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Discussione del testo unificato delle proposte di legge: Pecorella; Forgione e Daniele Farina; De Zulueta ed altri; Suppa ed altri: Introduzione dell'articolo 613-bis del codice penale in materia di tortura (A.C. 915-1206-1272-1279) (Il deputato Pecorella ha ritirato la propria sottoscrizione dalla proposta di legge n. 915) (ore 10,41).
(Discussione sulle linee generali - A.C. 915 ed abbinate)
PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.
Avverto che il presidente del gruppo parlamentare di Forza Italia ne ha chiesto l'ampliamento senza limitazioni nelle iscrizioni a parlare, ai sensi dell'articolo 83, comma 2, del regolamento.
Avverto, altresì, che la II Commissione (Giustizia) si intende autorizzata a riferire oralmente.
Il relatore deputato Pisicchio, presidente della Commissione giustizia, ha facoltà di svolgere la relazione.
PINO PISICCHIO, Relatore. Signor Presidente, onorevoli colleghi, onorevole rappresentante Pag. 2del Governo, il provvedimento che viene sottoposto al nostro esame sembrerebbe evocare un nobilissimo e condiviso principio, privo però di un precipitato di attualità. Chi mai potrebbe - viene infatti da chiedersi - nell'Italia democratica e civile, nell'Italia dei valori umani, patrimonio di tutti, porre in punto di principio la questione della tortura se non in termini di esecrazione e di estraneità? Ebbene, questa estate abbiamo potuto leggere sulle pagine delle più autorevoli testate giornalistiche italiane dibattiti che, proprio in punto di principio, dichiaravano l'attualità di una riflessione sulla tortura rilanciata per effetto del fondamentalismo religioso che fomenta il terrorismo jihadista e da un'interpretazione, per così dire, pragmatista delle esigenze della sicurezza nazionale. Il tema era il seguente: di fronte al pericolo concreto di una nuova apocalisse, come quella dell'11 settembre, e alla possibilità, attraverso il ricorso allo strumento della tortura, di venire a conoscenza di informazioni fondamentali per salvare la vita a migliaia di persone, siamo così sicuri della nostra indeflettibile risposta negativa? Il relatore, e mi sembra di poter dire l'intera Commissione, hanno piena consapevolezza del proprio netto ed inequivocabile diniego, ma la questione, avanzata da un intellettuale finissimo come Panebianco e dibattuta da pensatori del calibro di Magris e Zagrebelsky, non è priva di concretezza. Così come non è privo di attualità il tema della normazione giuridica e dell'inclusione nel codice penale di un reato specifico di tortura.
Forse non appare inutile una riflessione per comprendere fino in fondo quanto l'idea di tortura, intesa come grande dolore fisico inflitto in vari modi e con diversi strumenti come punizione e come mezzo per estorcere confessioni, abbia interpellato filosofi, teologi e giuristi fin dalla più remota antichità come violenza incompatibile con la minima sensibilità umana.
Nella Roma repubblicana la tortura era applicata agli schiavi; solo con l'impero l'orribile sanzione si estese ai liberi, ma per crimini ritenuti all'epoca assai gravi come la lesa maestà, il veneficio, la magia. La tortura fu estranea invece alla cultura giuridica dei popoli germanici invasori, almeno in una prima fase, ma trovò un impiego nei secoli XI e XII anche all'interno del conflitto fra Chiesa ed eretici.
Già nel secolo XVI, teologi e filosofi cominciarono a protestare contro la tortura barbara e inutile e nel XVIII secolo la cultura positivista, in particolare quella italiana, scrisse pagine definitive al riguardo: Pietro Verri, Osservazioni sulla tortura, nel 1804; Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, nel 1764.
A partire dalla seconda metà del 1700, ad opera di Federico di Prussia abbiamo le prime illuminate scelte ordinamentali per l'abolizione della tortura. Alla Prussia fece seguito la Svezia e poi la Danimarca, il Baden, il Maclemburgo, la Sassonia e, nel 1767, la Russia di Caterina. La stessa Francia di Luigi VI sospese la tortura alla fine del 1700 - nel 1780 - e con la Costituente, nel 1789, la soppresse del tutto.
Nel Novecento, dopo la parentesi della seconda guerra mondiale, in cui venne sospeso ogni criterio di umanità e la Germania di Hitler contraddisse la sua antica tradizione giuridica antitortura, la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948, alla quale aderì l'Italia, previde specificamente il reato di tortura all'articolo 5: nessun individuo potrà essere sottoposto a trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti. Lo stesso divieto venne incluso sia nella Convenzione europea dei diritti dell'uomo, del 1950, sia nel Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966.
Tuttavia, vi è ancora un atto di diritto internazionale, il più importante, da cui discendono obblighi per il nostro paese, che va preso in considerazione: è la Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti inumani o degradanti, firmata a New York il 10 dicembre del 1984. Secondo la Convenzione di New York, infatti, gli Stati sottoscrittori si obbligano a provvedere affinché qualsiasi atto di tortura costituisca un reato a tenore del Pag. 3suo diritto penale. Il testo unificato in esame è diretto ad introdurre nell'ordinamento italiano il delitto di tortura, dando efficace attuazione a quella Convenzione di New York ratificata dall'Italia con la legge 3 novembre 1988, n. 498.
Va detto che, ai fini dell'esecuzione della Convenzione, il legislatore del 1988 non ritenne necessaria l'introduzione nel nostro ordinamento di una specifica fattispecie penale. A questa conclusione si pervenne ritenendo che le condotte riconducibili alla definizione di tortura, sancita dall'articolo 1.1 della Convenzione, fossero comunque riferibili a fattispecie penali già previste dalla legge italiana, come ad esempio quelle dirette a punire l'omicidio, le lesioni, le percosse, la violenza privata o le minacce. Per questa ragione, non si ritenne necessario accompagnare la ratifica con una norma di attuazione interna e, in particolare, con la previsione di un nuovo delitto di tortura.
A distanza di circa diciotto anni, si è avvertita l'esigenza di rivedere quella scelta, considerato che la legislazione vigente non sembra punire in maniera adeguata tutte le condotte riconducibili alla nozione di tortura, così come intesa non soltanto dalla Convenzione di New York ma dal comune sentire. In tale nozione rientrano anche alcuni comportamenti disumani e degradanti della dignità umana che non sono pienamente riconducibili alla nozione di violenza o di minaccia elaborata dalla nostra giurisprudenza. Tra queste nozioni e quella di tortura vi sarebbe una zona grigia. Se così fosse, questa zona grigia sostanzialmente si tradurrebbe in una violazione della Convenzione ONU del 1984.
L'esame in sede referente è stato avviato prendendo spunto da una proposta di legge che riproduceva una proposta presentata nella XIV legislatura. A tale proposito, ricordo che nella scorsa legislatura la Camera si è occupata a lungo del tema, senza tuttavia pervenire all'approvazione di un testo. In effetti, individuare una formulazione della fattispecie del delitto di tortura che, al contempo, soddisfi l'esigenza di determinatezza del contenuto e di completezza della portata applicativa è un'operazione che presenta una serie di difficoltà che rischiano di compromettere il risultato da tutti auspicato: assicurare una risposta penale adeguata a fatti di estrema gravità. Non è un compito semplice addivenire ad una formulazione della fattispecie del delitto di tortura che, da un lato, sia pienamente conforme alla definizione operata dalla Convenzione e, dall'altro, consenta di definire, in termini sufficientemente precisi, gli aspetti tipici della nuova ipotesi di reato, con specifico riferimento ai soggetti attivi e passivi, alla natura e ai contenuti delle condotte perseguibili e alle finalità cui esse siano indirizzate.
A ciò si deve aggiungere anche la consapevolezza che le situazioni tipiche descritte nella fattispecie potrebbero subire effetti distorti a causa di un'interpretazione estensiva che potrebbe colpire soggetti o condotte, ovvero riguardare fatti che, per esempio, nell'esercizio di pubblici poteri istituzionali dovrebbero essere ritenuti legittimi o contenuti in termini effettivi di rispetto della legalità.
Il lavoro della Commissione, svolto avendo come punto di partenza la definizione sancita dall'articolo 1.1 della Convenzione di New York, ha prodotto un testo unificato, composto da un solo articolo, che stabilisce che è punito con la pena della reclusione da quattro a dodici anni chiunque, con violenza o minacce gravi, infligga ad una persona forti sofferenze fisiche o mentali, allo scopo di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni su un atto che essa o una terza persona ha compiuto o è sospettata di avere compiuto, ovvero allo scopo di punire una persona per un atto che essa o una terza persona ha compiuto o è sospettata di avere compiuto, ovvero per motivi di discriminazione razziale, politica, religiosa o sessuale. La pena è aumentata se tali condotte sono poste in essere da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio, ovvero se dal fatto deriva una lesione grave o gravissima. Nel caso in cui ne derivi la morte la pena è raddoppiata.Pag. 4
Non si è ritenuto necessario precisare che il fatto non è punibile se sono inflitti sofferenze o patimenti come conseguenza di condotte o sanzioni legittime ad esse connesse o dalle stesse cagionate, in quanto si tratterebbe di fattispecie scriminante in base ai principi generali di diritto penale.
La fattispecie è caratterizzata, dunque, da tre elementi: la condotta di violenza o di minaccia, l'evento dell'inflizione di forti sofferenze fisiche o mentali e il dolo specifico. Tale scelta non è stata da tutti condivisa in Commissione, in quanto ad alcuni è apparsa troppo restrittiva rispetto alla nozione di tortura, mentre ad altri è sembrata così eccessivamente elastica da ricondurvi anche ipotesi del tutto estranee a tale nozione, fino a ricomprendervi attività che attualmente, in maniera del tutto lecita, sono poste in essere dalle forze di polizia.
In realtà, la formulazione adottata, per quanto migliorabile in via emendativa, sembra evitare i rischi da taluni paventati. È vero che, per evitare qualsiasi lacuna applicativa, si sarebbe potuta utilizzare la formulazione propria dei reati a condotta libera, i quali sono caratterizzati non tanto dalla modalità della condotta, quanto, piuttosto, dall'evento causato (l'omicidio, per esempio). In tale maniera, la modalità della condotta sarebbe irrilevante. Ciò che conta è la realizzazione di un determinato evento e la finalità della condotta.
L'opzione per il reato a condotta libera non è stata effettuata perché presuppone un'adeguata determinatezza e specificità dell'evento che, nel caso del delitto di tortura, non vi può essere, trattandosi di un reato che, in astratto, è riconducibile ad altre figure di reato. Per tale ragione, si è ritenuto che la condotta debba concretizzarsi in un'attività violenta o di minaccia grave. Per evitare ulteriori dubbi interpretativi, si è specificato che le sofferenze fisiche o mentali prodotte debbano essere forti, utilizzando la terminologia adottata dalla Convenzione di New York.
Altro elemento è il dolo specifico. Il reato sussiste non solamente se è posta in essere una certa condotta e da questa sia scaturito un certo evento, ma se la condotta era sorretta da una particolare finalità, che la norma descrive dettagliatamente.
Dalla definizione di tortura della Convenzione quella della proposta di legge in esame si differenzia, tuttavia, parzialmente, in primo luogo sotto il profilo del soggetto attivo del reato. Mentre la prima configura un reato proprio, cioè un reato che può essere commesso esclusivamente da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisce a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito, la seconda, invece, configura un reato comune, in quanto il reato può essere commesso da chiunque. La portata della nozione di tortura della proposta di legge sarebbe, dunque, anche più ampia di quella della Convenzione. Si tratta di una scelta che, se è vero che rischia di ampliare eccessivamente la fattispecie, fino a ricomprendervi anche ipotesi che, forse, sono estranee alla comune nozione di tortura, ha il pregio di ridurre sensibilmente quell'area grigia del diritto penale che, in alcuni casi, finisce nel tradursi in una vera situazione di impunità.
Su questo punto l'Assemblea potrà riflettere. Dovrà chiedersi se dalla circostanza che il soggetto attivo del reato non debba essere necessariamente un pubblico ufficiale possa derivare, come conseguenza, la possibilità di far rientrare nella fattispecie di tortura anche il caso in cui i patimenti disumani o le sofferenze gravi siano finalizzati ad ottenere dalla vittima informazioni circa un fatto attinente esclusivamente alla sua sfera privata ovvero a punire la medesima per avere commesso tale fatto. Occorre valutare se il delitto di tortura debba sostanziarsi, comunque, in un abuso dell'esercizio dei pubblici poteri ovvero se possa esaurirsi anche nell'ambito strettamente privato dei soggetti coinvolti.
PRESIDENTE. Onorevole Pisicchio...
PINO PISICCHIO, Relatore. Mi avvio alla conclusione, signor Presidente.Pag. 5
Onorevoli colleghi, questo provvedimento giunge all'esame dell'Assemblea con i caratteri che abbiamo sommariamente descritto. Il relatore è consapevole del fatto che, in questo caso più che in qualsiasi altro, sarà la coscienza di ognuno e non la pregiudizialità ideologica a fornire il criterio per il voto. Con questa consapevolezza, dunque, siamo giunti in Assemblea con spirito aperto, per discutere e valutare insieme ma anche per approvare una norma necessaria per colmare un vuoto che rischia di essere un vuoto di civiltà.
PRESIDENTE. Mi dispiace, presidente Pisicchio, ma non c'è stato il tempo sufficiente perché lei potesse illustrare l'intera relazione. Tuttavia, la Presidenza autorizza la pubblicazione del testo integrale della sua relazione in calce al resoconto della seduta odierna, sulla base dei criteri costantemente seguiti.
PINO PISICCHIO, Relatore. La ringrazio, signor Presidente.
PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il rappresentante del Governo.
LUIGI LI GOTTI, Sottosegretario di Stato per la giustizia. Signor Presidente, il Governo si riserva di intervenire in sede di replica.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Daniele Farina. Ne ha facoltà.
DANIELE FARINA. Signor Presidente, onorevoli colleghi, il provvedimento che stiamo esaminando corrisponde - come ricordato dal relatore - ad un obbligo giuridico internazionale, dando seguito, nel nostro ordinamento, alla ricordata Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura del 1984, ratificata dall'Italia fin dal 1988, e ad altri precedenti atti, approvati anche in sede europea. Sbaglieremmo, però, a considerarlo una mera formalità burocratica. Non deve sfuggire, infatti, che l'introduzione nel nostro ordinamento del reato di tortura contribuisce a chiarire i limiti dell'esercizio della forza da parte dei pubblici poteri, distinguendo nettamente pratiche e comportamenti attuati nel normale esercizio delle funzioni di polizia da altri che, per caratteristiche, sistematicità e - aggiungerei - anche efferatezza, ricadono nella definizione della Convenzione che, non a caso, come ricordava anche il relatore, riprendiamo quasi testualmente nell'articolato.
Intendiamo introdurre il reato di tortura nel titolo XII del codice penale in quanto delitto contro la persona, non ritenendo sufficiente quanto disposto singolarmente e tutelato da altri articoli, quali l'articolo 606 (arresto illegale), l'articolo 608 (abuso di autorità contro arrestati o detenuti), l'articolo 609 (perquisizione e ispezione personali arbitrarie), l'articolo 581 (percosse), l'articolo 582 (lesione personale) e così via. Si potrebbe andare avanti a lungo.
Ad elisione preventiva, per così dire, di possibili ma strumentali obiezioni, ricordo anch'io che è palese come non sia assoggettabile alla norma che stiamo per introdurre nel codice penale il caso delle sofferenze derivanti dall'applicazione di una sanzione legale o ad essa accessoria. Pure, la norma è volta anche, con evidenza, a tutelare i detenuti e svolge una funzione simbolica e deterrente verso la forte sofferenza fisica o mentale.
Mi preme ricordare come di particolare rilevanza che nella proposta di legge presentata dal gruppo di Rifondazione Comunista-Sinistra Europea, con un'accentuazione del carattere proprio del reato, era contenuta anche la previsione del pubblico ufficiale che istiga altri alla commissione del delitto o si sottrae volontariamente al suo impedimento o acconsente tacitamente all'accadere dello stesso. Nel testo unificato in discussione manca questa disposizione, che avrebbe indubitabilmente agito come un più stringente richiamo alle funzioni di vigilanza proprie della funzione pubblica.
La memoria va ad episodi recenti della storia del paese - e la discussione sarebbe lunga e credo aspra, ma non essenziale in questa sede, attorno ai fatti di Genova del Pag. 62001 - ma anche al contesto internazionale dove, da Guantanamo ad Abu Ghraib, la realtà ha imposto una riflessione urgente superando la peggiore fantasia. Se qualcuno, per legittimare quei contesti e quelle metodiche, ha provato a contrabbandare la tortura come male minore, se non necessaria opzione a contrasto del terrorismo, o, peggio, come pratica inevitabile entro un presunto scontro di civiltà, questo passo che ci apprestiamo a compiere assume il senso ed il profilo di una forte presa di posizione contraria, nonché di un richiamo ai valori che informano la Costituzione della Repubblica.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Costa. Ne ha facoltà.
ENRICO COSTA. Signor Presidente, onorevoli colleghi, signor rappresentante del Governo, ho ascoltato la relazione del presidente Pisicchio: è stata una relazione esaustiva, completa e corretta con riguardo ai lavori della Commissione. Quest'ultima ha analizzato in modo attento e preciso le linee del reato che si intende introdurre nel codice penale. Chiaramente, nel merito vi sono alcune riserve.
Quando si ha l'obiettivo di introdurre un nuovo reato nell'ambito del codice penale, di individuare una nuova figura delittuosa, è necessario svolgere alcune considerazioni. Innanzitutto, bisogna analizzare la dottrina maggioritaria che sostiene che oggi il nostro codice non può più sopportare un'introduzione momento per momento di nuovi reati senza una riforma organica, che è allo studio e di cui si avverte sempre più la necessità. Molte, quindi, sono le riflessioni che dovremmo svolgere in sede di discussione. In primo luogo, bisogna stabilire quali sono i beni e gli interessi giuridici da proteggere, che l'ordinamento deve tutelare attraverso l'individuazione di tale reato. Si tratta sicuramente di beni ed interessi giuridici tutelati dalla Costituzione, attinenti alla libertà psichica contro influenze esterne, istituzionali e non.
Per quanto riguarda il panorama normativo internazionale, il relatore ha ricordato la Convenzione di New York del 1984, che dà una definizione precisa e netta di tortura dichiarando anche cosa la Convenzione stessa si attendesse dagli Stati dall'introduzione dei nuovi reati di tortura. Nel 1988 il legislatore italiano ha compiuto la scelta di non arrivare all'introduzione del reato di tortura motivandola sul presupposto che vi fossero figure delittuose la cui previsione era già in grado di tutelare i beni e gli interessi che si intendeva tutelare attraverso l'introduzione del reato di tortura. È chiaro che non possiamo condividere tale scelta perché siamo in presenza di una zona grigia: in alcuni casi vi sono comportamenti disumani e degradanti della dignità umana non riconducibili alla nozione di violenza e di minaccia elaborata dalla giurisprudenza. Si tratta di una zona grigia, di una lacuna dell'ordinamento, alla quale si punta a porre rimedio.
È importante, tuttavia, individuare il modo con cui si intende colmare tale lacuna. Occorre esaminare, dunque, la condotta che, sulla base del testo unificato delle proposte di legge al nostro esame e delle proposte emendative presentate in sede di Commissione, è emersa in seguito al dibattito svolto in sede referente.
Ricordo che l'onorevole Pecorella aveva presentato una proposta di legge (A.C. 915) che era aderente - forse anche in maniera letterale - allo spirito della Convenzione di New York del 1984 per ciò che attiene, per l'appunto, alla definizione di tortura.
Il testo di tale provvedimento, nel corso dell'esame in sede referente svolto dalla II Commissione, è stato profondamente mutato. È stata mantenuta l'individuazione di un reato comune. Ritengo giusto ciò, poiché pensare di restringere la materia ad un reato proprio avrebbe sicuramente escluso la tutela contro determinate azioni concernenti soggetti non istituzionali (mi riferisco alle organizzazioni paramilitari, tanto per riprendere un esempio emerso in sede di Commissione), e comunque avrebbe escluso anche quei rapporti tra privati cittadini che potessero configurarsi in termini di tortura.Pag. 7
Il punto fondamentale della modifica apportata in sede referente che giudichiamo sbagliato, tuttavia, è proprio la trasformazione dell'illecito in oggetto da reato a forma libera a reato a forma vincolata. Come ha spiegato bene in precedenza il relatore, alcuni parlamentari, in sostanza, hanno ritenuto tale illecito un reato «privo di evento»; si è considerato necessario, quindi, giungere ad una modifica della formulazione recata dall'originaria proposta di legge, prevedendo un reato a forma vincolata. In luogo della espressione «tortura fisica o mentale» - la quale sottopone, come recitava la proposta di legge Pecorella, una persona a patimenti disumani o a sofferenze gravi - sono stati introdotti, dunque, i termini «violenza o minacce gravi». È stata individuata, pertanto, una modalità di condotta.
Vorrei osservare, tuttavia, che, così facendo, sorgono alcuni problemi. Innanzi tutto, si parla di «minacce» e non di «minaccia», ritornando così al dibattito che ha paralizzato l'iter del provvedimento volto ad introdurre, nel nostro ordinamento penale, il reato di tortura nel corso della passata legislatura. Ricorderete bene, infatti, che nella scorsa legislatura venne approvata una proposta emendativa che evidenziava la necessità, affinché si configurasse un reato del genere, che le minacce fossero reiterate. Ebbene, in tal modo si paralizzò la discussione ed il provvedimento tornò in Commissione.
Ecco: prevedere la forma plurale - «minacce» anziché «minaccia» - ci fa chiaramente ritornare nella stessa situazione. Mi sembra di ricordare che il centrosinistra tuonò contro la soluzione prevista da tale proposta emendativa. Rammento anche che l'onorevole Finocchiaro (oggi senatrice) fece un esempio molto chiaro e lucido, evidenziando che poteva esservi una tortura anche con una sola minaccia. L'onorevole Finocchiaro, infatti, citò il caso di una mamma alla quale venne minacciato di far assistere il figlioletto di tre anni alle torture da lei subite. Si trattava di una sola minaccia, eppure era una tortura forse ancor più grave di quella che poteva essere inflitta attraverso una violenza.
Con l'attuale formulazione del testo, tuttavia, si rischia di sbagliare sia per difetto, sia per eccesso. Si può sbagliare per difetto perché, se parliamo di violenza e di minacce, rischiamo di escludere le condotte omissive. Non dimentichiamo, infatti, che tale illecito è diventato un reato attivo e non è più contemplata l'omissione, poiché se si parla di violenza e di minacce, si tratta esclusivamente di comportamenti attivi.
Intendo riferirmi, invece, a condotte omissive non violente e non minacciose. Pensiamo, ad esempio, ad un soggetto che venga lasciato per ore ed ore in piedi, al fine di indurlo a confessare; alla persona alla quale non venga dato da mangiare; al soggetto che venga lasciato al buio per interi giorni; alla persona che venga nutrita soltanto con acqua e sale. Ebbene, sono tutte condotte che non configurano una violenza o delle minacce, ma che potrebbero chiaramente rientrare nello spirito che, nell'ambito della definizione del reato di tortura, ha animato la citata Convenzione di New York.
Ma si rischia di sbagliare anche per eccesso, perché, andando ad individuare delle semplici minacce o una semplice violenza come presupposti del reato di tortura, si lascia alla discrezionalità dell'interprete e, quindi, del giudice, un'ampia attività di analisi e di valutazione. In questo, soccorre il parere della I Commissione affari costituzionali, che ha rilevato come la definizione del reato di tortura recata dal nuovo articolo 613-bis, a causa della formulazione della condotta concretante il reato, potrebbe presentare profili di criticità in riferimento al principio della determinatezza della fattispecie penale. Come ha già evidenziato il relatore, quindi, c'è una difficoltà di analisi, per cui bisogna riuscire a valutare la formulazione in modo preciso e puntuale.
È stata, poi, eliminata l'esclusione della punibilità laddove le condotte siano commesse nell'ambito dell'adempimento di un dovere. È vero che vi è una discriminante Pag. 8generale che può coinvolgere tutte queste fattispecie, però è chiaro che il legislatore e la Convenzione di New York avevano previsto queste ipotesi e ritengo che vi fosse una logica nel continuare a prevederle anche nella norma di recepimento.
È stata altresì eliminata la procedibilità universale, perché la gravità del delitto di tortura rendeva opportuno inserire tale fattispecie tra quelle che, ai sensi dell'articolo 7, numero 5, del codice penale, sono punite dalla legge italiana indipendentemente dal luogo ove sono commesse e dalla nazionalità del reo o della vittima. Tale disposizione si fonda sul principio di universalità, per cui ai delicta iuris gentium, tra i quali rientra anche la tortura, viene applicata la legge nazionale anche quando il fatto è commesso all'estero (vi è, quindi, una sorta di extraterritorialità). Si prevede, pertanto, che per il delitto di tortura vi sia un'estensione della giurisdizione italiana; questa disposizione, però, è stata cancellata. Ho ascoltato l'intervento dell'onorevole Daniele Farina, il quale ha evidenziato, anche se solo in modo unidirezionale, casi che avvengono all'estero. È chiaro che l'abolizione di questa previsione significa che, anche dal punto di vista del nostro legislatore, lo Stato italiano voglia «lavarsi le mani» rispetto a situazioni analoghe.
È stata cancellata anche la norma sull'immunità, secondo la quale non poteva essere assicurata l'immunità diplomatica ai cittadini stranieri sottoposti a procedimento penale o condannati per il reato di tortura da un'autorità giudiziaria straniera o da un tribunale internazionale. In tali casi, lo straniero è estradato verso lo Stato nel quale è in corso il procedimento penale o è stata pronunciata sentenza di condanna per il reato di tortura o, in caso di procedimento davanti ad un tribunale internazionale, verso lo Stato individuato ai sensi della normativa internazionale vigente in materia. Anche questa norma non è più presente nel testo e sarebbe utile che fosse nuovamente inserita.
Per ciò che attiene alla pena, inizialmente era prevista una pena da uno a quindici anni, chiaramente non rispondente al principio di tassatività. La Corte costituzionale, in più circostanze, ha evidenziato come non si possa lasciare una così ampia discrezionalità all'interprete. È evidente che si tratta di una pena che, se interpretata in modo troppo estensivo, rischia di aumentare la punibilità per quello che attiene alla pena minima per la quale sarebbe necessario, forse, consentire una discrezionalità maggiore all'interprete e, quindi, al giudice.
In conclusione, l'obiettivo del nostro gruppo è quello di ritornare allo spirito originario della Convenzione e gli emendamenti che presenteremo andranno in questa direzione. Si cercherà, nel corso della discussione, di reintrodurre quelle disposizioni che avevano consentito all'onorevole Pecorella di supportare la sua iniziativa legislativa, eliminando quegli errori che, il 5 ottobre scorso, lo hanno indotto a ritirare la firma da una proposta di legge che non riteneva più conforme allo spirito che l'aveva informata inizialmente.
PRESIDENTE. È iscritta a parlare la deputata Suppa. Ne ha facoltà.
ROSA SUPPA. Signor Presidente, onorevoli colleghi, onorevole rappresentante del Governo, come è già stato osservato, la proposta di legge all'esame della Camera è volta ad introdurre nel nostro codice penale il reato di tortura in ottemperanza a quanto previsto dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, disumani e degradanti, firmata a New York il 10 dicembre 1984 e ratificata dall'Italia il 3 novembre 1988. Si tratta di una Convenzione che rendeva esplicito e cogente il divieto di praticare la tortura, già contenuto nella Dichiarazione universale dei diritti umani adottato fin dal 1948. Dalla Convenzione sono trascorsi ormai 22 anni e quasi 20 anni da quando l'Italia, ratificandola, ha assunto in modo solenne un impegno che non è stato ancora onorato.
La mancata introduzione del reato di tortura è stata più volte denunciata e criticata dagli organismi internazionali di Pag. 9controllo sul rispetto dei diritti umani, sia dal Comitato contro la tortura sia da altri organismi ed associazioni umanitarie internazionali, nonostante la nostra Costituzione, la nostra Carta fondamentale, in modo chiaro, netto e deciso, proibisca ogni trattamento crudele e inumano, rinviando poi al legislatore ordinario la previsione della normativa contro tutti coloro che, abusando della loro autorità, fanno uso della violenza nei confronti di persone limitate nella loro libertà.
Questo vuoto - che, come ben diceva il presidente Pisicchio, non è solo normativo, ma anche e soprattutto culturale - non può essere giustificato dall'esistenza nel nostro ordinamento di altre disposizioni che sanzionano i delitti contro l'integrità fisica, l'abuso di autorità, i maltrattamenti o quant'altro. In questo modo, infatti, resterebbero impunite tutte le torture più raffinate, come quelle psicologiche, che provocano un male difficile da scoprire in un'aula di un tribunale o da far risultare da un referto medico; invece, la tortura è qualcosa di molto diverso dai singoli atti di violenza. Questo sia chiaro ed inequivoco! La tortura è un'altra cosa: è un crimine contro l'umanità; è una pratica medievale; è un infierire contro coloro che si trovano in una condizione di debolezza, cioè contro persone delle quali non si conosce ancora la colpevolezza; è una violazione grave dei diritti umani fondamentali.
Comunque la Convenzione che l'Italia ha ratificato - come detto - imponeva la previsione di una figura delittuosa specifica e autonoma, non della copertura più o meno completa dei fatti costituenti tortura mediante fattispecie generiche e, soprattutto, imponeva la previsione di pene congrue rispetto alla gravità di tale reato.
Sicuramente anche oggi e forse anche in quest'aula - mi auguro di no - potrebbe esserci da parte di qualcuno la sottovalutazione di questa proposta o peggio l'indifferenza, magari per la superficiale convinzione che quello della tortura sia un problema di altri paesi e non nostro, non un problema dell'Italia. Siamo proprio convinti di ciò? È il dubbio che è emerso proprio nella relazione del presidente Pisicchio.
Abbiamo visto, di recente, troppi orrori; non orrori nascosti, ma orrori mostrati, orrori esibiti, orrori ostentati, orrori ripresi. Né possono sottacersi i rischi cui è soggetta una donna che può subire tortura. Infatti, come spesso - troppo spesso - accade, lo stupro diventa una forma estrema di tortura.
Stiamo vivendo una fase storica molto delicata, nella quale sembra emergere drammaticamente la contrapposizione tra libertà e sicurezza. È una fase nella quale i diritti umani, nella loro massima garanzia, potrebbero essere letti addirittura come un ostacolo al perseguimento degli obiettivi di sicurezza.
Allora, onorevoli colleghi, se anche il problema non riguardasse il nostro democraticissimo paese, è il momento di rilanciare con forza il principio della inderogabilità assoluta dei diritti umani; e l'Italia può e deve svolgere un ruolo di primo piano. Altro che farsi comminare moratorie per l'inadempimento della Convenzione!
Onorevole Costa, al di là delle formulazioni e dei tecnicismi giuridici, discuteremo su questo tema e troveremo proposte condivise. L'importante è che nel nostro codice sia previsto il delitto di tortura.
Anzi, vado oltre: auspico che, quanto prima, possa essere ratificato il Protocollo addizionale aggiuntivo sulla tortura, firmato dall'Italia nell'agosto 2003, consentendo anche visite ispettive di comitati internazionali nei luoghi di detenzione. Queste previsioni devono essere diffuse, devono essere oggetto di discussione! Non può passare tutto sotto silenzio, come pure è successo per l'importante e buona legge n. 6 del 31 gennaio 2002, che ha introdotto il reato di tortura nel codice penale di guerra, ma che estende l'applicazione a tutti i corpi di spedizione all'estero per operazioni militari armate, anche in tempo di pace.
Non mi soffermo sul contenuto del provvedimento, perché lo ha fatto molto bene il relatore. Mi preme, però, sottolineare Pag. 10alcuni aspetti rispetto ai quali il mio gruppo (personalmente, ho anche presentato una proposta in merito) ha fornito un contributo. In primo luogo, mi riferisco alla collocazione del reato nel libro secondo, titolo XII, capo III, sezione III, del codice penale. Non è una collocazione solo tecnica, ma è importante perché vi è la previsione dei delitti contro la persona, che aggrediscono la libertà di autodeterminazione. È una collocazione molto particolare che, secondo noi, dice molto su come vediamo il reato di tortura.
Altro elemento caratterizzante della nascente fattispecie criminosa è la presenza del dolo specifico - lo scopo estorsivo - che differenzia in modo netto il reato in esame dalle altre fattispecie criminose.
Il delitto viene delineato come reato comune, cioè come un reato che può essere commesso da chiunque; ma, su mia proposta, accettata dalla Commissione, è stato previsto un notevole incremento di pena qualora l'autore del fatto sia un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio.
Vi è un'esigenza di tutela del corretto svolgimento delle attività processuali, in vista dell'accertamento della verità, che concorre con quella ovvia, già più volte ribadita, di tutela della dignità e dell'integrità personale. È appena il caso di ricordare che la verità non è mai conseguibile eludendo le garanzie processuali. Anzi, rimane attuale l'idea dei grandi giuristi, in particolare del Beccaria, per il quale la tortura è spesso il modo di assolvere gli scellerati forti e, magari, condannare gli innocenti deboli.
In questa sede, però, in conclusione del mio intervento, voglio ribadire la massima fiducia negli organi di polizia e nella magistratura e la convinzione ferma che l'applicazione di tali norme in Italia sarà del tutto marginale. Ma sono anche sicura che l'introduzione di questo reato potrà qualificare l'attività di questa legislatura e contribuirà a rendere il nostro democraticissimo, civilissimo paese ancora più democratico e civile (Applausi - Congratulazioni).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Capotosti. Ne ha facoltà.
GINO CAPOTOSTI. Signor Presidente, signor rappresentante del Governo, onorevoli colleghi e colleghe, l'istituenda norma incriminatrice speciale, di cui oggi stiamo parlando, colma una grave lacuna che persiste da molti anni all'interno del nostro ordinamento penale: ciò è stato rilevato anche da chi mi ha preceduto stamane nella successione degli interventi.
Si può fare un'analisi tecnica di questa norma, ma le argomentazioni dei colleghi che hanno preceduto il mio intervento credo siano state sufficientemente esaustive in questo senso.
È chiaro che la scelta di rappresentare la fattispecie in parola come reato comune, anziché come reato proprio, ha una valenza politica; la previsione di un'aggravante specifica nel momento in cui il reato divenisse reato proprio è ulteriore significato di una visione politica. Quindi, credo che dovremmo svolgere una riflessione di ordine politico partendo dalla nostra Costituzione, una delle più illuminate, notoriamente ed oggettivamente, a livello planetario, per quanto concerne le garanzie di libertà. Si tratta, infatti, di una Costituzione nata posteriormente ad un periodo nel quale le garanzie di libertà sono state soppresse non solo nel nostro ordinamento, ma anche, largamente, in quasi tutti gli ordinamenti europei.
Finalmente diamo corso ad una previsione di libertà completando la sua tutela, che è presente e che ha fondato lo Stato di diritto, costituito sui principi di sicurezza e di legalità e concepito come associazione di cittadini che mettono in comune alcuni servizi e funzioni per garantire il loro libero e pacifico sviluppo.
Il momento storico in cui viviamo è caratterizzato dalla globalizzazione, dai trafficanti di persone, dagli sfruttatori di bambini nei cantieri notturni, dallo sfruttamento delle donne su scala quasi imprenditoriale. L'ondata di ritorno di una serie di fattispecie - di condotte, direi -, che non eravamo più abituati a prendere in considerazione, ci mette ulteriormente Pag. 11dinanzi alla necessità di colmare una lacuna e di dare una risposta da Stato di diritto, secondo i principi di sicurezza e legalità, all'intero ordinamento sociale.
Dobbiamo, vogliamo e possiamo fornire una risposta alle nuove emergenze; questa previsione di reato - un nuovo reato, la tortura - rappresenta una forte risposta dello Stato ad alcune situazioni invasive non più tollerabili. Non è pensabile che nel terzo millennio, nella civilissima Italia, paese che è sempre stato definito la culla del diritto, si debba assistere a fenomeni di sfruttamento di manovalanza minorile. Spesso e sovente abbiamo notizia di bambini di quattro, cinque, sei, sette anni chiusi all'interno di capannoni, per venti, ventidue ore al giorno, intenti a realizzare scarpe. Ciò non si verifica in Indocina o in qualche altro angolo sperduto del mondo, ma in Italia, nella civilissima Italia.
Abbiamo notizia di violenze terribili a danno di donne da parte di soggetti che, evidentemente, non hanno ancora avuto modo di confrontarsi a pieno con ciò che noi intendiamo come Stato di diritto. È necessario essere forti, dare una risposta decisa, rendere attuale la forma Stato e, soprattutto, aprirsi al mondo per dare un segnale di solidità.
Non possiamo accettare comportamenti che contrastino con tutte le nostre regole fondamentali. Questo fenomeno in qualche modo si è già verificato - insisto sull'aspetto internazionale - molti secoli fa, quando l'ordinamento romano fu travolto dalle invasioni barbariche: unni, visigoti, soggetti che erano abituati all'ordalia, a definire la verità per mezzo di un conflitto armato. Chi vince ha dalla sua parte la divinità e, quindi, non può che essere nel vero!
Questo è un esempio ed anche un paradosso: noi abbiamo conquistato in venti secoli di storia un ordinamento giuridico che avanza quotidianamente, che ha una funzione solo se è in grado (in questo senso più largamente per le forze di centrosinistra) di anticipare ciò che serve, cioè di rispondere ad un'emergenza prima che questa diventi dramma, non con finalità repressive, ma con finalità preventiva marcata.
Vorrei ringraziare tutti i membri della Commissione, tutti coloro che hanno lavorato appassionatamente sull'argomento, perché l'introduzione di una nuova fattispecie di reato non è semplicemente un fatto tecnico, ma si tratta di una risposta politica ad un problema di sicurezza generale presente nello Stato che spesso ci vede (anche noi siamo Stato) carenti sotto questo profilo.
Non voglio ricordare i fenomeni di violenza inaudita cui abbiamo assistito negli scorsi mesi. Me ne viene in mente uno per tutti: l'uccisione di una ragazza che sfidava le convenzioni sociali, l'autorità paterna, metteva in discussione alcuni principi. È un punto sul quale lascio pronunciare chi è fornito di certezze: io non ne ho così tante.
Lo Stato di diritto è tale se allontana, scoraggia, punisce tutti coloro che offendono la vita umana, che nella nostra Costituzione noi, i nostri padri hanno concepito come fondamento unico, quindi lo scopo finale dell'associazione Stato.
Ringrazio, quindi, il presidente relatore per l'ottimo contributo offerto, tutti i colleghi che hanno appassionatamente partecipato a questo dibattito. Credo che un'esposizione che verta solo sul tecnicismo sia poco esaustiva della problematica che oggi affrontiamo.
In ogni caso, voglio ricordare a chi mi ha preceduto criticamente che, per verificare la rispondenza alla necessità di una fattispecie penale, è necessario sistematicamente che quella fattispecie penale sia applicata, che trovi applicazione a fronte delle necessità avvertite per vedere se essa coincide con la domanda di giustizia, con il punto interrogativo che ci viene fornito.
Credo che il nostro sia un buon testo e che possa fornire una risposta significativa. Chiaramente offro la mia disponibilità ad eventuali interventi successivi correttivi laddove ve ne fosse bisogno, perché lo spirito che ci anima non è uno spirito di corpo, di blocco tale da rendere immodificabile una decisione adottata, anzi, è Pag. 12esattamente il contrario. Pensiamo di fare una buona cosa, siamo pronti a mettere a punto qualche congegno, ad introdurre qualche modifica laddove divenisse necessaria (Applausi dei deputati dei gruppi Popolari-Udeur, L'Ulivo e Italia dei Valori).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Crapolicchio. Ne ha facoltà.
SILVIO CRAPOLICCHIO. Signor Presidente, onorevoli colleghi, intervenendo nella discussione sulle linee generali relativa alla proposta di introduzione nel nostro ordinamento della fattispecie del reato di tortura, così come previsto nel testo unificato licenziato dalla Commissione giustizia, sembra opportuno, sin dalle prime battute della presente discussione, evidenziare l'indubbia opportunità di dare luogo alla suddetta innovazione legislativa. Infatti, nonostante la gravità ed eclatanza sociale degli episodi riconducibili al concetto di tortura, prima della scorsa legislatura non era emersa la necessità di introdurre specifiche fattispecie interne volte all'incriminazione della suddetta figura delittuosa. Malgrado la ratifica di Convenzioni internazionali sanzionanti la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti, come la Convenzione delle Nazioni Unite sottoscritta a New York il 10 dicembre 1984 e ratificata con la legge n. 490 del 1988, o come la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma nel 1950 e ratificata con la legge n. 848 del 1955 o, infine, come il Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici firmato a New York nel 1966 e ratificato con la legge n. 881 del 1977, non si era infatti ritenuto necessario introdurre una specifica fattispecie interna per l'incriminazione di fatti riconducibili al concetto di tortura, considerandosi sufficiente a tale fine il relativo inquadramento, volta per volta, a seconda delle peculiarità del caso di specie, in altre fattispecie delittuose già presenti nel nostro ordinamento quali i reati di percosse, lesioni, violenza privata e minacce.
A partire dalla precedente legislatura, tuttavia, si è percepito come le fattispecie suddette non fossero in grado di cogliere appieno l'esatto disvalore penale e sociale riconducibile al concetto di tortura. Infatti, da un'analisi della giurisprudenza internazionale in merito a tale questione si è potuto apprendere come le fattispecie enucleabili sotto il medesimo concetto di tortura non soltanto constino di condotte volte ad infliggere sofferenze fisiche quali, a titolo esemplificativo, pestaggi, molestie sessuali, mutilazioni ed altro, ma includano altresì un notevole, a volte predominante, fattore di vessazione psicologica, ad esempio nei casi in cui un soggetto venga obbligato ad assistere alla tortura o alla morte di altri detenuti - o, addirittura, di familiari -, nel costringere alla nudità o ad atteggiamenti umilianti, nell'impedimento continuo e prolungato del sonno, nelle pressanti e persistenti ingiurie verbali o minacce e quant'altro del medesimo tenore. Si è, dunque, percepita chiaramente, in altre parole, l'inidoneità delle fattispecie di diritto interne, quali, come detto, percosse, lesioni, minacce, violenza privata, anche se aggravate, a cogliere il grave disvalore riconducibile a simili fatti, ed è proprio per tale motivo che dalla scorsa legislatura si è avvertita la stringente necessità di introdurre una fattispecie penale specifica, volta all'incriminazione di fatti rientranti nella nozione di tortura, necessità tutt'oggi esistente e sentita.
Ebbene, ciò premesso e preso atto dell'ovvia difficoltà di utilizzare con precisione una fattispecie integrata da condotte per propria natura disparate, sembra utile soffermarsi sull'eventuale effettiva ubicazione della suddetta fattispecie di reato all'interno del codice penale, ovvero riflettere se sia preferibile inquadrarla tra i delitti contro la vita e l'incolumità individuale o tra i delitti contro la libertà individuale. Proprio per l'assunto in precedenza evidenziato, per cui gli episodi riconducibili al concetto di tortura sono caratterizzati non soltanto dalla lesione all'integrità fisica altrui, ma anche - e soprattutto - dalla forte componente di Pag. 13vessazione psicologica, sotto la grave forma della sistematica umiliazione, dello svilimento dell'essere umano o dello sfinimento psicologico, si condivide l'inclusione della relativa fattispecie penale, operata dalla proposta di legge in esame, nella categoria dei delitti contro la libertà morale, insieme, tra l'altro, ai reati di violenza privata e di minacce.
In tale contesto, la fattispecie in questione, che introdurrà un nuovo articolo 613-bis nel vigente codice penale, punisce con la reclusione da quattro a dodici anni chiunque infligga ad una persona dolore e sofferenze fisiche o mentali per ottenere informazioni o confessioni su un atto che la persona oggetto di tortura - o una terza persona - ha compiuto o è sospettata di aver compiuto, ovvero allo scopo di punire una persona per l'atto dalla stessa - o da una terza persona - compiuto ovvero, ancora, per motivi di discriminazione razziale, politica, religiosa o sessuale.
Peraltro, è bene osservare come, a differenza di altre proposte di legge, nonché della stessa Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura del 1984, che configuravano il reato come proprio, ovvero come reato suscettibile di essere commesso soltanto da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio, il progetto di legge in esame, invece, assai correttamente configura il reato in questione come comune, ossia attuabile da chiunque, anche sprovvisto delle qualifiche suddette.
In tale modo, estendendo la soggettività attiva del reato, si intende scongiurare la possibilità che gravi episodi di tortura restino al di fuori della sfera di applicazione del reato in questione, solo perché commessi da cittadini non altrimenti qualificati. Non sembra, infatti, che possa essere la qualifica rivestita dal soggetto agente ad integrare l'offesa al bene giuridico protetto dalla norma in questione, essendo infatti a tale fine sufficiente la mera condotta illecita appena descritta.
Inoltre, la proposta di legge prevede aggravanti speciali qualora dal fatto derivino lesioni gravi o gravissime, ovvero la morte del soggetto passivo del reato. Un caso di non punibilità, invece, assimilabile a discriminante dell'esercizio del diritto, è previsto al fine di evitare strumentalizzazioni della fattispecie indicata nell'ipotesi in cui le condotte in questione siano conseguenze di azioni o sanzioni legittimamente effettuate.
Ebbene, svolte tali valutazioni di carattere personale, sembra davvero che l'innovazione legislativa di cui alla presente proposta di legge debba essere condivisa, vista l'accertata necessità di dare conto a livello legislativo di un fenomeno, quale la tortura, dotato di un dirompente disvalore, sotto il profilo non solo strettamente giuridico, ma anche sociale e pertanto meritevole di apposita, adeguata disciplina normativa (Applausi dei deputati dei gruppi Comunisti Italiani, L'Ulivo, Rifondazione Comunista-Sinistra Europea, Popolari-Udeur e Italia dei Valori).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato D'Elia. Ne ha facoltà.
SERGIO D'ELIA. Signor Presidente, in merito al dibattito apertosi non solo nel nostro paese, ma anche negli Stati Uniti, sulla questione della tortura e sul superamento di quello che è stato (e che a mio avviso deve rimanere) un vero e proprio tabù, non bisogna fare economia, ma anzi è bene affrontare di petto il problema senza liquidare talune argomentazioni a priori, introducendole nella nostra riflessione politica ed anche culturale. Si sta parlando dell'uso da parte dell'autorità pubblica di strumenti, metodi e comportamenti che a mio parere mettono in discussione la legittimità stessa dell'autorità pubblica in questione.
In Italia (ed anche negli Stati Uniti) il dibattito è stato trattato dal fior fiore degli intellettuali ed aperto da un opinionista come Angelo Panebianco su un giornale importante come il Corriere della Sera. La domanda riguarda una fattispecie che può verificarsi nell'ambito della vita sociale del nostro Paese, anche a fronte del male esistente all'interno della nostra società e di possibili emergenze da esso determinate. Ci si chiede se attraverso la tortura Pag. 14possano essere acquisite informazioni utili ad impedire attentati terroristici, o comunque atti criminali, che possano mettere in pericolo la vita di vittime innocenti. In questo caso specifico, cosa facciamo?
Come ho già detto, tale domanda è stata posta sul Corriere della Sera da Angelo Panebianco, il quale si è dato in proposito una risposta positiva, affermando che si può esercitare la forza fisica e violare la sfera di intangibilità della persona, oltre alla sua integrità fisica (senza dimenticare che la tortura - insieme alla pena di morte - è uno strumento che mette in discussione la dignità della persona stessa). Tuttavia, a suo avviso, vi si può ricorrere quando è in gioco un bene superiore come la sicurezza della nostra società e della nostra civiltà.
Come accennavo in precedenza, la stessa domanda - seguita da un'identica risposta - se l'è posta negli Stati Uniti un campione di diritti civili, l'avvocato Dershowitz, che ha proposto, a fronte dell'emergenza del terrorismo e della lotta di contrasto allo stesso, l'introduzione di una forma di tortura legale. Tale avvocato parla di una forma di tortura proporzionata alla gravità del pericolo che si deve affrontare, regolamentata e soggetta alla giurisdizione, vale a dire con un magistrato preposto a stabilire i limiti, i casi, le forme di pressione psicologica e di sofferenza fisica applicabili nelle pratiche di tortura. Immagino ci si riferisca a quante ore di insonnia obbligata, a quante scosse elettriche, a quanti litri di acqua e sale da far ingerire a forza, a quanti secondi di immersione nell'acqua al limite dell'annegamento. A me paiono argomenti folli.
Un argomento supplementare proposto da Dershowitz è quello secondo il quale, poiché la tortura nei fatti esiste, sarebbe un'ipocrisia non riconoscerla e sarebbe da irresponsabili sostenere che il lavoro sporco nella lotta al terrorismo debba essere svolto dai poliziotti nella clandestinità dei commissariati, delle caserme o delle carceri. Naturalmente, in tale previsione, la determinazione del limite che non è possibile superare nella violazione della persona umana dovrà essere affidata ad un magistrato.
Tale ragionamento, a mio parere, non solo non tiene conto delle ragioni di principio ricordate dai colleghi, ma non funziona anche per gli stessi fini pratici. I casi prospettati di pericolo imminente per la comunità sono più teorici che pratici e la discussione aperta da Panebianco mi pare un dibattito accademico senza alcuna previsione nella realtà.
Dall'introduzione di forme di tortura legale discenderebbero, a mio parere, soltanto costi e nessun beneficio. Il danno di immagine, ma soprattutto di giudizio, che deriverebbe alla civiltà di un paese dall'introduzione di queste forme legali di tortura sarebbe incalcolabile e l'effetto pratico sarebbe pari a zero.
Il terrorismo si combatte con efficacia se lo Stato è forte. Ed uno Stato è tanto più forte nella lotta al terrorismo se nel condurla non viene meno ai principi fondamentali. Un grande scrittore, Leonardo Sciascia, diceva che la mafia si combatte non con la «terribilità», ma con il rispetto delle regole fondamentali dello Stato di diritto sancite dalla Costituzione. La lotta alla mafia, come la lotta al terrorismo, condotta con metodi non convenzionali - si è parlato di una guerra asimmetrica che sarebbe in corso tra la comunità internazionale e il terrorismo -, comporterebbe soltanto una grave perdita di legittimità e di credibilità dell'autorità pubblica che decidesse di usare tali metodi, che in tal modo si degraderebbe ad un livello di comportamento simile a quello che si vuole combattere.
Ho esaminato il testo che il relatore e la Commissione ci propongono riguardo all'introduzione dell'articolo 613-bis del codice penale in materia di tortura. Sono passati quasi vent'anni da quando il nostro paese ha deciso di ratificare la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura: credo che sia un ritardo grave che va colmato e che non sia più procrastinabile il recepimento nel nostro ordinamento dell'articolo contro la tortura previsto dalla Convenzione internazionale. Pag. 15
Condivido la formulazione che ci viene proposta. Non so se possa essere migliorata nel corso del dibattito parlamentare, ma mi sembra importante che in questa formulazione non ci si riferisca solo all'autorità pubblica - cioè al poliziotto o al pubblico ufficiale sotto la cui custodia vi fosse un soggetto nei confronti del quale venisse praticata la tortura - ma venga stabilito in maniera più ampia che: «È punito con la pena della reclusione da quattro a dodici anni chiunque...». Quindi viene descritto, con una definizione leggermente ripresa dall'articolo sulla tortura della Convenzione internazionale, il caso in cui si configura la tortura nel nostro paese.
Certo, il fatto che il reato riguardi un pubblico ufficiale può essere un'aggravante, ma ci sono anche persone e funzionari che non possono essere definiti pubblici ufficiali. Esistono le fattispecie giuridiche previste dal nostro ordinamento nel caso delle minacce, delle violenze, dei danni procurati, delle percosse, ma ci sono anche casi in cui la tortura è stata praticata, per esempio, nelle «camere della morte» da parte di mafiosi, e ciò è successo nel nostro paese. Non è solo un fatto simbolico.
Con questo reato si prevede l'aggravante di tortura anche nei confronti di chi usa nella propria attività criminale vere e proprie forme di tortura; credo che queste vadano sanzionate con la precisione che questo articolo è teso ad introdurre nel nostro ordinamento. La definizione del reato di tortura nel diritto internazionale, a parer mio, è tale che potrebbe - mi rendo conto che potrei operare una forzatura nell'accennare a questo caso - essere anche riferita alle condizioni di detenzione in cui vengono tenuti oggi in Italia i circa 600 soggetti nelle sezioni cosiddette del carcere duro, in cui viene applicato l'articolo 41-bis dell'ordinamento penitenziario. Tuttavia, se leggeste proprio la definizione di tortura così come è scritta nel diritto internazionale e ripresa in parte dal testo oggi al nostro esame, notereste che si parla di pressioni, di sofferenze fisiche o mentali, allo scopo di ottenere dalla persona soggetta a queste pratiche o da una terza persona informazioni o confessioni su un atto che essa stessa o una terza persona ha compiuto o è sospettata di avere compiuto ovvero allo scopo di punire una persona per un atto che essa stessa o una terza persona ha compiuto o è sospettata di avere compiuto per motivi vari.
In una democrazia come quella italiana - ripeto - si possono configurare pratiche di tortura anche nelle condizioni di detenzione praticate, ad esempio, nei confronti di chi è sottoposto all'articolo 41-bis; condizioni di detenzione che sia io sia il collega Maurizio Turco conosciamo, tanto che ne abbiamo anche tratto un libro-denuncia dal titolo significativo: Tortura democratica. Ricordo, infatti, che possono essere sottoposti al 41-bis non soltanto i condannati o gli imputati ma anche, più semplicemente, gli indagati. È del tutto evidente che quelle condizioni di detenzione sono tali da indurre il detenuto a confessare, a fornire informazioni al fine di impedire che altri fatti gravi siano commessi.
In particolare, se si legge l'articolo della Convenzione internazionale contro la tortura e si raffronta quel testo con le condizioni reali in cui si trovano alcuni detenuti sottoposti al 41-bis, si ravvisano, a mio parere, gli estremi per configurare una forma di tortura nei loro confronti. Ricordo, inoltre, che dall'applicazione del 41-bis non si esce per via processuale ma, a causa delle sofferenze a cui sono sottoposti quei detenuti, si può uscire soltanto, come si dice, con i piedi davanti. Non sono pochi, infatti, i detenuti che si sono suicidati o che sono morti per gravi malattie, come ad esempio il cancro, proprio a causa delle condizioni in cui essi sono tenuti con il 41-bis. Il diritto alla salute di quei detenuti è, quindi, subordinato alla collaborazione che essi intendono avviare con la giustizia: dall'applicazione del 41-bis si esce soltanto se si decide di collaborare con la giustizia.
L'articolo 41-bis è stato all'inizio una fabbrica di pentiti; ora, esauritasi quella «produzione», rimangono ancora condizioni Pag. 16che, a parer mio, non sono compatibili con le regole dello Stato di diritto. Il fatto che chi è sottoposto a tale regime restrittivo sia autore o sospettato di essere l'autore di gravi crimini non ci esime - e mi riferisco a noi, come comunità, come Stato - dall'affrontare tali problematiche.
Per tutte queste ragioni, noi deputati del gruppo della Rosa nel Pugno condividiamo il fatto che nel nostro ordinamento sia introdotta questa nuova fattispecie giuridica e attendiamo il dibattito che si svolgerà in Assemblea sul provvedimento per capire se il testo che ci viene sottoposto possa andare bene o debba essere migliorato.
PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.