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Discussione del disegno di legge: Conversione in legge del decreto-legge 31 gennaio 2008, n. 8, recante disposizioni urgenti in materia di interventi di cooperazione allo sviluppo e a sostegno dei processi di pace e di stabilizzazione, nonché relative alla partecipazione delle Forze armate e di polizia a missioni internazionali (A.C. 3395-A) (ore 19,20).
(Discussione sulle linee generali - A.C. 3395-A)
PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.
Avverto che il presidente del gruppo parlamentare di Forza Italia ne ha chiesto l'ampliamento senza limitazioni nelle iscrizioni a parlare, ai sensi dell'articolo 83, comma 2, del Regolamento.
Avverto, altresì, che le Commissioni III (Affari esteri) e IV (Difesa) si intendono autorizzate a riferire oralmente.
Il relatore, presidente della III Commissione, onorevole Ranieri, ha facoltà di svolgere la relazione per la III Commissione.
UMBERTO RANIERI, Relatore per la III Commissione. Signor Presidente, la presenza italiana nelle missioni internazionali - come abbiamo detto in numerose occasioni e ancora recentemente, nella riunione delle Commissioni - è orientata al rafforzamento del multilateralismo e al consolidamento dei processi di stabilizzazione, pacificazione e ricostruzione di territori investiti da crisi e da conflitti.
Abbiamo anche ricordato, in precedenti dibattiti, che la nostra partecipazione è legittimata dal rispetto integrale dell'articolo 11 della Costituzione, che prescrive il ripudio della guerra e consente al nostro Paese l'assunzione di responsabilità nelle missioni internazionali. Dai Balcani all'Afghanistan, i nostri militari operano in base al principio codificato dalla Carta delle Nazioni Unite, che considera l'uso della forza ammissibile solo per legittima difesa o per ripristinare la pace e la sicurezza internazionale.
Come è noto, contingenti militari italiani operano in diverse realtà, nel quadro di missioni decise dalle Nazioni Unite. Non mi soffermerò su tutte: in Commissione abbiamo discusso del valore e del significato della nostra partecipazione alla missione in Libano, dove l'instabilità politico-istituzionale del Paese fa temere il riaccendersi di tensioni e dove è forte l'esigenza di una presenza internazionale autorevole, capace di interloquire con tutti i protagonisti della vicenda libanese e di scongiurare la ripresa del conflitto tra hezbollah e Israele.
Abbiamo discusso a lungo del Kosovo, tormentata e delicata realtà dei Balcani occidentali: la presenza della forza multinazionale, a garanzia di un processo di stabilizzazione e pacificazione del Kosovo, è resa indispensabile, tra l'altro, dall'accelerazione che gli avvenimenti hanno conosciuto nelle ultime settimane.
La Camera continuerà a discutere, ancora domani, del Kosovo. Vale la pena, in questa sede, ricordare che il nostro Paese si è adoperato affinché si giungesse ad una soluzione condivisa della vicenda relativa allo status finale del Kosovo e che l'Italia ha sostenuto l'avvio tra le parti di un negoziato, che si è arenato a causa delle opposte pregiudiziali che si sono fronteggiate tra Belgrado, che ha ritenuto inaccettabile la discussione sulla prospettiva dell'indipendenza del Kosovo, e le autorità kosovare, che hanno sostenuto impraticabile qualunque altra strada che non fosse l'indipendenza. Quella a cui si giunge in queste ore, sulla base di una dichiarazione unilaterale, è un'indipendenza sorvegliata del Kosovo, una condizione che comporterà uno straordinario impegno dell'Unione europea, che assume il compito cruciale di orientare concretamente quel Paese verso il consolidamento dello Stato di diritto e la ricostruzione istituzionale ed economica.
In quel contesto, la presenza delle missioni multinazionali appare indispensabile. Tuttavia, è sull'Afghanistan che vorrei formulare alcune considerazioni.
Vorrei rivolgere prima di tutto, interpretando il pensiero di tutti colleghi e della Presidenza, un pensiero al maresciallo Pezzullo caduto, come è avvenuto nel corso di questi anni per altri undici colleghi, mentre assolveva al suo lavoro. Il maresciallo Pezzulo non sarà ricordato come un eroe inutile, ma come un giovane militare italiano impegnato in una missione difficile e rischiosa. Occorre, lo ha ricordato il presidente Pinotti precedentemente, che tutto ciò lo ricordino anche gliPag. 90editorialisti dei quotidiani britannici che grossolanamente affrontano questioni delicate e complesse come la vicenda afgana e la presenza di militari di tanti Paesi europei e, quindi, dell'Italia (Applausi della deputata Paoletti Tangheroni).
Non sottovaluto tutto quello che si è riusciti a raggiungere nel corso di questi anni con l'impegno della comunità internazionale in Afghanistan. Non sottovaluto che siano tornate a scuola le bambine, che si siano riaperte le università, né sottovaluto che vi è stata anche una partecipazione popolare ad un voto che ha permesso la ricostituzione delle istituzioni grazie all'aiuto internazionale e all'impegno di afgane e afgani che credono nel proprio futuro e nella possibilità di realizzarlo. Tuttavia la questione che poniamo è che non si è prodotto un cambiamento tangibile, con migliori condizioni di vita e sicurezza e con la garanzia dei servizi essenziali. La realtà resta aspra, difficile, le città afgane sono sovrappopolate, il lavoro è scarso per i milioni di profughi che vi hanno fatto ritorno e poche o nulle sono le opportunità per i giovani. Insomma, non aver ricostruito con rapidità quanto distrutto dai talebani e dalle guerre è stato un gravissimo errore politico della comunità internazionale.
I dati impongono una riflessione: ancora oggi meno del 25 per cento della popolazione accede all'acqua potabile, solo il 10 per cento degli afgani beneficia dell'energia elettrica e a Kabul solo un terzo dei suoi abitanti (più di 3 milioni) e per poche ore al giorno, mentre rimangono da costruire scuole, ospedali e strade. Vi è certamente una responsabilità anche delle autorità afgane. Vi è infatti una corruzione diffusa, un divario tra poveri e arricchiti, un'economia condizionata dai narcotrafficanti ma vi è anche da considerare che le risorse stanziate per la ricostruzione da parte della comunità internazionale sono del tutto inadeguate. Non si è riusciti, tra l'altro, a fornire una soluzione convincente al problema di un migliore coordinamento degli aiuti. In realtà ha pesato, anche per quanto riguarda la disponibilità delle risorse, la scelta dissennata di aprire il fronte iracheno a conflitto afgano ancora aperto. Basti pensare che le somme impiegate per gli aiuti alla ricostruzione in Afghanistan corrispondono appena ad una ventesima parte di quelle allocate all'Iraq dopo la guerra.
Vi è infine la piaga del narcotraffico. Una cosa dobbiamo avere bene in mente: l'Afghanistan produce il 90 per cento dell'oppio mondiale ma i contadini afgani coltivano il papavero per sopravvivere ed è inaudito che dopo sette anni non esista una strategia chiara e condivisa su come affrontare il problema. Certo, occorre che i contadini abbandonino le coltivazioni, ma quelli che lo hanno fatto non riescono più a mantenere le loro famiglie. La verità è che quello della droga è più che un problema militare, un problema sociale. Il rientro nella legalità può avvenire solo con la possibilità di un'alternativa di vita reale e concreta per i contadini.
Oggi la mancanza di una strategia coerente contro il narcotraffico sta favorendo i narcotrafficanti, che sostengono i talebani, i quali tornano padroni nel campo, e tutto ciò rappresenta una micidiale spirale. Inoltre, vi è un problema in Afghanistan relativo alla sicurezza. Vi sono i segni di quella che fu definita una progressiva «irachizzazione»: esplosioni quotidiane, ricorso agli attentati suicida, sequestri. L'insicurezza è cresciuta in modo preoccupante. Sia chiaro che la fine della presenza militare da parte della comunità internazionale non significherebbe la fine della violenza e non creerebbe una situazione migliore, in quanto segnerebbe l'avvio di scontri tra prepotenze tribali rappresentate dai signori della guerra, o determinerebbe il ritorno ad un regime moralmente infame come quello dei talebani. Rimane però il fatto che se non vi è un cambiamento, una correzione di strategia politica e militare, la NATO può essere sconfitta. È inutile coltivare illusioni, occorre dirlo con parole chiare, e lo voglio dire in questa che probabilmente è l'ultima seduta dell'Assemblea prima dellePag. 91elezioni politiche. Occorre dirlo - ripeto - con parole chiare: la NATO può essere sconfitta.
La strada per uscire dalle difficoltà, in assenza di una strategia politica, non è l'escalation militare. Non lo fu per i britannici un secolo fa, né per i sovietici negli anni Ottanta. Ciò che occorre è una strategia politica della Comunità internazionale, chiara negli obiettivi, condivisa dagli afgani, dotata dei mezzi necessari. Se in Iraq, come si sostiene, vi sono stati dei miglioramenti, ciò è dovuto al convincimento delle principali tribù delle comunità irachene. È stata la correzione dell'azione politica a migliorare, relativamente, la situazione in Iraq. In Afghanistan si tratta di mettere a punto un programma di aiuti efficaci ai civili: acqua, elettricità, cure mediche, scuola, lotta alla corruzione e all'impunità, formazione e valorizzazione delle forze di polizia e dell'esercito afgani. La popolazione deve poter vedere un reale cambiamento, apprezzarlo, e solo in questo modo tornerà a credere nella presenza internazionale. Occorre un mutamento, possibile solo riconoscendo la priorità ai bisogni della popolazione.
Ma il cambiamento di strategia necessita anche di un nuovo impegno internazionale, non limitato ai Paesi della NATO. Ecco perché ha un senso tornare a lavorare per una conferenza internazionale che veda coinvolti Paesi limitrofi e centroasiatici, oltre a quelli occidentali. Come si fa a non capire che non basta l'Alleanza atlantica e che occorre un nuovo impegno dei Paesi confinanti e un'assunzione piena di responsabilità della comunità internazionale, con un visibile rafforzamento delle Nazioni unite?
Queste sono le questioni che deve porre l'Italia, qualunque sia il suo Governo. L'Italia deve porre tali questioni in qualità di componente temporaneo del Consiglio di sicurezza dell'ONU, di membro della NATO e di fondatore dell'Unione europea.
Vorrei, in conclusione, che restasse agli atti di questa discussione che il Governo italiano, qualunque esso sarà nei prossimi mesi, dovrà esprimere questa esigenza di revisione della strategia con cui la comunità internazionale ha affrontato la sfida in Afghanistan. Questa nostra posizione è altra cosa dal disimpegno, che condannerebbe l'Italia all'impotenza e all'impossibilità di influenzare gli avvenimenti.
Il nostro contingente quindi resta in Afghanistan e, proprio perché in quel Paese partecipiamo ad un'impresa multilaterale, noi intendiamo far valere le nostre posizioni e batterci perché siano sostenute dal nostro Governo, e fare in modo che l'Italia - nel momento in cui afferma l'assunzione piena di responsabilità in quell'impresa multilaterale voluta dalle Nazioni unite - allo stesso tempo faccia sentire la propria voce, che pone il problema di una revisione e di una correzione della strategia.
Occorre fare questo nell'interesse dell'Italia e del suo ruolo e nell'interesse dell'obiettivo che la missione multilaterale si propone di raggiungere, ovverosia la stabilizzazione e la pacificazione dell'Afghanistan (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico-L'Ulivo).
PRESIDENTE. La relatrice per la IV Commissione, presidente della Commissione difesa, deputata Pinotti, ha facoltà di svolgere la relazione.
ROBERTA PINOTTI, Relatore per la IV Commissione. Signor Presidente, il decreto-legge che stiamo esaminando proroga una serie di interventi di cooperazione allo sviluppo e a sostegno di processi di pace e di stabilizzazione e le missioni militari di polizia volte a questi fini.
Un sintetico riepilogo sulle attività finanziate dal decreto-legge che stiamo esaminando consente di avere un'idea più precisa sull'insieme di iniziative e di impegni ai quali il nostro Paese si trova a dover corrispondere. È il risultato di un'attività diplomatica condotta all'insegna di un multilateralismo efficace, il cui valore complessivo rischia troppo spesso di passare in seconda linea, oscurato dal continuo reiterarsi di un dibattito sulla politica interna.
Prima di passarli rapidamente in rassegna, vorrei ricordare che si tratta diPag. 92interventi di varia natura in diciannove Paesi diversi e di due missioni navali. Vediamoli in rapida sintesi.
Vengono finanziati interventi di cooperazione allo sviluppo e a sostegno dei processi di pace e stabilizzazione in Iraq, Afghanistan, Libano, Sudan, Somalia e Repubblica democratica del Congo; viene autorizzata in Iraq la partecipazione di personale militare in attività di formazione e addestramento; in Italia viene autorizzato il finanziamento per lo svolgimento di corsi di formazione in materia penitenziaria; viene autorizzata, altresì, la partecipazione italiana ai fondi fiduciari della NATO per programmi di reinserimento nella vita civile di personale militare in Serbia e Bosnia, per la bonifica di ordigni inesplosi in Giordania, per garantire l'autonomia delle forze di sicurezza in Iraq e Afghanistan e per sostenere l'addestramento dell'esercito afghano nella lotta al narcotraffico.
Con questo decreto-legge proroghiamo numerose missioni militari: in Libano, dove abbiamo 2.458 militari, molti mezzi sia terrestri che aerei ed anche due unità navali; in Afghanistan, dove abbiamo 2.350 militari ed anche qui numerosi mezzi sia terrestri che aerei; nel Mediterraneo, dove stiamo pattugliando; nei Balcani, in Bosnia, ad Ebron, al valico di Rafah, in Sudan, nel Darfur, in Ciad, nella Repubblica centroafricana, nella Repubblica democratica del Congo, a Cipro e in Albania.
Mi soffermerò su alcune di tali questioni militari che ritengo siano di maggiore interesse, soprattutto per la rilevanza del nostro impegno.
Ricordo che cediamo, anche a titolo gratuito, alle Forze armate materiali vari (esclusi quelli di armamento): alle Forze armate albanesi, a quelle della Repubblica araba e di Egitto e alle Forze armate della Repubblica di Serbia. Infine, autorizziamo programmi di cooperazione delle forze di polizia in Albania, in Kosovo, in Moldova, in Ucraina, in Palestina, in Bosnia, in Libia e ad Haiti. Inoltre, vi è anche la partecipazione della Croce rossa sia in Libano sia in Afghanistan.
L'elenco delle missioni che il decreto-legge proroga consente di dare un giudizio complessivo sugli aspetti generali della politica d'intervento dell'Italia all'estero. A fattor comune di tanti contesti così diversi vi è, a mio avviso, una situazione di grande instabilità, che rende necessario l'intervento da parte della comunità internazionale.
In quest'ottica, le missioni internazionali nelle quali è impegnata l'Italia sono basate su azioni mirate a favorire la sicurezza, la tutela dei diritti umani, la promozione della democrazia, nonché la stabilizzazione e la ricostruzione nell'ambito delle iniziative assunte dalle organizzazioni internazionali di cui essa fa parte. A questo riguardo, va sottolineato il fatto che le Forze armate e di polizia sono da sempre fortemente impegnate nelle missioni internazionali con grande umanità e professionalità, conseguendo risultati eccellenti e apprezzamenti sia a livello internazionale sia da parte delle popolazioni locali.
Mi soffermo brevemente sulle missioni in Libano, in Afghanistan e nei Balcani. Come dicevo, in Libano abbiamo 2.458 militari e numerosi mezzi. Sono cifre di per sé già significative, ma che non bastano a dare l'idea di quanta attenzione, sacrifici, professionalità e di quanto senso di responsabilità siano necessari giorno per giorno per mantenere sotto controllo una situazione estremamente complessa. Esse non rendono conto neppure lontanamente dell'ansia con cui ogni giorno si attende la fine di quel pattugliamento, di quel controllo, di quell'operazione di sminamento o di bonifica del terreno dalle cluster bomb che, in quella particolare missione, stiamo attivando.
L'operazione UNIFIL è sostenuta dal mare dalle attività di pattugliamento e controllo, svolte dalle unità navali Cassiopea e Maestrale, inserite nell'operazione EUROMARFOR, forza marittima costituita insieme a Francia, Spagna e Portogallo.
La situazione libanese - lo ricordiamo - è esplosa nel conflitto che si è aperto il 12 luglio con combattimenti lungo il confine israelo-libanese, che è durato moltiPag. 93giorni. Abbiamo subito avviato un'iniziativa diplomatica e abbiamo svolto la conferenza di Roma: è stato un primo significativo impegno diplomatico per tentare di fermare una guerra che, intanto, proseguiva con massicci bombardamenti e migliaia di vittime. L'11 agosto il Consiglio di sicurezza dell'ONU approvava all'unanimità la risoluzione n. 1701, che prevedeva il dispiegamento di una forza multinazionale.
Il nostro Paese è stato in prima fila nell'organizzazione di un dispositivo militare che dopo la cessazione delle ostilità, avvenuta il 14 agosto, è stato schierato in una fascia di sicurezza tra la linea blu e il fiume Litani. La presenza della forza multinazionale, il cui comando è stato prima francese e poi italiano, è stata risolutiva per far cessare i combattimenti e tuttavia in quei pochi giorni di guerra, secondo le organizzazioni internazionali, sono morti più di 1.100 libanesi, un terzo dei quali bambini con meno di dodici anni e sappiamo che vi sono state perdite anche da parte degli israeliani e di due soldati non si hanno più notizie. Altro frutto avvelenato di quella guerra sono le migliaia di cluster bomb rimaste inesplose in Libano.
Della missione in Afghanistan, come ha affermato già il presidente Ranieri, sappiamo che si tratta di una missione molto complicata. Abbiamo impegnati 2.350 militari, 647 mezzi terrestri e sedici aeromobili. In territorio afgano continuano ad essere condotte operazioni a guida americana nell'ambito della missione Enduring Freedom avviata sulla base della risoluzione ONU n. 1368 del 12 settembre 2001.
La duplice presenza in Afghanistan delle missioni ISAF ed Enduring Freedom ha messo in evidenza aspetti contraddittori e creato non poche situazioni di notevole difficoltà che sono state anche oggetto di decise prese di posizione da parte del Governo italiano. Il Ministro Parisi ha giudicato inadeguato il coordinamento tra i contingenti che operano in queste due missioni. Il modo migliore di rispondere a chi ci chiede un maggiore impegno mi sembra sia quello di ricordare come al momento l'Italia sia il Paese europeo che fornisce il maggior numero di uomini alle missioni militari multinazionali nel loro complesso. Posso anche essere d'accordo sulla ipotesi che in Afghanistan siano necessari più soldati, ma penso anche che di più l'Italia non possa compiere. Rispetto a ciò che si deve fare concordo pienamente con quanto affermato dal presidente Ranieri ossia che la strategia politica, diplomatica e di ricostruzione è stata troppo debole e su tale punto si dovrebbe rinforzare molto l'intervento della comunità internazionale.
Altri elementi di discussione presenti anche in sede NATO riguardano il tipo di strategia da adottare. Enduring Freedom combatte contro la guerriglia talebana nel sud-est del Paese e ai confini con il Pakistan e tale impegno viene ritenuto prevalente su quello di ISAF che ha, invece, compiti di ricostruzione e stabilizzazione. Il confronto sulle strategie arriva qualche volta anche a sottovalutare l'impegno dei nostri soldati, come se costituisse un impegno minore e il presidente Ranieri ricordava tale aspetto in ordine ad una discussione svolta recentemente in cui abbiamo assunto una posizione molto forte e netta in merito a quanto è stato scritto su un quotidiano inglese rispetto all'impegno dei nostri soldati.
Quanto invece tale impegno sia difficile, delicato, rischioso ed utile in una strategia di pacificazione ce lo ricordano, purtroppo, gli stessi agguati terroristici che colpiscono i nostri soldati proprio per spezzare il rapporto positivo che stanno costruendo con le popolazioni. Come ha ricordato il presidente Ranieri - e a tale riguardo si volge un pensiero di cordoglio di tutta l'Assemblea - l'ultimo agguato in ordine di tempo è stato quello in cui ha perso la vita il maresciallo Pezzullo ed è rimasto ferito il suo collega Mercuri. Dispiace, appunto, che per motivi non sappiamo quanto nobili, e probabilmente molto interni allo scontro britannico, si sia lanciato un attacco contro il nostro Paese e i nostri soldati, un attacco inaccettabile, sferrato oltretutto nel momento meno opportuno cioè all'indomani di quell'attentatoPag. 94e di un grave lutto. L'impegno dei nostri soldati è di tutto rispetto e assolutamente coerente con le deliberazioni del Parlamento e con quanto concordato nelle sedi multinazionali.
Il cambio di strategia che ci sentiamo impegnati a sostenere non riguarda quindi il problema se restare in Afghanistan, ma come restarci. Il ritiro unilaterale del nostro contingente indebolirebbe proprio quell'azione politica che riteniamo sia necessaria affinché possa essere condivisa da tutti i partner internazionali, a cominciare dagli Stati Uniti, al fine di assicurare un cambiamento omogeneo e coerente delle modalità con cui le truppe internazionali devono operare nel corso delle azioni militari e nel rapporto con la popolazione, così da ottenere una percezione più positiva da parte degli afgani assicurando contestualmente il controllo del territorio e la sicurezza della popolazione civile e coinvolgendo progressivamente in tali compiti, con sempre maggiore responsabilità, gli stessi afghani.
Infatti, come è autorevolmente sostenuto nel Rapporto sulla dottrina europea sulla sicurezza umana redatto su incarico dell'Alto rappresentante per la politica estera e sicurezza comune, Javier Solana, una moderna concezione della sicurezza collettiva non può prescindere dall'obiettivo primario della tutela dei civili da considerarsi preminente anche su quello della sconfitta dell'avversario, da cui consegue l'inaccettabilità della logica dei danni collaterali, la necessità di ridurre al minimo la perdita di qualsiasi vita umana compresa quella dei terroristi o dei ribelli che dovrebbero essere considerati sempre più criminali da arrestare in una logica di operazione di polizia e di ordine pubblico, piuttosto che nemici da eliminare fisicamente.
Proprio in Afghanistan l'allontanamento da questo tipo di approccio alla sicurezza collettiva rischia di aggravare l'empasse politica che è alla radice delle difficoltà sul terreno e di quelle nello sradicamento della propaganda e della militanza pro-talebana in molte regioni del Paese.
Per primi abbiamo cominciato a proporre la necessità di una Conferenza internazionale sull'Afghanistan. Appare, infatti, indifferibile tentare di risolvere la crisi afgana in un contesto regionale più ampio, attraversato da tensioni che si riverberano in seno al fragile quadro sociale e istituzionale afgano, influenzato tanto dalle vicende del vicino Pakistan, quanto storicamente collegato all'Iran, indispensabile interlocutore regionale e, infine, esposto nelle aree settentrionali alle tensioni interne tra etnie Pashtun, Uzbeki, Tagiki e Hazara.
Questa posizione è stata sostenuta con decisione dal nostro Governo in molte sedi e nel marzo del 2008 all'ONU, durante la Presidenza italiana nello stesso Consiglio di sicurezza nell'ambito di una sessione di lavoro proprio sulla situazione in Afghanistan e nella Conferenza tenutasi a Kabul il 28 gennaio scorso convocata da cinque cartelli di altrettante rappresentanze della società afgana che si è proposta come preconferenza di pace della società civile afgana.
L'utilità di una Conferenza internazionale sta facendo passi avanti sul terreno diplomatico e potrebbe essere il significativo punto di approdo delle tante iniziative politiche e diplomatiche che anche per l'insistenza dell'Italia si sono già realizzate e potrebbe trovare un risultato significativo nella Conferenza che si sta preparando a Parigi con i Paesi donatori.
Non siamo in Afghanistan per fare la guerra, ma per ricostruire, sostenere le istituzioni elettive e garantire la sicurezza. Più di tante parole ritengo possa servire un sintetico riepilogo delle attività svolte in concorso dalla cooperazione civile e militare nel periodo 2006-2007 che hanno realizzato decine di scuole, asili, poliambulatori, strade, strutture di detenzione preventiva, ponti, canali di irrigazione, pozzi per l'approvvigionamento di acqua potabile.
Consegnerò - nell'ambito di considerazioni integrative al mio intervento -, perché è un segno e ci tengo che rimangaPag. 95agli atti, l'elenco completo e dettagliato di tutte le opere che i nostri militari hanno fatto in Afghanistan.
Concludo con un breve cenno alla situazione dei Balcani, dove abbiamo 2.380 militari ed anche qui molti mezzi terrestri, navali e aeromobili. La questione più delicata che influenza i processi di stabilizzazione dei Balcani è senza dubbio la definizione dello status del Kosovo per i problemi che essa suscita nei rapporti con la Serbia e l'intera comunità internazionale, in primo luogo la Russia.
Personalmente sono tra coloro che ritengono non esistano alternative ad un'indipendenza oggi del Kosovo, ma ritengono altrettanto necessario richiedere il massimo di responsabilità ai dirigenti di entrambi i Paesi perché la Serbia non esca da questa vicenda umiliata e sconfitta.
I risultati delle elezioni in Serbia dello scorso 3 febbraio ci sembra abbiano confermato la validità di tenere aperto questo doppio canale diplomatico. Domenica pomeriggio, come sappiamo, il Kosovo si è auto-proclamato indipendente durante una seduta straordinaria del Parlamento di Pristina. Immediate e di segno opposto sono state le reazioni, che tralascio di ricordare in questa sede. C'è tensione, anche qualche incidente, ma almeno finora, non ci sono stati atti di grave violenza.
Credo anche che, soprattutto a questo fine, tutti debbano impegnarsi al massimo. Ora la situazione è ancora più delicata. Il Kosovo si trova sospeso nella situazione di un'indipendenza dichiarata ma non pienamente riconosciuta dalla comunità internazionale, passando di fatto da un protettorato ONU ad un protettorato dell'Unione europea, una situazione fragile dal punto di vista del diritto internazionale. Ma la partita vera si giocherà sul campo.
È questo il senso più profondo della missione dell'Unione europea che ha inviato 2 mila civili con la missione Eulex, tra cui 200 italiani e alla quale prendono parte anche Paesi che non riconosceranno l'indipendenza del Kosovo. L'obbiettivo è quello di garantire, al di là dell'incerta connotazione dei riconoscimenti internazionali, i diritti alle minoranze serbe del Kosovo e la realizzazione di uno Stato di diritto in senso lato, sfida difficile, ma obbligata.
Un'ultima riflessione: buona parte delle disposizioni del decreto-legge si rendono necessarie a causa della mancanza di una legislazione di carattere generale che disciplini i molteplici aspetti normativi connessi allo svolgimento delle missioni internazionali. Per colmare questa lacuna, nonché per disciplinare in maniera esaustiva i rapporti tra Governo e Parlamento in ordine all'invio di contingenti militari all'estero, nel corso della legislatura le Commissioni affari esteri e difesa hanno esaminato alcune iniziative legislative (una delle quali a mia firma) volte all'introduzione di una disciplina quadro sulla partecipazione italiana a missioni umanitarie internazionali.
Nello stesso spirito si iscrive anche il tentativo di addivenire alla tanto attesa riforma del codice penale militare di pace che ha formato oggetto di una proposta di legge che prevede l'applicazione di specifiche disposizioni per il personale militare impegnato nelle missioni internazionali il cui esame è stato avviato dalle Commissioni giustizia e difesa riscuotendo l'apprezzamento del Governo e dei soggetti intervenuti nel corso dell'attività conoscitiva, vale a dire il capo di stato maggiore della difesa e il comandante generale dei carabinieri.
Dispiace che in questa legislatura non si sia potuto concludere l'iter di questi due progetti di legge. Mi auguro, comunque, che possano essere ripresi successivamente, in quanto sono molto attesi dal mondo militare.
Signor Presidente, come anticipato, chiedo che la Presidenza autorizzi la pubblicazione in calce al resoconto della seduta odierna di considerazioni integrative della mia relazione.
PRESIDENTE. Onorevole Pinotti, la Presidenza lo consente, sulla base dei criteri costantemente seguiti.Pag. 96
Prendo atto che il rappresentante del Governo si riserva di intervenire in sede di replica.
È iscritto a parlare l'onorevole Marcenaro. Ne ha facoltà.
PIETRO MARCENARO. Signor Presidente, le relazioni presentate dagli onorevoli Ranieri e Pinotti sono così approfondite e ricche non solo di analisi, ma anche di indirizzi politici che mi permettono di ridurre il mio intervento e di contenerlo nei termini essenziali, per esprimere una valutazione sui problemi che affrontiamo con la conversione del decreto-legge in esame concernente le missioni internazionali.
Alla fine di questa legislatura, mi pare che siamo di fronte ad un bilancio della politica estera italiana, che ha costituito uno degli aspetti più importanti della nostra esperienza di Governo in questa breve stagione. Il Governo italiano e la maggioranza che lo ha sostenuto hanno posto in essere una politica estera con la quale - è mia convinzione - hanno dimostrato che era possibile non semplicemente non subire l'alternativa tra un unilateralismo (che tanti danni ha provocato nel corso di questi anni) e un semplice disimpegno dei problemi della pace e della sua costruzione.
Sui diversi fronti e terreni che oggi il decreto-legge in esame ci propone, abbiamo assistito ad una iniziativa politica del Governo italiano, capace di introdurre un elemento di costruzione e di iniziativa nel quadro della relazioni internazionali e di affermare una linea che, nelle condizioni date, puntava a contribuire a quella prospettiva multilaterale, che oggi riteniamo indispensabile per la realizzazione della pace.
Sappiamo che questa scelta è cominciata con la decisione di ritirare le nostre truppe dall'Iraq ed è proseguita con la coraggiosa scelta del Governo italiano nel conflitto libanese. Tale scelta ha contribuito ad orientare l'insieme del comportamento dell'Unione europea, su questo punto così importante dello scacchiere internazionale, che si misura oggi con le difficoltà e le contraddizioni - ne hanno parlato sia il presidente Ranieri sia la presidente Pinotti - di una situazione come quella del Kosovo. In quella situazione, come ricordava il presidente Ranieri, ci siamo trovati di fronte all'impraticabilità di una trattativa tra serbi e kosovari (in fondo arroccati su posizioni predefinite), ma anche ad un confronto tra Stati Uniti e Russia. Si riproponeva in quella situazione lo scenario così preoccupante di un nuovo confronto, come se, molti anni dopo la fine di quel bipolarismo che aveva governato gran parte del secondo dopoguerra, fossimo di fronte, appunto, ad un nuovo scenario nel quale i conflitti trovano una legittimazione, possono riprodursi e nel quale riparte quel meccanismo così terribile e preoccupante come quello addirittura della corsa al riarmo, anche nucleare.
In questo quadro, il Governo italiano ha posto in essere una politica di assunzione di responsabilità, che il decreto-legge in esame conferma. È stata la politica di chi sa che essere e lavorare per la costruzione della pace è possibile solo nel quadro dato da parte di Paesi capaci di stare dentro il loro sistema di alleanze con una proposta e una politica attive, con il tentativo di illuminare, attraverso la luce della politica, i conflitti e le possibilità di loro soluzione.
Abbiamo già detto per questo motivo, nella discussione su questo decreto-legge che abbiamo affrontato in Commissione, che noi vogliamo tenere lontano dalla nostra politica la parola «disimpegno». Il problema non è semplicemente quello di tirare fuori un Paese e noi stessi dalle difficoltà e di estraniarci. Se il problema è quello di contribuire alla costruzione di una prospettiva nuova, ciò richiede scelte nuove e vale per tutti gli scenari.
Non riprendo il discorso così importante fatto questa sera dal presidente Ranieri a proposito della questione dell'Afghanistan; mi pare che egli abbia detto con chiarezza che la nostra scelta di confermare l'impegno della presenza militare avviene non semplicemente per prendere atto di una situazione e per subirla, maPag. 97che essa è accompagnata da una profonda consapevolezza di un bisogno di cambiamento dello scenario e delle scelte che su quel terreno si devono compiere.
Sicuramente oggi l'Afghanistan è uno dei punti più importanti sui quali si misurerà la capacità delle forze che puntano alla pace di affermare uno scenario nuovo, di imporre, attraverso il confronto e la discussione, quella svolta che metta al primo punto la politica, perché - come molti hanno ricordato e come ne sono consapevoli tutti i Paesi che sono impegnati in Afghanistan - tutti sanno che i passi indietro fatti dal 2002-2003, quando il conflitto sembrava quasi risolto, ad oggi, non sono avvenuti fondamentalmente sul terreno militare: è sul piano politico, sul piano dell'organizzazione del consenso e sul piano - come ricordavano gli onorevoli Ranieri e Pinotti - delle risposte ai problemi di quella società che l'impegno è stato insufficiente e a volte sbagliato.
D'altra parte, non c'è contraddizione fra l'impegno che oggi prendiamo a riconferma delle nostre responsabilità e della nostra presenza militare con la critica che il Governo italiano è stato capace di esercitare quando azioni militari dissennate, attraverso bombardamenti generalizzati che provocavano vittime civili, non solo infliggevano danni irreparabili, ma determinavano anche le condizioni per il venir meno di quel consenso, di quelle relazioni e di quel rapporto necessari per un effetto positivo.
Voglio chiudere questo mio intervento con una considerazione politica. Ritengo che in questi due anni di esperienza del nostro Governo e della nostra maggioranza, contrariamente a quello che si pensava, la politica estera abbia costituito un forte punto di unità della nostra coalizione. Penso che tutti quei cittadini che hanno votato alle elezioni del 2006 per il centrosinistra abbiano trovato nella politica estera italiana e nei suoi cambiamenti un punto nel quale hanno trovato realizzate le aspettative per le quali avevano votato. Ritengo che questo risultato lo abbiamo raggiunto insieme, pur da posizioni diverse, ma misurandoci tutti sul comune terreno della responsabilità di governo. La considero una cosa molto importante e noi non ci rassegniamo a che questo cammino sia interrotto e che ci sia una involuzione che porti ad allontanarci da questo terreno. Noi non rinunciamo ad un'azione e ad una discussione nella quale, forti delle nostre convinzioni, vogliamo produrre un passo in avanti nell'insieme del centrosinistra e della sinistra italiana.
Lo dico perché a noi risulta incomprensibile il fatto che oggi queste posizioni improvvisamente cambino, che oggi ci troviamo improvvisamente, per il quadro politico nuovo nel quale ci collochiamo, di fronte ad un passo indietro che mette in discussione punti che ritenevamo consolidati.
Lo dico senza nessun carattere di sfida, ma come chi pensa che il terreno dell'innovazione politica sul quale è impegnato non serva solo a delineare un quadro più convincente di una proposta programmatica e di forze politiche capaci di essere all'altezza di questo disegno.
Ho sempre vissuto - mi scuso se introduco una nota personale - l'esperienza e la costruzione del Partito Democratico come qualcosa che riguardava naturalmente uno scenario più ampio, ma anche come un modo per guardare ad un cambiamento dell'insieme della sinistra e ad un suo passo in avanti sul terreno della responsabilità di Governo.
Anche in questo senso e in questo quadro voglio annunciare in questa sede che, insieme al voto favorevole sul disegno di legge di conversione, il nostro gruppo presenterà un ordine del giorno, in particolare sulla questione dell'Afghanistan, che, raccogliendo gli indirizzi che in modo, a mio parere, così convincente il presidente Ranieri e la presidente Pinotti hanno espresso nelle loro relazioni, è anche il risultato di un confronto con le forze della pace, con quelli che si sono misurati e si impegnano in Afghanistan sul terreno di una soluzione pacifica.
Con tale ordine del giorno si vuole legare la conversione di questo decreto-legge a un indirizzo politico, a un impegno nel quale la nostra confermata responsabilitàPag. 98venga qualificata e attraverso il quale abbiamo la preoccupazione di indicare uno sbocco politico a una situazione così impegnativa (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico-L'Ulivo).
PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Deiana. Ne ha facoltà.
ELETTRA DEIANA. Signor Presidente, voglio iniziare questo mio intervento, a nome mio e del mio gruppo, esprimendo un giudizio molto critico sulla decisione della Conferenza dei presidenti di gruppo di non chiedere la presenza in Aula del Governo per riferire sulla questione dell'indipendenza del Kosovo, riducendo, quindi, tutto a un'informativa del Ministro degli affari esteri alle congiunte Commissioni esteri di Camera e Senato.
Voglio anche ricordare al Governo, al Viceministro Intini in maniera particolare, che la Camera ha al suo attivo due mozioni, sempre sulla questione del Kosovo, che esprimono o un giudizio critico sull'eventualità della dichiarazione unilaterale di indipendenza del Kosovo o forti preoccupazioni, dando mandato al Governo di fare di tutto per arrivare a una soluzione condivisa tra la Serbia e il Kosovo, per evitare, insomma, di subire questo processo di secessione, foriero di pesantissimi rischi sia per quella regione che per altre regioni europee.
Voglio anche sottolineare che il Governo, allo stato attuale - non soltanto perché si tratta di un Governo in carica per la normale amministrazione e non per questioni così rilevanti, ma anche in ragione del fatto che esiste un orientamento del Parlamento del tipo che ho illustrato - non può non tenere conto della situazione, pena un grave vulnus nei rapporti tra Parlamento e Governo.
Penso che un eventuale riconoscimento da parte del Governo italiano dell'atto unilaterale con cui il Kosovo, domenica scorsa, ha dichiarato la propria indipendenza, spetti eventualmente al futuro Governo, previa una nuova iniziativa parlamentare che cancelli quelle di cui parlavo.
Mi sembra che si tratti di una questione di grandissimo rilievo, rispetto alla quale, fra l'altro, desidero anche sottolineare il modo con cui tutta la vicenda è stata condotta da parte del Governo, con passaggi che sostanzialmente hanno visto un continuo slittamento - non verificato né discusso in alcuna sede parlamentare - delle sue posizioni.
La questione del Kosovo rappresenta uno degli aspetti più negativi del decreto-legge al nostro esame: ciò tanto nel metodo quanto nel merito. Nel metodo, perché l'inserimento nel decreto-legge del finanziamento della partecipazione di 200 funzionari italiani alla missione dell'Unione europea (missione funzionale ad instaurare in Kosovo una nuova forma di protettorato europeo che dovrebbe sostituire il protettorato ONU), l'inserimento - dicevo - del finanziamento dell'avvio di questa partecipazione italiana al nuovo protettorato sul Kosovo, costituisce di fatto una presa di posizione concreta che avviene prima ancora che il Governo si assuma la responsabilità di dichiarare il proprio riconoscimento della secessione del Kosovo.
Si tratta, dunque, di un metodo davvero criticabile, in quanto antepone i fatti - fatti concreti, poiché si tratta di risorse dello Stato italiano - alle decisioni in sede politica, e da esse prescinde. Desidero, dunque, porre prontamente l'accento sul fatto che si tratta di un metodo che costituisce una violazione dei rapporti democratici: di fatto, il Governo decide attraverso marchingegni, sotterfugi e macchinazioni, a danno del Parlamento e dell'opinione pubblica.
Dunque, attraverso il finanziamento di questa partecipazione italiana - una partecipazione di cui non sappiamo nulla (anzi, sappiamo fin troppo: ma per altre strade!) - si decide di avallare una scelta assai grave: ed arriviamo così al merito della questione. Si tratta di una scelta molto grave, poiché sostanzialmente essa avviene a dispetto di qualsiasi forma di diritto internazionale.
I colleghi hanno fatto riferimento al diritto internazionale: ebbene, esso viene qui violato in maniera evidentissima, poiché vi è un contrasto con la risoluzionePag. 99dell'ONU n. 1244, che è l'unico punto di riferimento in materia. Dobbiamo riconoscere che è così: altrimenti, onorevole Marcenaro e presidente Pinotti, parliamo di buoni sentimenti, di buone intenzioni, di buone vocazioni, di buone opzioni, di buone azioni. E, invece, dobbiamo parlare di diritto internazionale, poiché le questioni internazionali non possono essere tirate da una parte o dall'altra sulla base delle intenzioni soggettive di questo o quel ministro e di questo o quel parlamentare.
La risoluzione ONU n. 1244 riconosce la sovranità serba sul Kosovo. Fra l'altro, noi italiani, viste le responsabilità gravissime che avemmo nella vicenda dei Balcani, dovremmo attenerci - perlomeno ex post - alle decisioni dell'ONU, considerato che allora partecipammo ad una guerra facendo finta che l'ONU non vi fosse.
Si tratta, nella risoluzione 1244, di un riferimento di diritto internazionale preciso e non interpretabile se non per quello che dice: la sovranità sul Kosovo è una sovranità serba. Noi allora, con gli slittamenti di posizione cui abbiamo assistito nei mesi scorsi e nelle ultime settimane da parte del Governo italiano e del Ministro D'Alema sulla questione del Kosovo, abbiamo praticamente assistito ad un cambiamento di scena, ad un altro film: l'indipendenza ad un certo punto, per il Ministro D'Alema ed i sottosegretari competenti, è diventata irreversibile. L'Europa doveva essere unita e questo sarebbe stato un test decisivo per l'Europa.
Io credo che l'Europa - che tra l'altro, come sappiamo, su questa questione è divisa - nei Balcani e nella vicenda del Kosovo per la seconda volta fallisce il suo ruolo politico e fallisce la sua capacità di essere soggetto di diritto e soggetto di integrazione reale.
In realtà, il modo di comportarsi del Governo in tutta questa vicenda ha significato questa forte attribuzione all'Europa (un'Europa che, tra l'altro, è divisa e non è assolutamente in grado - io dico, per fortuna - di assumersi la responsabilità di riconoscere unitariamente, in quanto Unione europea, l'atto unilaterale di indipendenza), e questo tentativo di parlare dell'Europa come se fosse il soggetto titolare ad assumere una presa di posizione unitaria e a dare il consenso alla decisione del Kosovo.
In questo modo praticamente il Governo ha operato un tentativo esplicito di riportare tutto nella sede europea (tra l'altro, una sede debole e divisa, come dicevo), dimenticandosi delle responsabilità dell'Unione europea nel precipizio dei Balcani e smantellando in questo modo il ruolo del Consiglio di sicurezza dell'ONU e delle stesse Nazioni Unite: sostanzialmente ha attribuito all'Europa un ruolo giuridico di riconoscimento di questo cambiamento dei rapporti nei Balcani e dei rapporti tra la Serbia sovrana e la provincia kosovara, attribuendo un ruolo che non c'è e apportando di fatto un ulteriore colpo alle Nazioni Unite.
Ritengo, quindi, che tutta questa vicenda sia di una gravità enorme e ricordo la richiesta che veniva fatta dalla Camera di continuare a lavorare per procrastinare. Tra l'altro, voglio anche ricordare al Viceministro Intini che questa accelerazione è avvenuta anche contro il principio su cui era partita tutta la questione del Kosovo dopo le rivolte del 2004 (le rivolte degli indipendentisti kosovari contro l'Onu, prima ancora che contro le minoranze serbe), e che questo processo si è avviato ed è stato accelerato ad un certo punto contrastando anche con il principio degli standard before status, principio che doveva rappresentare un po' la barra per gestire un'eventuale indipendenza, con l'affermazione che il Kosovo doveva arrivare prima ad avere degli standard di democrazia, di rispetto dei diritti e di assetto istituzionale e statuale che sono ben lontani dall'essere stati raggiunti.
Si sono registrati, quindi, un'accelerazione, un precipitarsi verso questa soluzione, con tutte le gravi lacerazioni del diritto internazionale cui prima facevo riferimento, che rispondono soltanto - e qui il giudizio è tutto politico - alla pressante e reiterata richiesta da parte degli Stati Uniti d'America di riconoscere l'indipendenza della provincia kosovara.Pag. 100
Ancora una volta, quindi, sono gli Stati Uniti che impongono la politica interna ed estera all'Europa. Di questo si tratta ed è su questo che la discussione dovrebbe avvenire, non sui buoni sentimenti o sulle favole che ci vengono raccontate continuamente!
La questione del Kosovo, con tutte le implicazioni gravissime che presenta e con tutti i rischi che comporta per il nostro Paese, considerate, tra l'altro, la vicinanza e le implicazioni storiche (non voglio dilungarmi oltre), viene inserita nel pacchetto missioni, che sono previste tutte insieme appassionatamente, nonostante siano completamente diverse l'una dall'altra e rispetto alle quali, ancora una volta, il Parlamento, ogni singolo parlamentare è inibito nel suo diritto di esprimere un voto specifico differente. Ciò avviene in nome di una precondizione ideologica - la definisco così - che temo sia bipartisan ormai, per cui tutto quello che l'Italia compie all'estero con le sue Forze armate è di per sé, per definizione, buono.
Credo che anche su questo occorra fare chiarezza: le Forze armate italiane partecipano a missioni in giro per il mondo con un mandato, un ordine o un vincolo, che fanno bene a rispettare perché è una sicurezza per il nostro Paese che i militari italiani agiscano così, ma ciò non significa che quell'ordine sia santificante! Quell'ordine può essere giusto, sbagliato, criticabile e può e deve essere contrastato. Voglio affermare con chiarezza tale distinzione: i militari non c'entrano niente, non sono loro i responsabili delle missioni e dei mandati parlamentari, in quanto sono obbligati ad andare dove il Governo dice loro di andare (possono rendersi colpevoli di singoli atti - uno, due o un gruppo - ma è tutta un'altra questione!). Quindi, questo tentativo di anteporre continuamente il sacrificio, spesso vero, reale e di sangue, dei militari italiani per coprire e per evitare la discussione di merito su ogni missione è un modo veramente farisaico di impedire al Parlamento di pronunciarsi e di informare adeguatamente l'opinione pubblica su ciò che il nostro Paese realizza con lo strumento delle Forze armate e delle missioni militari.
Vengo ora rapidamente, perché molte volte mi ci sono soffermata, alla questione dell'Afghanistan, che è l'altro punto su cui, anche a nome del mio gruppo, esprimo un giudizio molto negativo. Anche in questo caso, i buoni sentimenti «stanno a zero». In Afghanistan esiste una situazione che voglio illustrare in maniera schematica, richiamando alcuni punti che confermano la necessità di un ripensamento radicale, che parta non dai buoni sentimenti, ma dall'analisi di ciò che comporta, in quel Paese, la presenza militare italiana, della NATO e degli Stati Uniti, dunque di una presenza militare ingombrante che, per quanto riguarda l'Italia, assorbe quasi il 100 per cento, il 90 per cento del nostro impegno finanziario nel settore militare. Si tratta, quindi, di un impegno militare, non civile.
Allora, avevamo sostenuto l'opportunità, non la necessità (vi erano giudizi diversi) di assumerci l'onere di verificare una soluzione diversa da quella militare attraverso la Conferenza di pace e attraverso un rigoroso impegno dei nostri militari rispetto agli standard militari previsti dagli articoli della Carta delle Nazioni Unite che disciplinano il peacekeeping (quindi, sostanzialmente, un divieto istituzionale di partecipare ad azioni di combattimento diretto). Invece, la discussione non affrontò mai la natura della complessiva presenza militare, con tutte le ambiguità conseguenti, ovviamente. Infatti, non vi eravamo solo noi, ma vi era la NATO, Enduring freedom, e l'eterodirezione diretta degli Stati Uniti, con tutto ciò che significa per gli Stati Uniti la presenza in quell'area del mondo dal punto di vista strategico e geopolitico. Tali argomenti evidentemente non sono da Parlamento, in quanto il Parlamento deve svolgere i «buoni ragionamenti» non so bene per chi, forse per un'opinione pubblica che, secondo alcuni, deve essere edulcorata e sottratta alle discussioni di un certo tipo.
La Conferenza internazionale di pace non si è tenuta e non sono stati prodottiPag. 101passi significativi, è rimasta una buona intenzione. Oggi il collega Marcenaro ha parlato di quest'altra conferenza, che corrisponde a quella. Certo chi è impegnato sul campo e cerca di realizzare qualcosa vede come la manna dal cielo le conferenze e strumenti di questo genere. Resta il fatto che non vi è un bilancio del motivo per cui la richiesta della Conferenza di pace, su cui questo Parlamento chiese l'impegno del Governo, non abbia prodotto frutti in questa direzione.
Nel Paese tutto ciò che riguarda i diritti umani e la sicurezza è sotto scacco. Vi è una situazione pesantissima. I dati ufficiali mostrano che vi è una caduta del 50 per cento degli investimenti stranieri in Afghanistan, in quanto gli imprenditori stranieri evidentemente non hanno voglia di rischiare la vita o di dover spendere chissà quali somme in guardie del corpo per fare affari in Afghanistan. Non parliamo dei diritti umani, in quanto non voglio ricordare vicende esemplari che, per fortuna, compaiono qualche volta sulla stampa e che la dicono lunga sui famosi progetti di giustizia di cui l'Italia doveva essere Paese leader nell'opera di ricostruzione delle istituzioni e della statualità dell'Afghanistan.
L'escalation e gli effetti collaterali di cui parlava il collega Marcenaro, la morte di civili di cui tutti siamo disposti a lamentarci (ovviamente, ci mancherebbe altro che non ci lamentassimo) non sono frutto del caso oppure del destino cinico e baro che colpisce le popolazioni afgane: sono il frutto di una strategia di guerra estremamente precisa che vede in gioco gli interessi degli Stati Uniti a non mollare quella zona e che ha come elemento stimolante aggiuntivo (ma di straordinaria importanza) il destino della NATO.
Chiunque di noi è in grado di sapere che la NATO - lo affermano Jaap de Hoop Scheffer, tutti i capi militari e il nostro Di Paola - gioca una partita essenziale in Afghanistan, in quanto si gioca il suo profilo di forza e di alleanza militare.
È lì che la NATO (che dovrebbe mettere a punto, nel suo sessantesimo anniversario, il nuovo concetto strategico) può verificare la possibilità di mantenere un target di alleanza militare estendibile ad altre funzioni collaterali (un nuovo mix tra militare, diplomatico e civile: insomma, la nuova forma di controllo mondiale da parte dei Paesi forti), oppure se essa si ridurrà ad essere un'agenzia impegnata in qualcosa di molto più generico. Questo è il punto: la mancata risoluzione di un'altra strada ha il suo fondamento in questa connessione di intraprendere interessi e di politiche di forza della NATO, che vuole continuare ad avere un ruolo forte, nonostante le divisioni interne; infatti, in questa escalation della NATO si evidenziano anche le contraddizioni forti. La NATO non ha più quella presa unificante, che aveva in altri tempi, sull'Europa e sull'Unione europea. Stiamo assistendo così a sceneggiate molto spiacevoli (non voglio usare altri aggettivi) di alcuni Paesi della NATO, che si arrogano il diritto di accusare noi, tra gli altri (mentre mi sembra un titolo di merito) di non sapere e di non voler combattere, senza essere capaci di affrontare nelle sedi dovute (Europa e NATO) la questione, che mette veramente in imbarazzo - per usare un eufemismo! - i rapporti internazionali.
Esiste, poi, un altro aspetto relativo a questa escalation e che costituisce l'altro motivo per il quale confermiamo il nostro giudizio su tutta la vicenda dell'Afghanistan. La fiducia che avevamo riposto nella possibilità di trovare una soluzione alternativa, mantenendo le nostre truppe in Afghanistan, è stata poi disattesa. Mi dispiace che non sia presente il collega Marcenaro, che chiedeva come mai si fosse verificato questo cambiamento. Esso è legato al cambiamento che sta avvenendo ed è avvenuto in quel luogo. Abbiamo, ormai, la consapevolezza che l'Italia - nonostante i caveat, le regole di ingaggio e il profilo di adesione che il mandato parlamentare assicura alla parte di peacekeeping dell'ISAF - sia in realtà sempre più coinvolta in quella che chiamo la «zona grigia» della missione, nella quale anche gli italiani sono coinvolti in combattimenti: non si tratta di combattimenti a fini di autotutela (ovviamente legittimi per i militariPag. 102che si trovano in quel Paese) o di uno slittamento dell'intervento a tutela di altri colleghi in pericolo, ma di combattimenti diretti.
Le unità speciali, i nostri corpi di eccellenza, i duecento militari inviati in maniera «avventurosa» nella zona ovest dell'Afghanistan nella provincia di Ferah sono stati spesso coinvolti in combattimenti diretti, come testimonia PeaceReporter, senza che vi sia stata un'adeguata smentita (ovviamente non può esservi, perché non si possono smentire i fatti) documentata da parte del Governo. Non mi aspetto una smentita - so anche so che non può esservi - per la natura della missione, che - al di là dei buoni sentimenti che qui sento ripetere - è «impastata» di guerra: essa nasce da una guerra e continua ad essere una missione «impastata di guerra». Per questi motivi il giudizio sulla nostra presenza militare in Afghanistan non può che essere molto negativo. La richiesta che avanziamo affinché l'Italia si impegni diversamente rimane pressante e assolutamente prioritaria.
Sicuramente il disimpegno militare in Afghanistan è ormai la condicio sine qua non affinché un tale coinvolgimento diverso del nostro Paese sia effettivamente diverso e non la reiterazione di quello che è avvenuto finora.
PRESIDENTE. Circa la questione da lei accennata, in relazione al mancato intervento del Governo in Aula per riferire sulla questione del Kosovo, ricordo che, come è stato più volte precisato dalla Presidenza, in regime di scioglimento delle Camere, lo svolgimento di informative urgenti del Governo in Assemblea è subordinato al consenso unanime di tutti i gruppi. Tale requisito, nel caso di specie, nel corso dell'apposita Conferenza dei presidenti di gruppo convocata a tal fine, non si è verificato, laddove, invece, si è verificato per lo svolgimento delle comunicazioni in Commissione.
È iscritto a parlare l'onorevole Venier. Ne ha facoltà.
IACOPO VENIER. La prima considerazione che volevo svolgere è che, purtroppo, a noi è sempre consentito discutere e affrontare i temi della politica estera solo in relazione alle missioni internazionali. Questo è un limite, ma anche il segno di come la politica militare sia andata sempre più a corrispondere alla politica estera.
Condivido gran parte delle considerazioni che l'onorevole Deiana ha appena svolto sul complesso del provvedimento che è alla nostra attenzione. Intendevo solo aggiungere alcune considerazioni, che portano il gruppo dei Comunisti Italiani a valutare negativamente il provvedimento e ad annunciare un voto contrario sullo stesso.
In questi due anni, abbiamo provato ad aprire, all'interno della coalizione di cui facevamo, parte, l'Unione, una discussione di merito sulla principale e più complessa delle missioni di cui oggi discutiamo, ossia la missione in Afghanistan, cercando di portare argomenti di merito che man mano emergevano e che rafforzarono e rafforzano, a nostro avviso, un'opinione assolutamente negativa su una guerra persa sotto il profilo militare, i cui obiettivi politici sono stati falliti e che ci sta trascinando in una progressiva crisi per il pericoloso allargamento del conflitto ben oltre il territorio afgano.
Avremmo voluto che il nostro Governo e gli altri componenti delle forze democratiche e progressiste di questo Paese ci spiegassero perché tutti gli obiettivi che sono stati qui proclamati per giustificare quell'azione militare sono stati progressivamente persi. Il primo di tali obiettivi era quello di battere i Taliban, i talebani, questo feroce gruppo di assassini che controllava quel Paese prima dell'intervento militare, che doveva essere combattuto prima di tutto con un'operazione di consenso e di contrasto dell'influenza che questo gruppo di estremisti e di fanatici aveva presso la popolazione.
In realtà, l'azione degli Stati Uniti e della NATO in quell'ambito e, quindi, anche dei nostri militari, che in quelle missioni sono stati incardinati, ha portatoPag. 103alla rinascita di un movimento che sembrava scomparso, fallito, sconfitto e che oggi, invece, si candida addirittura a rappresentare le forze di quella Nazione che vogliono l'indipendenza e la fine dell'occupazione. Addirittura possono riprendere una qualche forza sul piano della posizione internazionale, coinvolgendo persino il Pakistan e parte di quel Paese nel conflitto afgano.
Questa è la prima gravissima sconfitta della missione in Afghanistan. È una sconfitta prima politica che militare, ma anche sul piano militare tutte le tattiche utilizzate per contrastare l'azione dei Taliban si sono dimostrate non solo controproducenti, ma folli, perché hanno coinvolto la popolazione civile con bombardamenti a tappeto, con azioni indiscriminate, con attacchi che man mano hanno fatto percepire la presenza delle forze straniere come forze di occupazione e militari, indifferenti alla vita e alla sorte della popolazione locale.
Nel frattempo, ovviamente, come è stato già ricordato, il 90 per cento degli investimenti e delle risorse che dedicavamo all'Afghanistan andavano ai militari e non al miglioramento e all'intervento nei confronti delle condizioni di vita della popolazione. La prima domanda a cui bisogna dare una risposta e che nessuno vuole affrontare è la seguente: è fallita la missione in Afghanistan?
La seconda domanda riguarda cosa siamo andati a fare in Afghanistan: si dice che siamo andati a portare la democrazia e la libertà. Fatico a comprendere come sia accettabile, da parte dei fautori dei nostri interlocutori nella costruzione di questa cosiddetta democrazia, che un membro del Parlamento afgano possa essere espulso e minacciato, addirittura di morte, all'interno della stessa Camera di cui faceva parte, per il solo fatto di avere esercitato il proprio diritto alla critica.
Quella deputata - mi riferisco a Malalai Joya, una coraggiosissima deputata afgana, una donna a cui tutti noi dovremmo guardare come esempio di come si possa mettere a repentaglio la propria vita per affermare le proprie idee (e questi sono gli interlocutori che dovremmo scegliere in quelle realtà e in quelle zone) - ha denunciato la composizione del Governo Karzai: un Governo costituito da criminali di guerra, da trafficanti di droga e da personaggi che ancora oggi operano, nei confronti delle donne e dei diritti civili, nello stesso modo in cui operavano, con turbanti di colore diverso, durante l'epoca dei Taliban. In altre parole noi - non lo afferma solo la citata deputata, ma lo dicono le storie personali di questi personaggi, che noi accreditiamo, sul piano internazionale, come nostri interlocutori, gli interlocutori dell'occidente, per la diffusione dei diritti, della democrazia e quant'altro - stiamo appunto consegnando l'Afghanistan in mano a una banda di predoni. Ciò è dimostrato anche dal fatto che, da quando siamo intervenuti in Afghanistan, la produzione di oppio - e anche questo è un elemento su cui mai nessuno fornisce alcuna risposta - si è moltiplicata per mille; inoltre, quella produzione avviene sotto gli occhi delle truppe della NATO, delle truppe americane, addirittura sotto il loro controllo, perché è un fenomeno troppo plateale, per la dimensione stessa dei numeri dei chili e delle tonnellate di eroina che escono dall'Afghanistan, perchè ciò avvenga senza il benestare sostanziale della presenza straniera. Anzi, quel tipo di accumulazione che crea un grande traffico internazionale di stupefacenti, è un'accumulazione che addirittura alcune agenzie delle Nazioni Unite considerano come l'accumulazione originaria, cioè quella che dovrebbe dare avvio al processo economico. In altre parole, noi siamo lì per sostenere la costruzione di un'economia sulla base di un'economia che si configura come criminale.
Cito un piccolo nesso con questo argomento: altra presenza importante, in un'altra zona e in un altro luogo del mondo, dove l'economia criminale è assolutamente prevalente, è quella della NATO in Kosovo. Noi stiamo riconoscendo - e questo ce lo ha detto il nostro Governo - il Governo di un Paese dove - e sono appunto le agenzie internazionali ad affermarlo -Pag. 104quasi l'ottanta per cento dell'economia è legata a traffici illeciti, dove sappiamo - sono denunce pubbliche - del nesso diretto tra i capi tribali kosovari e i capi tribali afgani, legati al traffico internazionale di stupefacenti, in particolare dell'eroina. Questo è un fatto a cui qualcuno dovrà dare una risposta. Come mai la presenza della NATO in due Stati che si configurano come Paesi che hanno una loro base economica strettamente, prevalentemente o quasi totalmente legata ai traffici illeciti e alla criminalità organizzata?
Abbiamo cercato di chiedere anche al nostro Governo, di cui ci siamo fidati e a cui abbiamo dato fiducia per due anni, come sia possibile che la collaborazione giuridica - elemento di missione fondamentale per il nostro Paese, nella costruzione di uno Stato di diritto in Afghanistan - abbia prodotto uno Stato in cui un giornalista possa essere condannato a morte, per il solo fatto di aver criticato ed esercitato il suo diritto di critica.
Si tratta di uno Stato in cui la tortura è praticata in modo sistematico nelle carceri, che in realtà sono dei posti di segregazione fuori da ogni diritto e da ogni regola, in cui i giudici formati da noi dovrebbero agire.
Quando ai tempi del sequestro Mastrogiacomo in quelle carceri, senza processo, senza accusa fu rinchiuso un afgano che aveva avuto un ruolo di collaborazione con Mastrogiacomo, nessuno pose il problema se quel sistema giuridico fosse in una fase di evoluzione positiva. Tutto ci dice che in quella realtà si sta costruendo una nuova forma di controllo pervasivo dell'opinione pubblica e di chi tenta, disperatamente e con grandissimo coraggio, di costruire la liberazione del popolo. Ciò è dimostrato, ad esempio - è l'ultimo elemento che voglio portare, ma è giusto che in quest'Aula qualcuno dica queste cose - dal fatto che non ha dato scandalo a nessuno, né alla NATO, né all'Unione europea, né in questo Paese, che in Afghanistan sia tornata ad agire la polizia morale per la repressione del vizio e la promozione della virtù. Una struttura che ha come compito quello di controllare le donne, in particolare schiacciandole di nuovo attraverso l'oppressione e l'applicazione della fanatica legge della sharia, che è fuori dalla grande tradizione musulmana. È una polizia che ha come compito il controllo dell'opinione pubblica, la repressione della stampa e la compressione di ogni diritto civile di libertà. Questo è l'Afghanistan di oggi.
Su questo ci dovete rispondere e non, come bene ha detto la collega Deiana, parlarci solo del sacrificio dei nostri militari. I nostri militari hanno un mandato e combattono purtroppo sotto ordini che arrivano dalla responsabilità politica. Quella situazione non è di responsabilità di chi è stato inviato ed opera sul terreno, ma di chi ha voluto mandare e non vuole ritirare quelle truppe, che oggettivamente vengono progressivamente coinvolte in una guerra che non siamo stati noi a voler dichiarare. La responsabilità è del vertice della NATO che sostiene che la guerra deve essere combattuta in un modo ancora più violento, esteso, attraverso più mezzi e con ancora più vittime. Questa è la situazione sull'Afghanistan.
Noi pensiamo a questo punto che è caduto l'ultimo motivo possibile per non togliere la fiducia ad un Governo che comunque, pur con contraddizioni e con elementi di rigidità e di insufficienza, ha mantenuto alcuni limiti all'utilizzo delle nostre truppe. La scelta irresponsabile, sotto il profilo politico e della responsabilità nazionale del Paese per la pace e per l'applicazione della Costituzione, di aprire le porte - anche per scelte elettorali dovute da una campagna elettorale complicata e difficile - a contesti politici sicuramente più arretrati e meno efficaci, sul piano del compromesso e dell'attenzione al mondo della pace tra le forze più importanti, toglie la possibilità di fornire - purtroppo, perché noi avremmo voluto ottenere il risultato di convincere l'intero Parlamento a portare a casa i nostri militari - una ulteriore fiducia. Siamo sicuri, infatti, che chiunque venga dopoPag. 105questo contesto politico e questo Governo opererà peggio e porterà ad un aggravamento della situazione.
Affronterò brevemente le problematiche legate ad altre due missioni. Per quanto attiene alla missione sul Kosovo ritengo che avremo modo, anche attraverso la presenza del Ministro D'Alema, di discutere specificamente. Ma è certo che esiste un problema; vi è una missione delle Nazioni Unite che opera in Kosovo sulla base di un mandato e di una risoluzione volti a impedire la proclamazione unilaterale d'indipendenza perché contraria al diritto internazionale e alle risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
È possibile che il nostro Paese - che aveva affermato anche recentemente che i pilastri fondamentali della nostra politica estera sono e devono restare la legalità internazionale, le Nazioni Unite, le decisioni del Consiglio di sicurezza, e l'Europa, ovverosia l'azione comune e la costruzione di una posizione comune dell'Europa - si appresti, tra poche ore, a riconoscere un'indipendenza che è illegale, contraria e opposta alle decisioni delle Nazioni Unite, e che ha spaccato l'Europa, mettendola in una condizione di non poter prendere una posizione proprio nel momento in cui gli Stati Uniti invece aprivano, attraverso questo riconoscimento, un vaso di Pandora.
Io vorrei ricordare al Viceministro Intini e agli altri colleghi che hanno responsabilità e che probabilmente avranno responsabilità su tale questione, di non pensare solo ai Balcani e solo al Caucaso, ma di pensare, per esempio, che vi è un «problemino» che si chiama Taiwan, rispetto al quale questo riconoscimento unilaterale potrebbe creare le condizioni per disastri di proporzione globale, non solo regionale.
Intendo infine fare due considerazioni, una delle quali riguarda il Libano. Noi abbiamo sostenuto la missione in Libano perché, appunto, poggiava su quei pilastri. Mi riferisco al pilastro delle Nazioni Unite, e a un'applicazione corretta del principio per cui una missione delle Nazioni Unite per potersi definire di pace deve essere condivisa. Le missioni di pace sono quelle condivise dalle parti, e la missione UNIFIL è stata condivisa prima di tutto dalla popolazione e dai rappresentanti della popolazione aggredita dall'intervento militare israeliano, dai bombardamenti a tappeto (sono state lanciate centinaia di migliaia di cluster bomb su quel territorio) con conseguente distruzione di tutte le infrastrutture. La popolazione libanese e i suoi rappresentanti ci chiesero aiuto, e la missione prima di tutto fu questo: un aiuto al popolo libanese e la costruzione della statualità e dell'indipendenza libanese.
Detto questo, la missione UNIFIL doveva produrre un salto di qualità per rappresentare il modello alla soluzione del problema dei problemi, cioè la Palestina, di cui dobbiamo parlare. Infatti, se non si può affrontare la questione della nascita dello Stato di Palestina - con la presenza necessaria, che deve essere non solo condivisa ma anche suggerita, se non proposta o imposta allo Stato di Israele, di una forza internazionale ai confini, di protezione della popolazione palestinese, che garantisca gli accordi di pace e che renda possibile la nascita di un vero Stato palestinese - tutto ciò non ha senso e diventa pericoloso. Il protrarsi di una presenza indefinita in Libano, senza che la comunità internazionale e senza che l'Italia - la quale in quel momento ha dimostrato un momento di coraggio politico e di proiezione internazionale - operino nel senso richiamato, può essere una futura occasione di preoccupazione e anche di pericolo per il nostro Paese e per le truppe che sono lì presenti.
Sono stato in Libano a portare il sostegno a quella missione e a dire che ci sono missioni e missioni, ma tutto ciò non mi impedisce di ricordare che noi dovremmo operare perché nessuna forza politica libanese sia criminalizzata, ma affinché anzi quel Paese sia aiutato ad uscire dalla divisione etnico-religiosa che tanti mali reca, lì come in tutti luoghi in cui tale divisione sia stata imposta o proposta.
Infine alcune considerazioni sulla Palestina. Siamo stati chiamati a votare per tante missioni, ancora un volta tutte insieme,Pag. 106e anche per la dignità di questa Assemblea e di questo Parlamento noi abbiamo chiesto una volta ancora, anche in sede di Consiglio dei ministri (a quello che era il nostro Governo), di consentire una valutazione separata, in altre parole di consentire una valutazione missione per missione. Sarà un fatto differente parlare di Afghanistan o di Libano o di Kosovo o del valico di Rafah? Su tale aspetto chiedo un'ulteriore riflessione: che senso ha protrarre delle missioni che non hanno più possibilità di svolgersi e che sappiamo che non possono svolgersi?
Quella missione doveva monitorare l'apertura di quel valico e consentire ai palestinesi di attraversarlo. Questi ultimi, infatti, sono rinchiusi a Gaza come una popolazione segregata: un milione e 200 mila persone che non possono uscire, a cui Israele decide un giorno sì e l'altro no di tagliare l'acqua, i rifornimenti e quant'altro. Per passare quel valico dove ci sono i nostri, hanno dovuto far esplodere con le mine un muro che li segrega all'interno di quel territorio.
Per questo motivo, è necessario riflettere su ogni singola missione e non è detto che le missioni di per sé siano condivisibili: a volte bisognerebbe anche concluderle.
Ve ne sono altre due e, rispetto a quanto sta accadendo ora nel panorama internazionale, andrebbero considerate con grande attenzione. La missione Minurso nel Sahara occidentale: la missione dell'ONU che doveva garantire la realizzazione del referendum sull'autodeterminazione del popolo saharawi. Eppure, il principio che ora noi italiani stiamo per accettare per il Kosovo mina la possibilità di quell'accordo di pace, perché riconosce la situazione di fatto sul terreno, riconosce l'occupazione militare, la colonizzazione e la prevalenza militare. Lì, nel pieno dell'Africa, si potrebbe riaprire un conflitto, anche per le responsabilità della comunità internazionale che per tanti anni non è stata in grado - e anche in questo caso vi è una responsabilità italiana - di dare attuazione all'elemento fondamentale di quella missione, cioè il referendum sull'autodeterminazione. Non bisogna dimenticare anche le timidezze che hanno fatto sì che anche il Governo italiano non desse attuazione alle risoluzioni che anche quest'Aula ha approvato sul riconoscimento dello status diplomatico dei rappresentanti dei saharawi e del loro popolo, cioè il Fronte Polisario.
Infine, l'ultima considerazione è relativa alla missione che abbiamo ancora a Cipro. Anche lì, la situazione di fatto diventa esplosiva e può generare nuovi problemi anche all'interno di quella Comunità europea (l'Unione europea) che non tutela neanche i propri componenti. In attesa, infatti, che approdi la Turchia nell'ambito dell'Unione europea - attesa, a mio avviso, del tutto infondata e che dovrebbe essere discussa - non si tengono in considerazione neanche le posizioni di uno degli Stati come Cipro, che sulla questione del Kosovo ha giustamente manifestato una sua profonda contrarietà.
Ciò detto, vorrei affermare che, poiché non vi è un contesto politico in cui si discute, non ci è stata data la possibilità di esprimere un giudizio articolato. Esso complessivamente si focalizza sui punti di crisi fondamentali e, cioè, sull'elemento della partecipazione dell'Italia a quella che si configura sempre più come una guerra combattuta sul terreno, con il concorso delle nostre truppe.
Per queste ragioni, ritengo - come ho già spiegato - che non vi sia più alcun motivo che ci induca ad avere fiducia: in questi anni abbiamo votato avendo fiducia che si svolgesse la conferenza internazionale di pace, che i caveat fossero rispettati e che l'impegno civile prevalesse su quello militare. Questa fiducia - che ha visto alcuni risultati ed altri no, ma che comunque si è interrotta con la scelta di una fine della collaborazione politica tra la sinistra ed il Partito Democratico - non può più essere data e per questo siamo contrari a questo provvedimento (Applausi dei deputati del gruppo Comunisti Italiani).
PRESIDENTE. Constato l'assenza dell'onorevole Ascierto, iscritto a parlare: s'intende che vi abbia rinunziato.Pag. 107
Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.