Menu di navigazione principale
Vai al menu di sezioneInizio contenuto
Discussione del disegno di legge: Conversione in legge del decreto-legge 31 gennaio 2008, n. 8, recante disposizioni urgenti in materia di interventi di cooperazione allo sviluppo e a sostegno dei processi di pace e di stabilizzazione, nonché relative alla partecipazione delle Forze armate e di polizia a missioni internazionali (A.C. 3395-A) (ore 19,20).
(Repliche dei relatori e del Governo - A.C. 3395-A)
PRESIDENTE. Prendo atto che i relatori rinunciano alla replica.
Ha facoltà di replicare il rappresentante del Governo, Viceministro Intini.
UGO INTINI, Viceministro degli affari esteri. Signor Presidente, vorrei ringraziare innanzitutto i colleghi per aver dato luogo ad un dibattito interessante ed approfondito, nonostante il Parlamento sia sciolto. Molti sono stati gli spunti che dovrebbero essere sviluppati. Ritengo che, data l'ora tarda, si possa coglierne soltanto qualcuno.
A proposito del Kosovo, l'onorevole Deiana ha espresso osservazioni fortemente critiche di cui prendo atto. Non anticipo un dibattito che si svolgerà domani presso le Commissioni della Camera e del Senato, esteri, a cui parteciperà il Ministro degli esteri D'Alema.
Mi limito ad osservare che le preoccupazioni certamente sono fondate ed è ragionevole l'amarezza per la divisione dell'Europa proprio su una crisi che è alle porte di casa nostra. Osservo che non è accettabile una tensione anacronistica ed antistorica non con un'Unione sovietica che non esiste più, non con la centrale mondiale del comunismo che non c'è più, bensì con una Russia che rappresenta un partner economico essenziale per l'Europa.
Si è parlato di Libano, in particolare da parte dell'onorevole Venier. Tante volte abbiamo insistito sul fatto che il Libano deve essere un punto di partenza e non di arrivo. Deve rappresentare il punto di partenza per un circolo virtuoso di pace e di distensione che si proietti verso tutta l'area ed in particolare verso la Palestina, che è la madre di tutte le crisi mediorientali. Purtroppo non è così e tale situazione di stallo certamente rischia di porre in crisi anche le iniziative in Libano.
Infine, vengo all'Afghanistan, che è stato il punto di attenzione maggiore negli interventi che ho ascoltato. Vorrei partire dall'osservazione che l'Afghanistan non è l'Iraq per due ragioni: una formale e una sostanziale. La ragione formale è che in Iraq vi sono stati e vi sono i willings, i volenterosi, volenterosi di seguire la politica nella zona dell'amministrazione americana. In Afghanistan non vi sono i willings ma le istituzioni internazionali sin dall'inizio, le Nazioni Unite, la NATO e l'Unione europea, appunto come in Libano. La differenza sostanziale tra Iraq e Afghanistan è che in Iraq, anzi dall'Iraq, se ne sono andati in esilio un milione e 600 mila persone, come minimo, mentre in Afghanistan, al contrario, sono tornati milioni di persone dall'esilio e tale circostanza è una differenza sostanziale non da poco. Da tali differenze formali e sostanziali tra Iraq e Afghanistan e dal fatto che l'Afghanistan costituisce un impegno multilaterale e che l'Italia basa la sua politica estera sul multilateralismo consegue che dobbiamo certamente restare in Afghanistan. Non possiamo rimanere marginalizzati rispetto a tutte le istituzioni internazionali nelle quali ci riconosciamo, Nazioni Unite, NATO e Unione europea.
Ciò detto, capisco le ragioni critiche espresse in particolare dall'onorevole Deiana e dall'onorevole Venier. Le cose in Afghanistan non vanno affatto bene. In tutte le sinistre europee vi sono posizioni simili a quelle espresse dagli onorevoli Deiana e Venier. Vi sono nel labour party inglese, nella SPD e persino in partiti di centro come il partito democristiano tedesco dove vi sono deputati che la pensano esattamente come voi. Pertanto, non è necessario stupirsi se anche nel Parlamento e nella sinistra italiana vi sono divisioni in ordine a tale tema. Manca una strategia politica condivisa all'interno della NATO e anzi manca forse del tutto una strategia politica e anche la strategia militare può dare seri dubbi. Un tempo, durante la guerra del Vietnam si rimproverava il Ministro della difesa americano McNamara perché, si diceva, «insegue le zanzare con un'accetta», cioè compiePag. 108bombardamenti devastanti a fronte di un'azione di guerriglia. Temo che lo stesso si potrebbe dire oggi per l'Afghanistan. La guerra dell'Afghanistan è prima psicologica e propagandistica e le guerre psicologiche e propagandistiche non si vincono certamente provocando vittime civili con i bombardamenti. Dobbiamo preoccuparci per la «iraqizzazione» dell'Afghanistan e per il diffondersi delle stesse tecniche micidiali (attacchi suicidi) sviluppate in Iraq.
Dobbiamo constatare con sgomento che la produzione di oppio è giunta al massimo storico per l'Afghanistan. La repressione evidentemente non funziona - ammesso che vi sia - e avevamo lanciato nel precedente dibattito una proposta innovativa, cioè l'idea che si potesse in modo sperimentale comperare per l'industria farmaceutica internazionale la produzione di oppio in modo da fornire un mezzo di sostentamento ai contadini e sottrarli al controllo dei signori dell'oppio e della guerra che sono poi le stesse persone.
C'è bisogno, per una proposta del genere, di un largo consenso. Il consenso si è allargato perché all'interno del Labour Party britannico si è diffusa una corrente di opinione a favore di questa iniziativa, ma è evidente che non si può andare lungo questa strada senza un accordo tra tutti i protagonisti internazionali, senza una condivisione.
I talebani non sono più quelli degli anni Novanta, anzi, una parte di costoro sono entrati nel mainstream della odierna politica afgana. L'obiettivo deve essere quello di dividerli, di separare tale insorgenza sapendo che oggi è formata da nuove generazioni e che sotto la sigla «talebani» si nascondono molte cose estremamente diverse tra di loro: c'è Al Qaeda, con la quale evidentemente non si può trattare perché è un nemico mortale, ci sono forze tribali ostili agli stranieri e forze di criminalità comune.
Il generale Massud, che incontrai poco tempo prima che fosse ucciso in Afghanistan, mi spiegava che il denaro e la trattativa più della forza sono spesso l'arma vincente in questo tipo di guerre. Accadeva che si assediasse un villaggio per attaccarlo militarmente e poi, il giorno dopo, invece, le truppe di Massud entravano senza colpo ferire perché nella notte qualcuno, magari parente di qualcun'altro all'interno del villaggio, era andato con una valigia di dollari, aveva fatto un accordo ed il problema si era risolto come si risolve nelle società tribali.
Le perplessità non sono soltanto nostre, ma di tutti gli alleati dell'Occidente. Ad esempio, i sauditi, che hanno una certa esperienza, avevano sconsigliato l'invasione militare dell'Afghanistan con un'osservazione che a loro appariva persino banale e di normale buonsenso e cioè che si occupa utilmente uno Stato, perché quando si occupa uno Stato si occupa una centrale di decisione e si controlla un Paese, ma l'Afghanistan non è mai stato, da decenni, uno Stato e, quindi, se non c'è uno Stato, se non c'è un'organizzazione, se non c'è un centro di decisione occupare serve a poco se non a infilarsi in una guerra senza fine.
Il suggerimento dei sauditi era quello di occupare solo Kabul e poi da lì esercitare un'azione di penetrazione nelle aree tribali con l'arma del denaro, chiedendo ai capi tribù se volevano che si costruisse una madrassa, un ospedale o una scuola o un centro di distribuzione di beni di prima necessità e così via.
Il nation building, di cui tanto si parla, non dà i risultati sperati. Certo, l'Italia è protagonista proprio del tentativo di diffondere il rule of law in Afghanistan, di diffondere la pratica di una giustizia moderna, ma si legge, in uno degli ultimi numeri di Newsweek, che le carceri afgane, onorevole Venier, hanno un accesso costituito da porte girevoli. Infatti, guarda caso, i talebani prigionieri sono pochissimi perché vengono catturati, portati in prigione e poi qualcuno paga una tangente ed escono dalla porta girevole per poi rientrarvi dopo qualche mese. Per questo di talebani in carcere ce ne sono pochissimi: basta pagare e dalle carceri afgane pare si entri e si esca.
C'è una contraddizione di fondo - mi accingo a concludere il mio intervento - ePag. 109risiede sostanzialmente nel fatto che ci occupiamo di Afghanistan (siamo costretti a farlo, lo dobbiamo fare e facciamo bene a farlo e su questo non sono d'accordo con voi) noi che stiamo a migliaia di chilometri di distanza, ma non se ne occupano o, peggio, se ne occupano in senso negativo, i Paesi circostanti. Questo non è assolutamente normale. I Paesi circostanti non sono il medico, ma la malattia e devono diventare parte della cura perché, altrimenti, sarà molto difficile stabilizzare il Paese.
I Paesi confinanti se ne debbono occupare. Si può e si deve pensare ad una conferenza internazionale e di ciò, come molti colleghi ricorderanno, si discusse esattamente nel dibattito parlamentare dell'anno scorso. Molti sostennero che occorreva organizzare una conferenza internazionale per l'Afghanistan. Sappiamo che si è fatta utilmente una conferenza internazionale per l'Iraq. Forse utilizzare l'avverbio «utilmente» è dir troppo, perché a dire il vero non è che si siano raggiunti risultati concreti. Tuttavia, il solo fatto che intorno ad uno stesso tavolo si siano riuniti tutti i possibili protagonisti è di per sé un fatto utile ed importante.
Ad Istanbul il 3 novembre, come ricorderete, si è tenuta la conferenza sull'Iraq, la prossima sarà il 20 aprile a Kuwait City. Il formato di tale conferenza prevede la presenza del G8 (cioè i Paesi economicamente più importanti), dei cinque Paesi del Consiglio di sicurezza (in parte sono gli stessi) e infine - è la cosa più rilevante - dei Paesi più importanti.
Ad Istanbul abbiamo visto intorno allo stesso tavolo la Rice e il ministro degli esteri iraniano Mottaki, il ministro degli esteri siriano e gli americani. Non ci sono stati grandi risultati, ma - come dicevo - questo di per sé è stato un fatto significativo.
A Istanbul, in quella circostanza, per la verità, ho gettato sul tavolo la proposta di una conferenza internazionale anche per l'Afghanistan. Perché no? A maggior ragione se si è fatta per l'Iraq, si potrebbe fare per l'Afghanistan. I Paesi confinanti dell'Afghanistan sono la Russia e la Cina, che hanno evidenti problemi di fondamentalismo e di contagio fondamentalista.
L'Iran confina sia con l'Iraq sia con l'Afghanistan e, in quest'ultima realtà, può svolgere un ruolo estremamente utile. Infatti, sappiamo che l'Iran è nemico storico dei talebani, ha difeso le popolazioni sciite dal fondamentalismo sunnita e - pochi lo ricordano e persino pochi lo sanno - conta ogni anno centinaia di soldati morti nel contrasto al traffico di droga lungo la frontiera. Vi sono il Pakistan e l'India e sappiamo che tra questi due Paesi si scatenano tensioni bilaterali, che trovano sfogo proprio in Afghanistan.
Questa idea di una conferenza internazionale è condivisa da molti. Ne ho parlato con i colleghi tedeschi, canadesi, giapponesi e anche con quelli iraniani. Tutti per ragioni diverse pensano che una conferenza internazionale sia da farsi. Male che vada non otterrà alcun risultato, ma comunque è uno sforzo che va tentato. Ma si può ragionevolmente immaginare che una conferenza internazionale possa fare dei progressi in una situazione come quella che abbiamo avuto negli ultimi mesi? Subito dopo Istanbul, vi sono stati l'assassinio della Bhutto e l'esplodere della instabilità in Pakistan: senza che questo Paese trovi una sua stabilità è difficile immaginare una conferenza internazionale.
Il Pakistan è l'attore principale in Afghanistan. Ricordo che sono stato a Kabul quando c'era il Governo dei talebani e le nazioni che riconoscevano lo Stato afgano erano pochissime. Una delle poche era il Pakistan, una delle poche ambasciate straniere a Kabul era quello pakistana e l'ambasciatore di tale Paese veniva chiamato il «viceré di Kabul», perché si riconosceva la sua influenza determinante ed egemonica nella situazione afgana. Penso che l'intuizione di una conferenza internazionale sia giusta e spero che il prossimo Governo ne terrà conto.
Questo Governo può dire ciò che ha detto e cioè che la situazione afgana ci preoccupa. Non ci convince la strategia seguita, vorremmo che questa fosse ripensata e che la NATO discutesse a fondo ilPag. 110da farsi, cambiando ciò che vi è da cambiare. Tuttavia, affinché l'Italia possa avere un ruolo in un cambiamento di strategia e in una riflessione occorre innanzitutto che faccia il suo dovere, che non si metta da parte e che non si collochi ai margini.
Questa è la ragione per cui - sia pure con grandi preoccupazioni - continuiamo a pensare che la presenza in Afghanistan sia necessaria e indispensabile.
PRESIDENTE. Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.