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TESTO INTEGRALE DELLA RELAZIONE DEL DEPUTATO PINO PISICCHIO SUL TESTO UNIFICATO DELLE PROPOSTE DI LEGGE N. 915 ED ABBINATE
PINO PISICCHIO, Relatore. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, il provvedimento che viene sottoposto al nostro esame sembrerebbe evocare un nobilissimo e condiviso principio, privo però di un precipitato di attualità: chi mai potrebbe, viene infatti da chiedersi, nell'Italia democratica e civile, nell'Italia dei valori umani patrimonio di tutti, porre in punto di principio la questione della tortura se non in termini di esecrazione ed estraneità?
Ebbene questa estate abbiamo potuto leggere sulle pagine delle più autorevoli testate giornalistiche italiane, dibattiti che proprio in punto di principio dichiaravano l'attualità di una riflessione sulla tortura, rilanciata per effetto del fondamentalismo religioso che fomenta il terrorismo jiahadista e da una interpretazione per così dire «pragmatista» delle esigenze della sicurezza nazionale. Il tema era: «Di fronte al pericolo concreto di una nuova Apocalisse come quella dell'11 settembre e alla possibilità, attraverso il ricorso allo strumento della tortura, di venire a conoscenza di informazioni fondamentali per salvare la vita a migliaia di persone, siamo così sicuri della nostra indeflettibile risposta negativa?»
Il relatore e, mi sembra di poter dire, l'intera Commissione hanno piena consapevolezza del proprio netto ed inequivocabile diniego, ma la questione, avanzata da un intellettuale finissimo come Panebianco e dibattuta da pensatori del calibro di Magris e Zagrebelsky, non è priva di concretezza. Così come non è privo di attualità il tema della normazione giuridica e dell'inclusione nel codice penale di un reato specifico di tortura.
Forse non appare inutile per comprendere fino in fondo quanto l'idea di tortura, intesa come grande dolore fisico inflitto in vari modi e con diversi strumenti come punizione o come mezzo per estorcere confessioni, abbia interpellato filosofi, teologi e giuristi fin dalla più remota antichità, come violenza incompatibile con la minima sensibilità umana.
Nella Roma repubblicana la tortura era applicata agli schiavi: solo con l'Impero l'orribile sanzione si estese ai liberi ma per crimini ritenuti, all'epoca, assai gravi, come la lesa maestà, il veneficio e la magia. La tortura fu estranea, invece, alla cultura giuridica dei popoli germanici invasori, almeno in una prima fase. Grande impiego, invece venne fatto nei secoli XI e XII all'interno del conflitto che la Chiesa intraprese nei confronti degli eretici.
Ma già nel XVI secolo teologi e filosofi cominciarono a protestare contro la tortura barbara e inutile. Nel XVIII secolo la cultura positivista, in particolare quella italiana, scrisse pagine definitive (Pietro Verri, Osservazioni sulla Tortura, pubblicato Pag. 75postumo nel 1804 e Cesare Beccarla, Dei Delitti e delle Pene, 1764) contro lo strumento di violenza.
A partire dal 1740, ad opera di Federico di Prussia, abbiamo le prime illuminate scelte ordinamentali per l'abolizione della tortura: alla Prussia fece seguito la Svezia nel 1767 e poi la Danimarca, nel 1770, il Baden, il Meclemburgo, la Sassonia e nel 1767 la Russia di Caterina. La stessa Francia di Luigi XVI sospese la tortura nel 1780. Ma sarà la Costituente nel 1789 a sopprimerla del tutto. Nel Novecento, dopo la parentesi delle guerre mondiali in cui venne sospeso ogni criterio di umanità e la Germania di Hitler contraddisse la sua antica tradizione giuridica antitortura, la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948, alla quale aderì l'Italia, previde specificamente il reato di tortura all'articolo 5: «Nessun individuo potrà essere sottoposto a trattamento o punizioni crudeli, inumani o degradanti». Lo stesso divieto venne incluso sia nella Convenzione Europea dei diritti dell'uomo (1950), sia nel Patto internazionale sui diritti civili e politici (1966) sia, ancora, in altri trattati internazionali ratificati dall'Italia.
Ma vi è ancora un atto di diritto internazionale, assai importante, da cui discendono obblighi per il nostro Paese, che va preso in considerazione: è la Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti inumani o degradanti, firmata a New York il 10 dicembre del 1984. Secondo la Convenzione di New York, infatti, gli stati sottoscrittori si obbligano a provvedere affinché «qualsiasi atto di tortura costituisca un reato a tenore del suo diritto penale». È la stessa Convenzione a qualificare come tortura «qualsiasi atto con il quale sono inflitti ad una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche, segnatamente al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidire o esercitare pressioni su una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitte da un funzionario pubblico o da qualunque altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione oppure con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze risultanti da sanzioni legittime, inerenti a tali sanzioni o da esse cagionate».
Il testo unificato in esame è diretto ad introdurre nell'ordinamento italiano il delitto di tortura, dando efficace attuazione a quella Convenzione ratificata dall'Italia con la legge 3 novembre 1988, n. 498.
Va detto che, ai fini della esecuzione della Convenzione, il legislatore nel 1988 non ritenne necessaria l'introduzione nel nostro ordinamento di una specifica fattispecie penale. A questa conclusione si pervenne ritenendo che le condotte riconducibili alla definizione di tortura sancita dall'articolo 1.1 della Convenzione fossero comunque riferibili a fattispecie penali già previste dalla legge italiana, come, ad esempio, quelle dirette a punire l'omicidio, le lesioni, le percosse, la violenza privata o le minacce. Per questa ragione non si ritenne, quindi, necessario accompagnare la ratifica con norme di attuazione interna ed, in particolare, con la previsione del nuovo delitto di tortura.
A distanza di circa 18 anni si è avvertita l'esigenza di rivedere quella scelta, considerato che la legislazione vigente non sembra punire in maniera adeguata tutte le condotte riconducibili alla nozione di tortura così come intesa non soltanto dalla Convenzione, ma anche dal comune sentire. In tale nozione rientrano anche alcuni comportamenti disumani e degradanti della dignità umana che non sono pienamente riconducibili alla nozione di violenza o di minaccia elaborata dalla nostra giurisprudenza. Tra queste nozioni e quella di tortura vi sarebbe una zona grigia. Se così fosse, questa zona grigia sostanzialmente si tradurrebbe in una violazione della Convenzione ONU del 1984.
L'esame in sede referente è stato avviato prendendo spunto da una proposta di legge Pecorella che riproduceva una proposta presentata nella XIV legislatura. Pag. 76A tale proposito, ricordo che nella scorsa legislatura la Camera dei deputati si è occupata a lungo del tema, senza tuttavia pervenire all'approvazione di un testo. In effetti, individuare una formulazione della fattispecie del delitto di tortura che, al contempo, soddisfi l'esigenze di determinatezza del contenuto e di completezza della portata applicativa, è una operazione che presenta una serie di difficoltà, che rischiano di compromettere il risultato da tutti auspicato: assicurare una risposta penale adeguata a fatti di estrema gravità. In effetti, non è un compito semplice pervenire ad una formulazione della fattispecie del delitto di tortura che, da un lato, sia pienamente conforme alla definizione di tortura della Convenzione e, dall'altro, consenta di definire in termini sufficientemente precisi gli aspetti tipici della nuova ipotesi di reato con specifico riferimento ai soggetti attivi e passivi, alla natura ed ai contenuti delle condotte perseguibili ed alle finalità cui esse siano indirizzate. A ciò si deve aggiungere anche la consapevolezza che le situazioni tipiche descritte nella fattispecie potrebbero subire effetti distorti a causa di una interpretazione estensiva che potrebbe colpire soggetti o condotte ovvero riguardare fatti che nell'esercizio di poteri pubblici istituzionali dovrebbero essere ritenuti legittimi o contenuti in termini effettivi di rispetto della legalità.
Il lavoro in Commissione, svolto avendo come punto di partenza la definizione sancita dall'articolo 1.1 della Convenzione di New York, ha prodotto un testo unificato, composto da un solo articolo, che stabilisce che è punito con la pena della reclusione da quattro a dodici anni chiunque, con violenza o minacce gravi, infligge ad una persona forti sofferenze fisiche o mentali, allo scopo di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni su un atto che essa stessa o una terza persona ha compiuto o è sospettata di avere compiuto ovvero allo scopo di punire una persona per un atto che essa stessa o una terza persona ha compiuto o è sospettata di avere compiuto ovvero per motivi di discriminazione razziale, politica, religiosa o sessuale. La pena è aumentata se tali condotte sono poste in essere da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio ovvero se dal fatto deriva una lesione grave o gravissima. Nel caso che ne derivi la morte, la pena è raddoppiata. Non si è ritenuto necessario precisare che il fatto non è punibile se sono inflitte sofferenze o patimenti come conseguenza di condotte o sanzioni legittime ad esse connesse o dalle stesse cagionate, in quanto si tratterebbe di fattispecie scriminate in base ai principi generali del diritto penale.
La fattispecie è caratterizzata da tre elementi: a) la condotta violenta o di minaccia; b) l'evento della inflizione di forti sofferenze fisiche o mentali; c) il dolo specifico. Tale scelta non è stata da tutti condivisa in Commissione, in quanto, da alcuni, è apparsa troppo restrittiva rispetto alla nozione di tortura, mentre, da altri, così eccessivamente elastica da ricondurvi anche ipotesi del tutto estranee a tale nozione, fino a ricomprendervi attività che attualmente, in maniera del tutto lecita, sono poste in essere dalle forze di polizia. In realtà, la formulazione adottata dalla Commissione, per quanto migliorabile in via emendativa, sembra evitare i rischi da taluni paventati. È vero che per evitare qualsiasi lacuna applicativa si sarebbe potuta utilizzare la formulazione propria dei reati a condotta libera, i quali sono caratterizzati non tanto dalla modalità della condotta, quanto, piuttosto, dall'evento causato (ad esempio, l'omicidio). In tale maniera, la modalità della condotta sarebbe irrilevante: ciò che conta è la realizzazione di un determinato evento e la finalità della condotta. L'opzione per il reato a condotta libera non è stata effettuata perché presuppone una adeguata determinatezza e specificità dell'evento, che nel caso del delitto di tortura non vi può essere, trattandosi di un reato che in astratto è riconducibile ad altre figure di reato. Per tale ragione, si è ritenuto che la condotta debba concretizzarsi in una attività violenta o di minaccia grave. Per evitare ulteriori dubbi interpretativi, si è specificato che le sofferenze fisiche o mentali Pag. 77prodotte debbano essere «forti», utilizzando la terminologia adottata dalla Convenzione di New York. Altro elemento caratterizzante del nuovo delitto è il dolo specifico: il reato sussiste non solamente se è stata posta in essere una certa condotta e che da questa sia scaturito un determinato evento, ma anche - anzi, specialmente - se la condotta era sorretta da una particolare finalità, che la norma descrive dettagliatamente.
Dalla definizione di tortura della Convenzione, quella della proposta di legge in esame si differenzia tuttavia parzialmente, in primo luogo sotto il profilo del soggetto attivo del reato. Mentre la prima configura un reato proprio, cioè un reato che può essere commesso esclusivamente da «un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisce a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito», la seconda, invece, configura un reato comune, in quanto il reato può essere commesso da chiunque. La portata della nozione di tortura della proposta di legge sarebbe dunque anche più ampia di quella della Convenzione. Si tratta di una scelta che, se è vero che rischia di ampliare eccessivamente la fattispecie di tortura fino a ricomprendervi anche ipotesi che forse sono estranee alla comune nozione di tortura, ha il pregio di ridurre sensibilmente quella area grigia del diritto penale che, in alcuni casi, finisce nel tradursi in una vera situazione di impunità. Su questo punto l'Assemblea potrà riflettere. Dovrà chiedersi se dalla circostanza che il soggetto attivo del reato non debba essere necessariamente un pubblico ufficiale od un incaricato di pubblico servizio possa derivare come conseguenza la possibilità di far rientrare nella fattispecie di tortura anche il caso in cui i patimenti disumani o le sofferenze gravi siano finalizzati ad ottenere dalla vittima informazioni circa un fatto attinente esclusivamente alla sua sfera privata ovvero a punire la medesima per avere commesso tale fatto. Occorre valutare se il delitto di tortura debba sostanziarsi comunque in un abuso dell'esercizio dei pubblici poteri ovvero se possa esaurirsi anche nell'ambito strettamente privato dei soggetti coinvolti. Nel primo caso, i soggetti passivi del reato verrebbero individuati unicamente in tutti coloro che possono trovarsi sottoposti all'esercizio del potere pubblico in una condizione, anche temporanea od occasionale, di limitazione della libertà, della quale si può illecitamente abusare al fine di ottenere informazioni o confessioni su fatti o atti commessi da loro stessi o da persone da loro diverse. Si ricorda, comunque, che la configurazione del reato come reato comune è dettata dalla esigenza di punire anche le cosiddette zone grigie, come possono essere le condotte di squadre paramilitari. È evidente che la scelta a favore della ipotesi del reato comune deve essere accompagnata da un impegno rigoroso nel circoscrivere la condotta e l'elemento soggettivo del reato in maniera tale che ad esso non siano riconducibili fattispecie del tutto estranee alla nozione di tortura.
Uno dei punti più delicati è quello relativo alla esclusione della punibilità del reato, nell'ipotesi in cui le sofferenze o i patimenti, in cui si sostanzia la tortura, siano inflitti come conseguenza di condotte o sanzioni legittime ad esse connesse o dalle stesse cagionate. In Commissione è stata respinta la tesi secondo cui, in ragione all'esigenza di evitare che la previsione del delitto di tortura si presti a letture strumentali che potrebbero essere a danno di coloro che lecitamente compiono attività di indagine giudiziaria o curano il trattamento di persone detenute, sarebbe opportuno precisare che il fatto non è punibile se sono inflitte sofferenze o patimenti come conseguenza di condotte o sanzioni legittime ad esse connesse o dalle stesse cagionate. Secondo la Commissione, invece, i principi generali dettati dal codice penale in materia di cause di giustificazione sono sufficienti per evitare applicazioni distorte della nuova normativa.
Per quanto riguarda la pena, l'esame in Commissione ha portato alla sua individuazione nella reclusione da 4 a 12 anni. Tale pena risulta essere aggravata quando il reato è posto in essere da un pubblico Pag. 78ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio ovvero se dal fatto deriva la morte o una lesione grave o gravissima.
Con questi caratteri, dunque, il provvedimento giunge in aula. Il relatore è consapevole che in questo caso più che in qualsiasi altro sarà la coscienza di ognuno e non le pregiudizialità ideologiche a fornire il criterio per il voto.
Con questa consapevolezza, dunque, siamo giunti in aula con spirito aperto, per discutere e valutare insieme. Ma anche per approvare una norma necessaria, per colmare un vuoto che rischia di essere un vuoto di civiltà.