soro ha ragione e dispiace che il segretario del neonato Partito Democratico si sia espresso su questa materia in modo difforme dal suo capogruppo. Sta di fatto che non si sarebbe dovuto dare al Protocollo uno statuto di per sé incompatibile con le prerogative costituzionali del Parlamento.
L'incontro e l'accordo tra le parti sociali è un elemento rilevante che fornisce al Parlamento importanti elementi di giudizio e di orientamento, ma non può precostituire un vincolo per il legislatore, al quale compete la piena sovranità sul piano normativo. Ciò andava detto con chiarezza fin dall'inizio del percorso, per prevenire le polemiche di questi giorni, facilmente prevedibili. Sarebbe, dunque, il caso di evitare ipocrisie e strumentalità.
Due sono le questioni sostanziali che dovrebbero contare, a nostro giudizio, per chi ha davvero a cuore i diritti e gli interessi dei lavoratori di questo Paese e non soltanto di una più o meno astratta economia.Pag. 29
La prima questione chiama in causa la maggioranza e il Governo: vi sono alcuni impegni del programma dell'Unione che attendono di essere onorati. Nel programma si prevede la cancellazione delle tipologie di lavoro più precarizzanti istituite dalla legge 14 febbraio 2003, n. 30, e si prevede, altresì, di introdurre vincoli ai contratti a termine ben più pesanti di quelli di cui stiamo parlando. Nel programma è scritto, testualmente, di motivazioni legate all'oggettivo carattere temporaneo delle prestazioni. Se questo è vero, le modifiche apportate dalla Commissione che si muovono in questa direzione dovrebbero essere considerate semplici atti dovuti e non già dare adito a polemiche politiche in seno alla maggioranza.
La seconda considerazione riguarda tutti coloro che intendono difendere i diritti del lavoro, a cominciare dalle organizzazioni sindacali: a nostro avviso, quel che conta non è tanto chi fa una cosa, chi sigla un accordo, chi propone una modifica o chi vara una norma; quel che conta, alla fine, è (o dovrebbe essere) il risultato, che dev'essere migliorativo nell'interesse dei lavoratori. In questo spirito ci siamo mossi e intendiamo continuare a muoverci, e con questo spirito ciascuno dovrebbe valutare il contributo fornito da tutti gli attori impegnati.
Veniamo, dunque, agli aspetti di merito, limitandoci - come dicevo - ai più importanti: per quanto concerne la previdenza, signor Ministro, non abbiamo mai nascosto il nostro giudizio non positivo sulla riduzione dei coefficienti, sulla triennalizzazione del ricalcolo e sul modo con cui si è modificato lo «scalone», limitandosi a diluirlo in tre anni e, anzi, ipotizzando persino un maggiore innalzamento dell'età pensionabile.
Non abbiamo condiviso queste misure per la semplice ragione che non è vero che i conti della previdenza siano in rosso. I conti, sulla base dei quali sono state varate le riforme previdenziali nello scorso decennio (le quali hanno ridotto drasticamente la copertura pensionistica per le giovani generazioni), si sono rivelati sbagliati. Tuttavia, ciò sembra non interessare al Governo, che si guarda bene - almeno sino ad ora - dall'applicare una legge del 1998 che dispone la separazione tra assistenza e previdenza, la quale aiuterebbe a fare chiarezza una volta per tutte e impedirebbe questo ciclico attacco alle pensioni dei lavoratori dipendenti.
Nondimeno, abbiamo proposto una modifica che, tenendo fermo il risultato, preveda la possibilità di raggiungerlo anche senza innalzare l'età. Perché non si è voluto ascoltare? Perché non si vuole riconoscere che, se un lavoratore ha lavorato uno o due anni più del minimo richiesto, ciò gli va riconosciuto, accettando una riduzione dell'età? Si parla di rigore, conti, finanza pubblica, ma temiamo che la realtà sia ben diversa: la realtà è quella di un Paese che diventa sempre più ingiusto e che, oltre tutto, proprio per questo, si sta impoverendo.
In questi giorni ero nel Biellese, un distretto del tessile in profonda crisi, dove ho incontrato decine di lavoratrici e di lavoratori: ve ne sono moltissimi, ormai, senza lavoro, che hanno più di cinquant'anni, con oltre trent'anni di lavoro alle spalle. Costoro vorrebbero trovare un impiego per poter andare in pensione, ma nessuno li vuole. Le aziende chiedono di alzare l'età e poi assumono solo chi ha meno di trent'anni. E noi, a queste persone, cosa rispondiamo? Innalziamo l'età pensionabile e li mettiamo in una situazione drammatica, senza vie d'uscita. Possiamo meravigliarci, senza ipocrisie, se per disperazione vanno a lavorare al nero e se poi ci scappa anche qualche morto, qualche suicidio, come è avvenuto ancora, qualche giorno fa, a Imperia?
Vi è poi la questione dei lavori usuranti, a proposito della quale la Commissione ha approvato una modifica importante, che elimina una clausola restrittiva, la quale avrebbe, di fatto, escluso la gran parte dei lavoratori notturni. Credo si tratti di uno dei risultati più significativi del nostro lavoro in Commissione e diamo atto - sia al relatore, sia al Governo - di averlo agevolato esprimendo parere favorevole sul relativo emendamento. Proprio per questo, non vogliamo nemmeno prenderePag. 30in considerazione l'ipotesi che tale modifica - al pari delle altre, migliorative, introdotte in Commissione - possa venire revocata da parte dell'Assemblea.
Vi sono ancora due questioni su cui mi sembra necessario soffermarmi prima di concludere. Si tratta di una misura sulla competitività, la decontribuzione dello straordinario e della partita dei contratti a termine.
Noi siamo sempre stati contro l'idea di dispensare le imprese dall'onere aggiuntivo previsto dall'articolo 2 della legge n. 549 del 1995 per il ricorso allo straordinario. Critichiamo questa decisione per svariate ragioni: ostacola la crescita dell'occupazione, va in direzione contraria alla tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori, asseconda le posizioni di chi pensa che le retribuzioni debbano essere sempre più commisurate alle prestazioni individuali e al salario di rischio. Dietro, intravediamo la pressione per ridurre l'incidenza dei contratti collettivi nazionali, un altro elemento che consideriamo del tutto negativo. Ed è per questo che non abbiamo apprezzato nemmeno gli incentivi alla contrattazione di secondo livello, che riguarda peraltro poco più del 20 per cento delle imprese italiane.
Siamo dunque contrari, e non per ragioni di poco conto. Riteniamo che molto meglio sarebbe stato e sarebbe detassare gli aumenti salariali, il che favorirebbe anche una rapida chiusura dei contratti. E tuttavia, signor Ministro, non abbiamo alzato barricate contro questa norma. Vorremmo che lo si tenesse presente: noi riteniamo questa misura sbagliata, la consideriamo un ennesimo regalo alle imprese su cui stranamente gli arcigni guardiani del rigore nulla eccepiscono, ma, pur dissentendo, siamo disposti in una logica complessiva ad accettare questa misura. Lo ripeto: si tenga conto di questo nostro comportamento costruttivo, perché non è possibile che le osservazioni avanzate dalle diverse componenti di questa maggioranza vengano vagliate di volta in volta in modo astratto, enucleandole dal contesto complessivo, senza considerare che a fronte di una richiesta ci sono altre aperture, altre disponibilità.
E veniamo alle misure sul lavoro, che non dovrebbero essere poste sotto il solo titolo «mercato del lavoro», che è quanto meno unilaterale, ma dovrebbero essere poste anche sotto quello di diritti del lavoro, nel quadro di una politica di sviluppo.
Il tema cruciale riguarda i contratti a termine. Che cosa abbiamo chiesto? È molto semplice: noi prendiamo sul serio le sue dichiarazioni, signor Ministro, di voler fare del tempo indeterminato la forma contrattuale normale. Infatti, nessuno di noi pretende l'abolizione del tempo determinato e non pretendiamo neppure, in questa sede, che vi siano contratti a termine solo in presenza di causali oggettive. E non basta ancora: accettiamo anche, appunto perché siamo consapevoli di non essere gli unici a decidere, un tempo di per sé lunghissimo, trentasei mesi, e persino la possibilità di proroghe in deroga, anche se non apprezziamo il coinvolgimento del sindacato ai fini della validazione dei contratti.
Solo che a questo punto osserviamo che, se non vogliamo scherzare, dobbiamo poi fare in modo che i lavoratori possano effettivamente arrivare ai trentasei mesi, altrimenti non sarebbe solo una presa in giro, in quanto soglia irraggiungibile, traguardo illusorio, sorta di supplizio di Tantalo, ma rischierebbe di essere persino un danno perché, lasciata libera, l'impresa avrà tutto l'interesse a sbarazzarsi del lavoratore giunto a trentacinque mesi. E così si rischia che una misura in sé giusta, com'è un limite alla durata massima del tempo determinato, si rovesci nel suo contrario, nella premessa della perdita del posto di lavoro.
Per questo chiediamo al relatore e al Governo di riflettere bene. Noi diciamo che, quando un lavoratore accede al rapporto di lavoro, deve essere messo in una sorta di corsia preferenziale che, pur mantenendo egli il carattere di lavoratore a termine, gli dia tuttavia qualche prospettiva certa e nella misura in cui l'impresa vorrà procedere a nuove assunzioni dovrà darePag. 31a lui un nuovo contratto a tempo determinato una volta che il precedente si sia concluso, e così fino al raggiungimento della soglia dei trentasei mesi.
A proposito del fatto che queste modifiche siano evidentemente a costo zero, vorrei aggiungere una breve considerazione. Questo semplice fatto dimostra che la «teologia del rigore», in nome della quale certi settori della maggioranza minacciano rappresaglie in caso di modifiche parlamentari del Protocollo, è un pretesto, peraltro a senso unico, visto che, come notavamo, nessuna protesta si leva quando un mucchio di denaro pubblico prende la strada delle imprese.
PRESIDENTE. La invito a concludere.
ALBERTO BURGIO. Concludo, signor Presidente.
Mi fermo qui, non voglio entrare nella discussione sull'abrogazione dello staff leasing. Potrei dire qualcosa forse sulla deroga inserita in tema di lavoro a chiamata, una deroga grave, e non tanto per il merito, ma per come è maturata, saldando un fronte tra maggioranza e opposizione, che soprattutto su queste materie si sarebbe dovuto viceversa evitare con cura; ma voglio astenermi da qualsiasi polemica.
Chiudo soltanto su un tema - quello della responsabilità - che è stato agitato molto in questi giorni: credo che evocarla abbia un senso, purché si chiarisca nei confronti di chi si avverte tale responsabilità, nei confronti di chi la si assume. L'ho detto in precedenza, ma mi sembra opportuno ribadirlo a conclusione del mio intervento. Disponendoci all'esame del provvedimento in discussione, prima in Commissione ed ora in Assemblea, noi abbiamo guardato solo a un obiettivo: accrescere le tutele...
PRESIDENTE. Deputato Burgio, la prego di concludere.
ALBERTO BURGIO. ...dei lavoratori, sia di quanti si approssimano all'età della pensione e non meritano di vedersi negato un diritto acquisito dopo una vita di lavoro, sia di quanti si trovano a combattere con una flessibilità che, troppo spesso, nel nostro Paese, si trasforma in una trappola di precarietà senza scampo. Noi continueremo a tenere questa responsabilità come la «bussola» del lavoro in Assemblea sul provvedimento (Applausi dei deputati del gruppo Rifondazione Comunista-Sinistra Europea).
Signor Presidente, chiedo che la Presidenza autorizzi la pubblicazione in calce al resoconto della seduta odierna del testo integrale del mio intervento.
PRESIDENTE. Onorevole Burgio, la Presidenza lo consente, sulla base dei criteri costantemente seguiti.
È iscritta a parlare l'onorevole Prestigiacomo. Ne ha facoltà.
STEFANIA PRESTIGIACOMO. Signor Presidente, onorevoli colleghi, signori rappresentanti del Governo, la discussione iniziata questa mattina in Assemblea è per molti aspetti paradossale: stiamo discutendo, infatti, al buio. Stiamo affrontando un testo di enorme importanza per il Paese che contiene, tra l'altro, la controriforma delle pensioni, ma rischiamo una discussione surreale o almeno accademica, considerato che, ad oggi, non sappiamo su quale testo il Governo porrà la fiducia da qui a ventiquattro ore.
Abbiamo letto in questi giorni le dichiarazioni di autorevoli esponenti dell'Esecutivo secondo cui la fiducia verrà posta sul testo del Protocollo approvato dalle parti sociali, il che significherebbe che in Commissione lavoro abbiamo di fatto speso settimane in approfondimenti, audizioni e dibattiti, ma che tutto ciò è stato inutile, privo di senso oltre che di utilità.
Ci sarebbe da argomentare, come pure qualcuno ha già fatto, che assegnare di fatto la funzione legislativa ad un accordo tra Governo e parti sociali è atto da sistema corporativo e non da democrazia parlamentare, ma tale argomento, certamente suggestivo, non coglie il cuore del problema che è ben lontano da una diatriba sulle forme di Stato e sui criteri di rappresentanza politica.Pag. 32
Signor Presidente, è evidente a tutti che siamo dinanzi ad un Governo che vive alla giornata e che la fiducia forse oggi è l'unico modo per sopravvivere un altro giorno, considerato che, da una parte, Mastella e Dini hanno detto che non voteranno il welfare con le modifiche che sono state apportate (che aumentano i già approssimativi tetti di spesa), e che dall'altra, invece, Rifondazione Comunista ha abbandonato il tavolo della trattativa nella maggioranza per chiedere ulteriori cambiamenti (e le dichiarazioni di Giordano di stamattina, con le quali egli si oppone alla posizione della questione di fiducia e chiede che le modifiche vengano apportate in Parlamento, sono al riguardo molto esplicite).
Leggiamo che il Premier Prodi è fiducioso sulla possibilità di raggiungere un'intesa in modo da non scontentare le diverse anime della sua maggioranza e mettere d'accordo anche le parti sociali, che sono state in questi giorni fermissime nel rifiutare ogni modifica al Protocollo firmato in estate paventando, come ad esempio ha già fatto Confindustria, la fine dell'era della concertazione. Sappiamo che il Governo ha una spiccata abilità nel trovare compromessi al ribasso per il Paese pur di sopravvivere, ma stavolta l'impresa ci pare più ardua, visto che il Protocollo sul welfare è lo snodo cruciale di due visioni politiche ed implica, peraltro, anche rapporti con uno degli azionisti di maggioranza della coalizione di centrosinistra, ossia il sindacato.
Restiamo, quindi, in attesa del maxiemendamento che ci farà sapere di quanto il Governo intende peggiorare un provvedimento che avrà già effetti pessimi per il nostro Paese e che la maggioranza è stata costretta ad adottare per saldare un «pagherò» politico con la sinistra radicale, una cambiale programmatica già gravosissima per i nostri conti pubblici che, peraltro, si regge su una contabilità molto virtuale, suscettibile di incrementi di spesa pesantissimi.
Ma, nelle more di conoscere l'espediente del Governo per sopravvivere fino a giovedì, credo sia utile affrontare in Aula il nodo politico di questo Protocollo che, in apertura del mio intervento, ho definito la «controriforma delle pensioni». Si tratta di una controriforma perché riporta indietro le lancette dell'orologio politico nel nostro Paese, stravolgendo non solo la riforma approvata dal Governo Berlusconi, ma anche quella varata dal Governo Dini. È una controriforma perché mentre in tutta Europa si allunga l'età lavorativa in relazione al prolungamento dell'età media della vita e dei precari equilibri dei sistemi previdenziali, in Italia discutiamo di un provvedimento che mira ad anticipare il pensionamento dei lavoratori e che avrà oneri pesantissimi per la collettività. Se, infatti, la riforma introdotta dalla legge n. 243 del 2004, la cosiddetta Tremonti-Maroni, perseguiva un obiettivo di equilibrio economico in linea con le indicazioni dell'Unione europea, con la drammaticità esplicita delle proiezioni della bilancia previdenziale, con l'esigenza di consegnare alle nuove generazioni conti in ordine e la speranza di percepire una pensione, l'attuale riforma si muove esattamente nella direzione opposta, perché carica la collettività di oggi - e, soprattutto, quella di domani - di un ulteriore fardello economico e drena verso il sistema previdenziale una quantità di risorse che, se diversamente impiegate, avrebbero consentito una qualificazione diversa e migliore della spesa, oltre a sostanziali miglioramenti del nostro debito pubblico.
Peraltro, come abbiamo sostenuto nel corso del dibattito in Commissione (ma è stato anche rilevato da osservatori dell'area di centrosinistra), la stima del costo della riforma in esame appare per molti versi sottovalutata e la copertura economica affidata a cespiti e risorse tutt'altro che certe. Si corre il rischio di approvare un provvedimento che costerà molto più di quanto prevede il Governo e che nei prossimi anni dovrà essere pagato con risorse a carico della fiscalità generale. Mi riferisco a quei 7,4 miliardi di euro che secondo stime prudenti potrebbero crescere, nell'arco di un decennio, di almeno altri 3 miliardi di euro, senza tener conto dell'aggravio di spesa derivante dall'eliminazionePag. 33 del tetto dei lavori usuranti, di cui parleremo tra poco. Dicevo della copertura finanziaria che si affida essenzialmente a due cespiti: il riordino degli enti previdenziali e l'aumento delle aliquote contributive per i parasubordinati. Quanto agli enti previdenziali, abbiamo ascoltato, nel corso delle audizioni in questa Camera, i responsabili degli istituti previdenziali che hanno spiegato come gran parte del processo di razionalizzazione dei costi che poteva essere svolto è stato già compiuto e che da ora in poi si corre il rischio di avere ulteriori costi, piuttosto che maggiori risparmi. Questa ipotesi è prevista tra le righe del provvedimento che infatti dispone che, ove i risparmi in questo campo non fossero raggiunti, nel 2011 verrà introdotto un prelievo contributivo aggiuntivo dello 0,09 per cento, a carico di tutti lavoratori.
Quanto poi al secondo cespite, l'aumento delle aliquote dei lavoratori parasubordinati in via esclusiva, ossia gli atipici e i cosiddetti precari, vanno svolte due considerazioni, una politica e una di carattere economico. Quella politica riguarda l'incongruità di una strategia complessiva del Governo che, fra legge finanziaria dell'anno scorso e l'attuale controriforma delle pensioni, intende aggravare, nell'arco di quattro anni, di ben nove punti l'aliquota contributiva per tali lavoratori. Si tratta di misure che da un lato colpiscono la fascia più debole del lavoro, proprio quella che la sinistra - a parole e nei cortei - dice di volere tutelare, e dall'altro indurranno inevitabilmente ad una riduzione di tale fascia di lavoratori. In tale contesto, passiamo alla considerazione economica. L'INPS, nel bilancio preventivo 2007, ha già indicato una flessione di 50 mila iscritti alla gestione separata. Se la platea dei lavoratori e, quindi, dei contributi versati diminuisce, inevitabilmente la stima di copertura finanziaria dovrà essere rivista ed i fondi dovranno essere trovati altrove. Siamo pertanto dinanzi ad una costruzione che si fonda, in gran parte, su un aumento del costo del lavoro per i lavoratori parasubordinati e che prevede, da oggi a tre anni, un ulteriore aumento, stavolta generalizzato.
Vorrei capire come tale impostazione si coniughi con le sbandierate esigenze di incremento della competitività del nostro sistema e di riduzione del costo del lavoro, uno dei principali vincoli alla capacità delle nostre imprese di essere concorrenti alla pari con i nostri competitor europei. La realtà è purtroppo sempre la stessa. A fronte di spese connotate politicamente, anzi direi ideologicamente, si risponde con la leva dei prelievi dalle tasche dei lavoratori e delle imprese. Passo al capitolo dei lavori usuranti. È stato rimosso l'odioso vincolo dei 5 mila l'anno, sostituito con un altro vincolo di natura finanziaria, di 2,52 miliardi di euro. Viene da chiedersi: perché un vincolo numerico è politicamente inaccettabile e un vincolo economico invece non lo è? Perché l'uno è ingiusto e antidemocratico e l'altro, invece, è equo e solidale? Se la questione fosse limitata a ciò saremmo ancora nei confini della propaganda politica. Purtroppo, la questione è diversa e più grave perché, anche in questo caso, siamo davanti ad una stima molto precaria, suscettibile di moltiplicazioni dagli effetti gravissimi per la finanza pubblica. Innanzitutto, si parla di lavori usuranti senza avere, ad oggi, contezza di quali siano e, soprattutto, di quanti lavoratori saranno interessati da questo provvedimento. In Commissione lavoro è stato eliminato il tetto delle 80 notti per la definizione del lavoro notturno, ampliando significativamente la platea degli aventi diritto al pensionamento anticipato. Analogamente indefinito è il numero degli aventi diritto a causa dell'esposizione all'amianto. Siamo, in pratica, dinanzi ad un'area grigia certamente molto sottostimata e difficile da definire esattamente. Sulla pubblicistica di questi giorni abbiamo letto che la platea dei cosiddetti usuranti è destinata a crescere di 4-5 volte, con una previsione di spesa fra i 10 e i 12,5 miliardi di euro, il che significa un costo fra 8 e 10 miliardi di euro superiore rispetto alle previsioni.
Proseguendo nell'esame degli ulteriori capitoli del Protocollo, desidero soffermarmiPag. 34 sulla riforma dello scalone, che potrebbe costare almeno 3 miliardi in più del previsto e sulle critiche avanzate anche dalle parti sociali che non hanno sottoscritto l'accordo e che rappresentano, anche esse, una fetta consistente del mercato del lavoro. Il punto è che il Governo e la maggioranza stanno chiedendo al Parlamento un atto di responsabilità politica costruito su carte false. Noi non intendiamo avallare tale tipo di atto di responsabilità e pensiamo di dover duramente contrastare il provvedimento in esame oltre che in Parlamento - ma porrete la questione di fiducia e non ce ne darete la possibilità - anche nel Paese. Prendiamo ora in esame quella parte del protocollo che riguarda il mercato del lavoro. Anche in questo caso deve essere fatta una premessa politica in materia di cambiali programmatiche. Infatti, questo Governo e questa maggioranza hanno una dote straordinaria: riscrivere la storia e, a volte, anche la cronaca. Mi vengono in mente quei sistemi autoritari che, di tanto in tanto, quando un leader o una scelta cadono in bassa fortuna, ripuliscono il proprio passato, ritoccano le foto e i libri di storia, fanno finta che una persona non sia mai esistita o un fatto mai accaduto. Lo stesso sta facendo il centrosinistra sul welfare. A leggere il Protocollo sembra che i cinque anni dal 2001 al 2006 noi ci siano stati e che in tali anni non sia stata messa in atto una campagna feroce e durissima contro la legge Biagi, indicata come la fonte di tutti i mali e di tutte le precarietà, come il totem da abbattere. Sembra che la campagna d'odio fomentata contro chi voleva modernizzare il mercato del lavoro non sia mai esistita. Invece, c'è stata. Chiedo qui e ora al centrosinistra un atto di onestà intellettuale (o, forse, di onestà tout court), perché il mercato del lavoro che questo Governo e questa maggioranza prefigurano nel provvedimento è sostanzialmente quello previsto dalla legge Biagi.
Certo è che qualche peggioramento è stato introdotto: ne parleremo tra poco. Tuttavia, l'impianto, la filosofia e gran parte della sostanza normativa sono quelle della riforma del Governo Berlusconi pensata da Marco Biagi, che per tali idee ha pagato con la vita. Vorrei che oggi preliminarmente, parlando di welfare, il Governo e la maggioranza rendessero giustizia e onore a Biagi e alla sua legge, dicendo in aula apertis verbis ciò che affermano nel Protocollo, ossia che tale legge era giusta, moderna ed opportuna (Applausi dei deputati del gruppo Forza Italia). Dovrebbero, inoltre, riconoscere che Marco Biagi aveva ragione, che invece sbagliavano loro e che hanno sbagliato ogni giorno, per cinque lunghissimi anni, coloro che hanno contestato con incredibile virulenza il provvedimento ed il suo autore.
PRESIDENTE. Onorevole Prestigiacomo, dovrebbe concludere.
STEFANIA PRESTIGIACOMO. Concludo, signor Presidente. Passando al dettaglio del testo, credo che una breve riflessione vada anche fatta sulle misure a sostegno del lavoro femminile. Ho detto poc'anzi che il provvedimento contiene alcuni peggioramenti, anche alcune prese in giro. È il caso delle misure a favore delle donne. Ci troviamo infatti dinanzi ad una serie di pregevolissime manifestazioni di intenti, con un difetto non da poco: non c'è alcuna copertura di spesa per gli interventi previsti. Sono parole e basta: una strategia di annunci roboanti, di vuoto delle misure concrete che il Governo sta perseguendo con tenace lucidità nei confronti delle italiane, è una strategia che sta passando nel Paese, nella consapevolezza delle donne, che sanno bene ciò di cui ci sarebbe bisogno e vedono sulla propria pelle che altre sono le priorità del Governo.
PRESIDENTE. Onorevole Prestigiacomo, la prego di concludere.
STEFANIA PRESTIGIACOMO. Concludo, signor Presidente. D'altro canto, se si investono 10 miliardi di euro per far andare in pensione uno o due anni prima 100 mila cinquantottenni, ciò che conta diPag. 35più per questa sinistra è chiaro e per le donne non restano che le briciole e, a volte, nemmeno quelle.
Signor Presidente, avviandomi a concludere...
PRESIDENTE. Onorevole Prestigiacomo, mi dispiace, ma deve proprio concludere.
STEFANIA PRESTIGIACOMO. Concludo, signor Presidente, lasciando senz'altro alla collega Pelino, che parlerà dopo di me le contestazioni di merito che vengono avanzate anche sulla parte relativa al mercato del lavoro. Infatti, le modifiche approvate in Commissione e cioè l'eliminazione dello staff leasing e le modifiche al job on call di fatto penalizzano le donne.
PRESIDENTE. Grazie...
STEFANIA PRESTIGIACOMO. Quindi, la presa in giro è relativa al fatto che sulle misure per le donne non c'è copertura finanziaria e, pertanto, sono chiacchiere. Inoltre, tutte le modifiche apportate sulla flessibilità del mercato del lavoro di fatto impediscono alle donne che proprio di queste nuove misure si avvantaggiano...
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Turci. Ne ha facoltà.
LANFRANCO TURCI. Signor Presidente, signor Ministro, signor sottosegretario, onorevoli colleghi, i socialisti pongono la flex security al centro della loro visione delle politiche del lavoro. Consultando l'enciclopedia internet più consultata in questo periodo, Wikipedia, viene fornita questa definizione: «È un modello di Stato sociale con una politica del lavoro pro-attiva. Questo modello è una combinazione di facile assunzione e licenziamento (flessibilità per gli imprenditori), con alti benefici per i disoccupati(sicurezze per i lavoratori)». Inoltre, si ricorda che essa è stata implementata negli anni Novanta da Rasmussen, quando era Primo Ministro in Danimarca. Rasmussen, peraltro, è il presidente del partito socialista europeo e, proprio nei giorni scorsi, ha partecipato alla conferenza di programma che il partito socialista ha organizzato su tali temi. Debbo però dire che, al di là delle citazioni di attualità, non si tratta di temi nuovi ed inediti per la migliore cultura riformista italiana. Basterebbe pensare al rapporto Onofri del 1997, dove già veniva evidenziato il forte squilibrio della spesa sociale italiana sul versante previdenziale, a discapito delle politiche per gli ammortizzatori sociali e delle altre politiche sociali. Tali ammortizzatori sociali restano tuttora di un punto di prodotto interno lordo al di sotto della media europea. Su tale lunghezza d'onda si muoveva anche il libro bianco di Marco Biagi, imperniato su flessibilità, ammortizzatori sociali, formazione permanente e politiche attive del lavoro. Il fatto che queste ultime tre voci siano ancora del tutto insoddisfacenti non può certo essere addebitato al riformista socialista assassinato dalle Brigate Rosse, ancora oggi criminalizzato da quanti, come recentemente l'onorevole Caruso, hanno giudicato «assassina» la legge che porta, più o meno giustificatamente, il suo nome e il pacchetto Treu, che per primo ha aperto la strada alla regolamentazione delle forme flessibili del lavoro.
Semmai, si deve ricordare che proprio alla legge n. 30 del 2003 è dovuto un primo tentativo di contenere l'abuso del ricorso ai cococo attraverso la previsione di un progetto che dovrebbe vagliare il carattere autonomo e non dipendente del lavoro di tali figure. Tant'è vero che la trasformazione di una parte dei cococo dei call center in lavoratori dipendenti a tempo indeterminato, operata dall'attuale Governo e dal Ministro Damiano, si deve proprio all'applicazione della legge Biagi. Comunque anche dopo le leggi Treu e Biagi siamo distanti anni luce da una buona e completa politica di flex security. Il Protocollo del 23 luglio arricchisce un po' l'intervento dell'indennità di disoccupazione, ma l'impegno finanziario maggiore va, ancora una volta, in direzione delle pensioni di anzianità, allargando ancor più il fossato tra spese per previdenza e spese per ammortizzatori sociali e innescandoPag. 36anche qualche ambigua aspettativa sulle pensioni future dei giovani, che parrebbero formulate in contrasto con i presupposti della riforma Dini, che peraltro il Governo mi pare ribadisca di voler difendere nel suo impianto essenziale. Dunque, un moderno sistema di ammortizzatori e una efficace rete di formazione e accompagnamento al lavoro restano capitoli in gran parte da costruire, di cui il Protocollo delinea solo un profilo di massima.
Il tema del lavoro richiama un altro tratto tipico della situazione italiana e di altri Paesi del sud Europa risolto, invece, nei Paesi del nord Europa. Mi riferisco al dualismo del nostro mercato del lavoro che, a partire dallo Statuto dei lavoratori, in particolare all'articolo 18, vede il mondo del lavoro diviso in due grandi aree, tra chi gode della piena protezione e chi invece gode di una protezione parziale, a cominciare, non dimentichiamolo, da tutti i dipendenti delle imprese sotto il tetto dei 15 dipendenti (chiedo scusa della ripetizione del termine). A questa prima divisione occorre inoltre aggiungere la vasta area dei precari, soprattutto dei lavoratori a termine e dei collaboratori continuativi. Si tratta, secondo l'ultimo rapporto del CNEL, di almeno 2,7 milioni di persone, non tutti giovani, anche se ovviamente c'è una gran parte di giovani e di donne, il cui stato di precarietà tende a cronicizzarsi. È un dato su cui dovremo riflettere, perché ho ascoltato in queste settimane, da parte di molti esponenti del centrodestra, l'esaltazione di tali forme di precarietà, come di forme inevitabilmente transitorie che poi metterebbero sulla via virtuosa della stabilizzazione. In verità, i dati e le analisi recenti ci dicono che c'è una tendenza alla cronicizzazione di queste posizioni, che aggrava il carattere di precarietà delle persone intrappolate in questi meccanismi. Invece di rappresentare, seppure impropriamente, una sorta di passaggio obbligato, e in qualche modo punitivo, per accedere al mercato del lavoro regolare, essi tendono invece a stabilizzare molti lavoratori in tale forma di flessibilità precaria. Cosa fare al riguardo? La posizione massimalista tradizionale vorrebbe limitarsi a cancellare con un tratto di legge tutte queste situazioni, tornando ad un passato irripetibile e passando sopra i problemi economici, sociali e tecnologici che, a partire dalla globalizzazione, hanno creato le condizioni per i ricordati sviluppi. La cultura riformista più innovatrice, invece, da anni ha posto il problema di cambiare il paradigma delle politiche del lavoro, passando dalla tutela del posto di lavoro alla tutela del lavoratore nel mercato del lavoro. È un passaggio che, se attuato compiutamente, con adeguate politiche attive del lavoro, come sopra indicato, e con alcune modifiche alla legislazione del lavoro vigente, darebbe ai lavoratori italiani le tutele di cui già godono i lavoratori dei Paesi europei più avanzati e assumerebbe anche un significato di libertà e di valorizzazione della persona del lavoratore.
Occorre, da questo punto di vista, redistribuire, come suggerisce, da tempo tra gli altri, il professor Ichino, le tutele tra le generazioni e tra le diverse situazioni lavorative. A breve si dovrebbero intanto prevedere alcune importanti modifiche. Anzitutto, è giusto porre un freno all'abuso dei contratti a termine in condizioni che non abbiano giustificazioni obiettive, quali la stagionalità o la presenza di particolari punte di lavoro. Poi, si dovrebbe pensare di introdurre alcuni criteri antielusivi più rigorosi nel campo delle collaborazioni coordinate e continuative, scoprendo le situazioni di lavoro dipendente mascherate da lavoro parasubordinato o autonomo.
Affinché queste misure, tese ad esempio a ridurre l'abuso del lavoro a termine e parasubordinato, non assumano solo un velleitario carattere repressivo - uso il termine «velleitario» perché non dobbiamo dimenticarci che la possibile alternativa a misure puramente repressive è il «sommergersi» delle posizioni lavorative nel lavoro nero o grigio - occorre proporre una riforma dell'istituto della prova. Da questo punto di vista, con un emendamento che non è stato accolto in Commissione, avevamo avanzato la proposta diPag. 37istituire una prova lunga che era diversa da quelle circolate nel dibattito svolto tra gli addetti ai lavori nelle ultime settimane, che ha coinvolto molti giuslavoristi e centri studi. Nel nostro emendamento sulla prova lunga, infatti, non recuperavamo né la proposta che potremmo definire Boeri-Garibaldi, dal nome degli studiosi che l'hanno avanzata, sostenuta di recente anche dall'ex Ministro del lavoro, il senatore Treu, né facevamo nostra la proposta che potremmo attribuire ad altri due studiosi, Ichino e Blanchard. Sono entrambe proposte più radicali, mentre la nostra proponeva di estendere fino a dodici mesi il periodo di prova, salvaguardando la giusta causa durante tale periodo e senza incidere sull'articolo 18 dello statuto dei lavoratori. Sotto questo profilo avevamo proposto, quindi, una formulazione precisa, così come quella finalizzata a modificare il codice di procedura civile per ridefinire l'area ambigua relativa alle collaborazioni coordinate e continuative, nella quale continuano a permanere centinaia di migliaia di lavoratrici e di lavoratori che svolgono un lavoro, di fatto, dipendente e subordinato, mascherato da lavoro parasubordinato.
Ieri sera su RAI3 è stato trasmesso un bellissimo servizio di Report, nel quale sono state esaminate tutte le situazioni diffusissime di precarietà nell'area pubblica e parapubblica. A Roma - ma non accade solo in questa città - arriviamo al punto che nella rete degli asili a gestione privata definiti con il bollino blu (ossia con un bollino di qualità), una serie di educatrici viene assunta con un contratto a progetto, semplicemente per pagare loro undici mesi lavorativi invece che dodici e per non retribuire loro le ferie; quindi, per ridurre le tutele e i costi di quel lavoro. È chiaro che stiamo aggirando un normale lavoro dipendente! Occorre, dunque, sgombrare più decisamente il campo da tali situazioni di ambiguità che alla fine determinano situazioni di precarietà inaccettabili.
Di fronte alle nostre due proposte sui cocopro e sulla prova lunga, nel dibattito in Commissione, anche da parte del Governo è stato risposto che il Protocollo del quale ci stiamo occupando non può reggere riforme di tale respiro. Può anche darsi che sia vero, ma allora - signor Ministro - occorre riflettere su quanto affidare ai protocolli e alle intese frutto della concertazione e quanto, invece, riservare proprio alla capacità d'iniziativa autonoma del Governo e del Parlamento, ossia alla capacità della politica.
Non ritengo che anche le scelte di fondo in materia di politica del lavoro siano totalmente delegabili alla concertazione; si deve partire da una visione riformatrice chiara e sulla base di questa aprire un confronto con le forze sociali per trovare le mediazioni necessarie, altrimenti si ripropone quell'inghippo nel quale ci troviamo in queste ore, tra l'intoccabilità del Protocollo e le esigenze emerse nel dibattito parlamentare e politico, che non sono tutte da relegare ai margini o definibili come modifiche che stravolgono il Protocollo. Anzi, dando atto alla relazione del collega Delbono, ritengo che non si possa affermare che il lavoro svolto in Commissione con il sottosegretario Montagnino e, in alcuni momenti, anche con il Ministro Damiano, abbia prodotto un testo che stravolge il Protocollo. Io stesso ho votato a favore dei due emendamenti relativi ai contratti a termine, mentre ho votato contro altri emendamenti presentati dai colleghi di Rifondazione Comunista e dei Comunisti Italiani sullo stesso argomento, che effettivamente lo avrebbero stravolto perché, come abbiamo potuto ascoltare anche nell'intervento del collega Burgio che mi ha preceduto, si proponeva di riconoscere a chi abbia lavorato per almeno sei mesi con un contratto a termine un diritto di precedenza nel rinnovo di quel contratto. È chiaro che in questo modo si finirebbe per determinare un irrigidimento insostenibile e per indurre le imprese a ricorrere a forme di elusione, se non addirittura a situazioni peggiori del contratto a termine. La prova lunga, invece, rappresentava il modo non per bloccare chiudere tutti i flussi possibili dell'acqua con catenacci e chiavistelli, ma per incanalare l'acqua inPag. 38un modo virtuoso verso una situazione flessibile e al contempo di maggiori garanzie per i lavoratori.
Voglio ricordare che, accanto ai due emendamenti non accolti e che ripresenteremo in Assemblea, abbiamo posto un problema preciso che i colleghi parlamentari, così come i rappresentanti del Governo, conoscono bene, in quanto ne abbiamo discusso ampiamente in Commissione. Il problema attiene alle collaborazioni continuative. A tale proposito il gruppo Socialista ha presentato al Senato, durante la prima lettura del disegno di legge finanziaria, un emendamento che il Governo ha chiesto di ritirare e di trasfonderne il contenuto in un ordine del giorno, dal Governo stesso poi accettato. Tale ordine del giorno prevedeva che il Governo si sarebbe fatto carico di proporre nell'attuale disegno di legge relativo al welfare sia una più precisa definizione del patto di servizio (ovvero l'obbligho di accettazione di politiche attive di formazione e di reinserimento lavorativo da parte dei lavoratori che fruiscono degli ammortizzatori), sia, soprattutto, una sorta di indennità di disoccupazione strettamente correlata con politiche di formazione e di reinserimento lavorativo per i giovani cocopro quando perdono il lavoro.
Faccio presente che per noi ciò è determinante, in quanto le figure dei collaboratori continuativi, soprattutto nel settore privato, sono quelle più precarie del mercato del lavoro, a meno che non si considerino i lavoratori totalmente in nero o gli immigrati clandestini che lavorano in nero nelle condizioni che ben conosciamo. Dopo queste due categorie, la più defedata nel mercato del lavoro è quella relativa ai giovani a collaborazione continuativa, soprattutto nel settore privato. Per questi giovani abbiamo proposto la misura ricordata, ovvero un'indennità di disoccupazione accompagnata a politiche di formazione e di reinserimento.
Ci aspettiamo, quindi, che il Governo onori l'impegno, assunto al Senato e ribadito in Commissione anche dal sottosegretario Montagnino, e lo traduca nei fatti sia con l'eventuale maxiemendamento su cui verrà posta la fiducia, sia con emendamenti articolati. Faccio presente che per noi questo è un tema decisivo, anche per il voto che esprimeremo sia in questa sede, sia in Senato.
Svolgo, infine, una considerazione. Non condivido la grande drammatizzazione fatta negli ultimi giorni soprattutto da Confindustria relativamente al Protocollo e alle modifiche ad esso apportate approvate in Commissione. Per dirla fuori dai denti ho l'impressione che vi sia un gioco delle parti tra l'area massimalista della nostra maggioranza, in particolare Rifondazione Comunista, e Confindustria. Vi è un'esasperazione dei contenuti effettivi di cui stiamo discutendo, per giocare, uno, la parte del difensore a tutti i costi del lavoro e, l'altro, la parte del difensore a tutti i costi del liberismo senza limiti.
Ho letto, ad esempio, sul quotidiano Il Sole 24 Ore un commento del professor Tiraboschi che mi lascia francamente perplesso. Tiraboschi si è stupito del fatto che nel testo approvato dalla Commissione abbiamo inserito l'affermazione (che discende dalla direttiva europea, oltre che dal buonsenso) secondo cui, di regola, i contratti di lavoro dipendente sono a tempo indeterminato. Se scandalizza, oggi come oggi, un'affermazione come questa, ritengo che la contrapposizione ideologica tra liberismo senza limiti e l'idea dei vecchi contratti catenaccio abbia raggiunto livelli inaccettabili per le forze riformiste.
Noi ci ispiriamo alla cultura riformista e non esaltiamo il conflitto di classe (che, quando c'è, è naturalmente fisiologico). La nostra politica, infatti, non mira ad esasperare il conflitto di classe, bensì le forme di collaborazione fra le parti sostenute da regole civili e da politiche attive del lavoro definite dallo Stato, dalla mano pubblica e, quindi, dalla politica.
PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Pelino. Ne ha facoltà.
PAOLA PELINO. Signor Presidente, signor Ministro, signor sottosegretario, onorevoli colleghi, il disegno di legge riguardante l'accordo su previdenza, lavoro ePag. 39competitività, sottoscritto il 23 luglio scorso tra il Governo e le parti sociali, avrebbe voluto raggiungere un obiettivo di grande rilievo: l'individuazione in piena condivisione delle misure da intraprendere per promuovere una crescita economica duratura, equilibrata e sostenibile dal punto di vista finanziario e sociale.
I settori d'intervento, secondo le intenzioni proclamate dal Governo, sarebbero stati riguardati attraverso una duplice prospettiva temporale, ovvero attraverso la necessità di un intervento riformatore di estrema ampiezza e di particolare profondità, volto a rendere gli istituti presi in considerazione più aderenti alle istanze sociali ed economiche oggi presenti.
Nel contempo, il Governo aveva dichiarato di aver provveduto a proiettare le modifiche delineate in un prossimo futuro - nel quale le stesse verranno a contatto con dinamiche diverse, delle quali dovranno reggere l'urto - rilevando di avere agito in modo strategico, avendo elaborato interventi volti tutti all'ottenimento, con diverse tappe temporali, di un disegno riformatore unitario e cementato dall'obiettivo comune di una maggiore crescita ed equità.
È emersa, invece, ben altra realtà: sin dal fitto ciclo di audizioni tenute presso la Commissione della quale sono membro, infatti, sono stati evidenziati - da parte sia degli istituti previdenziali, sia delle associazioni rappresentative di categorie e datoriali, sia degli stessi sottoscrittori dell'Accordo con il Governo - punti di criticità, anomalie e censure all'articolato: per citarne alcuni, mancanza di copertura finanziaria, disparità tra lavoro pubblico e privato, precariato nella pubblica amministrazione, carenza di compiuta regolamentazione normativa delle categorie di lavori usuranti, flessibilità occupazionali e, non da ultimo, situazioni dei salari, definiti tra i più bassi d'Europa.
Pertanto, appare evidente che il provvedimento attuativo del Protocollo sul welfare, varato dalla maggioranza, rivela lacune e anomalie e non dimostra certamente, di fatto, una posizione favorevole per i lavoratori, nonostante le eclatanti intenzioni programmatiche in tal senso. I dissensi e i contrasti tra le forze politiche sotto la spinta della sinistra estrema fanno il resto. Da parte mia, ho già espresso il mio dissenso attraverso emendamenti correttivi al provvedimento, in merito alle disposizioni riguardanti la materia dell'occupazione delle persone con disabilità, in quanto l'assunzione a tempo indeterminato è limitativa: aggiungendo altre forme di lavoro subordinato, pertanto, si amplia la possibilità di accesso al lavoro per i disabili, favorendo la categoria svantaggiata.
Altre disposizioni correttive dovrebbero essere apportate alle modifiche e integrazioni all'articolo 5 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, da riformulare al fine di omogeneizzarsi alle previsioni della direttiva 1999/70/CE, relativa all'Accordo quadro sul lavoro a tempo determinato (che fissa i criteri per i citati contratti a termine), e in modo da non escludere l'applicabilità dell'articolo 1 dello stesso decreto legislativo, recante le ragioni oggettive e non limitatamente temporali dell'apposizione del termine.
Occorrerebbe eliminare, inoltre, l'articolo che sopprime le esenzioni e dà limitazioni quantitative per i contratti a tempo determinato (non rientranti nelle tipologie di cui al comma 7 dell'articolo 10 del citato decreto legislativo n. 368 del 2001) di durata non superiore a sette mesi, limitando, quindi, l'utilizzo flessibile della manodopera. Un emendamento ha limitato a otto mesi, in deroga, l'ulteriore successivo contratto a termine tra gli stessi soggetti.
Con riferimento, poi, alle norme in materia di lavoro a tempo parziale, evidenzio che le modifiche apportate dal provvedimento incidono negativamente sull'autonomia negoziale del lavoratore, sottraendo alle stesse parti del contratto di lavoro a tempo parziale la possibilità di stabilire le clausole flessibili, rimettendo invece detta facoltà in sede di contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentativePag. 40sul piano nazionale. Ciò, a mio avviso, è con chiara evidenza in danno alla libera contrattazione dei lavoratori.
Per di più, con un emendamento al testo del provvedimento è stata interamente sostituita la lettera c) dell'articolo 12, che dispone l'abrogazione del comma 2-ter dell'articolo 8 del decreto legislativo 25 febbraio 2000, n. 61 (relativo alle sanzioni), che stabilisce che, in assenza di contratti collettivi, datori di lavoro e prestatori di lavoro possono concordare direttamente l'adozione di clausole elastiche o flessibili, nell'ambito delle disposizioni di cui all'articolo 8, recanti forme e contenuti del contratto a tempo parziale. Anche in questo caso capitola l'autonomia negoziale del lavoratore.
Infine, andrebbe certamente soppressa l'abrogazione dell'istituto tipico del lavoro intermittente (articoli da 33 a 40 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276): verrebbe in tal modo abrogato, infatti, uno strumento di flessibilità della cosiddetta «legge Biagi», messo a disposizione delle imprese, che si è rivelato utile - anzi necessario - al fine di consentire opportunità di lavoro a determinate categorie di lavoratori (ad esempio del settore del turismo alberghiero, dello spettacolo e di altri) e che deve essere conservato senza limiti o condizioni.
Su questa linea, relativamente al decreto-legge n. 159 del 2007, in materia economico-finanziaria, anch'esso teatro di forti tensioni politiche ed archiviato con il ricorso alla questione di fiducia, ho presentato un ordine del giorno, volto ad impegnare il Governo a predisporre interventi che non disperdano i miglioramenti apportati al mercato del lavoro nella scorsa legislatura, sotto il Governo Berlusconi, quali, appunto, quelli dati dall'introduzione della flessibilità per incrementare l'occupazione.
Infatti, è noto e incontrovertibile che il tasso di disoccupazione è calato in tutto il Paese, che il lavoro nero è emerso e che, a seguito di ciò, è stato ottimizzato l'utilizzo dei lavoratori con i provvidenziali strumenti legislativi del compianto professor Biagi. Si è così favorito l'incontro tra domanda e offerta, tramite il punto di incontro degli strumenti di flessibilità lavorativa, ma inopinatamente alcuni emendamenti hanno introdotto l'abolizione dell'istituto della somministrazione di lavoro a tempo indeterminato (articolo 14) e previsto, ma solo per i lavoratori utilizzati per lo svolgimento di prestazioni discontinue nel settore del turismo e dello spettacolo (articolo 15), la stipula di specifici rapporti di lavoro solo per determinate esigenze e contingenze temporali, svincolati dalla normativa della legge Biagi e rimessi alla contrattazione collettiva. Rilevo, perciò, oltre alla soppressione dell'istituto del lavoro intermittente, la disparità di trattamento operata da siffatta previsione sostitutiva, che penalizza, con l'esclusione, i lavoratori addetti a ulteriori settori.
L'attuale Governo, con improvvidi provvedimenti, alimentati dalla criticità della situazione politica in seno alla stessa maggioranza, rischia di vanificare, sotto la spinta della sinistra estrema, dette provvidenze per i lavoratori e i benefici raggiunti, con i palesi risultati noti all'opinione pubblica. Inoltre, studi autorevoli rivelano che le modifiche al Protocollo sul welfare, volute dall'intemperanza della sinistra estrema, raddoppierebbero le spese aggiuntive, salvo ulteriori aggravi di costo per la finanza pubblica. Siamo in una situazione di impasse: la spesa, così come prevista e corretta dalla sinistra radicale, è più che raddoppiata; vi è il punto critico della definizione delle categorie usuranti, che comporterà un'ulteriore crescita di spesa; il Governo è stato battuto in Commissione lavoro su un emendamento inizialmente firmato dal centrodestra, che ha ottenuto anche voti favorevoli dall'Unione e l'avallo del relatore per la maggioranza Delbono; il Ministro Damiano è stato messo alle corde per gli aggravi di costi preoccupanti ed esponenzialmente incrementabili, tra «scalone» e «scalini», usuranti, contratti a termine, tutela dei precari e quant'altro e per la sconfessione, ventilata ma ineluttabile, della immodificabilità del testo; vi è stata la rottura dell'equilibrio della maggioranza, irrigiditaPag. 41su posizioni che reiterano, di fatto, la situazione critica dell'appena licenziato collegato alla manovra finanziaria.
Non giova ai lavoratori e non giova, mi preme evidenziarlo, alle lavoratrici: per le donne, il cui livello di occupazione rimane ancora, soprattutto nel Mezzogiorno, troppo basso rispetto alla media europea e agli obiettivi della Strategia di Lisbona, il disegno di legge in esame prevede interventi che andrebbero rafforzati, per perseguire l'obiettivo di aumentare le opportunità di occupazione, rendendo più facile la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, e di rafforzare le garanzie per l'effettiva parità di trattamento sul lavoro.
Oltre a rilevare che il provvedimento in esame, in detta materia, è molto oneroso e sprovvisto dell'adeguata copertura finanziaria - sicché la delega è esautorata di incisività - rilevo che le provvidenze, nell'articolo di delega governativa per il riordino dell'occupazione femminile, potevano essere più efficaci.
Da parte mia, ho contribuito con la proposta di un mio emendamento - con il parere favorevole del relatore e del Governo e in linea con il riesame in atto da parte della Commissione europea e della direttiva quadro sui congedi parentali - diretto a migliorare, per i beneficiari dell'importante strumento, la gestione della vita dal punto di vista personale, familiare e professionale.
Concludo e dunque chiedo: a chi giova tutto ciò? È una delle tante domande formulate al Governo che, purtroppo, non otterranno mai una risposta (Applausi dei deputati del gruppo Forza Italia).
PRESIDENTE. Sospendo la seduta, che riprenderà alle 15 con il seguito della discussione sulle linee generali.
La seduta, sospesa alle 13,35, è ripresa alle 15.