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Discussione del disegno di legge: Conversione in legge del decreto-legge 28 agosto 2006, n. 253, recante disposizioni concernenti l'intervento di cooperazione allo sviluppo in Libano e il rafforzamento del contingente militare italiano nella missione UNIFIL, ridefinita dalla risoluzione 1701 (2006) del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (A.C. 1608) (ore 11,34).
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione del disegno di legge: ConversionePag. 2in legge del decreto-legge 28 agosto 2006, n. 253, recante disposizioni concernenti l'intervento di cooperazione allo sviluppo in Libano e il rafforzamento del contingente militare italiano nella missione UNIFIL, ridefinita dalla risoluzione 1701 (2006) del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
(Discussione sulle linee generali - A.C. 1608)
PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.
Avverto che i presidenti dei gruppi parlamentari di Alleanza Nazionale, de L'Ulivo e di Forza Italia ne hanno chiesto l'ampliamento senza limitazioni nelle iscrizioni a parlare, ai sensi dell'articolo 83, comma 2, del regolamento.
Avverto, altresì, che le Commissioni III (Esteri) e IV (Difesa) si intendono autorizzate a riferire oralmente.
Il relatore per la III Commissione, presidente Ranieri, ha facoltà di svolgere la relazione.
UMBERTO RANIERI, Relatore per la III Commissione. Signor Presidente, con la mia relazione sul provvedimento in esame, che disciplina la partecipazione italiana alla missione in Libano, così come definita nella risoluzione n. 1701 delle Nazioni Unite, desidero svolgere alcune rapide considerazioni sul contesto politico internazionale nel quale è maturata la missione e sulle sue prospettive.
Il conflitto israelo-libanese ha avuto inizio nel mese di luglio con il lancio di razzi sul territorio di Israele da parte di Hezbollah, che ha successivamente attaccato due veicoli corazzati israeliani, uccidendo tre soldati e catturandone altri due. Dura è stata la reazione di Israele, che ha considerato l'attacco di Hezbollah un vero e proprio atto di guerra ed ha reagito con bombardamenti aerei, blocchi navali ed incursioni nei territori del sud del Libano.
Un conflitto che non era nei piani del Governo israeliano di Olmert, che aveva vinto le elezioni politiche lo scorso maggio sulla base di un impegno di graduale ritiro, ancorché unilaterale, da una parte dei territori occupati, e che probabilmente non era neanche nei programmi delle milizie di Hezbollah che pure, con la loro incursione, hanno innescato la drammatica spirale.
In realtà, il conflitto affonda le proprie radici nel crescente deterioramento che il tessuto di sicurezza dell'intera regione ha subito nel corso degli ultimi anni. Vari fenomeni hanno contribuito a questa involuzione: l'offensiva del terrorismo senza dubbio, ma certamente la guerra iniziata nel 2003 in Iraq, ha riacceso in gran parte delle opinioni pubbliche arabe un forte risentimento antioccidentale, che, come sempre accade, si orienta anche contro Israele. Ciò ha contribuito a diffondere nella classe dirigente israeliana la sensazione che in una parte del mondo arabo riaffiorasse l'obiettivo, sopito fino a pochi anni fa, dell'eliminazione stessa dello Stato di Israele. La percezione di questa minaccia è stata uno dei fattori all'origine di quanto accaduto nei 34 giorni di guerra in Libano.
L'intensa iniziativa diplomatica dispiegatasi per giungere al cessate il fuoco ha origine nella consapevolezza, forse più acuta del passato, dei rischi che il conflitto potesse innescare una crisi regionale dalle conseguenze difficilmente calcolabili. L'Italia è stata tra i protagonisti di questa iniziativa diplomatica volta a porre fine alle ostilità, presupposto per qualunque ipotesi di trattativa, ed ha lavorato per un'assunzione di responsabilità dell'Unione europea nella stabilizzazione del Libano. La Conferenza di Roma del 26 luglio - la Conferenza del Lebanon Core Group allargata ad altri Governi, cui ha partecipato il Segretario generale dell'ONU - ha avviato una più stretta e coordinata cooperazione fra Europa, Stati Uniti e la maggior parte dei paesi arabi. Quella Conferenza ha consentito, inoltre, che si avviasse un processo di graduale avvicinamento fra le posizioni dei vari paesi europei e che si dipanasse la complessa trama politica che ha portato, poi, alla risoluzione n. 1701.Pag. 3
Con tale risoluzione, la comunità internazionale si propone due obiettivi. Una riaffermazione del diritto di Israele a vivere in sicurezza, impedendo che una parte del territorio del Libano venga usato come base per attacchi all'alta Galilea, e la ricostruzione della sovranità del Libano, evitando che quel paese, che appena un anno fa si è liberato dall'occupazione siriana, si trasformi nella palestra per giochi di potere di paesi limitrofi. La risoluzione restituisce al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite un ruolo che per molti anni gli è stato di fatto precluso dal meccanismo dei veti incrociati e da una profonda crisi di legittimità che ha investito l'Organizzazione delle Nazioni Unite. Non c'è dubbio, tuttavia, che a tali risultati positivi non si sarebbe pervenuti senza il maturare di una posizione comune dell'Unione europea ed un particolare rilievo va attribuito al ruolo della Francia, che, memore dell'impotenza delle proprie truppe in Bosnia e della tragedia del 1983 in Libano, ha tuttavia accettato di partecipare alla missione in modo consistente, con un ruolo di comando condiviso con l'Italia.
In questo delicato passaggio la bussola che ha guidato il Governo italiano è stata la convinzione che l'Europa non avrebbe dovuto, né potuto del resto, sottrarsi ad un impegno teso a contribuire alla pacificazione di una regione strategicamente cruciale del Medio Oriente come il Libano. Del resto, un nuovo disimpegno avrebbe drammaticamente compromesso la credibilità dell'Unione e reso vano, probabilmente, ogni sforzo di rilanciare il progetto europeo.
Merito del Governo italiano è stato quello di aver tenuto aperta, con la propria costante disponibilità, la prospettiva di una missione con un forte profilo europeo, anche quando questa sembrava sfumare a causa delle esitazioni di altri partner. Certo, nessuno si nasconde i problemi che continuano ad attanagliare l'Unione europea. Anche nella vicenda libanese, del resto, non sono mancati i limiti; una missione europea condotta con quella forza di reazione rapida che è stata preparata per «missioni di Petersberg» avrebbe avuto molti evidenti vantaggi. Purtroppo, non è stato così e tuttavia la vicenda libanese segna, in ogni caso, un riconoscimento dell'importanza che sta assumendo l'Unione europea negli affari internazionali, specie in una fase di difficoltà evidente della leadership americana.
In questo contesto, va sottolineata la novità che con la risoluzione n. 1701 si è prodotta tra Israele e la comunità internazionale. Per la prima volta, nella sua difficile storia, la sicurezza dello Stato ebraico su un versante delicato, come quello libanese, viene garantita internazionalmente con un ruolo fondamentale degli europei. Si tratta di una novità, una novità che potrebbe rappresentare un punto di svolta nella storia drammatica di guerre e conflitti affrontati da Israele nei 60 anni dalla sua fondazione. La guerra preventiva nella storia di Israele è stata condotta con successo in molte occasioni, da Suez alla guerra dei sei giorni, e tuttavia si impone un interrogativo, che suscita discussione e inquietudine nella stessa società israeliana: può Israele affidare essenzialmente, per sempre, la propria sicurezza alla deterrenza militare? Lo Stato di Israele ha dato al popolo ebraico una volontà nazionale, una capacità di difesa straordinarie, ma il costo politico dei successi militari si è rivelato sempre più alto.
Oggi Israele dovrebbe cogliere la novità che emerge dalla posizione dell'Europa e degli stessi Stati Uniti: è la comunità internazionale che intende contribuire alla sua sicurezza. Se così fosse, si determinerebbe un quadro più favorevole per la ripresa stessa del difficile negoziato tra israeliani e palestinesi. L'auspicio del Parlamento italiano credo sia quello che, sull'onda dell'operazione positiva per il Libano, avanzino le condizioni di una pace durevole per l'intera regione mediorientale. Certamente, non tutto dipende da Israele, ma sarebbe una scelta lungimirante da parte del Governo israeliano sostenere il tentativo di Abu Mazen di costruire, su basi che, nei fatti, aprirebberoPag. 4al riconoscimento dello Stato ebraico, un Governo di unità nazionale in Palestina.
Ci auguriamo che, in questo contesto, il Governo israeliano non congeli la prospettiva di un ritiro dalla Cisgiordania e non decida di finanziare nuovi insediamenti nei territori, perché questo costituirebbe un macigno sulle esili prospettive di ripresa del dialogo. Certo, queste richieste al Governo israeliano devono accompagnarsi, da parte della comunità internazionale, ad un'energica pressione, ad un'incisiva iniziativa diplomatica verso la Siria e l'Iran.
Per quanto riguarda la Siria, credo siano stati importanti le parole con cui il ministro degli esteri italiano ha chiesto al Governo siriano di cooperare al processo aperto in Libano, ricordando che l'eventuale violazione della risoluzione n.1701, nella parte in cui essa prevede che sia impedito l'ingresso di armi nel territorio libanese, non incontrerebbe l'indifferenza della comunità internazionale.
Sul versante iraniano, crediamo sia giusto condividere lo sforzo negoziale ulteriore che l'Alto rappresentante per la politica estera dell'Unione europea, a nome dell'Unione nel suo complesso e del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite medesimo, porta avanti. Qualche spiraglio sembra aprirsi, tuttavia è decisivo scongiurare divisioni nella comunità internazionale tra Europa e Stati Uniti sulle risposte da fornire alle autorità iraniane sul contenzioso delicatissimo e cruciale riguardante la questione nucleare.
Signor Presidente, colleghi, nel modo in cui è stata affrontata la crisi libanese si colgono i primi tenui segni di quel multilateralismo costruttivo ed efficace che l'Italia ritiene debba costituire la strategia con cui affrontare le gravi ed irrisolte questioni della sicurezza internazionale. Del resto, l'esigenza di una nuova fase nella vita della comunità internazionale appare diffusa, perché l'unilateralismo militare non porta lontano, la messa in mora degli organismi di garanzia, come le Nazioni Unite, è una condotta gravida di rischi e il ricorso alla forza, la scelta più drammatica dinanzi a cui può trovarsi la comunità internazionale, non può essere affidato all'arbitrio o alle valutazioni di un solo paese, fosse anche la superpotenza. Del resto, nella stessa amministrazione statunitense sembra farsi strada, di fronte alla dura realtà della vicenda irachena, la consapevolezza che anche la superpotenza ha bisogno di alleati, la consapevolezza del ruolo dell'Europa e delle Nazioni unite e, quindi, un ripensamento sull'indirizzo unilateralistico.
È certo - concludo, Presidente - che il multilateralismo sarà all'altezza dei problemi solo se comporterà assunzioni di responsabilità, efficacia e prontezza nelle risposte da parte della comunità internazionale; un multilateralismo nel cui quadro la comunità internazionale sappia adoperarsi, intervenendo per sostenere i diritti umani, principi di libertà, pluralismo politico e religioso per tutti, senza pregiudiziali e discriminazioni, nel rispetto reciproco, ma contro fanatismi di qualunque tipo (il nostro pensiero va a quei cristiani che non vedono rispettato il loro diritto alla libertà religiosa). Ecco perché condividiamo lo sgomento di fronte all'esecuzione della condanna a morte di tre cattolici indonesiani.
La missione in Libano è difficile e rischiosa, la consapevolezza di ciò è forte nella maggioranza che sostiene il Governo ed è comune all'intero Parlamento. È per questo che ci si è impegnati come Governo, nell'ambito delle Nazioni Unite, per definire un complesso di regole di ingaggio robusto, tale da garantire la sicurezza dei nostri militari e l'efficacia della missione. Accrescono le nostre preoccupazioni le affermazioni fatte da Sayed Hassan Nasrallah durante la manifestazione svoltasi a Beirut nei scorsi giorni.
Il compromesso raggiunto nella risoluzione n. 1701, per quanto riguarda il superamento di gruppi armati nel sud del Libano, deve essere rispettato da tutti, anche da Hezbollah, ed è inaccettabile da parte della comunità internazionale e delle Nazioni Unite rispolverare la retorica delle armi, soprattutto quando gli israeliani si sono ritirati da quasi tutto il territorio libanese occupato.Pag. 5
La complessità della situazione ed allo stesso tempo il dovere di un paese come l'Italia di partecipare alla missione di pace in Libano spingono alla ricerca di una convergenza ampia in Parlamento a sostegno dei militari italiani impegnati in quel delicato e complesso contesto. Manifestiamo, quindi, l'apprezzamento per la scelta compiuta dai partiti dell'opposizione parlamentare di disporsi positivamente, come avvenuto nelle riunioni delle Commissioni esteri e difesa congiunte di agosto e settembre, circa la decisione di impegnare un contingente militare italiano nella missione in Libano. Mi auguro che tale scelta trovi conferma anche in quest'aula, sostenendo una missione che si propone di contribuire a determinare le condizioni di pace e di stabilità in Medio Oriente.
Il prevalere di queste valutazioni da parte dell'opposizione, anche in un contesto politico come quello italiano, segnato da una aspra dialettica, sarebbe una manifestazione di serietà, di responsabilità e costituirebbe un omaggio all'impegno dei nostri militari, il cui lavoro nel corso delle differenti missioni all'estero è stato dall'intero Parlamento apprezzato. Esso è stato apprezzato anche quando, come nel caso dell'Iraq, le forze dell'attuale maggioranza non condivisero (e non condividono) la scelta perché non condividevano il quadro complessivo entro il quale quella missione si veniva configurando. Tuttavia, questo non ha mai messo in discussione l'apprezzamento forte dell'opera cui hanno assolto i nostri militari nelle varie missioni nel corso di questi anni (Applausi dei deputati dei gruppi de L'Ulivo, dei Verdi e dell'Italia dei Valori).
PRESIDENTE. La relatrice per la IV Commissione, presidente Pinotti, ha facoltà di svolgere la relazione.
ROBERTA PINOTTI, Relatore per la IV Commissione. Signor Presidente, il decreto di cui cominciamo oggi a discutere in Assemblea definisce lo stato giuridico, il trattamento economico e la speciale condizione giurisdizionale entro cui agiscono i nostri militari in missione in Libano, quella prevista dal codice militare di pace con alcune integrazioni. Il primo passo verso questa decisione il Parlamento lo ha assunto il 18 agosto, una settimana dopo che alle Nazioni Unite era stata votata la risoluzione n. 1701, che ha definito le condizioni per il «cessate il fuoco» e l'avvio di una soluzione del conflitto israelo-libanese.
L'Italia è stata assai tempestiva nel dare il proprio appoggio affinché la risoluzione dell'ONU potesse attuarsi ed è stato importante che le Commissioni esteri e difesa di Camera e Senato abbiano sostenuto, quasi all'unanimità e comunque senza alcun voto contrario, il testo della risoluzione che dava mandato al Governo di fare quanto necessario per rispondere alle richieste del Consiglio di sicurezza. Si pensava che già nei primi giorni della settimana successiva si potesse varare il decreto in sede di Consiglio dei ministri, poi varato qualche giorno dopo, il 28 agosto.
Il tempo intercorso è stato utilizzato per garantire che il contingente militare potesse partire nelle migliori condizioni per portare a termine la missione. Si è attivata, quindi, sia un'azione politico-diplomatica volta a favorire l'ampliamento del coinvolgimento dell'Europa, sia un approfondimento tecnico per accertarsi e lavorare affinché la catena di comando e le regole di ingaggio fossero adeguate alla missione. Prima dell'invio dei nostri soldati il Governo, e segnatamente il ministro della difesa, hanno svolto iniziative ed incontri proprio per definire gli aspetti operativi della missione militare, le regole di ingaggio e la catena di comando. Questi contratti hanno portato a delineare meglio la cornice operativa della missione. Si è lavorato in sede ONU, presso il Dipartimento per le operazioni di mantenimento della pace, con un contributo attivo anche da parte di un ufficiale italiano del COE, che ringraziamo.
Il 6 settembre è cominciata la discussione nelle Commissioni esteri e difesa della Camera. Tale lavoro si è svolto in due settimane, ma ha consentito un'analisiPag. 6approfondita e numerosi interventi. Giudico importante ed utile quella discussione ed è assai positivo che si sia conclusa nuovamente con un voto quasi unanime, con la sola astensione della Lega nord. Auspico - come già affermato dal presidente Ranieri - che anche il voto dell'Assemblea possa sostenere con la stessa compattezza la missione dei nostri militari.
Dicevo che assai importante è stata la tempestività e la determinazione dell'Italia. Vi è stato un momento in cui il cessate il fuoco rischiava di non tenere, mentre all'ONU si registrava un'iniziale difficoltà a trovare paesi disponibili ad inviare le truppe necessarie per formare il contingente dei 15 mila soldati previsti dalla nuova missione UNIFIL. L'Italia è stata la prima esprimersi con un voto del Parlamento, ha tenuto dritta la barra del proprio impegno, spendendosi a fondo affinché le condizioni di comando potessero essere le migliori per la riuscita e la funzionalità della missione ed è stata anche la prima ad arrivare con il proprio contingente in territorio libanese.
Il contingente militare italiano ha costituito in tempi brevissimi una forza di intervento navale, con la quale è iniziata l'operazione Leonte. La documentazione che accompagna il decreto-legge in discussione rende conto dettagliatamente della composizione di questo particolare assetto inviato in Libano: è una forza di primo intervento, early entry force, come si dice in linguaggio tecnico. Le dettagliate tabelle che ne definiscono i costi e la composizione non rendono minimamente lo sforzo compiuto dall'insieme delle nostre Forze armate per consentire questo straordinario risultato in pochi giorni. Me ne sono resa conto il giorno della cerimonia svoltasi a largo di Brindisi, all'atto della partenza del contingente militare, con la quale si è voluta esprimere la vicinanza dell'intero paese ai nostri soldati in partenza.
Ancora una volta, in questa sede, voglio ringraziare i nostri militari, estendendo questo sentimento alle loro famiglie, ai legami e agli affetti che li seguono dall'Italia e che non nascondono le difficoltà, i rischi e i pericoli che, in nome della pace, questi militari - insieme ai soldati degli altri paesi - si stanno assumendo. Rischi e pericoli che neppure noi sottovalutiamo e, proprio per questo, ci sentiamo impegnati a ridurli al minimo facendo la nostra parte.
La rimozione del blocco navale è stato un altro passo significativo sulla via della ricomposizione del conflitto ed è stata agevolata anche dalla presenza nell'area delle nostre navi. Molte sono le questioni da esaminare, a cominciare anche dal rilascio dei soldati israeliani tenuti ancora in ostaggio e dalla messa in sicurezza del territorio.
Il decreto ha formalizzato l'invio di 2.496 militari; sono già sbarcati in territorio libanese 800 soldati italiani: una compagnia di lagunari dell'esercito e due compagnie del battaglione San Marco della Marina militare, accompagnate dai primi indispensabili supporti operativi e tattici. Sarà il comando UNIFIL, sulla base dell'evolversi della situazione sul territorio e una volta definiti i livelli di partecipazione da parte di altre nazioni che hanno dichiarato di voler contribuire, a stabilire l'assetto complessivo futuro della nostra missione, che potrebbe attestarsi intorno ai 2.500 soldati sbarcati sul territorio.
La nostra partecipazione ha il compito di far rispettare la risoluzione n. 1701 e di rendere sicuro un territorio di circa 300 chilometri quadrati. Sicurezza del territorio, oggi, significa anche affrontare da subito la difficile opera di bonifica dell'inquietante eredità che gli ultimi giorni di guerra hanno lasciato sul territorio libanese. A guerra finita, il rischio di morte continua per effetto delle bombe a grappolo. Credo sia ora che la comunità internazionale si misuri seriamente con tale problema e metta al bando questa tipologia di armi, che espone a gravi rischi soprattutto le popolazioni civili e i bambini. L'Italia potrebbe assumere un'iniziativa diplomatica e anche legiferare in tal senso, avviando così un processo che, per essere efficace, deve riuscire a coinvolgerePag. 7molti paesi e, soprattutto, quelli che di questo tipo di armamento si avvalgono.
Ho ricordato la tempestività e la consistenza del nostro intervento non per sollecitare l'orgoglio nazionale; siamo infatti consapevoli dei rischi e delle difficoltà della missione che, come più volte affermato dal ministro Parisi, sarà lunga, impegnativa, costosa e rischiosa.
Tuttavia, oggettivamente, il ruolo c'è stato ed è stato riconosciuto dalla comunità internazionale e dai due Governi coinvolti nel conflitto: quello israeliano e quello libanese. Qualcuno ha insinuato che la molla di tutto ciò sia stata il bisogno di sentirsi primi della classe, come se dovessimo cancellare colpe del passato oppure recuperare su altre scelte, come se vivessimo una sorta di complesso di inferiorità da recuperare con un attivismo ed una disponibilità eccessivi, una sorta di sindrome di Crimea attualizzata, come se questa l'avessimo considerata, in fin dei conti, un'occasione. La guerra non è mai un'occasione, è sempre una tragedia e noi ci siamo mossi per fermarla.
Ecco perché sono convinta che la scelta di impegno sia stata fatta perché era necessaria, utile e giusta. Ciascuno di noi ricorda le tragiche immagini che hanno funestato le nostre giornate estive: bombardamenti, morti, distruzioni, civili terrorizzati, quasi un milione di profughi, genitori straziati con in braccio i cadaveri dei loro figli. Possiamo, per una volta, pensare che la politica sia un'attività alta e che si sia mossa per fermare tutto questo? Credo che tale sentire condiviso ci sia ed il consenso ampio del Parlamento ed anche a livello internazionale lo dimostra.
Lo svolgersi della crisi israelo-libanese ha rappresentato chiaramente quanto sia necessario che le istituzioni internazionali siano in grado di intervenire con tempestività ed autorevolezza. Un giovane caporale in partenza per il Libano, intervistato da una televisione, ha detto: ho partecipato ad altre missioni in Kosovo, in Albania ed a Nassiriya; con il casco blu è un'altra cosa, un motivo di orgoglio in più. È fondamentale che l'ONU si impegni a fondo perché le attese non vadano deluse. Questa volta l'ONU mette alla prova anche se stessa, la sua capacità di assumere posizioni politiche e di tradurle in comportamenti concreti ed efficaci.
A questo fine, come ha ricordato anche in conclusione il collega Ranieri, è stata anche decisa un'innovazione significativa: un responsabile militare interfaccia del comandante presso l'ONU, costituendo a quel livello una cellula strategica. Si tratta di una scelta innovativa che può essere, oltre che una garanzia per il funzionamento della missione, anche l'occasione per costruire un modello funzionante di comando ONU. Erano dodici anni che l'ONU non assumeva il comando diretto di una missione militare. Oggi all'ONU si guarda con rinnovata fiducia e deve essere in grado di vincere questa sfida.
Avviandomi alla conclusione, vorrei soffermarmi sulle parti più innovative e significative del decreto-legge. Come si è detto, alla missione Leonte si applica il codice penale militare di pace, adeguandone alcuni aspetti alle condizioni di applicabilità nella particolare situazione in cui operano i nostri soldati, quindi al di fuori dei confini nazionali. Si tratta di una soluzione da noi condivisa e voluta, ma che ha bisogno di essere perfezionata con l'adozione di un codice per missioni militari all'estero: ne abbiamo parlato a lungo nella discussione in Commissione e si è registrato un consenso ampio su tale necessità. Faccio nuovamente appello al Governo perché questo obiettivo si realizzi nell'ambito di una riforma della giustizia militare per adeguare l'ordinamento italiano al contesto internazionale e, soprattutto, alla legislazione degli altri paesi dell'Unione europea. La distinzione fin qui vigente tra codice di pace e codice di guerra è ormai inadeguata alle missioni fuori area, in quanto non risulta rispondente né all'una, né all'altra.
La questione di una riforma investe anche il ruolo della magistratura militare, poiché con la cessazione della leva obbligatoria è diminuito e diminuirà il numero di reati militari, gran parte dei quali nascevano da tentativi di sfuggire ad unPag. 8obbligo e davano vita a comportamenti conseguenti nel tentativo di sottrarsi ad esso e di ridurne gli effetti. Nella nuova realtà dell'esercito professionale molti comportamenti definiti come reati potrebbero essere utilmente depenalizzati, la fattispecie del reato militare ulteriormente circoscritta e la magistratura militare essere assorbita nell'ambito della magistratura ordinaria con l'istituzione di apposite sezioni specializzate, come avvenuto in molti paesi europei.
Un'altra novità in questo decreto-legge è lo stanziamento di risorse per corsi di introduzione alla lingua ed alla cultura araba a favore del personale impiegato nella missione: è un segnale significativo della volontà di lavorare insieme alle popolazioni locali.
Altra novità è nel fatto che parte dei rimborsi ONU saranno riassegnati nello stato di previsione della spesa del Ministero della difesa per la costituzione di un fondo per le spese di ripristino di scorte, di sostituzione e manutenzione straordinaria di mezzi, materiali, sistemi ed equipaggiamenti impiegati nella missione.
Le risorse rese disponibili da questo decreto sono pari a 219 milioni e 461 mila euro per l'anno 2006. Questa cifra rappresenta le spese vive del contingente inviato in missione e non tiene conto, però, dei costi indiretti che graveranno su questa missione attraverso il logoramento dei mezzi e le esigenze di manutenzione e di ripristino in efficienza, per non parlare del personale.
I costi indiretti delle tante missioni svolte dalle nostre Forze armate hanno avuto, in questi anni, un effetto pesante sul nostro strumento militare e vanno aggiunti alle drastiche riduzioni di bilancio che sono state operate con le ultime leggi finanziarie. Vi è, quindi, la necessità di recuperare una situazione che ha raggiunto il limite di sostenibilità e, per diversi settori delle componenti operative, soglie di efficienza al di sotto del 50 per cento.
Infine, nel corso dei lavori proporremo un emendamento che intende correggere un'anomalia nel trattamento economico corrisposto ai nostri militari sotto forma di indennità operativa di base. Durante il trasferimento via nave dall'Italia al teatro delle operazioni, i soldati imbarcati sulle navi militari percepiscono una maggiorazione di questa indennità, che cessa nel momento dello sbarco, ossia proprio quando iniziano le attività operative e crescono i disagi e i rischi ad esse connessi. Nonostante il nuovo ruolo di protezione assunto dalle forze terrestri (esercito e carabinieri) nei mutati scenari di impiego, questa disarmonia continua a permanere ed è motivo di disagio per le donne e gli uomini impegnati sul terreno, che sono fatalmente i più esposti, come, purtroppo, anche gli eventi degli ultimi giorni ci hanno tragicamente confermato, con la morte del caporalmaggiore Massimo Vitagliano a Nassiriya e di Giuseppe Orlando a Kabul.
Ricordando questi ultimi due lutti e rinnovando la nostra vicinanza a tutti i militari impegnati in questa e nelle altre missioni, concludo la mia relazione (Applausi dei deputati dei gruppi de L'Ulivo e dell'Italia dei Valori).
PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il rappresentante del Governo.
UGO INTINI, Viceministro degli affari esteri. Signor Presidente, mi riservo di intervenire in sede di replica.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Gasparri. Ne ha facoltà.
MAURIZIO GASPARRI. Signor Presidente, onorevole rappresentante del Governo, colleghi, con questo decreto affrontiamo non soltanto il problema del finanziamento della partecipazione italiana alla missione decisa dall'ONU in Libano, ma, più in generale, tutti i temi complessi della politica mediorientale e delle posizioni e delle valutazioni italiane in riferimento a quanto si è verificato nel corso dell'estate e che, purtroppo, si verifica da decenni, se non addirittura da secoli, in questa tormentata area del nostro pianeta.Pag. 9
Il relatore Ranieri ha ricordato prima le parole allarmanti che, nelle ultime giornate, proprio la settimana scorsa (venerdì), ancora una volta sono state pronunciate dal leader degli Hezbollah, Nasrallah, il quale, parlando ad una manifestazione di fanatismo - perché così dobbiamo definirla, più che di orgoglio della propria parte -, ha detto esplicitamente: «Durante la guerra abbiamo utilizzato soltanto una piccola parte del nostro arsenale. Abbiamo ancora decine di migliaia di missili e questo sia ben chiaro a chi pensa di mettere al sicuro i confini con Israele, via terra o via mare. Nemmeno le truppe Unifil e nessun esercito al mondo riusciranno a toglierci queste armi».
Credo che queste dichiarazioni confermino una posizione di incompatibilità con il contesto internazionale della costruzione faticosa di un processo di democrazia e di convivenza da parte di Hezbollah. Del resto, la risoluzione ONU n. 1701, già nelle sue prime righe, pur nella difficoltà da parte dell'ONU di deliberare per la presenza di molti paesi e di veti e con la necessità di addivenire ad una sintesi, non può negare l'evidenza, ossia che c'è stato un attacco di Hezbollah nei confronti di Israele il 12 luglio 2006. Così parte la risoluzione dell'ONU.
Purtroppo, c'è una perdurante minaccia, che nei giorni scorsi anche autorevoli commentatori hanno rilevato. Cito, tra gli altri, Franco Venturini che, sul Corriere della Sera, commentando queste parole deliranti di Sayed Hassan Nasrallah alla festa della presunta vittoria, ha evidenziato la debolezza di una posizione troppo muta, anche del Governo italiano.
È una sorta di equidistanza, che finisce per accomunare in un unico giudizio gli aggressori - che tuttora minacciano Israele e, di fatto, la comunità internazionale - e gli aggrediti.
La questione del disarmo di Hezbollah - come ha affermato Venturini sul Corriere della Sera - non da oggi è la chiave di volta della crisi libanese. Ricordo, del resto, che quando il segretario dei Democratici di sinistra Fassino, qualche settimana fa, in un'intervista disse che il problema è smantellare gli Hezbollah, è stato subito raggiunto dagli strali di parte della coalizione della cosiddetta Unione, che lo ha richiamato all'ordine. Parlo di esponenti del partito di Diliberto che - come sappiamo - si vanta di essere stato tempo fa in Libano, di aver incontrato rappresentanti di Hezbollah e di avere stretto mani. Adesso, in giro per il mondo se ne stringono un po' troppe, ma Diliberto ne ha fatto un'ostentazione di adesione militante alle posizioni di Hezbollah. E, in coerenza con la stretta di mano con chi anima il terrorismo e vuole sterminare Israele, sono state mosse critiche alla sinistra. Ma perfino Fassino - mi rifaccio alle sue posizioni - ha parlato di smantellamento di Hezbollah. A me va bene anche la lettura fassiniana, se non dobbiamo essere di parte, visto che si auspica una convergenza: dell'Unione o di un largo arco di forze parlamentari convergenti, se non con noi, almeno con Fassino.
Vi è una forte preoccupazione da parte nostra rispetto alla pericolosità di Hezbollah e rispetto alla mancata volontà di accettare il disarmo, che sappiamo essere affidato all'esercito libanese. Tuttavia, le truppe UNIFIL dovranno soccorrere e coadiuvare l'esercito libanese, e ci sono molti margini di ambiguità sulle regole e sulla definizione di questa missione.
L'esercito libanese, peraltro, appartiene ad un paese governato anche da Hezbollah, che vede suoi esponenti nei ministeri: era un esponente del Governo quel rappresentante di Hezbollah che passeggiava sotto braccio con il ministro degli affari esteri D'Alema per le strade di Beirut. Quindi, il confine tra ciò che è terrorismo e ciò che è Governo in Libano è molto labile e incerto. Riuscirà l'esercito libanese ad esprimere una sovranità contro il terrorismo o sarà, in qualche modo, guidato anche da chi, essendo terrorista, ma nello stesso tempo nel Governo, forse non è molto d'accordo sul disarmo? Questi sono i problemi che abbiamo di fronte.
Siamo lieti che la missione si sia avviata in un contesto sin qui tranquillo, tra virgolette, per quanto lo possono essere quelle situazioni. Ma non sappiamo se ePag. 10come questa situazione perdurerà, soprattutto alla luce del delirio di Nasrallah e della sua rinnovata e reiterata minaccia.
Dico ciò in un contesto in cui anche in Italia le ambiguità sono molte. Gli armamenti continuano ad affluire a Hezbollah, ed è ancora da chiarire il contesto dei rapporti con la Siria e ovviamente con l'Iran, protagonista di vicende multiple. Non mi riferisco solo all'armamento di Hezbollah in Libano, ma anche alle vicende che sono all'attenzione della comunità internazionale concernenti la possibile preparazione di armi nucleari.
Ma ci sono anche equivoci nella situazione italiana: un paese che sui temi del terrorismo, forse, deve ancora chiarire le sue posizioni, soprattutto nell'ambito della sinistra. Dovrebbe essere, forse, motivo di riflessione ciò che un autorevole giornalista, D'Avanzo, ha scritto su la Repubblica nell'ottobre del 2005. Egli commentava la decisione del ministro dell'interno dell'epoca di costituire la consulta islamica: una decisione saggia, anche se, forse, i suoi componenti potevano essere selezionati meglio. Infatti, gli esponenti dell'UCOII non mi sembra abbiano dimostrato di meritare, nel corso del tempo, l'accesso alla consulta islamica. D'Avanzo, su la Repubblica, scrisse che questo atto dimostrava comprensione da parte del Governo di allora nei confronti di Osama Bin Laden. In questo articolo si parlava della consulta, del rapporto con l'islam, dei problemi connessi a questo conflitto che, tra integrazione e guerre, procede con grandi drammi. E si diceva che il Governo dell'epoca aveva compreso che Osama Bin Laden non è il terrorista apocalittico o il Satana narcisista della vulgata, ma un leader che fa quel che dice e crede in quel che fa, una guida che non vuole cancellare la nostra democrazia, ma scoraggiarci con le armi dal distruggere le cose che l'islam ama, un uomo che sta vincendo la guerra non con il terrore ma con le parole.
Siamo condannati al dialogo, diceva D'Avanzo. Non so se D'Avanzo abbia avuto modo di dialogare con Bin Laden, che non sappiamo se sia vivo o malato di tifo. Ma il problema politico è proprio questo: dobbiamo essere quelli che dialogano con Bin Laden o con Nasrallah o stringere loro la mano? C'è chi ha stretto la mano ai capi di Hezbollah, chi ha affermato in autorevoli giornali che, in fondo, Bin Laden, con mezzi un po' arbitrari, quasi difende una causa giusta. Chissà se anche abbattere i grattacieli nelle capitali dell'Occidente o far saltare i treni e le metropolitane a Madrid o a Londra può essere un modo accettabile? A nostro avviso, non lo può essere.
Ma le nostre preoccupazioni si estendono dal Libano alle situazioni limitrofe, poiché vi è anche il problema della sicurezza di Israele.
Vorrei segnalare che Simon Peres - il quale è certamente un simbolo, perché non credo che essere israeliano faccia venir meno, di fronte alla sinistra italiana, i meriti da lui acquisiti nella sua lunga opera di ricerca della pace, che lo ha portato anche a ricevere riconoscimenti altissimi da parte della comunità internazionale - ha accettato di costituire, nei mesi scorsi, un Governo di larghe convergenze in Israele proprio per supportare il ritiro dai territori occupati. Ricordo che, su tale questione, si sono divisi i tradizionali partiti israeliani e ne sono nati di nuovi; in altri termini, vi è stata una forte discussione in Israele, il quale, a differenza di altri dell'area, è un paese democratico.
Ebbene, Simon Peres, in un'intervista rilasciata l'8 agosto scorso, in piena aggressione di Hezbollah ad Israele, si riferiva, ad esempio, ad Ahmadinejad. Ricordo che egli diceva alla intervistatrice: «(...) Li ha visti, questi nuovi eroi? Ahmadinejad? Non le sembra la vergogna del nostro tempo, con le sue parole inconsulte, la sua ferocia, il suo ripetere che vuole distruggere questo e quello? E Nasrallah? O i capi di Hamas? Non c'è spazio per loro nella storia: come ci insegna la fine di Saddam Hussein, sono destinati ad affondare, non portano nessun messaggio di speranza, ma solo di amarezza e desiderio di uccidere (...)».
Inoltre, riferendosi agli Hezbollah, Simon Peres (con una ironia molto amara,Pag. 11ovviamente) ha affermato: «(...) C'è chi si tiene in casa un gatto, agli Hezbollah piace tenere i missili (...)». Questo è ciò che ha affermato Simon Peres, che non credo possa essere «scomunicato» perché difende il diritto alla vita ed alla libertà del suo popolo; pertanto, esistono problemi complessi. Come avverrà il disarmo, ad esempio, se questi missili sono nascosti nelle case?
Vorrei inoltre ricordare che, durante questa drammatica estate, alcuni civili sono stati coinvolti nella reazione di Israele. Ciò, probabilmente, è derivato dal fatto che gli attacchi non partivano da sedi «militari», ma che i missili sono stati lanciati su obiettivi israeliani dalle case, quasi per suscitare una reazione che andasse a colpire il luogo di provenienza della minaccia: in un contesto ormai bellico, infatti, era diventato difficile distinguere i civili dalle milizie.
Visto che, nella sua intervista, Simon Peres ha citato non solo gli Hezbollah, ma anche Hamas o Ahmadinejad, vorrei ricordare anche le frasi pronunciate sabato (vale a dire, 48 ore fa) dal leader di Hamas, riportate anche dai quotidiani italiani. Il premier Haniyeh, infatti, ha affermato che non guiderà nessun Governo che sia pronto a riconoscere Israele e che, in questa fase, Hamas sostiene il progetto della creazione di uno Stato palestinese entro i confini del 1967 (e vorrei rilevare che si tratta di una questione un po' complessa). Mi riferisco, in altri termini, ad un altro capo di Governo dell'area, che appartiene ad un movimento che non so se darà vita all'Esecutivo di unità nazionale, cui lavora il Presidente palestinese Abu Mazen, e che parla un linguaggio simile allo statuto di Hamas, il quale considera il terrorismo e la distruzione di Israele scelte normali (e vi invito a rileggervi tale statuto).
Ebbene, tutto ciò ci preoccupa. È questo il motivo per cui il problema non è solamente il nostro voto sul decreto-legge in esame. Non saremo certo noi, infatti, a negare l'appoggio ai nostri militari, tuttavia ci preoccupa cosa accade in quell'area. Cosa andranno a fare i nostri militari? A cosa serve questa missione? C'è il diritto alla vita e all'esistenza di Israele, oppure bisogna un po' sorridere, stringere mani e negoziare, perché così, alla fine, forse Bin Laden, il capo del Governo palestinese appartenente ad Hamas, Nasrallah o qualcun altro, saranno un po' più gentili con noi?
Vorrei altresì ricordare che vi sono state alcune polemiche, nei giorni scorsi, a causa dell'aggressione subita dal Santo Padre. Lo segnalo perché lo scenario, cari amici, è unitario: non si può discutere soltanto del decreto-legge sulla missione in Libano o del trattamento economico dei militari, ma dobbiamo capire quale sia la politica estera del nostro paese e quale sia il ruolo dell'Italia nel Mediterraneo, altrimenti ci perderemmo in dettagli senza comprendere il quadro complessivo.
Vorrei evidenziare che, ieri, ha fatto sentire nuovamente la sua voce il Presidente del Commissione europea, Barroso, per affermare che è del tutto inaccettabile che il Papa venga attaccato per aver citato, nel suo discorso, un documento storico. Barroso, inoltre, si dichiara deluso di constatare come non vi siano stati più leader europei che abbiano affermato che, ovviamente, il Santo Padre ha diritto di esprimere i propri punti di vista, ma il problema sono non le sue parole, bensì le reazioni degli estremisti.
Il Presidente Barroso ha affermato ciò dopo che anche il Governo italiano, riguardo a tale vicenda, ha fatto una figura penosa. Abbiamo letto veramente con raccapriccio - perché siamo italiani e vorremmo poter portare rispetto verso il nostro Esecutivo, poiché rappresenta l'Italia - le parole penose pronunciate dal Presidente del Consiglio giorni fa (non sappiamo se vittima del fuso orario o della fatica del viaggio). Quelle sulle famose «guardie» che avrebbero dovuto difendere il Papa, infatti, sono state parole davvero penose.
Ci sono problemi d'intolleranza, che segnalo qui anche ai rappresentanti del Governo: qualche mese fa un ministro si dimise perché esibiva magliette con vignette. Ora invece osserviamo che non c'èPag. 12nessuna reazione ufficiale di fronte a vignette che nel mondo islamico rappresentano il Papa che imbraccia fucili o mostra svastiche, come pubblicato anche sui principali quotidiani italiani. Questo è il contesto in cui si inquadrano le nostre missioni: la minaccia, l'intolleranza. È vero, da noi non si possono tollerare offese alle religioni altrui - ci mancherebbe altro -, ma perché dobbiamo subire nel silenzio l'offesa alle persone, alle religioni, ai valori che condividiamo? Non si può essere severi a casa propria se poi si subisce qualsiasi dileggio.
Potremmo continuare a lungo per chiedere al Governo e alla maggioranza se abbiano consapevolezza di cosa stiamo parlando e cosa stiamo facendo: questa mattina su la Repubblica vi è un'ulteriore intervista del presidente iraniano che, alla domanda di un giornalista: «Ma lei vuole cancellare Israele dalla faccia della terra?», risponde: «Il mio suggerimento è molto chiaro: lasciamo che il popolo palestinese decida del proprio destino con un referendum libero ed equo. L'esito, quale esso sia, andrà accettato. Ora quella terra è governata da un popolo senza radici». Ora, si può dire tutto di Israele, i Governi possono essere giudicati e anche il Governo di Israele può essere apprezzato o condiviso, ma dire che quel popolo è senza radici significa che questo signore è, oltre che un pericoloso promotore di terrorismo, anche un grande ignorante: credo che la storia sia abbastanza antica e non è qui mia intenzione ripercorrerla o riproporla. Oggi noi dobbiamo renderci conto del contesto in cui ci troviamo. Anche la realtà occidentale, forse, non ha ancora compreso che c'è un'offensiva epocale da parte del terrorismo fondamentalista, di cui anche Hezbollah ed altri sono momentanea - nel senso della storia, ma ormai sono decenni che questa minaccia si manifesta - e preoccupante espressione.
Quindi, credo che dobbiamo anche offrire un chiarimento, in occasione di questo dibattito, sul tema del terrorismo e sulla colpevolizzazione del mondo occidentale. Giuliano Ferrara, su Il Foglio dell'11 settembre, ha scritto che bisogna piantarla di dire che in Iraq la guerra ha diffuso il terrorismo. La guerra ha battuto Saddam e varato un tentativo di democrazia costituzionale, con tre elezioni di seguito e un Governo legittimo, come certamente anche il relatore Ranieri non potrà negare. Il terrorismo è un tentativo di rivincita che viene animato in alcune realtà, tutte collegate tra loro. Non a caso, gli iraniani danno le armi a Hezbollah, così in Hamas si risvegliano alcuni sentimenti. Dunque, non sono cose solo geograficamente limitrofe, ma sono storicamente, politicamente e «culturalmente» - e uso le virgolette - collegate tra loro.
Vi è una situazione in cui, invece, abbiamo un Occidente troppe volte diviso e una guerra al terrorismo che - come dice Giuliano Ferrara - ha i suoi terroristi disertori e le sue battaglie perse, come tutte le guerre. Siamo uniti o no su questo? Non è tanto il voto sui soldati, ci mancherebbe: noi abbiamo animato missioni nel mondo con lo scopo di espandere i diritti e la democrazia e per far sì che gli iracheni votassero tre volte, cari colleghi dell'Unione, in un contesto difficile in cui le bombe seminano morte più tra i musulmani che, a volte, tra gli stranieri, pur avendo noi pagato un prezzo altissimo a Nassiriya o altrove. Dobbiamo avere il coraggio della verità.
Un altro riferimento: André Glucksmann, un noto uomo di pensiero europeo, nei giorni scorsi, in un articolo ripubblicato anche in Italia dal Corriere della Sera ha detto con chiarezza: «Quali che siano i suoi tentennamenti e i suoi errori, Bush non ha inventato l'estensione planetaria di un terrorismo che esisteva ben prima di lui e che durerà» - aggiungo io: ahimè - «chiunque sarà il suo successore». «La violenza dei secoli moderni» - continua questo autorevole filosofo - «ha finito per sradicare i punti di riferimento tradizionali. Né possono integrarsi come noi in Stati di diritto che da loro non esistono (non ancora, dicono gli ottimisti)». Così commenta Glucksmann, parlando di alcune aree del Medioriente, e continua: «In questo intermezzo, terroristi di ogni genere proclamano: "Noi vinceremo, poichéPag. 13voi amate la vita, mentre noi non temiamo la morte". Chi vincerà? I molteplici combattenti nichilisti che coltivano l'omicidio e il suicidio? O una maggioranza di persone oneste che hanno l'intenzione, nelle bidonville come nei quartieri chic, di esistere civilmente? Accettare o non accettare la legge delle bombe umane? Sarà questo, temo, per il "figlio del secolo"» - conclude in questo suo scritto Glucksmann - «la grande questione, quella della libertà e della sopravvivenza».
Noi vorremmo che vi fosse convergenza su politiche di maggiore chiarezza, che anche Tony Blair ha indicato più volte. Tony Blair è stato decantato dalla sinistra italiana come esempio, come modello per la nuova sinistra moderna; poi, quando Tony Blair ha preso atto, ben prima degli attentati di Londra del 2005, che il mondo doveva fronteggiare l'emergenza del terrorismo, le sue quotazioni sono venute meno, forse anche in Inghilterra, ma certamente nel cuore della sinistra italiana, che ne aveva fatto, anni fa, un suo paladino.
Recentemente, proprio Tony Blair ha ribadito: «Il terrorismo non sarà sconfitto finché non affronteremo i metodi degli estremisti ma anche le loro idee. Non intendo, quindi, semplicemente» - afferma Blair - «il fatto di dir loro che il terrorismo è sbagliato: è necessario dire che il loro atteggiamento nei confronti dell'America è assurdo, che la loro concezione del modo di governare è prefeudale, che la loro posizione nei confronti delle donne e di altre fedi religiose è reazionaria. Dobbiamo non soltanto condannare le loro azioni barbariche, ma anche non giustificare il loro rancore verso l'Occidente». Quella di questo terrorismo-fondamentalismo - dice Blair - «è un'ideologia globale. Questa ideologia può essere sconfitta soltanto con la forza dei valori e delle idee che sapremo contrapporre a quelle dei terroristi».
Questi sono i problemi che abbiamo di fronte, ma non so quanto l'attuale Governo ne abbia consapevolezza. Quanto alla crisi iraniana ed a quello che succederà in Iraq, si tratta di scenari collegati. Ce ne andremo (intanto, c'è stato il passaggio di consegne)? Questo aiuterà la diffusione della democrazia in quella parte del mondo? Non è, in fondo, quello che vogliono i vari Bin Laden, vivo o morto che sia, ed i suoi collaboratori e successori? «Andatevene!»: oggi dall'Iraq, domani dall'Afghanistan, dopodomani dal Libano, e via dicendo.
Noi non vogliamo andarcene; o, meglio, vorremmo andarcene, ma per lasciare paesi governati in maniera libera e democratica: come accade in Israele, dove nascono partiti che si scindono, si fondono, formano Governi, dove si vota! Israele è l'unica democrazia consolidata di quell'area: vogliamo dimenticarlo? Non so neppure, francamente, quanta autonomia e autorevolezza abbia il Governo libanese e se esso sia condizionato, al suo interno, da gruppi che praticano il terrorismo. Per non parlare, poi, di altre satrapie che, in quella parte del mondo, tutto sono tranne che normali democrazie!
Vogliamo dire queste cose anche in questo dibattito con maggiore forza e chiarezza, o questo crea problemi nella maggioranza? Il problema, cari colleghi, non è tanto come voteremo noi, ma quale politica farete voi, quali prezzi dovrete pagare pur di tenere «incollati» chi stringe le mani a Nasrallah ed ai suoi amici e chi - e, forse, ce ne sono nelle vostre file - ha una consapevolezza un po' più lucida e chiara di quanto sta accadendo e la penserà, forse, come Glucksmann e Tony Blair (se non vuole arrivare a pensarla come noi o come Giuliano Ferrara).
Questi sono i problemi. Da parte nostra, c'è sicuramente apertura, disponibilità. Valuteremo anche nel corso del dibattito. I nostri leader hanno espresso più volte posizioni di apertura e sono intervenuti loro stessi nei dibattiti in Commissione. Il presidente del mio partito, Fini, già ministro degli esteri e Vicepresidente del Consiglio, ha preso più volte la parola, anche per sottolineare, però, la necessità di atti parlamentari - e qui chiamiamo il Governo e la maggioranza ad atti di chiarezza - che contengano un giudizio riguardantePag. 14le varie e diverse missioni militari cui ha partecipato l'Italia in questi anni ed un apprezzamento alle Forze armate, che si sono recate ancora una volta in Libano, ma che sono state, e che sono ancora, in queste settimane, in Iraq ed in Afghanistan e che, giorno dopo giorno, pagano un prezzo, talvolta non solo per situazioni drammatiche, ma anche per incidenti o per altre situazioni, che nascono, però, dal fatto che si trovano lì e che, di conseguenza, rischiano anche quando spostano un mezzo militare o quando pattugliano in un quartiere (abbiamo avuto gli ultimi caduti in contesti non di attentati, ma di normale operatività).
Noi riteniamo di dover difendere le basi della nostra civiltà occidentale - la tolleranza e la democrazia -, che vuole, appunto, aiutare quei popoli a conquistare democrazia, non vogliamo importare i problemi. Mi fanno ridere le discussioni sulla cittadinanza o vedere, sui giornali, che nel nostro paese si dà la cittadinanza a famiglie che si presentano con la moglie che porta il burqa (c'era anche questa foto, come avete visto)! Dove stanno i garanti dei diritti? Sono libere quelle donne che vanno ad acquisire la cittadinanza italiana con il marito che le tiene con il burqa? È una scelta loro, quella di portare quell'abito, o è un'imposizione feudale? Dov'è il dibattito? Dove sono le femministe? Dov'è una sinistra che su questi temi si è caratterizzata, facendo dei temi dei diritti e della parità tra uomini e donne una bandiera? Un silenzio totale!
Noi riteniamo che il problema sia esattamente questo: che cosa andiamo a fare in Libano?
Ci attendiamo, anche nelle prossime ore, chiarezza sugli atti parlamentari riguardo agli aspetti che, in particolare il presidente Fini, ma anche altri esponenti del centrodestra, hanno sollecitato.
Ciò affinché vi sia una scelta dell'Assemblea di pronunciarsi - e mi avvio a concludere - in maniera unanime, noi ci auguriamo, e positiva su tutto l'impegno dei nostri militari. Noi non siamo stati, infatti, d'accordo sulla scelta del ritiro dei nostri militari dall'Iraq, ma un giudizio lo si deve comunque esprimere su ciò che è stata la presenza e l'azione dei nostri militari; e ciò non deve avvenire solo nei commenti in occasione di una tragedia. Qualcuno nemmeno in tale occasione l'ha fatto! Lo voglio ribadire: vi sono persone che ancora girano nei cortei (forse non siedono in questo Parlamento, ma forse qualcuno un po' «limitrofo» vi è) urlando: «Dieci, cento, mille Nassiriya!» o nefandezze del genere.
Dobbiamo, dunque, aver presente ciò che i nostri militari stanno facendo in Afghanistan, in un quadro di incertezze. Mi ha fatto ridere, in queste settimane, sentire più volte il ministro della difesa Parisi dire che, se vi saranno emergenze, si daranno risposte nell'arco di 48 ore. Non so se il ministro Parisi, che pure è stato più volte in Iraq, abbia un'idea di cosa stia parlando. Che fa, il comandante, chiama il capo di Stato maggiore o il sottocapo ed aspetta 48 ore? Ci si lamenta che i taxi arrivano in ritardo e si sostiene che bisogna moltiplicarne il numero, e il ministro della difesa può arrivare con 48 ore di ritardo a rispondere ad eventuali emergenze? È stato detto anche questo!
In Afghanistan noi riteniamo che si debba stare, ma bisogna rimanervi con chiarezza, condividendo alcune scelte e alcuni rischi, oppure dobbiamo starvi «a mezzo servizio»? O, ancora, vi preparate a dire: beh, ora via dall'Iraq, poi, casomai, via dall'Afghanistan? In Libano ci andiamo, ma forse più per stringere le mani - non parlo dei soldati, ovviamente, ma di qualche politico - agli hezbollah, che per difendere il diritto di tutti popoli, ma, se me lo consentite, in primis di Israele, che subisce una pluridecennale, ma potremmo anche dire una plurisecolare o millenaria, aggressione ad essere libero e vivo.
Noi seguiremo con grande attenzione il dibattito, ma vorremmo che soprattutto il Governo e la maggioranza - se c'è - si esprimano con chiarezza su tutti questi problemi. Non andiamo in Libano a fare «i vigili urbani». I nostri soldati non vanno in Libano solo per svolgere una, purPag. 15lodevole, missione umanitaria. Vi è anche tale ultimo aspetto, come è avvenuto, del resto, in Iraq o in Afghanistan.
Ricordo che, anni fa, l'allora ministro della difesa Corcione (ero all'inizio della mia attività parlamentare; credo fosse in carica il Governo Dini e vi erano stati vari eventi in Parlamento), in Commissione difesa, disse che i nostri militari all'estero - Corcione era allora, lo ricordo, ministro della difesa, ma era stato fino a poco tempo prima ai vertici delle Forze armate - agiscono più «con i mestoli che con i mitra». Disse una frase, in fondo, accettabile: che i nostri soldati, in molti contesti, si sono caratterizzati più per portare sollievo, soccorso, alimenti e solidarietà. Anche la missione in Libano, ben precedente alla vicenda di cui si parlava in quelle settimane - credo fosse la Somalia a destare preoccupazione -, negli anni Ottanta si caratterizzò per la grande amicizia tra i popoli, con vicende di ragazzi che successivamente vennero in Italia a lavorare ed a vivere. Tuttavia, dobbiamo avere ben chiaro che vi è chi ha ragione e chi ha torto in questo contesto.
Il nostro voto, quindi, è addirittura un dettaglio. È ben più importante ciò che l'Italia farà in Libano con i nostri militari, ai quali - è inutile dirlo - vanno la nostra solidarietà ed il nostro sostegno: loro li hanno sempre avuti e non mancheranno neanche in questa occasione. Forse, i nostri militari dovrebbero guardarsi dai sostegni di chi li ha più insultati che apprezzati. Non siamo dunque noi a dover dimostrare chiarezza e coerenza verso i militari. Sono altri, che forse erano anche in quei cortei in cui si pronunciavano quelle frasi irriferibili (Applausi dei deputati del gruppo di Alleanza Nazionale)!
SALVATORE CANNAVÒ. Ogni volta questa storia: non regge!
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Venier. Ne ha facoltà.
IACOPO VENIER. Signor Presidente, signori rappresentanti del Governo, ha un solo pregio l'intervento dell'onorevole Gasparri, che mi ha preceduto, ossia quello di chiarire perché è del tutto indifferente, per noi, come i suoi alla fine decideranno di votare su questo provvedimento, che rappresenta un secondo importantissimo passo in politica internazionale dell'Italia, per la sua uscita da quella scelta sciagurata che è stata essere subalterna alla cosiddetta guerra scatenata da George Bush al terrorismo, che ci consegna - a parere non nostro, ma di tutte le agenzie americane della sicurezza - un mondo molto più insicuro, un mondo dove i terroristi sono più forti, un mondo dove la legalità, il diritto e la democrazia sono meno forti e meno diffusi.
Noi pensiamo, come partito dei Comunisti Italiani, che la missione in Libano sia un fatto molto importante, perché rappresenta un ritorno della politica italiana alla sua missione storica, al suo dare attuazione ad un'idea di funzione del nostro paese al centro del Mediterraneo, un paese certo ancorato con l'Europa, ma che deve avere con il mondo arabo, con il mondo musulmano e con il mondo che gli sta intorno, un rapporto positivo, di dialogo e di sostegno.
A differenza di quanto abbiamo fatto in Afghanistan e in Iraq, noi andiamo in Libano con un mandato preciso delle Nazioni Unite, un mandato che non era scontato e che è stato ottenuto dal nostro Governo nel corso di un dibattito internazionale durante il quale altri si sono mostrati più timidi e hanno formulato maggiori dubbi sulla possibilità di riportare l'azione della comunità internazionale nell'ambito del multipolarismo e di quella legalità che è stata rotta da iniziative militari dagli esiti disastrosi. Ecco perché il primo punto che dobbiamo sottolineare è che in Libano ci vanno le Nazioni Unite, con il loro comando, con regole di ingaggio da esse decise e sulla base di una risoluzione - la risoluzione n. 1701 - la quale chiarisce che l'obiettivo fondamentale della forza multinazionale è il sostegno al Governo libanese nel suo processo di ricostruzione della sovranità dello Stato e della sicurezza dei propri cittadini.Pag. 16
Andiamo in Libano - anche questo è merito del nostro Governo - in un contesto fortemente europeo. Un altro obiettivo fallito, per fortuna, dall'amministrazione Bush era quello di disaggregare l'Europa. Oggi l'Europa è di nuovo in campo con una missione che interviene nel centro, nel cuore dei problemi internazionali del Medio Oriente. Questa missione è stata decisa dal Consiglio europeo e i principali paesi europei sono impegnati in una condivisione di responsabilità che può aprire la strada ad una nuova funzione dell'Europa, non più soltanto spettatrice di ciò che accade ma protagonista nella ricostruzione del Medio Oriente sulla base del diritto. Da quest'ultimo io partirei, dal diritto internazionale, al quale tutti noi ogni tanto ci richiamiamo ma al quale nessuno vuole riferirsi nella sua concretezza.
Il diritto internazionale, oggi, è violato in primo luogo da Israele, che occupa militarmente territori non propri, a Gaza ed in Cisgiordania, e che agisce fuori dal contesto della legalità internazionale, con il rapimento di ministri e rappresentanti del Parlamento palestinese e con la detenzione, senza processo, di migliaia e migliaia di persone, tra le quali anche cittadini libanesi che hanno combattuto contro un'altra invasione del Libano, anche allora compiuta al di fuori del contesto del diritto internazionale. In occasione di quella invasione di alcuni anni fa, Israele si illuse, come si è sempre illuso, che attraverso la forza delle armi si potessero risolvere i problemi della propria sicurezza e che tale sicurezza potesse derivare dall'instabilità e dalla distruzione ed occupazione dei territori dei propri vicini. Quell'invasione, che era stata programmata, che è durata per 10 anni e che ha dovuto essere risolta con una lunga guerra di liberazione da parte del popolo libanese, ormai è alle nostre spalle ma, con la nuova invasione dell'estate scorsa, abbiamo assistito ad una seconda puntata. Ogni volta che Israele è entrato in Libano ha evocato un nemico più potente, più grave, più forte, un nemico maggiormente indisponibile a trovare le ragioni di una pace. Quando si viola il diritto, si evocano anche gli spettri del fanatismo e si alimentano quei bacini in cui forze di carattere estremista trovano le risorse.
Ecco perché crediamo che la missione che noi oggi stiamo per approvare e finanziare avrà un esito positivo se riporterà nel Medio Oriente la sicurezza collettiva, che non può non partire dalla risoluzione del problema dei problemi, cioè la nascita dello Stato di Palestina, uno Stato che deve nascere all'interno dei confini del 1967, sulla base delle risoluzioni delle Nazioni Unite e del diritto internazionale. Proprio il diritto internazionale è violato in quell'area, prima di tutto, per la presenza di una occupazione militare israeliana dei territori palestinesi. Quanto accaduto a Gaza prima dell'invasione del Libano costituisce un'altra invasione, quella di un territorio che non dovrebbe vedere la presenza delle truppe israeliane.
Per questo, pensiamo - come hanno affermato il presidente Ranieri e, soprattutto, il ministro degli affari esteri - che la missione avrà successo se rappresenterà un modello di internazionalizzazione del problema della sicurezza di Israele. Si deve spiegare ad Israele che la nascita di uno Stato di Palestina - come ha detto il ministro degli affari esteri in sede di Commissione - è la premessa per la sicurezza dello Stato di Israele, che deve essere raggiunta.
La sicurezza dello Stato di Israele è uno dei nostri obiettivi, anzi l'obiettivo da cui partire, ma è certo che Israele ha fatto di tutto per metterlo in discussione, violando la base della sicurezza, vale a dire la possibilità di avere un dialogo con l'interlocutore. Noi pensiamo allora che sia giusto inquadrare la missione libanese nel contesto internazionale.
Il contesto internazionale sta cambiando, fortunatamente. Cinque anni sono trascorsi da quel gravissimo attentato terrorista, celebrato pochi giorni fa (mi riferisco all'attacco alle torri gemelle), in ordine al quale le prime reazioni dell'allora presidente Bush, del Governo americano, sembravano indicare la strada di unaPag. 17risposta politica alla sfida terrorista. Invece, è stata aperta la strada della guerra, prima con l'invasione dell'Afganistan e poi con quella dell'Iraq, che è stata come un pugno su un formicaio, poiché ha alimentato tutto il peggio che c'era nel mondo, consegnandoci un mondo molto più insicuro.
La «zanzara» Bin Laden, che fa capo ad una piccola, ma pericolosissima organizzazione, non poteva essere abbattuta con un colpo di cannone! La bomba che è stata sparata sta distruggendo il mondo; pertanto, il mondo che abbiamo di fronte è infinitamente più insicuro di quello che poteva essere realizzato se vi fosse stata una risposta politica ai problemi del Medio Oriente, in primo luogo, e del mondo, in generale. Una risposta che non può partire se non dalla riaffermazione del multilateralismo, del multibipolarismo, della funzione delle grande organizzazioni regionali che si stanno consolidando nel pianeta, per ricostruire la legittimità delle Nazioni Unite sulla base di un nuovo e diverso rapporto di forza, quello per cui non si può attribuire ad un unica superpotenza il compito di determinare le dinamiche della politica internazionale, i destini dei singoli Stati sulla base della sua convenienza momentanea. È bene ricordare il cambio repentino e continuo di giudizio da parte dell'amministrazione Bush sui cosiddetti Stati canaglia, gli Stati terroristi. Il Pakistan era un grande nemico prima che Musharraf, il presidente dittatore, cambiasse fronte. Inoltre, oggi non si sa più cosa stia accadendo in Afghanistan, e mi riferisco al presidente Karzai che, all'Assemblea delle Nazioni Unite, ha indicato proprio nel Governo pakistano il sostegno a quelle organizzazioni talebane che stanno combattendo e si stanno trasformando in fronti di liberazione nel sud di quel paese.
Vi è l'ipocrisia degli amici di oggi che diventano nemici domani, come Saddam Hussein, grande alleato degli Stati Uniti nell'area centrale del Medio Oriente, poi diventato nuovo Hitler da abbattere. Dobbiamo cancellare questa ipocrisia degli amici che servono, se vogliamo capire quali sono le responsabilità che dobbiamo assumerci in termini di dialogo, di interlocuzione, di rispetto anche dell'autonomia dei popoli. È stato detto che questa guerra preventiva è stata scatenata nel mondo per diffondere la democrazia, i diritti democratici. Due paesi, la cui sovranità ci impegniamo a garantire, la Palestina ed il Libano, hanno scelto democraticamente i loro Governi. La comunità internazionale ha verificato i processi elettorali; ha visto quali sono state le volontà politiche di quel popolo nel determinare le loro rappresentanze. Questi processi vanno rispettati! Non potete usare due standard diversi, rilevando che la democrazia va bene solo quando vengono scelti i rappresentanti che fanno comodo. Questi sono i rappresentanti dei popoli con cui noi dobbiamo rapportarci e con cui dobbiamo parlare!
Se gli hezbollah organizzano una manifestazione dopo ciò che è accaduto, dopo le distruzioni di quel paese, raggruppando un milione di persone a Beirut, non possono essere considerati (le finalità del partito non sono chiaramente quelle di una forza progressista e laica) come un'organizzazione terroristica tout court. È un'organizzazione di massa, con un consenso ampio in quella popolazione. Se bisogna affrontare i problemi di quella popolazione, va aperto un confronto con cosa quella realtà rappresenta e occorre chiedersi perché essa è così forte, tenuto conto che è stata capace di organizzare, all'interno di quel paese, un sistema di risposte sociali che non è stato in grado di garantire il Governo libanese. Io dico, allora, che ha fatto bene il Governo italiano ad essere protagonista di questa fase. Si doveva ottenere prima di tutto il cessate il fuoco ed il Governo italiano è stato protagonista della Conferenza di Roma e fautore di una pressione a livello internazionale per giungere al cessate il fuoco.
Oggi dobbiamo andare in Libano per svolgere una missione chiara, che è quella di interposizione e di aiuto alla ricostruzione di quel paese. Il Libano è stato devastato. Il 90 per cento delle vittime di questa azione militare israeliana sono civili, e, tra questi, l'80 per cento sonoPag. 18bambini. Quei bambini che continuano a morire, come è stato ricordato poc'anzi dal presidente della Commissione difesa, per l'uso di bombe che sono da bandire dal punto di vista del diritto internazionale, ma che pure sono state continuamente usate sia in Libano, sia in Iraq, sia in Afghanistan. Bombe che seminano distruzione e morte. È inutile che si approvano le risoluzioni contro l'uso delle mine anti-uomo quando poi queste sono sparse sui territori che utilizzano quelle tipologie di armamenti.
Il Libano è stato distrutto scientificamente in tutte le sue infrastrutture: non c'è più un ponte; è stata anche colpita la centrale elettrica, che ha causato un enorme inquinamento ambientale del Mediterraneo. Che c'entrava la centrale elettrica? Che c'entrava la centrale del latte? Che c'entravano le infrastrutture civili che sono state distrutte? Un intero quartiere di Beirut, dove abitavano seicentomila persone, è stato raso al suolo. Questa è la reazione di uno Stato democratico, di una democrazia, ad un problema di confine, al rapimento o alla cattura, come riportano gli organi di stampa arabi, di alcuni soldati israeliani? Gli israeliani, lo ricordo, hanno fatto mille incursioni all'interno del territorio libanese. Questa è una reazione possibile e tollerabile?
Ciò detto, ci si torna ad interrogarsi su quale tipo di diritti e su quale tipo di democrazia si intenda esportare quando il Presidente degli Stati Uniti d'America sostiene che, per l'affermazione di questo tipo di strategia, è necessario tollerare la tortura dei prigionieri che sono catturati. A mio avviso, bisogna interrompere questa catena di ipocrisie. Se si vuole un mondo più sicuro e sostenere che quella democrazia e quei diritti civili sono un modello a cui fare riferimento, noi, prima di tutto, dobbiamo dimostrare di essere coerenti con i nostri principi e con le nostre affermazioni. È necessario, quindi, iniziare con un'azione che ha per scopo quello di interporsi, di garantire la sicurezza e la ricostruzione ed agire per giungere ad una conferenza internazionale di pace di tutto il Medio Oriente. È chiaro che la vicenda libanese ha a che fare anche con la questione del nucleare iraniano. Nessuno di noi, che si batte per la denuclearizzazione del mondo, può pensare di sostenere il diritto di uno Stato di dotarsi di armamenti atomici. Ma vogliamo dire che Israele è una potenza nucleare al centro del Mediterraneo e che nessuno fa notare il problema della non proliferazione ad Israele; ciò finisce per alimentare nelle masse arabe il risentimento, l'esistenza di un doppio standard. Ci si chiede perché l'atomica islamica non va bene quando il Pakistan è dotato di armamenti atomici.
Per tali motivi è giusto, a mio parere, pensare ad una sicurezza collettiva di tutta l'area, e, in quest'ambito, ragionare sulla sicurezza dell'Europa. Dico ciò perché se fossimo stati lì a guardare, a vedere questa guerra espandersi, a vedere coinvolti anche la Siria e l'Iran, allora anche la nostra sicurezza sarebbe stata direttamente in pericolo, perché l'Europa è il centro del Mediterraneo, l'Italia è al centro del Mediterraneo. Conseguentemente, il nostro paese deve occuparsi, per questioni non solo di sicurezza, ma anche di interesse nazionale di quanto accade. Bene ha fatto il ministro D'Alema a ricordarlo. Non si può far finta di non sapere che il primo partner commerciale del Libano e dell'Iran è l'Italia. Si tratta, quindi, di questioni che riguardano anche lo sviluppo delle relazioni del nostro paese con questi popoli. Altrimenti, con chi parleremo? Con chi costruiremo la comunità del Mediterraneo se lasceremo che il processo, cosiddetto della distruzione del Medio Oriente e la sua ricostruzione nel grande Medio Oriente, sotto l'egida statunitense, ci consegni soltanto macerie?
Parliamo allora - è giusto parlarne, ne ha fatto cenno il collega della destra - della questione dell'Iraq. Che cos'è l'Iraq oggi? Una democrazia o una mattanza, dove si sono alimentati i peggiori spiriti tribali e le appartenenze di carattere etnico-religioso che provocano ogni giorno decine e decine di morti? Siamo indifferenti a quello che abbiamo prodotto? Noi forse sì, perché siamo stati spettatori di questo evento, ma, ad esempio, gli StatiPag. 19Uniti cominciano ad interrogarsi sull'esito disastroso di quella guerra proprio sul terreno della costruzione di una società più sicura e disposta ad accettare i diritti. Oggi la tortura - lo denunciano le organizzazioni internazionali - l'omicidio politico, l'omicidio in tutte le sue forme è pratica comune in Iraq e centinaia di persone scompaiono ogni giorno: non c'è alcuna forma di tutela e la sicurezza non esiste. Questo siamo andati a portare in Iraq?
Bene abbiamo fatto a decidere il ritiro delle nostre truppe da quel quadrante ed è stato il primo atto fondamentale che ha impostato la politica del nostro Governo, quello di ritirare le truppe da una guerra sbagliata e dagli esiti disastrosi, che non significa non occuparsi e non avere a cuore il destino di quelle popolazioni, ma farlo con altri strumenti.
La terza tappa, ovviamente per noi del gruppo dei Comunisti Italiani, sarà quella del ritiro delle truppe dall'Afghanistan, altra guerra destinata al fallimento, anzi, già fallita. Infatti, quando il presidente Karzai autorizza la ricostruzione in Afghanistan della polizia morale per il controllo sulle donne, sui mezzi di informazione, per la prevenzione del peccato indica che c'è una continuità che, ormai, non si può più spezzare, anche nel Governo più vicino alle forze occidentali lì occupate e presenti. Il Governo Karzai dimostra che c'è una contiguità con le pratiche e le forme di governo dei vecchi talebani ed una contiguità spaventosa e pericolosa con i signori della guerra, con i signori dell'oppio, che viene prodotto in maniera sempre più diffusa in quel quadrante. Ecco perché noi pensiamo che sussista la necessità di uno scarto ulteriore di azione e di coraggio politico. Il Libano, certo, può essere anche una trappola, l'hanno detto tanti commentatori internazionali. Dicono che Israele ha bisogno di una pausa, che noi andiamo nel centro del ciclone, che fra pochi mesi ci potrebbe essere un'azione militare israeliana nei confronti dei reattori iraniani e che l'Europa potrebbe trovarsi in prima linea in quel contesto.
Bene, compito di quella missione è proprio impedire questo esito, dare sicurezza nel dialogo con l'Iran perché non ci sia la costruzione dell'atomica e, nello stesso tempo, creare una condizione per cui Israele si senta più sicuro, perchè le forze più avanzate all'interno della democrazia israeliana possano di nuovo usare la loro voce e trovare le ragioni del dialogo. Quindi, occorre tornare a Ginevra, come fecero alcuni anni fa i leader israeliani e palestinesi, e scrivere insieme un documento su una possibile pace, che deve risolvere anche la grande questione di Gerusalemme, che deve essere capitale del mondo e di tutte le religioni, non città divisa e contesa tra due integralismi.
Ecco perché davvero siamo indifferenti a ciò che farà la destra in quest'aula. Fate come credete, recitate ancora una volta la stanca presa di posizione a favore di una guerra preventiva già fallita e morta. Comunque, non ci siete riusciti, non avete ancora cambiato le regole di ingaggio. Ci avete chiesto di andare in Libano a distruggere hezbollah. Come potremo distruggere una parte di quel Governo che ci chiede di entrare in Libano? Come ci potete chiedere di distruggere un'organizzazione che rappresenta centinaia di migliaia di persone, una parte fondamentale della società libanese? Noi andiamo lì a garantire che l'esercito libanese possa dispiegare la sua sovranità fino ai suoi confini naturali, ai confini internazionalmente riconosciuti; non faremo di questa missione una missione di guerra, di combattimento, una missione dentro un nuovo gorgo e un nuovo massacro.
Lo abbiamo detto, anche respingendo la vostra proposta di introdurre il codice di guerra come strumento per la regolazione delle nostre iniziative.
Vedete, nel decreto-legge che ha finanziato le altre missioni abbiamo deciso che le nostre sono missioni di pace, ma questo dipende dal comando politico e noi ci fidiamo di questo Governo e della sua capacità di dare ordini chiari alle nostre truppe all'estero, ordini che stanno dentro la legalità e nel contesto del diritto internazionale. Non ci interessa questa discussionePag. 20sulla continuità. Non c'è alcuna continuità tra la missione in Libano, che risponde all'articolo 11 della nostra Costituzione, e quelle missioni in Afghanistan e in Iraq che sono state scelte per un'operazione che con tutto aveva a che fare tranne che con la diffusione della pace e della democrazia.
Questa missione risponde anche al programma dell'Unione. L'Unione ha un programma che deve essere rispettato. È il patto che noi tutti dobbiamo rispettare, perché è il patto con i nostri cittadini. Quel patto dice che possiamo inviare missioni all'estero solo se queste sono sotto il comando delle Nazioni Unite, se sono terze rispetto ai contendenti, se sono congrue nel raggiungimento dei fini attraverso gli strumenti che essi si danno. Questo è l'obiettivo e questa missione corrisponde all'obiettivo di ricostruire una funzione dell'Italia. L'Italia, giustamente, deve essere orgogliosa del coraggio dimostrato dal suo Governo in quest'estate difficile, un Governo che ha preso un'iniziativa e ha trascinato gli altri dietro un'iniziativa positiva, che ha come scopo la pace.
A volte, ci troviamo in una situazione paradossale; siamo addirittura accusati di nutrire qualche sentimento antisemita per il solo fatto che critichiamo il Governo di Israele. Noi dobbiamo garantire la sicurezza in Israele, ma dentro il diritto internazionale. Guai se tollerassimo, in qualunque forma, la diffusione di un morbo che ha distrutto l'Europa, come quello dell'antisemitismo! Ma il pericolo principale che mettiamo in evidenza rispetto a questo tema è la confusione tra l'azione del Governo di Israele e la questione della relazione con il popolo ebraico, tra il contrasto all'azione del Governo di Israele e la possibilità di avere qualsiasi tipo di convivenza o collusione con chi alimenta l'antisemitismo. Proprio separando i piani, separando la politica, la critica politica al Governo israeliano, anche la più aspra, con la continua ed assoluta avversione, il contrasto e il combattimento contro ogni forma di antisemitismo, noi faremo un servizio affinché questo morbo non si diffonda.
Guai alla confusione dei piani! Quando si dice non potete criticare il Governo di Israele in questo modo, è proprio questo lo strumento intellettuale e culturale che alimenta un confusione tra l'azione di un Governo e la relazione con un popolo ed una religione che devono essere rispettati, tutelati e con cui dobbiamo avere relazioni di grande amicizia, perché è parte della nostra storia e della nostra cultura.
Vorremmo che il nostro Governo avesse con il Governo di Israele un rapporto di amicizia, ma come quello con qualsiasi altro governo amico. Non si tollerino da Israele azioni che da altri non vengono tollerate. Non c'è alcuna specialità; se togliamo l'elemento della specialità nella relazione tra l'Italia, tra il mondo e lo Stato di Israele, allora sì che finalmente potremo indurre le classi dirigenti di quel paese ad accettare che la sicurezza di Israele stia nel diritto internazionale! La sicurezza di Israele non può derivare da distruzioni, da morte, da odio alimentato in tutti i popoli che gli vivono vicino.
PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE GIORGIA MELONI (ore 13)
IACOPO VENIER. Israele deve vivere vicino ai popoli che rispettino la sua storia, che abbiano una relazione di amicizia e deve rispettare la storia degli altri. Non può pensare che la propria sicurezza venga dai check point o dalla costruzione di nuovi insediamenti che tolgono la terra, che umiliano i popoli, che costruiscono quell'odio profondo entro cui anche organizzazioni di carattere terrorista trovano alimento, ma più in generale trova alimento un sentimento che certamente non è sicuro per lo stesso Israele.
A questo punto dobbiamo investire ulteriormente nella nostra politica estera. Credo che questo Governo avrà il coraggio di seguire con coerenza il mandato - che il suo popolo, il popolo della pace, gli ha dato - di sganciarsi e di costruire un'alternativa. L'alternativa non può essere quella di farsi chiudere in una trappola, ma quella di lavorare in avanti. VediamoPag. 21la possibilità di lavorare in avanti e di realizzare l'obiettivo che noi tutti vogliamo: un Medio Oriente sicuro sulla base del diritto internazionale, dentro cui tutti trovino la ragione per poter stare insieme, all'interno di una comunità internazionale che non usi in alcun caso il doppio standard.
Un'ultima raccomandazione. Questa è una missione di pace, noi andiamo in Libano per garantire la pace a quel popolo; comportiamoci con coerenza e, accanto all'azione militare di interposizione, portiamo un'azione civile forte, di interazione con la comunità, con la cultura, con il popolo libanese, che è un popolo complesso e complicato, che ha una relazione storica con quello italiano e con la cultura europea, un popolo vicinissimo ai nostri usi e consumi, un popolo libero, molto simile a tutti i popoli del Mediterraneo. Andiamo lì con la forza delle armi, per quello che serve, ma anche con la forza della nostra cooperazione internazionale, con la forza della cultura, della relazione tra le società, costruiamo ponti ed aiutiamo quel paese ad uscire da una distruzione tremenda, all'interno della quale non potranno che alimentarsi - se non verranno curati in tempo - nuovo odio e nuova distruzione.
Per tutte queste ragioni ci apprestiamo a votare a favore del decreto-legge. Sentiremo la discussione, ascolteremo il Governo nelle sue conclusioni, ma questo non è un voto scontato o semplice, è un voto che rappresenta un investimento, una apertura di credito, un atto di grande fiducia nelle capacità che noi avremo - come nuova maggioranza e come Governo di questo paese - di rappresentare un salto in avanti, chiudendo definitivamente, a livello internazionale - per quanto ci riguarda, la nostra prima responsabilità è a livello europeo e nel Mediterraneo - , la fase disastrosa e tremenda della guerra preventiva, dell'azione unilaterale, di una guerra basata su un doppio standard e su falsi obiettivi, che non sono stati ovviamente realizzati.
Credo che questa Camera debba ascoltare con rispetto le ragioni di una destra antica, ormai superata dalla dinamica internazionale, che non ha capito che la guerra è finita, ma non debba farsi in alcun modo irretire da questo tentativo volto alla ricerca di un alibi per votare a favore e possa tranquillamente procedere, con un voto tranquillo, sereno e consapevole, per dare un nuovo ruolo all'Italia.
PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Boniver. Ne ha facoltà.
MARGHERITA BONIVER. Signor Presidente, non utilizzerò tutto il tempo concessomi, anche perché parlo anticipatamente grazie alla cortesia del collega Brusco.
La mia parte politica ha espresso sin dall'inizio una adesione in linea di principio alla partecipazione italiana alla missione UNIFIL 2 - ci sono indubbiamente degli elementi in questa missione che corrispondono pienamente ad un interesse nazionale, perché sarebbe difficile negare un interesse dell'Italia ad essere presente come protagonista nell'area mediorientale e in tutto il bacino del Mediterraneo -, ma lo abbiamo fatto a denti stretti e di malavoglia, sostanzialmente perché siamo convinti che questa missione, i cui rischi non sfuggono ad alcuno, doveva essere oggetto di un mandato politico il più ampio possibile da parte delle Camere. Così dovrebbe essere non tanto perché lo ha autorevolmente chiesto il Presidente della Repubblica, ma perché, e non da oggi, questo è il nostro modo di intendere la presenza internazionale dell'Italia, soprattutto quando è in gioco l'invio di nostri militari all'estero.
Diversamente da come è stata presentata da questa maggioranza, la missione in oggetto è stata creata, tra l'altro, per far osservare il cessate il fuoco intervenuto tra Israele e Libano; pertanto, si tratta di una missione che contribuirà alla pace esattamente come è stata, fin dalle prime battute, l'operazione Antica Babilonia in Iraq ed esattamente come è stata configurata fin dai primissimi giorni la missione in Afghanistan. Si tratta di missioni (al plurale) «di pace», dunque, che si svolgono inPag. 22contesti molto diversi, ma che hanno come obiettivo prioritario il contrasto al terrorismo e la costruzione di un quadro democratico. Ieri lo scopo era l'abbattimento della più che trentennale dittatura di Saddam Hussein, che aveva martirizzato il suo popolo e sbeffeggiato l'ONU per undici, lunghissimi anni, oggi un obiettivo che è stato già raggiunto in Afghanistan, dove è stato sgominato l'oscurantismo del regime dei talebani ed instaurato l'ordine costituzionale. In entrambi i casi, in Iraq e in Afghanistan, la partecipazione italiana è stata accompagnata da un'impressionante pluralità di interventi, spesso molto generosi, umanitari e di cooperazione economica, che ci hanno reso molto graditi alle popolazioni locali e che hanno contribuito anche a proteggere la presenza dei nostri militari in quei territori.
Stiamo parlando, quindi, di «truppe di pace» in tutte le missioni, con i nostri militari impegnati nel rafforzamento della legalità e della sovranità territoriale in scenari molto ardui, molto difficili e molto rischiosi. Si tratta di truppe di pace, quindi, e non di truppe di occupazione come continuiamo a sentirli definire anche in quest'aula, come li si sente definire nelle tante manifestazioni di piazza e addirittura come li ha definiti il Presidente del Consiglio, Prodi, in piena campagna elettorale. I moltissimi, variegati deliri pacifisti, così ampiamente rappresentati in questa maggioranza, a conti fatti, non riescono a nascondere e a camuffare questa elementare verità. Vi è una vera e propria continuità, dunque, nella politica estera dell'Italia che la rende essenziale nel quadro multilaterale e che le risoluzioni dell'ONU, ex post ed ex ante hanno sempre inquadrato dal punto di vista del diritto internazionale, sia nell'operazione in Iraq, sia anni prima con i bombardamenti in Serbia, sia nello scenario afghano e tanto più oggi nel Libano meridionale.
La risoluzione n. 1701, malgrado le sue ovvie incongruità e gli inevitabili compromessi ai quali hanno soprattutto lavorato gli Stati Uniti e la Francia, è stata oggetto tuttavia di un raro e prezioso voto unanime del Consiglio di sicurezza dell'ONU. È questo forse, dal nostro punto di vista, l'elemento più rassicurante. Infatti, non possiamo dimenticare che la precedente missione UNIFIL che si svolge con pressoché identico mandato da oltre un quarto di secolo nel Libano meridionale non ha minimamente impedito ad Hezbollah di armarsi sontuosamente, di costruire un reticolo molto esteso e molto sofisticato di rifugi sotterranei nei quali nascondere migliaia di missili, molti di fattura russa, arrivati chissà come e puntati su un unico obiettivo: il territorio di Israele.
È proprio questa incognita terrorista di Hezbollah a rappresentare ancora una volta l'epicentro di una possibile ripresa del conflitto che, naturalmente, nessuno in Europa si augura.
Questa formazione ha rappresentato e, probabilmente, continuerà a rappresentare uno Stato nello Stato libanese; è una formazione che controlla perfettamente tutto il Libano meridionale da oltre vent'anni, malgrado la massiccia presenza prevista dei caschi blu all'interno di UNIFIL 2. Uno Stato nello Stato quindi, un partito politico con rappresentanti in Parlamento e nel debolissimo esecutivo di Siniora, una milizia di decine di migliaia di uomini armati di tutto punto che ha sempre ignorato le risoluzioni dell'ONU, non ultima la n. 1559 che ne imponeva il disarmo.
Al contempo, Hezbollah è anche una forza economica intenta in questi giorni a risarcire, pronto cassa, coloro che hanno subito le devastazioni dei bombardamenti israeliani. È un'entità che costituisce parte integrante del multiforme accordo intralibanese, ma che di fatto ha dichiarato guerra allo Stato ebraico, ha rapito i suoi militari che ancora oggi, ad oltre un mese dal cessate il fuoco, non sono stati liberati ed ha lanciato centinaia di missili su Haifa ed altre località israeliane.
Paradossalmente, Hezbollah non è stata oggetto di quelle critiche, così pronte e puntuali, che hanno invece riguardato Israele, rea di aver reagito in modo sproporzionato, come se ci potesse essere una sorta di metro e di misura di una reazione nei confronti di una cosiddetta guerraPag. 23asimmetrica, come quella derivante dall'episodio del 12 luglio che ha scatenato la reazione dello Stato di Israele.
Hezbollah è la formazione che, due giorni fa, ha organizzato un'imponente manifestazione a Beirut per celebrare la vittoria su Israele. È riapparso Nasrallah, il quale ha confermato semplicemente quanto tutte le parti in causa ben sanno: Hezbollah continua a possedere una immensa quantità di missili e non intende in alcun modo sbarazzarsene.
In sintesi, questo è il quadro all'interno del quale il Governo ha deciso, con una fretta che ha stupito solo gli ingenui, derivata probabilmente dalla necessità di tenere assieme una cacofonia di voci all'interno della sua maggioranza e all'indomani di una mortificante maratona parlamentare che ha costretto il Governo a porre quattro volte la questione di fiducia sulla missione in Afghanistan, utilizzando una procedura molto disinvolta dal punto di vista istituzionale.
A Camere chiuse, senza aspettare il responso dell'Assemblea, è stato deciso l'invio dei primi militari italiani che, a schieramento completato, rappresenteranno circa un quinto di quel poderoso contingente di UNIFIL 2 che dovrebbe salire a 15 mila unità.
Basti pensare ad un'altra missione ONU, nel Congo, dove sono morti più di un milione e mezzo di civili in una lunghissima e sanguinosa guerra civile. Il territorio del Congo è immenso rispetto al minuscolo territorio libanese e ha una popolazione quindici volte superiore. Ebbene, i caschi blu nel Congo sono 16 mila in tutto.
Rimangono, quindi, intatte le nostre più vive preoccupazioni, alle quali si aggiungono gli interrogativi riguardo alle regole di ingaggio definite dal ministro della difesa Parisi «robuste» e considerate in certi ambienti del Palazzo di vetro perfino troppo robuste.
Non vorrei dimenticare il rammarico per l'improvviso e subitaneo siluramento da parte del Segretario generale Kofi Annan del generale italiano Fabrizio Castagnetti, reo palesemente di aver descritto con una desolante accuratezza l'elefantiaca burocrazia onusiana e, soprattutto, di aver elencato l'altissimo numero di missioni ONU fallite, a cominciare da quella nel Ruanda che oggi si ripropone, purtroppo, in tutta la sua drammatica violenza nel Darfur.
Dunque, nessun disarmo delle milizie sciite; la sicurezza di Israele è minacciata esattamente come prima del 12 luglio; nessun efficace controllo alla frontiera con la Siria per impedire il passaggio, probabilmente mai interrotto del tutto, di armi provenienti dall'Iran e destinate al cosiddetto Partito di Dio. Si tratta di un quadro sufficientemente fosco che in nessun modo giustifica il trionfalismo parolaio e provinciale delle formazioni estremiste presenti in questa maggioranza che hanno inneggiato a lungo ed al limite del pudore nei confronti dell'invio dei nostri valorosi militari in terra libanese.
In conclusione, confidiamo, tuttavia, che il Governo vorrà e saprà correggere al meglio quanto meno il metodo usato fino ad oggi, informando con tempestività e completezza il Parlamento e ripresentando, come è giusto e doveroso, un nuovo provvedimento al termine della scadenza del 31 dicembre di quest'anno (Applausi dei deputati del gruppo di Forza Italia).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Scotto. Ne ha facoltà.
ARTURO SCOTTO. Signor Presidente, rappresentanti del Governo, forse nella «rassegna stampa» richiamata durante il suo intervento l'onorevole Gasparri ha dimenticato di inserire il rapporto dei servizi segreti americani che questa mattina è stato pubblicato dai maggiori giornali italiani. Mi riferisco al rapporto chiesto dal NIC, che include sedici servizi americani, dove veniva denunciato l'effetto domino, la moltiplicazione di centrali terroristiche all'indomani della scelta sciagurata operata dal Governo Bush di inviare le truppe in Iraq. L'eredità pesante di quella guerra ha avuto come effetto principale l'incremento progressivo dei terrorismi, la moltiplicazione di milizie armate,Pag. 24la diffusione di uomini - e talvolta donne - bomba, il generale sorgere di integralismi che rischiano di minare il già fragile equilibrio istituzionale di paesi arabi moderati.
L'Iraq e l'Afghanistan hanno prodotto una sorta di calamita, sconvolgendo le popolazioni civili, ritardando la stabilizzazione di assetti istituzionali in quei paesi che avevano vissuto e che vivono ancora un lungo dopoguerra, mietendo decine di migliaia di vittime civili. Non possiamo sfuggire di fronte a questo dato: è quest'ultimo, infatti, che oggi ci costringe a discutere di Libano ed è questo il contesto delineato all'indomani della scelta del Parlamento italiano, delle Commissioni esteri e difesa, di inviare un contingente italiano all'interno della missione UNIFIL.
È del tutto evidente che, se non ci fosse stato un intervento deciso e tempestivo della comunità internazionale, il conflitto israelo-libanese sarebbe scivolato inevitabilmente verso un potenziale allargamento, con l'effetto domino di coinvolgere altri paesi nel perimetro di quella guerra. Mi riferisco a Siria ed Iran, innanzitutto, che, con il loro sostegno, diretto o indiretto, a Hezbollah, inevitabilmente avrebbero finito per condividere l'incendio mediorientale.
In questo contesto si è inserita l'Europa. Il Libano ha recuperato una centralità. La tragedia di milioni di cittadini e la guerra, cominciata il 12 luglio scorso, recuperano una nuova centralità grazie all'Europa e alla scelta dell'Italia che, insieme ad altri paesi, ha promosso un'iniziativa forte nei confronti delle parti in contenzioso, portandole per mano verso la risoluzione delle Nazioni Unite n. 1701, che delinea tre aspetti fondamentali.
In primo luogo, va sicuramente ribadita con forza, perché è un atto fondamentale, la centralità della questione della sicurezza di Israele e, allo stesso tempo, il recupero progressivo di sovranità del Libano, che soltanto un anno fa era uscito da un lungo braccio di ferro che aveva portato all'abbandono delle truppe siriane del territorio libanese, quella che fu salutata come la «rivoluzione dei cedri».
Il Libano oggi ha un Governo democratico, sicuramente fragile, ma che va sostenuto e che è basato su un equilibrio etnico e religioso molto difficile da mantenere. Sicuramente una possibile escalation di quella guerra avrebbe determinato ulteriore instabilità e ulteriori difficoltà.
Infine, l'altro tema fondamentale riguarda il disarmo dei gruppi armati presenti sul territorio, le milizie parallele all'esercito libanese. Si tratta di un dato fondamentale. Ricordo che erano già intervenute le due risoluzioni delle Nazioni Unite n. 1559 e n. 1680. Questo compito spetterà prioritariamente all'esercito libanese, coadiuvato dai caschi blu delle Nazioni Unite. La tregua, che ha portato alla scelta della risoluzione n. 1701 per l'invio dei caschi blu dell'Unifil, deve necessariamente comportare un successivo trattato di pace e, progressivamente - questo è l'altro dato importante che è scaturito dalla discussione nelle Commissioni competenti -, una conferenza regionale di pace in tutta l'area. Essa deve definire una pacifica convivenza tra Libano ed Israele, a partire dalla definizione dei confini, dentro cui c'è anche la questione, non ancora chiusa, che è stata anche oggetto del famoso comizio di Nasrallah, due giorni fa, ossia quale destino abbiano le Fattorie di Sheba'a, che costituiscono uno dei punti critici del rapporto tra Israele e Libano.
Vi è un altro tema fondamentale e centrale della Palestina e della pace in Medio Oriente, come hanno detto più volte i relatori questa mattina, gli onorevoli Pinotti e Ranieri, e come ha ribadito in queste settimane il ministro D'Alema. George Bush, all'indomani dell'11 settembre, dell'attentato terribile alle Torri gemelle, sottolineò che, per bonificare quei giacimenti di odio entro cui si era annidato il terrorismo internazionale e qaedista, era necessario rimuovere definitivamente quell'alibi terribile che da cinquant'anni alimentava il conflitto mediorientale, con riferimento alla richiesta dei palestinesi, giusta e legittima, di avere uno Stato. Egli disse che andava prodotto uno sforzo da parte della comunità internazionalePag. 25per dare uno Stato ai palestinesi, procedendo non per ritiri unilaterali, ma con un vero e proprio accordo di pace, che, sotto la formula «due popoli, due Stati», avrebbe restituito a quell'area pace, sviluppo e sicurezza.
Quel tema è stato rimosso dalla scelta della guerra preventiva. Anzi, la guerra preventiva ha accentuato ancora di più la disperazione e le difficoltà di quell'area, ed ha prodotto ulteriormente la crescita di quell'alibi.
Oggi, ancora ci domandiamo cosa succede a Gaza, cosa succede in quei territori. È calato un silenzio inquietante, che impone alla comunità internazionale di intervenire subito, perché altrimenti quella difficile tregua che è stata raggiunta in Libano e che oggi ci porta a ben sperare verso un rapido accordo di pace rischierà di non reggere e di portare ulteriori difficoltà all'interno di quell'area.
Non sarà semplice reggere questo passaggio, soprattutto se all'interno degli Stati e della stessa Israele non passerà l'idea che soltanto la parte più illuminata di quel paese comincia a comprendere: non può essere soltanto con la deterrenza militare che si raggiungeranno sicurezza, stabilità e sviluppo; ma attraverso scelte di dialogo, diplomazia, multilateralismo quel paese potrà uscire dalla spirale della violenza, dalla spirale degli attentati kamikaze, dalle difficoltà di dialogo all'interno di quell'area. Allo stesso tempo, si comincia a comprendere come restituire al Libano diritti e centralità, attraverso il dialogo e la diplomazia.
Attenzione: il Libano è il paese più povero di quell'area! Secondo le rilevazioni di The Economist, è un paese che ha quattro dollari e mezzo di reddito pro capite. Parliamo di un paese poverissimo all'interno di un'area molto complessa e difficile. Non possiamo pensare di liquidare il fenomeno di Hezbollah, di quel movimento che sicuramente ha dentro di sé enormi contraddizioni e che ha una grande responsabilità in quella guerra, attraverso una lettura miope ed approssimativa, esclusivamente determinata dall'impatto delle bombe e dei missili Kassam lanciati sul territorio israeliano. È una forza presente in Parlamento, che contribuisce oggi alla ricostruzione civile di quel paese, attraverso una forza economica assistenziale, che talvolta supplisce alle difficoltà economiche di quel paese.
Se non ci rendiamo conto di questo, se non riusciamo ad eliminare il consenso esistente oggi attorno a quella forza, che è ampio, soprattutto all'indomani della guerra in Libano, non riusciremo ad intervenire seriamente nella direzione della stabilizzazione e del recupero di sovranità di quel paese.
Quindi, sarà necessario e fondamentale agire anche sul versante economico. Se c'è un aspetto che va sottolineato (e viene sottolineato troppo poco all'interno del nostro dibattito) è che, nel decreto-legge che questo Parlamento si accinge a convertire in legge nei prossimi giorni, è prevista anche una quota importante destinata alla cooperazione internazionale: trenta milioni di euro. Sono ancora troppo pochi e andranno incrementati, perché non c'è dubbio che anche attraverso un'aggressione economica, politica e diplomatica, un maggior intervento sociale ed economico quel paese potrà risollevarsi ed avere una normale dialettica politica e una normale convivenza civile.
È necessario, dunque, un ritorno alla politica, alla diplomazia, alle regole del diritto internazionale, quelle che erano state calpestate nel corso degli ultimi anni e che avevano ridotto l'ONU soltanto ad uno spettatore.
Nel corso degli ultimi anni, negli anni della guerra preventiva, tutto ciò è stato considerato semplicemente una variabile dipendente. Anche qui vale ed è fondamentale il ruolo della politica e della diplomazia. Abbiamo visto in questi giorni a New York quanto contino i rapporti e le relazioni internazionali per distendere il clima e quanto abbiano contato il ruolo del Governo Prodi, nonché l'intervento intelligente svolto dal presidente Casini presso Ahmadinejad nei giorni scorsi, che ha prodotto anche all'interno della dirigenza iraniana un comportamento meno arrogante e meno estremistico.Pag. 26
L'Iran va assediato politicamente: non possiamo immaginare per quel paese, infatti, una nuova fase di deterrenza militare. Ciò perché è chiaro che il ruolo preponderante che l'Iran ha acquisito, nel corso degli ultimi mesi e degli ultimi anni, è direttamente legato alla fine dell'Iraq di Saddam, il quale, nonostante si trattasse sicuramente di una dittatura terribile, costituiva comunque un contrappeso.
Quel paese esercita oggi un ruolo egemone all'interno dell'area, ma noi dobbiamo tentare di eliminare tale egemonia attraverso la diplomazia e la politica. Occorre aprire, allo stesso tempo - si tratta di un tema fondamentale -, una nuova stagione di disarmo in Medio Oriente; altrimenti, da questo punto di vista non riusciremmo ad intervenire strutturalmente all'interno di una regione profondamente segnata dalla guerra, dalla violenza e dal traffico di armi.
L'obiettivo di denuclearizzare il Medio Oriente è più forte di una trattativa estenuante con l'Iran sulla possibilità di accedere all'energia nucleare per usi sia civili, sia militari. Denuclearizzare il Medio Oriente significa, inoltre, intervenire presso quelle dittature che, nel corso di questi anni, sono state spesso sostenute, finanziate e protette. Infatti, non si può invocare la giusta espansione dei diritti democratici in ogni paese del mondo ed in ogni angolo della terra e, poi, dimenticarsene ogni qualvolta si pongono in essere poderosi contratti commerciali con paesi che praticano la restrizione delle libertà civili e dei diritti umani, ricorrono alla tortura e discriminano le diversità religiose, politiche e sessuali.
Ho concluso, signor Presidente. Voglio soltanto sottolineare un altro aspetto. Dopo che è stato conseguito questo importante risultato nelle Commissioni affari esteri e difesa, con un voto pressoché unanime di tutte le forze politiche presenti in Parlamento sul decreto-legge in esame, è necessario compiere uno sforzo ulteriore per dare continuità e per raggiungere l'unità tra i Governi dell'Unione europea. Affinché la stessa Unione europea recuperi una centralità che ritengo fondamentale ed importante, occorre soprattutto che la politica torni a parlare. Accanto all'invio delle truppe in Libano, infatti, deve ripartire un'iniziativa politica e diplomatica di ampio respiro, che conduca alla convocazione di una conferenza di pace per la regione.
La sfida è certamente ardua: essa comporta uno sforzo, oltre che militare, politico e diplomatico, nonché la determinazione nel voler giocare un ruolo costruttivo nel Mediterraneo e nel Medio Oriente, a partire dal coinvolgimento di tutti gli attori di tale regione, Iran e Siria compresi.
Vorrei ricordare che solo pochi anni fa, illusoriamente, erano in molti a pensare che il mondo avesse lasciato definitivamente da parte, con la fine della guerra fredda, quei timori e quelle ansie che, per tanto tempo, hanno influito nella dinamica e nella rappresentazione delle relazioni internazionali. Infatti, l'unilateralismo, con la sua aura da «fine della storia», e la guerra preventiva di Bush sembravano costituire il corollario teorico di questa nuova fase. L'Iraq ieri ed il Libano oggi ci mostrano invece, ancora una volta, che questa strategia non paga e che vi è solo una via per conseguire la pace: la diplomazia, il dialogo ed il confronto politico costruttivo (Applausi dei deputati dei gruppi de L'Ulivo e dei Verdi - Congratulazioni).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Cossiga. Ne ha facoltà.
GIUSEPPE COSSIGA. Signor Presidente, vorrei innanzitutto svolgere una premessa e parlare del nostro dibattito, nonché degli interventi pronunciati da alcuni colleghi.
Vorrei infatti rilevare che, molto spesso, la fase della discussione sulle linee generali dei provvedimenti è trascurata; o meglio, si tratta di una funzione parlamentare nata in un'epoca in cui le esigenze di comunicazione erano diverse. In effetti, nel mondo politico medializzato che viviamo in Italia, essa potrebbe apparire superflua.
Debbo riconoscere, invece, che l'esperienza maturata sia nella scorsa, sia inPag. 27questa legislatura mi ha fatto parzialmente ricredere su tale aspetto. Mi auguro, dunque, che la discussione sulle linee generali diventi nuovamente un momento importante nella vita parlamentare, nella quale la parola «dibattito» è utilizzata in maniera diversa rispetto a quanto fanno i cittadini: infatti, in Parlamento, come è noto, chi interviene non può più parlare successivamente.
Mi permetterò, quindi, di citare - infatti ho avuto la fortuna di intervenire dopo alcuni colleghi e magari altri avranno la fortuna di intervenire dopo di me - l'ultimo collega che ha parlato, l'onorevole Scotto, ma anche l'onorevole Venier, per la significatività dell'intervento e per la preparazione che evidentemente era sottesa nonché la passione che è stata dimostrata. Ora, non è che io condivida necessariamente tutto ciò che hanno detto i miei colleghi; anzi, in gran parte non lo condivido. Tuttavia, ho apprezzato molto l'intervento, in primis, dell'onorevole Venier perché mi è sembrato un intervento dettato da una voglia di verità.
Egli ha detto esattamente ciò che riteneva giusto dire e ciò non stupisce dato che proviene da un partito che si gloria ancora di chiamarsi partito dei Comunisti Italiani. Invece, altri partiti all'interno di questa aula hanno ritenuto legittimamente di cambiare il nome, ma forse anche di dimenticare una certa storia e determinate posizioni. Io non ero d'accordo con i comunisti quando da ragazzo non ero in Parlamento, ma votavo soltanto; mi fa piacere quando qualcuno dice di essere comunista e non se ne vergogna, perché vuol dire che non dimentica le radici. Qualcun altro mi sembra che le abbia dimenticate: bisogna dire che questi ultimi hanno poi avuto successo politicamente, ma non sembra che ci siano attualmente esponenti di primissimo piano nel partito dei Comunisti Italiani al Governo. Ci sono, invece, esponenti di primissimo piano di partiti che si dicevano democratici: lo hanno dimenticato, hanno difficoltà ad ammetterlo in pubblico; qualcuno - ma non è più in questo Parlamento - addirittura ha detto di non esserlo mai stato; piuttosto di essere stato kennediano. Ora, portare le camicie bottom-down è una cosa ed essere kennediani è un'altra, ma sinceramente non si capisce cosa ci facesse un kennediano nel partito comunista!
Ma così è l'Italia. Ho apprezzato l'intervento dell'onorevole Venier perché credo abbia detto la verità: una verità che è presente in parti importanti di questa maggioranza, ma che non trova visibilità nelle affermazioni del Governo. Si capisce, perché l'onorevole Venier non deve difendere nessuna poltrona: ha il suo seggio e il suo mandato parlamentare. Evidentemente il Governo Prodi qualche poltrona da difendere l'avrà e quindi preferisce parlare un po' meno di verità e un po' più di pragmatismo e di comodità. Tuttavia, io credo che la verità dovrebbe essere sempre presente nei nostri interventi.
L'intervento dell'onorevole Scotto lo cito - come già detto - oltre per l'evidente qualità, anche per una battuta che ha voluto riservare ad un nostro collega che si è espresso in precedenza, l'onorevole Gasparri. L'onorevole Scotto ha detto che l'onorevole Gasparri nel suo intervento - che ha definito una rassegna stampa in maniera ingenerosa: non so se l'onorevole Scotto abbia mai fatto una rassegna stampa, forse l'ha anche letta, una rassegna stampa, per il suo intervento, ma l'importante è che ognuno dica ciò che ritiene giusto e opportuno - ha dimenticato di citare che sui giornali di oggi compare un rapporto che i servizi segreti americani hanno preparato in relazione alla situazione del terrorismo internazionale, dopo la guerra in Afghanistan e in Iraq. Ha utilizzato il riferimento a questa pubblicazione per dire che era tutto sbagliato e che addirittura i servizi segreti americani dicono che l'amministrazione Bush ha commesso crimini ed errori.
Ora, non so se l'onorevole Scotto abbia letto interamente il rapporto dei servizi americani, ma è evidente - come tutti quelli di buona volontà sanno - che il rapporto non è stato pubblicato interamente e che al riguardo ci sono state reazioni, che però l'onorevole Scotto non ha citato. Io non so se è stato fatto tuttoPag. 28bene in Iraq, ma non credo che sia stato fatto tutto male. Pubblicare solo una parte di un rapporto indirizzato al Governo degli Stati Uniti da parte dei suoi servizi segreti per provare una vera e propria idea preconcetta sulla politica dell'amministrazione Bush non mi sembra un servizio, per lo meno, alla verità. Non so se sia utile, ma sicuramente non è un servizio alla verità.
Ora, per quanto riguarda invece il mio intervento, devo dire che, a differenza anche di alcuni interventi dei colleghi della mia parte politica che mi hanno preceduto, è fatto di dubbi e di riserve. Non mi è sembrato che l'onorevole Venier avesse molti dubbi, ma era estremamente convinto della sua posizione, al punto che si è addirittura lasciato andare ad una dichiarazione di voto. Grazie a Dio - questo lo dico per me - non siamo al momento delle dichiarazioni di voto, ma quello in cui - ahimè - forse bisogna esprimere delle riserve e dei dubbi. Poi alle dichiarazioni di voto ci arriveremo, e io credo anche rapidamente. Perlomeno, per quanto mi riguarda, questo è il momento delle riserve e dei dubbi.
Innanzitutto, si tratta di riserve e di dubbi sulla missione in sé e, di conseguenza, anche sulla risoluzione che alla missione fa da cornice.
La risoluzione n. 1701 non è sicuramente la prima delle Nazioni Unite che si pone come obiettivo la pacificazione (nello specifico del Libano ma, più in generale, della zona tormentata del Medio Oriente). Sinceramente, temo che non sarà neanche l'ultima, perché non riesco a capire come si possa pensare, nell'attuale situazione politica internazionale, che la risoluzione n. 1701 sia l'ultima. Ebbene, l'enfasi che viene data alla risoluzione, in particolare da parte del Governo - per motivi che, ahimè, non sono certo di verità -, è sicuramente eccessiva.
Peraltro, com'è noto, la risoluzione non crea una nuova missione, ma si limita a ritoccare una missione che esiste già e che ha il nome di UNIFIL. Non c'è alcuna UNIFIL 2: c'è soltanto la missione UNIFIL, quella del 1978 (se non erro), quella stessa che non ha evitato alcuno dei disastri che dal 1978 si sono succeduti in quella regione. Ricordiamo l'operazione Pace in Galilea e l'invasione del Libano del sud da parte di Israele: l'invasione non è stata evitata dalla missione UNIFIL!
Le successive risoluzioni sullo stesso argomento (è stata citata la n. 1559) si ponevano come obiettivo il disarmo delle milizie. Dopo il 1982, le milizie nel sud del Libano hanno cambiato natura, ma il problema che le risoluzioni si sono sempre poste è stato quello del disarmo delle milizie e del ritorno del legittimo Governo libanese. Ora, non mi sembra che sia successo granché dalla risoluzione n. 1559 ad oggi. Non mi sembra, in particolare, che la missione UNIFIL abbia contribuito al disarmo delle milizie o al ristabilimento del potere del legittimo Governo nel Libano del sud; in caso contrario, Hezbollah non avrebbe raggiunto quella capacità di combattimento che è stata una delle ragioni per le quali questa stessa risoluzione ha avuto un iter così travagliato.
È ovvio che tutte le risoluzioni dell'ONU sono basate su un compromesso: senza compromesso, non c'è voto! È anche vero, al di là di alcuni buoni sogni, ahimè, che alcuni di noi coltivano, che all'ONU non si decide sulla base dei trattati e delle leggi: io credo che all'ONU si decida, oggi come ieri - e questo è un grave difetto degli esseri umani -, sulla base dell'interesse. La ragione per la quale la risoluzione n. 1701 ha riscosso un consenso unanime nel Consiglio di sicurezza è la stessa per la quale - che so? - non è stata mai votata, né all'unanimità né a maggioranza, una condanna dell'invasione sovietica dell'Afghanistan. Il Consiglio di sicurezza dell'ONU funziona in un certo modo: non si è tutti uguali al Consiglio di sicurezza dell'ONU, ma qualcuno è più uguale degli altri: se qualcuno non vuole che si voti, non si vota! L'invasione dell'Afghanistan non è stata condannata dal Consiglio di sicurezza perché, ovviamente, uno dei protagonisti del Consiglio, l'Unione Sovietica, era l'invasore (quindi, non si è votato)!
Questa è una delle ragioni per le quali quando sento citare l'articolo 11 dellaPag. 29Costituzione mi sembra legittimo nutrire qualche dubbio. Forse, il mondo al quale fa riferimento l'articolo 11 della nostra Costituzione non è, oggi, o non è ancora (perché la speranza non muore mai) quello a cui facevano riferimento i padri costituenti: un mondo in cui l'Italia possa cedere la sua sovranità ad un organo sovranazionale - non multinazionale, ma sovranazionale - per la tutela della pace (sarebbe estremamente bello, e mi auguro che ci si arrivi, ma temo che non lo vedremo né io né mio figlio). Purtroppo, non esiste quest'organo realmente sovranazionale in cui tutti i paesi siedono con lo stesso diritto. Se esistesse, molte cose sarebbero diverse, ma non esiste. Al Consiglio di sicurezza dell'ONU c'è chi conta e chi non conta e, com'è noto, noi non contiamo (non facciamo parte del Consiglio di sicurezza; ne faremo parte tra breve, ma non siamo stati, diciamo così, estratti per farne parte); comunque, non ci sediamo in Consiglio di sicurezza come si siedono i nostri alleati - Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna - perché questi paesi hanno il diritto di veto.
Quindi, come mai è stata votata all'unanimità la risoluzione n. 1701? Perché tutti erano d'accordo. E perché erano d'accordo?
Secondo me, erano d'accordo perché - una volta tanto - gli interessi coincidevano. L'interesse degli Stati Uniti probabilmente richiederebbe ben più di mezz'ora per essere affrontato, ma è legato all'evoluzione che vi è stata dopo l'11 settembre del 2001, a ciò che gli stessi Stati Uniti hanno, io dico dovuto fare, altri dicono semplicemente fatto, in relazione alla lotta contro il terrorismo internazionale, ad un'evoluzione che tutti questi avvenimenti ha portato. Era - ed è - interesse degli Stati Uniti, per quanto riguarda la situazione libanese, che l'intervento sia il più condiviso possibile ed avvenga all'interno dell'alveo del diritto internazionale.
Il voto è stato espresso perché è anche interesse della Francia. La Francia era stata protagonista in negativo in altri momenti. Ricordiamo che, molto probabilmente, è per l'esplicita dichiarazione da parte della Francia di votare contro che non si è addivenuti ad una risoluzione prima della guerra in Iraq. Quindi, la Francia, in un modo o nell'altro, anche nei confronti di uno tra i suoi principali alleati, quali gli Stati Uniti, ha rivestito un ruolo negativo sino ad oggi. Le mutate condizioni hanno fatto sì che la Francia decidesse di mettersi in prima fila nell'elaborazione di questa risoluzione.
Queste sono le valutazioni che esprimo e che si leggono anche sui giornali; magari vi sono anche altri aspetti che in queste aule non ho sentito affrontare, altre motivazioni per cui gli Stati Uniti e la Francia erano favorevoli. Gli Stati Uniti, come è noto, al Consiglio di sicurezza dell'ONU tutelano anche gli interessi di Israele, che è il loro principale alleato nell'area mediorientale.
Era evidente che, al di là del diritto di Israele di intervenire in quanto paese aggredito (e ciò non va dimenticato) è anche vero - e su tale aspetto potremmo, ancora una volta, parlare a lungo e sarebbe opportuno che nelle sedi appropriate si svolgesse una riflessione, come peraltro sta avvenendo in Israele, un paese veramente democratico - che Israele, nei 34 giorni di guerra nel sud del Libano, non aveva svolto le operazioni, né del punto di vista militare, né dal punto di vista politico, in maniera particolarmente brillante. Si può affermare che Israele si era cacciata in un guaio. Per 34 giorni di operazioni del più potente esercito del mondo, infatti, i missili hanno continuato a cadere su Haifa e ciò è un problema politico grave, che - è noto - sta portando in Israele ad un vero e proprio attacco nei confronti del ministro della difesa. Tale attacco è parzialmente dovuto al fatto che qualcuno ritiene si sia esagerato, ma è assai più puntualmente dovuto alla circostanza che gli israeliani non amano perdere. Il concetto di vittoria o di sconfitta in una guerra è estremamente complicato; comunque le cose non sono andate molto bene per Israele in questa guerra e gli americani hanno, anzi, ritardato il voto su questa risoluzione per permettere che laPag. 30situazione sul campo divenisse almeno un po' più accettabile per Israele. Questa risoluzione era pronta, infatti, molto prima del trentaquattresimo giorno di operazioni, ma le condizioni sul campo non la rendevano opportuna e perciò è stata ritardata.
Quindi, su questa risoluzione è evidente che vi è anche l'interesse di Israele, che aveva bisogno di una risoluzione di questo tipo per poter dire di essere in procinto di interrompere le operazioni, perché è stata votata una risoluzione. È un'ottima cosa perché, comunque, l'effetto vi è stato: sono cessati i bombardamenti sulle città, sono cessati i missili di Hezbollah sulla città israeliane e vi è stata quella reazione che anche il nostro ministro degli esteri ha definito eccessiva, ma che - ahimè - si esprime con una triste parola, che è guerra, da parte dell'aggredito.
Qualcuno si è chiesto: perché distruggere i ponti, perché distruggere le centrali elettriche? Purtroppo, in guerra, quando il tuo avversario è rifornito e alimentato da Stati «canaglia» o «terroristi» o, comunque, da Stati vicini, l'unico modo per evitare che gli arrivino le armi è distruggere i ponti. Quando la grande efficacia del tuo avversario è dovuta ad un evidente ed ottimo sistema di comunicazione, l'unico modo è impedirgli di comunicare. Di ciò sono stati vittime le città ed il popolo libanese, così come il loro paese è vittima ed ostaggio delle milizie terroriste, che siedono anche in Parlamento, come peraltro è stato per Hitler, legittimamente eletto nel partito nazista. Infatti, non è che la democrazia non abbia difetti: la democrazia porta al Parlamento ed al potere, a volte, anche Hitler ed i nazisti. Quindi, Hezbollah è in Parlamento. È un dato di cui dobbiamo prendere atto, ma non per questo dobbiamo dire che, in quanto al Parlamento, è cosa positiva.
Questa risoluzione - sulla quale, come ho appena detto, nutro forti riserve e sulla quale do valutazioni forse sbagliate, come quelle di ciascuno di noi, ma che sono le mie - non mi sembra sufficientemente chiara nell'identificare cosa andiamo a fare in Libano.
Ognuno ne dà la lettura che vuole e questa è la ragione per la quale è stata approvata all'unanimità. Ognuno può leggere, lo ripeto, quello che vuole, nella risoluzione n. 1701. Ciò che io ci leggo è che essa si pone un obiettivo condivisibile, cioè la pace in quel territorio. Inoltre, indica alcuni mezzi e, per come io la interpreto, indica, come principale passo per il raggiungimento della pace il disarmo delle milizie. Senza il disarmo, infatti, il Governo libanese non potrà mai avere la piena sovranità sul suo territorio e senza la piena sovranità del Governo libanese ci saranno sempre altre milizie, altri rischi di aggressione, altri interventi militari da parte di chi si sente aggredito.
Ebbene, io leggo la risoluzione n. 1701 nel senso della necessità di disarmare Hezbollah. Poi, si può entrare nel dettaglio: il disarmo deve avvenire a carico dell'esercito e del Governo libanese con l'appoggio dell'UNIFIL, se richiesto. Tuttavia, nella risoluzione si afferma anche che le forze dell'UNIFIL devono intervenire ogni volta che sia palese una violazione della stessa risoluzione. In poche parole, andare a togliere le armi ad Hezbollah è un compito dell'esercito libanese il quale, come sappiamo tutti, non può farlo, perché non ne ha le capacità, e non vuole farlo, perché manca del necessario supporto politico. Tale supporto, guardate, non manca perché Hezbollah è una componente della coalizione di Governo; infatti, è una componente non maggioritaria ma secondaria. Non lo può fare perché, in questo momento, il popolo libanese - e mi dispiace - in gran parte è con Hezbollah. Forse, l'eccezione è costituita da alcune ex milizie cristiane. Abbiamo visto, nei giorni scorsi, che non sono stati soltanto gli hezbollah a riunirsi ma anche le forze libanesi.
Ebbene, il popolo libanese, ahimè, in questo momento è con Hezbollah e nessuno in Libano vuole disarmare Hezbollah. Questo, evidentemente, è prima di tutto un problema libanese.
Tuttavia, la ragione per la quale l'ONU è in Libano non è la soluzione dei problemi dei libanesi ma la tutela della pacePag. 31e della sicurezza globali. Quindi, il problema libanese, evidentemente, è anche un problema nostro. I libanesi potrebbero ritenere di risolverlo inglobando Hezbollah nelle forze armate o svolgendo elezioni a seguito delle quali Hezbollah, con il sostegno della gran parte dei cittadini, non solo sciiti ma anche sunniti, e magari anche di qualche cristiano, potrebbe ottenere la maggioranza in Parlamento e diventare il vero leader del Libano.
Se questa può essere la soluzione dei problemi del Libano, sicuramente non sarebbe una soluzione dei problemi del mondo. Infatti, un Hezbollah al potere in Libano non credo ci aiuterebbe a risolvere i problemi che riguardano la pace e la sicurezza di tutto il mondo, soprattutto dei nostri cittadini. Quando parliamo di pace nel mondo globalizzato, in realtà, stiamo parlando della sicurezza dei nostri cittadini, della sicurezza di coloro che vivono qui e non di coloro che vivono in Cina. Noi ci occupiamo di coloro che vivono qui, qualcun altro si occuperà degli altri.
Ebbene, queste riserve mi fanno nutrire molti dubbi sulla reale volontà di questa missione, alla quale partecipiamo, di essere efficace. Le parole di Nasrallah mi ricordano quelle di Tigran il Grande che, quando vide arrivare l'esercito di Silla, disse: se sono venuti qui come diplomatici, sono troppi; se sono venuti qui come soldati, sono troppo pochi.
Noi non siamo troppo pochi, perché nel sud del Libano i 15 mila uomini di UNIFIL sono pari a un decimo della popolazione (il Libano non è la Cina); quindi, siamo molti. Il problema è che manca la volontà di fare qualche cosa. Come ha affermato l'onorevole Venier, l'UNIFIL non è lì a difendere la pace e la sicurezza del mondo, non è lì a disarmare Hezbollah e credo che questa sia una parola di verità. UNIFIL si trova lì ad evitare che Israele aggredisca, ad evitare che reagisca. Probabilmente è questo il vero. Allora, se le ragioni sono queste, non vedo perché dovrei essere a favore di questa missione; se la verità è questa, ancor meno potrei essere favorevole quando il mio Governo non la dice. Mentre la maggioranza afferma questo, il Governo si appella a mezze parole, mezze verità e molto fumo.
Un altro elemento riguardo al quale nutro forti dubbi e forti riserve è proprio l'atteggiamento del mio paese nei confronti di questa missione, che ci è stata presentata come il grande ritorno della multilateralità, il grandissimo ritorno della multilateralità, che è il bene, opposta alla unilateralità, che è il male. Il male assoluto è la guerra preventiva.
Per alcune delle ragioni esposte in precedenza, come parlamentare, ma anche come cittadino, il metro del mio operare è rappresentato dalla giustizia (il giusto) e dal legale (il legittimo). Questa è la ragione per cui certe cose, che non credo giuste, ma che sono previste nella legislazione del mio paese, non diventano oggetto di violazione di legge, perché si tratta di discipline legislative approvate dal Parlamento sulla base di un mandato popolare, di un patto della Costituzione che ci lega tutti.
Nel campo del diritto internazionale le cose sono diverse. È facile dire che il diritto internazionale deve prevalere quando fa comodo, mentre bisogna comportarsi in altro modo quando così non è più. Penso che il diritto internazionale sia estremamente utile per gestire i rapporti, ma temo anche che le relazioni internazionali siano ancora basate sugli interessi.
È vero che, secondo i principi del diritto internazionale, non bisogna fare la guerra se non lo decide l'ONU, ma è anche vero che, in più casi, le guerre si sono fatte senza la decisione dell'ONU. Si può anche discutere sull'utilità e sulla giustizia di una guerra piuttosto che un'altra, ma bisogna mettere le cose sullo stesso piano. Non vi era mandato internazionale quando la coalizione di americani, britannici e di altri paesi ha attaccato Saddam, come non vi era quando i nostri aerei hanno bombardato la Serbia, perché una cosa è l'ONU e una cosa è la Nato!
La Nato è un'alleanza politico-militare, di cui facciamo parte, che ha garantito la pace in Europa e che continua a garantire gran parte della sicurezza del mondo, ma non è l'ONU e, quindi, non capisco perché bisogna vergognarsi dei propri atti.Pag. 32
Il ministro degli esteri, come è noto, è stato più che protagonista della guerra in Kosovo. Diciamo la verità: l'attuale ministro degli esteri è diventato Presidente del Consiglio per la guerra nel Kosovo e non gliene faccio una colpa, anzi un merito, il doppio merito di avere rotto una conventio ad excludendum nel nostro paese dopo la caduta del muro, con il primo rappresentante di un partito che era comunista (comunque, anche se non lo si chiamava più comunista lo era stato). Il fatto che un esponente di quel partito sia diventato Presidente del Consiglio ha rappresentato la fine di un'epoca e, secondo me, è stata giusta la guerra in Kosovo contro la Serbia, perché era necessaria.
Che il placet delle Nazioni Unite e che l'informativa al Parlamento siano arrivate dopo sinceramente è un problema secondario, perché quella era una guerra giusta. Non mi lamento del fatto che, dopo la risoluzione votata ad agosto, il Governo non abbia tenuto il Parlamento informato, perché, purtroppo, le cose possono prendere una piega tale per cui il Governo deve assumersi le sue responsabilità. Penso che il Governo se le sia assunte, anche con riferimento al Kosovo, all'Iraq e all'Afghanistan.
Quindi, non vedo per quale ragione di verità il Governo si debba trincerare dietro al fatto che questa è la guerra - scusate il termine «guerra» utilizzato, non apprezzato su alcuni banchi di questo Parlamento -, la missione che ha voluto l'ONU e, pertanto, questa è la missione buona, mentre le altre erano missioni cattive! Non posso accettare che anche sulla base di ragionamenti corretti ci si nasconda dietro un velo di bugie.
Non posso accettare il comportamento di questo Governo quando afferma di essere in posizione equidistante o «equivicina», come mi viene corretto. È evidente che l'onorevole Venier tutto è tranne che equidistante ed «equivicino», ma è evidente che anche il nostro ministro degli esteri tutto è tranne che equidistante ed «equivicino» agli Hezbollah ed all'Iran.
Non si è equidistanti o «equivicini» quando si dice che, comunque, l'Iran ha diritto di sviluppare il nucleare, mentre in altre occasioni si afferma che bisogna evitare che abbia la bomba atomica. È uno strano concetto di equidistanza o di «equivicinanza»!
Credo che anche questo faccia parte di quell'azione di non verità, di disinformazione che ha caratterizzato l'operato di questo Governo e devo dire che lo caratterizza su tutto, non solo in politica estera.
A sentire il Presidente Prodi non vi sono mai problemi né dal punto di vista dell'economia, né dal punto di vista della questione Telecom.
Va tutto bene. La linea di questo Governo, quindi, è quella di alzare una cortina di fumo e di nascondere la verità. La cortina di fumo che si alza include anche grossi paroloni quali, ad esempio, «questa è la missione che è stata organizzata dall'Europa». Ma questa, desidero ricordarlo, è quella stessa Europa che, in seno al Consiglio di sicurezza dell'ONU - torno sempre lì, evidentemente la lingua batte dove il dente duole -, ha due rappresentanti, Regno Unito e Francia, i quali non si consultano né tra di loro né con il resto dei paesi europei nel momento in cui c'è da prendere una decisione. È un sogno quello che abbiamo: il sogno che domani avremo una grande politica estera europea. Però, ahimè, si tratta di un sogno che è tutt'altro che realizzato.
Il presidente Ranieri ha fatto riferimento al fatto di non essere riusciti ad avere una forza di dispiegamento rapida in Libano. Purtroppo, non ci siamo riusciti, ma le ragioni sono sempre le stesse: la politica estera europea nei fatti, e cioè nel momento in cui si scontra con la politica degli interessi delle potenze, non esiste. Ci sono i francesi in Libano: c'erano prima, e ci sono anche adesso. Il Governo italiano ha tenuto a far sapere che noi italiani eravamo stati grandi protagonisti di questa risoluzione e, quindi, di questa missione. Ma se voi avete avuto modo di leggere i giornali stranieri nel corso di queste settimane avrete sicuramente potuto osservare che di questo ruolo di protagonista del nostro paese non se n'è accorto nessuno. Nessun giornale francese,Pag. 33americano, tedesco o inglese ci pone in prima fila; in prima fila ci sono altri, in Europa ci sono i francesi. D'altronde, il comandante è francese: il responsabile ONU della missione di pace è infatti francese. Pertanto, quella di cui si discute è una missione francese a cui non si sa perché noi contribuiamo con il 20 per cento degli effettivi e con il sostenimento di costi sui quali non mi dilungo. Il comando della missione, come detto, è affidata ad un francese: l'Italia è presente, se non erro, con un ammiraglio a due stelle che sostanzialmente dipende da un generale ad una stella (anche questo non è molto bello per un militare). Noi, quindi, non solo non abbiamo il comando di quella missione ma siamo anche vittime di veri e propri schiaffi in faccia. Dopo che il Governo ci aveva spiegato che questo nostro grande protagonismo sarebbe stato premiato dalla responsabilità di una cellula all'interno dell'ONU, creata apposta per questa missione per garantirne l'efficacia dopo i fallimenti tristissimi delle altre missioni militari dell'ONU, ad esempio in Ruanda e in tanti altri posti, abbiamo dovuto subire anche, senza battere ciglio, uno schiaffo in faccia da parte di un imbelle segretario delle Nazioni Unite - che grazie a Dio se ne sta per andare che ha detto «no» - al comando della missione all'Italia. Questo è quello che è successo. Ma questo non viene detto, nessuno cioè si è stracciato le vesti per quanto è accaduto. Noi prendiamo schiaffi in faccia a piene mani da parte del segretario generale dell'ONU e il Governo italiano non fa nulla perché non può fare nulla in quanto ha costruito, dietro questa cortina di fumo, la sua posizione.
In conclusione, ho molte riserve e molti dubbi su quella che è stata la scelta dell'opposizione nella gestione del provvedimento in esame. Noi siamo stati molto « leggeri » ad agosto a votare a favore di una risoluzione che poi il Governo, al di là delle parole, ha considerato un via libera. Siamo stati leggeri anche a votare il mandato a riferire al relatore. Noi abbiamo ancora un po' di tempo, io ho ancora un po' di tempo affinché qualcuno mi faccia cambiare idea oppure, come mi auguro, riesca a chiarire i dubbi che ho.
Colleghi, il voto a favore di questo provvedimento non ci viene chiesto, ma viene «schifato» dalla maggioranza. Questo voto non serve perché, con o senza il nostro voto, questa missione andrà avanti. Ritengo che sarebbe più importante dire al paese e ai nostri alleati su che cosa non siamo d'accordo e poi agire di conseguenza (Applausi dei deputati del gruppo di Forza Italia - Congratulazioni).
PRESIDENTE. Sospendo la seduta, che riprenderà alle 15,10.
La seduta, sospesa alle 14,05, è ripresa alle 15,15.