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Seguito della discussione della mozione Bandoli ed altri n. 1-00041 sulle iniziative volte a sostenere l'approvazione, da parte dell'Assemblea generale dell'ONU, della Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni (ore 17,40).
(Dichiarazioni di voto)
PRESIDENTE. Passiamo alle dichiarazioni di voto.
Ha chiesto di parlare per dichiarazione di voto l'onorevole Bandoli. Ne ha facoltà.
FULVIA BANDOLI. Signor Presidente, ho chiesto di parlare per prima per dare atto al Governo di avere, attraverso la dichiarazione del viceministro Sentinelli, recepito la sostanza dell'insieme della mozione. Peraltro, anche le opposizioni ci hanno fatto pervenire, in questi giorni, rilievi ed emendamenti: l'emendamento che è stato citato, ad esempio, che noi abbiamo ritenuto di accogliere, è stato proposto dall'onorevole Paoletti Tangheroni, capogruppo di Forza Italia in Commissione affari esteri, la quale ha messo in rilievo come sia importante che anche tutte le popolazioni indigene dell'Africa siano comprese nella Dichiarazione.
Certo, quello che è accaduto dieci giorni fa nella III Commissione dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite ci preoccupa. Alcuni Governi di paesi africani (come Namibia e Botswana) stanno tentando di allungare i tempi per far saltare, io direi, la Dichiarazione che estende i diritti umani alle popolazioni indigene. Questo ci preoccupa perché i popoli indigeni avevano impiegato tanto tempo per arrivare ad un voto in Assemblea plenaria, che era ormai vicinissimo (mancavano venti giorni); ora, invece, tutto rischia di fallire.
So che il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, insieme ai rappresentanti dei popoli indigeni, sta lavorando per cercare di trovare un nuovo equilibrio. Perciò, è molto importante che il voto unitario di tutto il Parlamento italiano e di molti altri Parlamenti europei impegni il nostro Governo non soltanto ad esprimere un voto favorevole, ma anche a fare di tutto, ad adoperarsi, in queste settimane, affinché la Dichiarazione venga approvata nei tempi più brevi dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite.
Voglio anche ribadire che stiamo parlando dei diritti di 370 milioni di persone; quindi, di tante piccole minoranze, ma che insieme rappresentano un numero enorme di popoli e di cittadini, di uomini e di donne che in tutti questi decenni si sono visti privati del diritto a rimanere sulla loro terra, sono stati sfruttati e maltrattati, sono stati sradicati dalle loro culture e dalle loro religioni. Di conseguenza, ad essi spetta un risarcimento e un riconoscimento pieno di diritti che, per altri, sono già da molti decenni riconosciuti. Quindi, mi auguro che il Parlamento comprenda l'importanza del voto che sta esprimendo e che il voto sia unitario: anche alla luce dei contatti che ho avuto con i gruppi di opposizione, che ringrazio fin d'ora per il contributo che hanno offerto anche ai fini della modifica del testo della mozione.
PRESIDENTE. Prendo atto che l'onorevole Rampelli, che aveva chiesto di parlare per dichiarazione di voto, non è presente in aula.Pag. 83
Ha chiesto di parlare per dichiarazione di voto l'onorevole Francescato. Ne ha facoltà.
GRAZIA FRANCESCATO. Signor Presidente, colleghe e colleghi, noi Verdi sosteniamo con forza questa mozione, di cui è prima firmataria l'onorevole Bandoli, ma che è stata sottoscritta anche dal nostro gruppo (il capogruppo Bonelli ed io stessa vi abbiamo aderito). Riteniamo cruciale l'approvazione della Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni, adottata il 29 giugno 2006 dal Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite, che sarà sottoposta al voto dell'Assemblea generale speriamo in tempi brevi, nonostante le difficoltà a cui faceva cenno l'onorevole Bandoli. Qualcuno in quest'aula potrà pensare che si tratta di un problema minore, di secondaria importanza, ma non è così. Infatti, la valenza e la forza spirituale della cultura indigena - o di quello che è rimasto, dopo lo scempio che ne abbiamo fatto - ha un'importanza che va molto al di là dei numeri, peraltro scarni, sparuti. Parliamo di 370 milioni di soggetti, ma queste sono le persone che si considerano indigene perché hanno avi, radici, origini indigene, mentre, in realtà, gli indigeni veri e propri non superano i 50 milioni di persone nel mondo. Tuttavia, si tratta di un numero rilevante, per quanto oramai in via di estinzione. Parliamo, infatti, del 10 per cento della popolazione totale del globo: 550 differenti etnie e idiomi, 550 culture diverse, una biodiversità variegata e preziosa, che viene da lontano - molte comunità indigene vivono nello stesso territorio da secoli, da millenni - ma che, purtroppo, non sembra avere un futuro.
Come sapete, nel corso della storia la cultura indigena è stata sottoposta a spaventose devastazioni, a veri e propri genocidi - basti pensare a quello consumato dai conquistadores ai danni delle popolazioni precolombiane dell'America Latina -, genocidi e distruzioni che, purtroppo, continuano in tutto il mondo. Questo è un aspetto oscuro della globalizzazione, sono eventi devastanti che spesso si consumano nel silenzio dei media e nell'indifferenza dell'opinione pubblica. Vorrei soltanto evidenziare il caso della Colombia, che conosco molto bene perché i Verdi e gli ambientalisti inviano ogni anno una delegazione a monitorare la situazione in quel paese, che è un vero e proprio regime sotto il dittatore Uribe. In Colombia ci sono 86 popolazioni indigene, che sono sottoposte a delle vere e proprie «spade di Damocle»: l'attacco ai loro territori ancestrali da parte di multinazionali o gruppi di interesse per impadronirsi di risorse preziose (petrolio, legname, oro, non ultima l'acqua), la distruzione fisica. Vorrei fornire un solo dato: la popolazione Cancuamo della Sierra Nevada di Santa Marta è composta da 12 mila persone; con l'uccisione di chiunque si opponga al regime di Uribe, che avviene ad un ritmo di 200 persone l'anno, nel giro di qualche decennio sarà letteralmente estinta.
Laddove non arriva l'assalto ai territori e la distruzione fisica, c'è, ahimè, l'arma di distruzione di massa della disintegrazione culturale e chiunque di noi abbia lavorato con i popoli indigeni in America Latina o nel resto del mondo sa quanto quest'arma ne abbia eroso l'identità culturale e indigena.
Tuttavia, di fronte a quest'assedio martellante, c'è una reazione positiva, decisa e ferma da parte delle etnie indigene. Da qualche decennio, assistiamo, infatti, ad una riscossa dei popoli indigeni, alla volontà di recupero della propria identità stravolta ed erosa, a cominciare dal riconoscimento del proprio territorio ancestrale; il legame tra identità culturale e madre terra (in America Latina la chiamano la Pachamama) è il dato primario della cultura indigena.
Grazie al cielo, abbiamo assistito e assistiamo al varo e al consolidamento di alleanze di popoli indigeni nelle varie nazioni e continenti. Un lavoro condotto, ovviamente, in prima persona dalle comunità indigene, ma con il supporto di un'ampia costellazione di movimenti ecologisti, difensori dei diritti umani, ONG, senza dimenticare istituzioni internazionali, come l'International Fund for Agricultural Development (IFAD), che opera a Pag. 84sostegno di progetti per le comunità indigene nel mondo e finora ha finanziato più di 954 milioni di dollari in vari paesi del mondo.
Questa azione è oggi rafforzata grazie al neocostituito gruppo di supporto tra le agenzie delle Nazioni Unite sulla questione indigena, presieduto dall'IFAD (vi rimando, a questo proposito, agli atti del meeting annuale che si è svolto a Tivoli, dal 15 al 18 settembre di quest'anno).
Si dovrebbe fare un discorso a parte sulla nostra cooperazione internazionale e nazionale, mirata al sostegno del popoli indigeni, ma non mi voglio dilungare. Si tratta di una questione complessa e delicata, che affronteremo in un altro momento. Mi limito a far rilevare che noi Verdi, da tempo, abbiamo varato anche progetti autonomi di cooperazione (penso ai progetti varati dal nostro capogruppo Angelo Bonelli nell'Amazzonia brasiliana), o a quelli che abbiamo portato avanti in Ecuador, dove, tra l'altro, ha svolto un ruolo molto nefasto, insieme ad altre grandi multinazionali petrolifere, anche la nostra ENI, che ha violato diritti umani ed ambientali senza pensarci due volte e senza, naturalmente, permettere che questo genere di notizia arrivasse nel nostro paese.
Sono progetti che mettono al centro la difesa della natura di madre terra e dei suoi custodi, appunto i popoli indigeni, che, da millenni, sanno come vivere in armonia con gli ecosistemi. Sono loro i nostri veri maestri di sviluppo sostenibile e da loro abbiamo molto da imparare.
Per questo motivo, noi Verdi voteremo a favore di questa mozione e, in questa occasione, rinnoviamo il nostro impegno a tradurre in progetti e strategie concrete i principi contenuti nella Dichiarazione (Applausi dei deputati del gruppo Verdi).
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare per dichiarazione di voto l'onorevole Forlani. Ne ha facoltà.
ALESSANDRO FORLANI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, la Dichiarazione sui diritti dei popoli indigeni, risultato di complesse trattative durate molti anni, rappresenta uno strumento di portata storica per il progresso dei diritti e della dignità dei popoli indigeni nel mondo. Essa, infatti, è stata redatta e dibattuta formalmente per più di 20 anni, prima di essere adottata il 29 giugno 2006, in occasione della sessione inaugurale del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite. La Dichiarazione sancisce il diritto dei popoli indigeni a mantenere e a rafforzare le proprie istituzioni, culture e tradizioni, nonché il diritto a perseguire la forma di sviluppo più adatta ai loro bisogni e aspirazioni; fa riferimento, tanto a livello individuale che collettivo, ai diritti culturali di identità, al diritto all'educazione, alla salute, alla lingua; afferma che i popoli indigeni hanno diritto di godere pienamente di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali, sia come individui che come collettività, secondo quanto riconosciuto dalla Carta delle Nazione Unite, dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo e dalla normativa internazionale sui diritti umani.
I popoli e gli individui indigeni devono essere liberi ed uguali a tutti gli altri popoli e individui e non devono essere, dunque, discriminati, in alcun modo, nell'esercizio dei loro diritti, in particolare di quelli che fanno riferimento alle loro origini e alla loro identità. La Dichiarazione condanna quindi la discriminazione contro di essi, ne promuove la partecipazione piena ed attiva in tutti gli ambiti che li riguardano nonché il diritto a diversificarsi e a perseguire il proprio approccio in materia di sviluppo economico e sociale.
Diciassette dei quarantacinque articoli della Dichiarazione riguardano la cultura indigena e le relative forme di tutela e promozione, rispettando il diritto dei popoli indigeni ad intervenire a livello decisionale e permettendo l'accesso a varie forme di risorse, come quelle finalizzate all'insegnamento delle lingue indigene.
La Dichiarazione conferma inoltre il diritto all'autodeterminazione dei popoli indigeni, in virtù del quale possono sancire liberamente il loro status politico e perseguire il loro sviluppo economico, sociale Pag. 85e culturale. Ne riconosce i diritti ai mezzi di sussistenza e alle terre, ai territori e alle risorse, nonché il diritto a chiedere un equo e giusto risarcimento se privati dei propri mezzi di sostentamento e di sviluppo. Essi hanno diritto quindi a preservare e rafforzare le proprie differenti istituzioni politiche, giuridiche, economiche, sociali e culturali e, nello stesso tempo, a partecipare attivamente, qualora lo vogliano, alla vita economica, sociale e culturale dello Stato in cui vivono.
Le dichiarazioni delle Nazioni Unite non sono, com'è noto, legalmente vincolanti; tuttavia, se adottata, la dichiarazione assume un valore molto importante di indirizzo politico per i diversi paesi del mondo. La Dichiarazione in oggetto stabilisce parametri importanti nelle relazioni con i popoli indigeni e si rivelerà senza dubbio uno strumento fondamentale per l'eliminazione delle violazioni dei diritti umani nei confronti degli oltre 370 milioni di persone indigene presenti nel mondo, sostenendole nella lotta contro la discriminazione e l'isolamento, favorendo il dialogo e la reciproca collaborazione fra le diverse popolazioni.
Onorevoli colleghi, è questo un momento di grande confusione, nel quale a volte sembrano prevalere tendenze alla chiusura, alla discriminazione, all'esasperazione in senso negativo delle diversità, alla diffidenza e, quindi, al mancato riconoscimento dell'estensione a tutti di certi benefici e di certe opportunità in ordine all'accesso a tutte le risorse e ai diritti fondamentali. Un momento nel quale molto spesso prevale la tendenza alla discriminazione per motivi identitari, etnici e linguistici, nonché ad una diffusa paura della diversità, legata alle tante conflittualità e precarietà che si registrano nel mondo.
Per quanto finora esposto, non posso non dichiarare il voto favorevole del gruppo dell'UDC sulla mozione presentata dalla collega Bandoli, che impegna il Governo del nostro paese a sostenere l'approvazione della Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni e ad adoperarsi fattivamente affinché la stessa sia approvata dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite.
La collega Bandoli ha anche acconsentito ad una modifica del testo originario, ammettendo che la formulazione avrebbe potuto comportare un'esclusione - da noi non accettabile - di alcune popolazioni dell'Africa nella determinazione dei requisiti necessari per l'individuazione dei popoli indigeni.
Anche a seguito di tale modifica, dichiariamo il nostro voto favorevole sulla mozione in esame.
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare per dichiarazione di voto l'onorevole Mantovani. Ne ha facoltà.
RAMON MANTOVANI. Signor Presidente, intanto ritengo che il rinvio deciso in sede di Nazioni Unite costituisca un fatto molto grave.
Non è vero che il rinvio è stato deciso per permettere di approntare decisioni che consentano di estendere il contenuto della Dichiarazione anche a popolazioni africane. Vi è un fronte ben preciso che guida i contrari all'approvazione di questa risoluzione, capitanato dagli Stati Uniti e dall'Australia. Seguono poi alcuni paesi che si prestano, anche per interessi specifici, a combattere contro l'approvazione di tale risoluzione delle Nazioni Unite.
La risoluzione delle Nazioni Unite interviene su una questione che è venuta alla luce oramai da alcuni decenni, come correttamente altri colleghi hanno detto. Si tratta del riconoscimento, innanzitutto, dell'esistenza dei popoli indigeni e conseguentemente dei diritti che essi hanno, in qualsiasi Stato-nazione essi si siano trovati a dover vivere dopo le conquiste coloniali da parte del tanto osannato Occidente o, per meglio dire, dei paesi attualmente membri dell'Unione europea.
Negli ultimi anni è venuta alla luce una questione di particolare gravità: una cosa è non riconoscere i diritti culturali, ancestrali, il rapporto con la terra, gli usi e i costumi di popolazioni, diciamo così, lontane dalle metropoli, anche dei paesi colonizzati, Pag. 86e quindi usare nei loro confronti una certa discriminazione, trattarle come cittadini di serie B, come paria, ma comunque, oltre a colonizzarle culturalmente, lasciarle tuttavia sopravvivere nelle terre in cui vivevano. Esiste però un nuovo criterio di sfruttamento introdotto almeno negli ultimi 20 o 25 anni sui territori nei quali abitano queste popolazioni indigene, o buona parte di esse: parliamo dello sfruttamento di certe risorse di primaria importanza come quelle energetiche, e parliamo soprattutto dello sfruttamento di una risorsa che è entrata a far parte del ciclo economico, cioè della biodiversità.
Fa venire la pelle d'oca alla Chiesa cattolica, per esempio, il fatto che il genoma di piante ed animali possa entrare nel ciclo economico come se si trattasse di una materia prima qualsiasi, di una materia prima inerte.
Peccato che molte di queste popolazioni indigene vivono in territori che sono i più ricchi in biodiversità, e sono quindi sottoposte ad un duplice attacco, una duplice minaccia: quella storica, che le discrimina, e quella modernissima, che tende a rimuoverle da quei territori sui quali loro vantano diritti di proprietà, affinché su quelle terre si possa sviluppare appieno questo tipo di sfruttamento.
Queste popolazioni corrono il rischio di sparire, cioè di essere disperse nella loro identità, e di essere espulse dal loro territorio. Ciò ha originato una nuova generazione di lotte per difendere l'identità e i diritti di queste popolazioni indigene. L'esempio più conosciuto in Europa è quello messicano degli Zapatisti, fatto proprio anche da tutto il Congresso nazionale indigeno messicano, che è stato oggetto di una rivolta, che è stato oggetto di una trattativa di pace tra il Governo e gli esponenti della guerriglia, che è stato oggetto di un accordo di pace, accordo di pace che è stato sempre disatteso dai due governi che si sono succeduti, o per meglio dire, dal primo Governo che l'ha firmato e dal Parlamento eletto insieme al Presidente Fox, che ha disatteso quegli accordi.
Oggi la questione rimane irrisolta: insistono su quel territorio gli interessi economici di multinazionali, in gran parte europee, che hanno tutto l'interesse a far sparire dalla faccia della terra queste popolazioni, magari mandandole ad ingrossare le favelas che si trovano nelle grandi metropoli capitali dei paesi del terzo mondo, ed insiste ancora su quei territori una repressione contro qualsiasi forma di ribellione nei confronti di questo destino, che sembra assegnato a tali popolazioni da parte della globalizzazione capitalistica contemporanea.
Ecco perché è un fatto molto negativo che la III Commissione dell'Assemblea delle Nazioni Unite abbia rinviato la decisione ed ecco, altresì, perché è importante, colleghe e colleghi, dire chiaramente che da due legislature tutti noi, tutta questa Assemblea, tutti i gruppi parlamentari conducono una battaglia su tale questione. Questione peraltro portata avanti anche attraverso forme parlamentari inusitate ed inconsuete. Durante il Governo di centrosinistra, dal 1996 al 2001, per due o tre volte il Governo è stato messo in minoranza all'unanimità dal Parlamento sulla ratifica del trattato commerciale e politico dell'Unione europea con il Messico, esattamente perché il Governo messicano non riconosceva il diritto delle popolazioni indigene. Analogamente, nell'ultima legislatura, centinaia di parlamentari, tanto della maggioranza quanto dell'opposizione, hanno assunto e sviluppato iniziative con riferimento al Messico e ad altri paesi, come la Colombia, dove i diritti di questi popoli sono minacciati.
Dunque, nel dichiarare un voto favorevole su questa mozione, nel ringraziare la collega Bandoli per aver assunto l'iniziativa e nel ringraziare, altresì, il Governo per avere fatto propri i contenuti della parte dispositiva della mozione, auspico che il Parlamento continui a sviluppare le iniziative opportune affinché, in un paese o in un altro, vengano per la prima volta pienamente e totalmente riconosciuti i diritti di questi popoli. Mi riferisco anche a quei diritti che sono in contrasto con un altro presunto diritto, quello delle società multinazionali a sfruttare risorse minerarie, biodiversità ed esseri umani. Esseri Pag. 87umani che non hanno alcuna colpa, né con riferimento alla presunta modernità di cui sarebbero portatrici le società multinazionali né, tantomeno, per quanto riguarda il dominio secolare cui sono stati sottoposti dalla cosiddetta civiltà occidentale (Applausi dei deputati del gruppo Rifondazione Comunista-Sinistra Europea).
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare per dichiarazione di voto l'onorevole Evangelisti. Ne ha facoltà.
FABIO EVANGELISTI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, lo scorso 24 novembre è morto a Vancouver, nella provincia canadese della Columbia britannica, Frank Calder.
Calder era una persona eccezionale; vorrei che oggi, ad un mese e qualche giorno dal decesso, e soprattutto a tante migliaia di chilometri di distanza, lo potessimo in qualche modo ricordare. Calder era il presidente della comunità degli indiani d'America della tribù Nishgas; il suo nome venne alla ribalta alla fine degli anni Sessanta dello scorso secolo in occasione delle rivendicazioni dei nativi d'America sui territori che i bianchi intendevano sfruttare per le attività agricole, industriali ed estrattive.
Guardate, colleghi, che quando il Governo coloniale di sua maestà la regina Vittoria si scontrò con gli indiani di quella remota parte del mondo a metà dell'Ottocento, ebbe almeno la sensibilità e l'accortezza - si fa per dire! - di stipulare con loro dei trattati di pace. In virtù di tali trattati, gli indiani cedevano il diritto di sfruttamento e di stanziamento su enormi porzioni di terra - terra fertile e ricca per il pascolo - e in cambio ottenevano le riserve e piccoli indennizzi.
Con il passare degli anni, gli indiani si accorsero che quei trattati erano la loro prigione; all'interno di quelle riserve, essi vivevano in povertà e nell'ignoranza dei loro diritti e delle cause delle loro malattie. Verso la metà degli anni Sessanta del XX secolo, finalmente cominciarono a prendere coscienza della loro condizione, grazie anche all'opera di alcuni coraggiosi antropologi e avvocati pionieri dei diritti umani, come Thomas Berger.
Fatto sta che, ad un dato momento, la provincia della Columbia britannica volle sfruttare le montagne e le praterie dei Nishgas; Frank Calder si accorse che, per quelle zone, non esisteva un trattato di pace; le autorità canadesi, quindi, ritenevano che per lo sfruttamento di quelle zone non vi dovesse essere alcun indennizzo e che gli indiani non potessero vantare alcun diritto. Ma Calder pensava proprio l'opposto: senza trattato, quelle terre appartenevano ancora ai nativi sicché tutte le industrie, le coltivazioni ed i pozzi dovevano ritenersi motivo di occupazione illegittima dei terreni e quindi di indennizzo.
Le autorità della provincia, comunque, non vollero sentire ragioni. Calder, allora, primo indiano in assoluto a compiere un simile passo, andò da un avvocato, Berger appunto, e citò per danni il Governo della provincia. In primo grado e in appello la sorte non gli arrise: nonostante dibattimenti preparati meticolosamente, prove storiche ed antropologiche inoppugnabili, argomenti giuridici raffinati, le corti di merito dettero torto a Berger ed ai suoi assistiti. Ma persa per persa, Calder decise di portare la sua causa fino ad Ottawa, alla Corte suprema del Canada, a migliaia di chilometri di distanza. Ebbene, colleghi, nel 1973 la Corte suprema del Canada gli dette ragione, riconobbe per la prima volta il cosiddetto titolo aborigeno, vale a dire il diritto originario dei nativi sulla propria terra. Fu una rivoluzione politica, giuridica e culturale. Calder, da quel momento, diventò una personalità imprescindibile per tutti i nativi e, poi, in sostanza, per tutta la Columbia britannica. Divenne il primo indiano membro dell'Assemblea legislativa della Columbia stessa e, poi, membro del Governo provinciale. La giurisprudenza delle corti canadesi, da allora, riconosce il titolo aborigeno e ciò è una garanzia fondamentale per le popolazioni originarie. Nel 1982, con l'adozione della Costituzione canadese, ovvero la Carta dei diritti e delle libertà, è stato introdotto, all'articolo 35, il principio del rispetto dei Pag. 88diritti dei popoli autoctoni, sia per titolo originario, sia per trattato. Del resto, proprio l'istituzione del nuovo territorio del Nunavut, sulla baia di Hudson, testimonia tale attenzione alle popolazioni aborigene.
L'esempio del Canada è, quindi, un bell'esempio, cui sarebbe auspicabile si adeguassero i Governi che hanno a che fare con le minoranze e con popolazioni originarie; penso agli indios dell'America latina; penso al popolo Ùwa in Colombia, oggetto di feroci persecuzioni e sottrazione di risorse, come testimonia Rigoberta Menchu, premio Nobel per la pace; penso anche all'Africa, ancora sotto il giogo della fame e dell'AIDS.
L'Italia dei Valori, signor Presidente, voterà pertanto a favore di questa mozione, che avrebbe già voluto il Governo impegnato a sostenere ed a votare a favore della Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni. Non basterà certamente per sollevare dall'oppressione milioni di persone, ma è un primo passo necessario e noi vogliamo che il Governo italiano contribuisca a compierlo (Applausi dei deputati del gruppo Italia dei Valori).
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare per dichiarazione di voto l'onorevole Carlucci. Ne ha facoltà.
GABRIELLA CARLUCCI. Signor Presidente, preannunzio il voto favorevole del gruppo Forza Italia, perché è, in sostanza, un atto dovuto, in quanto si tratta di una Convenzione delle Nazioni Unite che tutela i diritti delle popolazioni indigene. Si tratta di popolazioni che, in gran parte, a causa della loro organizzazione sociale e delle scelte e dei valori di base attorno a cui hanno organizzato il proprio stile di vita sono talvolta escluse dai processi della globalizzazione. Quindi, tali indigeni sono tuttavia, proprio per tale motivo, portatori di valori di notevolissima importanza per tutta l'umanità, che si sta progressivamente ed inesorabilmente omologando. Sono, evidentemente, un contesto ed una tematica estremamente delicati e sensibili. Si tratta, infatti, di procedere sul filo di un affilatissimo rasoio con il rischio, da una parte, di finire nella logica della riserva e, dall'altra, di far precipitare tali popolazioni in un pericolosissimo degrado, che potrebbe vedere le stesse popolazioni vittime di fenomeni di alcolismo e di droga.
Pertanto siamo consapevoli delle difficoltà di arrivare ad un testo che tenga conto di tutte le istanze delle diverse popolazioni indigene, tuttavia abbiamo rilevato che, così com'era stata presentata, la Convenzione rischiava di escludere una notevole parte di popolazione africana. Le perplessità su tali rischi sono state accolte e fatte proprie dalla relatrice, onorevole Bandoli, fatto del quale noi siamo molto soddisfatti e per il quale la ringraziamo.
Chiediamo pertanto di apporre la nostra firma alla mozione in esame ed annunziamo il nostro voto favorevole.
PRESIDENTE. Sono così esaurite le dichiarazioni di voto.