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Comunicazioni del Governo sulla vertenza in atto tra editori e giornalisti.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca: Comunicazioni del Governo sulla vertenza in atto tra editori e giornalisti.
Dopo le comunicazioni del ministro del lavoro e della previdenza sociale avrà luogo la discussione.
Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi è pubblicato in calce al resoconto stenografico della seduta del 16 gennaio 2007.
(Intervento del rappresentante del Governo)
PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il ministro del lavoro e della previdenza sociale.
CESARE DAMIANO, Ministro del lavoro e della previdenza sociale. Signor Presidente, onorevoli colleghe, onorevoli colleghi, per quanto riguarda la vertenza dei giornalisti, voglio ricordare che il contratto nazionale di lavoro del settore, stipulato tra la Federazione italiana degli editori e la Federazione nazionale della stampa, è scaduto il 28 febbraio 2005. Esso ha recepito il modello di contrattazione previsto dal protocollo governativo del luglio 1993 e, quindi, ha previsto che la parte normativa dell'accordo avesse una durata quadriennale e la parte economico-retributiva una durata biennale. Il contratto prevedeva, altresì, una parte obbligatoria che, per alcuni aspetti, regolava la condotta delle parti contraenti. Quindi, si può dire che il contratto dei giornalisti è scaduto da 689 giorni. I giornalisti professionisti contrattualizzati sono circa 12 mila, i lavoratori e le lavoratrici che si occupano di informazione e non hanno un contratto di lavoro standard sono circa 20 mila. Dai dati del bilancio consuntivo 2005 dell'INPGI, l'ente di previdenza del settore, emerge che 21.171 sono gli iscritti alla gestione separata, dei quali 15 mila sono iscritti solo alla gestione separata, e tra questi più di 8 mila non raggiungono i 5 mila euro di reddito annuo, mentre diverse centinaia superano di gran lunga i centomila euro. Possiamo, dunque, rilevare che il panorama dell'occupazione del settore giornalistico è piuttosto variegato. Accanto alle collaborazioni illustri, vi è un gran numero di lavoratori precari, i quali non possono godere né di un credito da collaborazione elevato, né di un contratto di lavoro stabile, subordinato, a tempo indeterminato o determinato.
Qual è la posizione delle parti a proposito di questa, ormai lunga, vertenza? I giornalisti sono disponibili ad aprire un confronto per il rinnovo del contratto senza alcuna pregiudiziale. La Federazione dei giornalisti non ha individuato alcun punto della propria piattaforma rivendicativa che non sia trattabile. La Federazione è disposta a rivedere il meccanismo delle percentuali degli scatti di anzianità biennali, a fronte di un'opera di chiarificazione sulla posizione organizzativa e professionale di quei lavoratori che oggi si collocano nella «zona grigia» tra rapporto autonomo genuino e lavoro subordinato. Essa teme che l'eccessivo impiego di giornalisti cui non si applica il contratto standard metterebbe a rischio l'autonomia e l'indipendenza dell'informazione. I giornalisti affermano, inoltre, che l'editoria italiana è sicuramente in grado Pag. 74di sostenere l'impegno economico che deriverebbe dalla stipula del contratto nazionale da loro proposto, perché la stessa editoria opera in un mercato protetto e gode di finanziamenti statali: 700 milioni di euro l'anno, secondo la Federazione dei giornalisti, 460 milioni di euro, secondo la Federazione degli editori.
Per quanto riguarda gli editori, essi si sono dichiarati, sin qui, non disponibili ad aprire una trattativa: la federazione considera troppo distanti le posizioni e quindi, a suo dire, da un eventuale confronto formale con la controparte non sortirebbe alcun utile effetto.
Secondo gli editori, il modello di contratto proposto dai giornalisti, se dovesse entrare in vigore, aggraverebbe le difficoltà gestionali delle aziende, le quali finirebbero per non essere più in grado di mantenere l'equilibrio economico. Il numero di copie vendute copre soltanto una piccola parte dei costi e le nuove forme di comunicazione (ad esempio, freepress, Internet, e così via) stanno erodendo la quota di mercato pubblicitario della carta stampata.
Sempre secondo la federazione degli editori, lo schema di contratto proposto dai giornalisti ingessa l'organizzazioni dei giornali e stravolge la funzione assolta da lavoro autonomo. Per mantenere in vita le aziende, gli editori chiedono la flessibilità del lavoro (ad esempio, introducendo la mobilità dei giornalisti all'interno del gruppo editoriale e raffreddando gli automatismi retributivi, o considerevoli scatti biennali che derivano dal contratto).
Quanto alla posizione del Ministero, il ministro del lavoro, consapevole che il rinnovo di un contratto collettivo di lavoro attiene alla sfera del diritto comune e rientra nelle precipue prerogative dell'autonomia privata collettiva, considerata la situazione di stallo assunta dalla trattativa, e considerati i rischi di ordine sociale sui lavoratori e sull'informazione che si andavano profilando con l'accendersi del conflitto, ha ritenuto opportuno offrire alle parti, fin dall'inizio del suo incarico, la propria opera di mediazione istituzionale. L'11 luglio del 2006, il ministro del lavoro ha incontrato separatamente le delegazioni dei giornalisti e degli editori. In quella sede, l'organizzazione degli editori ha espresso il proprio avviso circa l'impossibilità, in quella circostanza, di aprire un tavolo di confronto con la controparte. Sono seguiti diversi inviti e convocazioni, rivolti dal ministro alle parti stipulanti al fine di far precisare le rivendicazioni e di proporre possibili soluzioni di avvicinamento. Da parte degli editori, però, detti inviti sono stati sistematicamente declinati.
Non avendo il ministro intenzione di interferire nell'autonomia negoziale delle parti attraverso l'attivazione di strumenti cogenti, l'azione di moral suasion dovrà necessariamente essere fatta rientrare nel più vasto ambito degli interventi e delle azioni che interessano, in primo luogo, il mercato del lavoro e gli ammortizzatori sociali del giornalisti, in secondo luogo, il loro sistema previdenziale e, infine, il sistema dell'editoria.
Lo scorso 9 gennaio, alla presenza del ministro, di Serventi Longhi e di Biancheri, in rappresentanza, rispettivamente, dei giornalisti e degli editori, si è insediato, presso il Ministero del lavoro, un tavolo tecnico di approfondimento sui temi del mercato del lavoro, del lavoro autonomo e degli ammortizzatori sociali del settore giornalistico. Gli incontri trilaterali proseguiranno a livello tecnico e provvederanno a condurre un'analisi sull'evoluzione dell'occupazione del settore giornalistico, sull'impiego delle diverse figure professionali - subordinazione, collaborazione, lavoro autonomo - e sul diverso patrimonio di tutele ad esso ricollegabile. Lo stesso tavolo provvederà, altresì, a proporre le opportune soluzioni alle criticità riscontrate.
Per quanto riguarda la previdenza dei giornalisti, presso il Ministero del lavoro si sta lavorando allo sblocco di due delibere dell'INPGI (la n. 6 del 2005, concernente la riforma dei requisiti pensionistici per mantenere l'equilibrio di gestione nel lungo periodo, e la n. 62 del 2006, concernente gli incentivi alle assunzioni dei giornalisti). La Federazione degli editori non toglie il proprio veto dai due provvedimenti. Pag. 75Infatti, in base al decreto legislativo n. 509 del 1994, le parti sociali devono ratificare le decisioni dell'ente previdenziale. Il predetto veto non viene tolto se, in cambio, non si ottiene, da parte degli editori, un riequilibrio della propria rappresentatività nella gestione dello stesso istituto.
Con la mediazione del ministro, è stato raggiunto un accordo tra le federazioni degli editori e dei giornalisti per il decollo della previdenza complementare: allo stato dei fatti, quest'ultimo rappresenta l'unico accordo concreto fin qui conseguito.
Infine, per quanto riguarda la riforma del sistema editoriale, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Riccardo Franco Levi, è impegnato, con il pieno coinvolgimento delle parti sociali, in un'opera di riordino del sistema dell'editoria, affinché quest'ultimo possa assicurare il pluralismo dell'informazione.
La finanziaria ha previsto a favore dell'editoria circa 410 milioni di euro. La gestione di queste risorse e il processo di ammodernamento del sistema editoriale costituiscono ottime occasioni di contatto tra le parti e, quindi, di riflesso, non possono non giovare alla vertenza sul rinnovo del contratto.
Nel corso della vertenza, infine, come normalmente avviene per regolare i rapporti di forza e misurare la capacità di resistenza della controparte, la Federazione dei giornalisti ha fatto ricorso, diverse volte, all'esercizio del diritto di sciopero. Il sindacato dei giornalisti ha affermato sedici volte questo strumento di autotutela degli interessi collettivi. Il primo sciopero si è verificato il 17 giugno 2005, l'ultimo, di tre giorni, 21-22-23 dicembre ultimo scorso, senza soluzione di continuità con le festività natalizie. Sono state inoltre poste in essere azioni fortemente simboliche, quali quelle, per esempio, di non firmare gli articoli e di protestare di fronte alle aule parlamentari.
Per favorire la ripresa delle trattative ed addivenire ad una soluzione della vertenza in parola sono intervenute le più alte cariche dello Stato, come il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che ha affermato che il rinnovo del contratto dei giornalisti è un diritto primario. Il Capo dello Stato si è augurato che si possa arrivare presto ad una soluzione soddisfacente anche nell'interesse del regolare svolgimento dell'attività di informazione. Il Presidente del Consiglio Prodi ha dichiarato di essere esterrefatto per l'intransigente posizione assunta dalla Federazione degli editori. Sono altresì intervenuti il Presidente del Senato e quello della Camera. I rappresentanti delle due federazioni sono già stati auditi informalmente dalla Commissione cultura della Camera dei deputati, il cui presidente è l'onorevole Folena.
Tuttavia, il Governo, che ha già avviato un accordo sulla previdenza complementare e un tavolo tecnico per quanto riguarda il mercato del lavoro, nonché un tavolo di confronto sulla previdenza dei giornalisti, conferma la disponibilità a favorire una ripresa del confronto ai fini della definizione del contratto e, in tal senso, rivolge un rinnovato appello alle parti interessate.
PRESIDENTE. Assistono ai nostri lavori due classi: una della Scuola media statale Ugo Foscolo di Perugia, l'altra dell'istituto tecnico Atestino di Este in provincia di Padova, cui la Presidenza e l'Assemblea rivolgono un saluto (Applausi).
(Discussione)
PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle comunicazioni del Governo.
È iscritto a parlare l'onorevole Caparini. Ne ha facoltà.
DAVIDE CAPARINI. Signor Presidente, in questi giorni di vertenza sindacale, ho sentito affermare che gli editori vogliono ampliare il precariato che, ora, è presente purtroppo nella stragrande maggioranza delle redazioni, per avere impiegati ricattabili e non giornalisti indipendenti. Rifiuto questa visione riduttiva e anche offensiva della categoria dei giornalisti, così Pag. 76come rifiuto la favola del giornalista indipendente, se ben pagato. La professionalità, la libertà, l'autonomia, l'indipendenza e la credibilità sono merce rara e, di sicuro, non hanno un prezzo. La storia del giornalismo è costellata di inchieste di collaboratori, di freelance, senza redazione o posto fisso. Infatti, sono molti quelli che hanno speso il loro impegno professionale nel racconto della realtà. Sono numerose le storie di reporter che hanno svolto il loro lavoro con coraggio e con passione. Ricordiamo Enzo Baldoni, il freelance assassinato nel deserto dell'Iraq o il giornalista Mauro de Mauro, trucidato dalla mafia per le sue inchieste sul golpe borghese. Ho citato due tra i tanti esempi possibili proprio per ricordare come contratto e tutele sindacali non fanno un buon giornalista e come, viceversa, la loro assenza non lo trasformino in un nulla che è acritico nei confronti dell'editore. Sentivo proprio la necessità di questa precisazione, doverosa nei confronti dei molti che, oggi, vivono di precariato, di contratti di collaborazione e che svolgono egregiamente il loro lavoro.
Sgombrato, quindi, il campo da equivoci, quella dei giornalisti è una legittima rivendicazione che non può diventare un alibi per coloro i quali si autocensurano. Occorre ora analizzare le cause di questa crisi, che ha visto protagonisti in negativo proprio uomini molto vicini alla sinistra e a questo Governo. Si è trattato di un fallimento dei padroni progressisti, di Luca Cordero di Montezemolo prima - ricordo che è stato lui ad aprire questa lunga vertenza - e dell'attuale presidente degli editori, quel Boris Biancheri invano sponsorizzato da Romano Prodi alla direzione dell'Ansa.
Il presidente della FIEG, lo abbiamo sentito in Commissione cultura, si è cimentato in un ardito parallelo tra la crisi del settore e quella di Alitalia. Ha paragonato le imprese e le società low cost a quelle su Internet e alle free press distribuite in molte città. Questo, evidentemente, palesa una carenza culturale di questa classe di editori che tali non sono, di gruppi economici il cui assetto editoriale è funzionale alle strategie di condizionamento della società, dei consumatori e della politica. In questi giorni abbiamo persino letto che la libertà di stampa e la libera scelta dell'informazione devono essere misurate in base al numero di copie vendute, di telespettatori, di radioascoltatori e di clic sul mouse. Si profilano, quindi, tempi cupi se si pretende di misurare la libertà di espressione, di racconto e di interpretazione in base ai bilanci o ai fustini di detersivo venduti. Mettere in discussione questo valore, come molti editori fanno, anche se a legittima difesa di comprensibili interessi economici, traccia il profilo di un'informazione a rischio di deriva, che non tocca solo i professionisti, ma l'intera società.
Nella visione dell'editoria dei Luca Cordero di Montezemolo o dei Boris Biancheri non vi è certo bisogno di inchieste, di approfondimenti o di dar conto di quanto realmente accade nel paese. Quelli sono inutili orpelli, inutili retaggi di un vecchio modo di fare giornalismo, a meno che non si voglia colpire il nemico di turno o blandire il compagno di scalata. Il punto è che la tecnologia digitale, il vero e proprio sconvolgimento epocale del mondo dell'informazione, che offre possibilità impensabili solo dieci anni fa, non è usata per accrescere la qualità dell'informazione, ma solo per fare economia e diminuire i costi. Non vi è certo bisogno di professionalità nel fare il taglia-incolla sul computer e allora porte aperte ad un esercito di giovani che non hanno tutele e che appena entrati in redazione vengono sbattuti al desk a fare cucito, senza che nessuno insegni loro un mestiere.
Sono profondamente mutate, quindi, le condizioni in cui si svolge il lavoro di giornalista, uno scenario senza più regole in cui il professionista deve tornare ad occupare un ruolo nevralgico. È questa la sfida che spetta ai giornalisti e a cui sono chiamati. È giunto il momento di riaffermare la loro identità e la loro autonomia, perché non riesco proprio ad immaginare un giornalismo che prescinda dal lavoro sul campo, dal rapporto diretto con la realtà, con i fatti da vivere e da raccontare. Pag. 77L'utilizzo consapevole, quindi, delle nuove tecnologie non è sostitutivo, ma può e deve essere uno strumento per arricchire il lavoro giornalistico. Questo supporto tecnologico diventa però pericoloso se non è sostenuto dall'intervento diretto della coscienza critica del giornalismo nel processo di traduzione della realtà. Rischia di accadere ciò che purtroppo troppo spesso accade oggi: una schiera di manovali della penna diventano strumento di un sistema sempre meno autonomo e credibile.
Colleghi, il mondo cambia mentre i nostri editori, purtroppo, sono sempre gli stessi.
Dopo il New York Times, che guadagna ormai più attraverso il web che non con la carta stampata, si conferma la tendenza, anche nei settimanali e nei mensili americani, ad abbandonare la carta stampata e a cambiare radicalmente il modo di fare giornalismo. Pensate che Time oltre che People, Sport Illustrated e Fortune hanno l'intenzione di tagliare nei prossimi mesi qualcosa come 150 posti di giornalisti e di responsabili editoriali. Si consideri che Time gode comunque di ottima salute: non effettuano tagli per motivi di crisi; semplicemente, si assume di più nelle redazioni che pubblicano le loro testate sul web che non in quelle tradizionali. Oggi, gli articoli di People - solo per citare un esempio - sono confezionati da sette persone - attenzione, non giornaliste - che poi consegnano i loro lavori ad un giornalista il quale verifica le fonti e poi dà il «Visto: si stampi». Quindi, è un mondo che sta cambiando radicalmente; sta cambiando, ad esempio, per la Time Warner, un colosso multimediale che ha deciso di chiudere tutti i suoi uffici di corrispondenza: quindi, non più segreterie, non più segretarie, ma solo inviati e giornalisti.
Ed è in tale ambito che si pone la sfida che attende il mondo del giornalismo; cambiano i mezzi, i supporti, la tecnologia a disposizione, ma restano i giornalisti: è quindi centrale la questione di come, dove e quando si formano, del ruolo dell'ordine professionale, di come interpretare il valore, alto ed irrinunciabile, dell'informazione.
In conclusione, porto due elementi di riflessione e di proposta.
Il primo è la perequazione interna alle redazioni. Un esperimento vissuto nel Corriere della sera alla fine degli anni Sessanta mi serve da spunto per esortarvi a fare qualcosa di sinistra puntando la vostra attenzione sulle talora ingiustificate differenze di trattamento all'interno delle relazioni tra gli sherpa ed i peones, tra quelli che stanno al desk e le presunte grandi firme.
Il secondo, invece, ci compete direttamente, riguardando il Parlamento in quanto è attinente alla cattiva interpretazione di una parte della riforma Dini del 1995, che intendeva assicurare una copertura previdenziale a coloro che, pur svolgendo un'attività giornalistica, non avevano un contratto di lavoro subordinato ed erano, quindi, ovviamente sprovvisti di qualsiasi tutela previdenziale. Stravolgendo l'intenzione del legislatore, è stato istituito l'ennesimo balzello, l'INPGI2. Si tratta di una norma insensata e totalmente iniqua, tanto per chi è vicino all'età della pensione quanto per chi inizia a lavorare oggi; di una contribuzione senza una contropartita, che servirà a tenere in piedi l'ennesimo baraccone di questa previdenza dei giornalisti, che è veramente al di sopra di ogni livello come prelievo effettuato sulla busta paga.
Come dicevo in premessa, quindi, i giornalisti sono lavoratori cui abbiamo il dovere di riconoscere tutti i diritti, anche quello di avere un costo del lavoro nella media europea; e ritengo che di questo il Governo si possa fare carico (Applausi dei deputati del gruppo Lega Nord Padania).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Carra. Ne ha facoltà.
ENZO CARRA. Signor Presidente, discutiamo di un contratto collettivo di lavoro che, come ha poc'anzi ricordato il ministro Damiano, deve essere rinnovato da 689 giorni; tra l'altro quello dei giornalisti è simbolicamente il primo contratto nazionale di lavoro firmato in questo paese, nel 1911. Non vorrei, signor ministro, Pag. 78fosse anche, a questo punto, l'alfa e l'omega della contrattazione nazionale di lavoro. Mi pare, infatti, che di ciò dobbiamo discutere.
Vede, una categoria che, ancora oggi - ho testé sentito al riguardo l'intervento del collega Caparini - viene ingiustamente ritenuta privilegiata, quella dei giornalisti, è ormai composta per lo più da precari.
Lei dirà, signor ministro, che questo è un aspetto del lavoro ormai costante e ordinario in questo paese: il precariato, il lavoro che cambia, il lavoro che cambia nome. Però, credo che questo sia un utile argomento, anche se grave, da approfondire da parte del Governo.
Lei, d'altra parte, ha parlato di veti imposti da una delle parti, dalla FIEG, addirittura su provvedimenti assunti all'interno dell'istituto di previdenza dei giornalisti, che, notoriamente, è pagato dai giornalisti stessi. Lo ha detto senza scandalo e anche questo è un segno dei tempi - se mi consente - perché in altri tempi osservazioni così prive di contraddittorio e senza punti esclamativi non ci sarebbero state.
Tutto ciò avviene in un sistema editoriale, che più di qualunque altro richiede modernizzazione e che ha sempre registrato le grandi novità, non soltanto nel nostro paese e nella nostra società, ma ovunque. Esso ha bisogno di modernizzazione e di innovazione tecnologica, rispetto alle quali, invece, siamo all'anno zero nell'ambito della contrattazione. Da una parte siamo all'inizio della fase industriale, dall'altra al massimo dello sviluppo tecnologico. Penso che anche questa sia una materia su cui riflettere.
Inoltre, se un sistema richiede altre innovazioni, ma è fermo nei reciproci arroccamenti delle parti, fa pagare dei costi che conosciamo. È chiaro, infatti, che negoziare significa anche rivedere e ammodernare, mentre stare fermi, in qualche modo, da qualche parte e in qualche misura, significa invecchiare.
Non si può stare fermi in un settore che deve rinnovarsi e in cui senza dubbio devono rinnovarsi anche le figure professionali e lo statuto dei giornalisti. Ci sono, ormai, in questo paese, due categorie di giornalisti: quelli propriamente detti e i precari. Bisogna prenderne atto. Non si può pensare che i precari, un giorno, potranno essere giornalisti regolarmente contrattualizzati.
Rinnovare il sistema editoriale in queste condizioni mi pare leggermente difficile. Si perdono posizioni e, naturalmente, ciò non dipende dal Parlamento, ma sicuramente, in qualche modo, dal Governo. Certamente, però, noi non possiamo entrare nella volontà degli editori, ma qualche cosa voi e noi insieme possiamo fare.
Vedete, stare fermi costa. Costa ai giornalisti, con i loro 16 giorni di sciopero, con lo sciopero delle firme e con una situazione di abiezione professionale che raramente avevamo visto. Si tratta di una eccezionalità che non definirei democratica, altrimenti qualcuno direbbe che tutto è una eccezionalità democratica in questo paese, ma che certamente è eccezionale.
Questa situazione non costa anche agli editori? Mi chiedo se uno sciopero del genere possa costare anche all'altra parte, perché ritengo che dall'altra parte qualche calcolo sia stato fatto e che abbia portato a pensare che, tutto sommato, l'indeterminatezza della trattativa e la non chiusura di essa facciano bene alla salute. Così non è e deve essere registrato, ma su questo fronte dovete fare qualcosa voi.
Lei ha parlato, signor sottosegretario, nelle nostre Commissioni, nelle settimane passate, prima di Natale, più e più volte della riforma del sistema editoriale e di tutto ciò che il dipartimento dell'informazione della Presidenza del Consiglio è riuscito, qualche volta in maniera fin troppo generosa e ambigua, a fare per questo settore. Certamente è necessario rivedere, ma, innanzitutto, è necessario fare. Penso ai 400 milioni fortunosamente trovati nella finanziaria per le provvidenze alle aziende editoriali: qualcuno eccepisce, non certamente da sinistra, che ci sono aziende editoriali che, forse, non ne avrebbero neanche diritto, essendo quotate in borsa. Non mi pare che sia stato qualche Pag. 79collega di Rifondazione comunista a scriverlo sul Corriere della Sera, più volte negli ultimi mesi.
Eppure le provvidenze continuano ad esservi e, tutto sommato, ne siamo ben felici.
Si parla tanto di eventuali futuri auspicati provvedimenti da prendere in seno ad una più generale legislazione di favore per l'innovazione tecnologica di cui, certamente, il sistema editoriale ha bisogno. Tutto ciò ha un costo, cioè che si chiuda la vertenza.
Da parte vostra è necessaria una riflessione seria e non superficiale. Avete qualche responsabilità in questo senso e gli editori devono sapere che le vostre responsabilità sono commisurate anche al loro grado di responsabilità. Se questo non vi sarà, la vostra responsabilità sarà diversa, come è diversa la nostra, che pure teniamo agli editori ed ai giornali. Non è possibile una situazione in cui ad una parte tutto è dovuto mentre l'altra deve, persino, giustificarsi e scusarsi dei propri scioperi.
Vi sono stati interventi (come ha ricordato il ministro Damiano), purtroppo solo in questa legislatura, dopo aprile (prima lo sciopero era nascosto), da parte del Presidente del Consiglio e dei Presidenti delle Camere. Il primo si è dichiarato esterrefatto, ma il vostro compito non è soltanto quello di rendere testimonianza e di rivolgere appelli, bensì di intervento e di proposta. Di questo vorrei sentirvi parlare. Un appello è davvero troppo poco. Il Governo può fare molto, può fare di più, ma può fare anche di meno. Lo faccia.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Testoni. Ne ha facoltà.
PIERO TESTONI. Signor Presidente, il gruppo di Forza Italia che rappresento rivolge un'attenzione particolare al problema del rinnovo del contratto dei giornalisti, aperto da troppo tempo. Abbiamo citato il numero di giorni: si tratta di quasi due anni. È una vertenza che è costata troppo alla categoria, ed ai giornalisti in particolare, e che - a nostro avviso - va chiusa al più presto nell'unico modo possibile: evitando (ed è la prima considerazione politica che mi permetto di svolgere) interferenze improprie e malaccorte che il Governo può fare ed ha fatto, rendendo più aspra e radicale la contrapposizione in atto.
Non voglio entrare nel merito - me ne guardo bene - delle richieste e delle rivendicazioni sindacali. Non voglio prendere parte allo specifico delle questioni in discussione ed in gioco, per le quali esistono sedi e ruoli appropriati, che sono solo quelli. Le parti vanno certamente incoraggiate al dialogo ed all'incontro, ma non vanno supportate o, magari, surrogate, nel merito dei problemi.
Ebbene, non mi pare che gli sforzi giustificazionisti del ministro del lavoro in Assemblea abbiano cancellato la sensazione che su tale vicenda (che, ricordiamolo, interessa milioni di italiani, i lettori ed i fruitori dell'informazione di oggi e di domani, oltre che le categorie direttamente interessate e coinvolte dei giornalisti, soprattutto, e degli editori) il Governo si sia mosso eliminando il sospetto di averlo fatto troppo e male, sino ad ora, senza un vero disegno ed una precisa strategia nella materia.
Il risultato è stato quello di fare incancrenire la situazione, provocando uno stallo tra le parti, che pure qualche mese fa avevano lasciato intravedere uno spiraglio. Aggiungo, anzi, che da un certo momento in avanti il movimentismo del Governo, l'enfasi che Palazzo Chigi ha dato anche indirettamente alla vicenda ha prodotto una serie di reazioni, attenuando le reali possibilità di uscire dallo stallo.
Non dico questo per propaganda, ma perché mi è parsa clamorosa la scarsa cautela, per non dire l'imperizia tecnica e politica manifestata da questo Governo quando ha mescolato, in maniera totalmente impropria, la questione del rinnovo del contratto dei giornalisti con la riforma delle pensioni, già deliberata dall'istituto nazionale di previdenza dei giornalisti italiani.
Si è trattato di una mossa pasticciata e confusa, che ha messo a rischio l'indipendenza Pag. 80dell'istituto previdenziale privato pagato dai giornalisti italiani, allarmando seriamente anche membri della vostra maggioranza. Ciò induce a rilevare che su tutta la materia il Governo si è mosso finora con una qualche pericolosa approssimazione o, peggio, con un'indiretta predilezione verso una delle parti in causa. In ogni caso, ci sarà modo e tempo per essere ancora più precisi.
I giornalisti ed i giornali sono certamente utili, anzi sono essenziali per la vita democratica del paese, di qualunque paese. Non sarà il partito della libertà a minimizzare un concetto di cui il Governo si è riempito la bocca, non riuscendo nel merito a cavare finora un ragno dal buco.
Cari colleghi, caro Presidente, il contratto di cui parliamo non è e non sarà un contratto come gli altri per la categoria dei giornalisti, per gli editori e le loro aziende e per il patrimonio più importante di tutti, quello dei lettori. A nostro avviso bisogna prendere atto con realismo e con misura dei cambiamenti avvenuti - ne hanno parlato anche membri della maggioranza - nel vasto universo della comunicazione. Infatti, i giornali non sono gemme preziose in un deserto, esiste un mondo dove si affermano e si confrontano sempre più imprese multimediali, con e senza giornali.
È paradossale che nel movimentismo disordinato di questo Governo una sola cosa sia emersa chiara: a nostro avviso, tra ministro e sottosegretario di competenza all'editoria, è risaltata una visione dei problemi rivolta più al passato che al futuro, con una concezione ottocentesca del mondo editoriale cartaceo, non attuale e proiettata in avanti.
Oggi, lo sanno soprattutto i giornalisti che vogliono restare protagonisti di questo grande processo culturale, i gruppi editoriali multimediali sono soprattutto dei gestori di contenuti; senza questa consapevolezza, caro ministro e caro sottosegretario, che provenite dal mondo sindacale e giornalistico - proprio per questo dovreste avere una maggiore sensibilità - rischiate di restare abbagliati da un mondo che non c'è più. Nel nuovo scenario dinamico e competitivo - italiano e mondiale - tutti i giornalisti hanno le loro buone e giuste ragioni da difendere, a sostegno di un contratto che ponga argine al crescente problema del precariato e dei collaboratori.
Il settore dell'editoria, però - è questa la seconda considerazione politica - ha bisogno come nessun altro di una convergenza bipartisan, perché non muove solo interessi, pur importanti, commerciali ed economici, ma è veicolo riconosciuto di circolazione di idee e di contenuti, dunque veicolo di cultura.
D'altronde, è questa la filosofia che ha ispirato tutti i progetti sull'editoria del precedente Governo e, in particolare - come ha spesso riconosciuto la maggioranza - il disegno di legge Bonaiuti.
Signor Presidente, colleghi, concludo il mio intervento affermando che non spetta a me dare suggerimenti o consigli, ma ribadire una richiesta politica che rispetti davvero il galateo di ogni seria trattativa sindacale e questa è una trattativa sindacale che deve rimanere seria. Dunque, dico al Governo che su questo tavolo poco si muove, meglio è.
Forza Italia è a favore di una soluzione contrattuale giusta ed equilibrata e c'è un solo modo per dimostrare che questa non è una nostra affermazione di circostanza sia pure detta in una sede solenne: ci dichiariamo pronti e disponibili, solo se richiesti dalle parti, cioè dagli interessati, a dare il nostro contributo con un rispetto autentico e non formale delle parti stesse. Ci pare che altri abbiano avuto poco di questo rispetto e lo abbiano esercitato male con enfatica ed inutile intermittenza, che anche oggi a mio avviso è stata dimostrata in quest'aula a danno dei giornalisti, a danno degli editori e delle loro imprese e, soprattutto, a danno dei lettori italiani (Applausi dei deputati del gruppo Forza Italia).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Folena. Ne ha facoltà.
PIETRO FOLENA. Signor Presidente, oggi, con un'iniziativa che non ha precedenti, il Parlamento si riunisce per discutere Pag. 81del contratto dei giornalisti e in noi di Rifondazione Comunista - e anche in me come presidente della Commissione cultura che si è occupata attivamente di questa vicenda negli ultimi mesi - vi è un assoluto rispetto dell'autonomia dei movimenti e anche di un libero conflitto, che tale deve rimanere, fra le parti sociali, perché la democrazia nasce nel conflitto fra le parti. Tuttavia è indispensabile oggi un forte atto politico del Parlamento e a questo fine molti di noi - insieme ai colleghi Giulietti, Falomi e Carra - avevano presentato sin dalle settimane passate una mozione precisa, che rimane agli atti e che presto dovremo esaminare e votare. Si tratta di un forte atto politico del Parlamento che sostenga un forte e deciso atto politico del Governo che fino ad oggi, con il ministro Damiano, si è comportato con determinazione - non voglio dirlo in polemica con il collega Testoni - dopo un lunghissimo periodo di latitanza politica da parte del Governo precedente terminato con le elezioni politiche del 2006, affinché si apra quanto prima e si tenga aperto ad oltranza il tavolo delle trattative. Perché è indispensabile un atto politico? È indispensabile perché sono messi a repentaglio dalla prepotenza degli editori - dobbiamo dire le cose con il loro nome e cognome - valori democratici di enorme rilievo.
La Federazione nazionale della stampa ha parlato persino di emergenza democratica; infatti, quando per sei giorni consecutivi non ci sono i quotidiani in edicola - sto parlando del periodo delle festività natalizie, quando non sono usciti sia per lo sciopero sia per le festività - salvo per il 90 per cento tutti quelli dell'opposizione di centrodestra, si verifica evidentemente un enorme problema democratico di pluralismo dell'informazione nel nostro paese.
Quali sono i valori democratici di enorme rilievo? Il primo è il contratto collettivo nazionale di lavoro (lo hanno detto sia il collega Carra sia il ministro Damiano); infatti, sono trascorsi due anni dal mancato rinnovo della trattativa. Quando nell'anno passato dopo lunghi mesi - quasi due anni - si concluse la vertenza dei metalmeccanici, molti di noi si impegnarono attivamente per uscire fuori dal silenzio che copriva una modesta, ma decisa, richiesta dei lavoratori metalmeccanici di vedere rinnovato il loro contratto. Abbiamo sentito chiaramente in Commissione cultura - non dico da parte dell'ambasciatore Boris Biancheri che è un'ottima persona, ma da parte degli oltranzisti della Federazione degli editori - l'esplicita volontà di cancellare il contratto collettivo nazionale di lavoro, indicando come esempi tutti gli altri paesi europei, facendo capire che l'Italia sarebbe un'anomalia.
Certo, l'Italia è una anomalia, insieme forse alla Germania, non solo per i giornalisti, ma per tante categorie di lavoratori. La contrattazione collettiva nazionale di lavoro è considerata un ferrovecchio ed il lavoro è sempre più schiavizzato, debole, precarizzato. Oggi occorrerebbe un contratto europeo di lavoro per tante categorie ed, invece, in molti paesi, grandi democrazie, la forza lavoro si contratta individualmente. Così, un lavoratore diventa un ingranaggio che viene schiacciato da questa macchina prepotente che vuole massimizzare il profitto e descrive la situazione del mondo dell'informazione come quella in cui il solo problema è il costo del lavoro.
In secondo luogo, vi è l'articolo 21 della Costituzione. Noi siamo in presenza di un contratto collettivo nazionale del lavoro e di una vertenza in un settore, al quale non si può guardare come ad un mero campo economico regolato dalle leggi del mercato. L'informazione è un bene comune tutelato dalla Costituzione; si garantisce la libera competizione tra privati in questo mercato e, tuttavia, tutti i privati che operano in esso sanno che vi è un limite non superabile, in qualche modo codificato nello stesso impianto della nostra Costituzione repubblicana.
Ebbene, nel momento in cui vengono messi in discussione il contratto collettivo nazionale di lavoro e le libertà dell'informazione, è del tutto evidente che si mina un valore molto importante. Infine, tutto ciò avviene quando gran parte di questi Pag. 82imprenditori ed editori predicano bene e razzolano male. I loro giornali sono pieni di editoriali che spiegano che bisogna tagliare il costo del lavoro, avere flessibilità e precarizzazione, che si è riformisti solo se si distruggono alcune garanzie ed alcune condizioni. Tuttavia, questi editoriali sono scritti con la mano destra perché con la mano sinistra si bussa alla porta della Presidenza del Consiglio, da anni, per avere finanziamenti.
Non me ne dolgo, ho un'altra opinione rispetto a quella del professore Giavazzi e non sono d'accordo con lui. Penso che l'editoria sia un settore che merita finanziamenti pubblici proprio perché vi è un bene comune che va tutelato. Tuttavia, non si possono usare finanziamenti pubblici, come ad esempio quelli delle tariffe postali per gli abbonamenti. Colleghi, anche in questo caso, quando si parla di finanziamenti pubblici, non ci si riferisce al Secolo d'Italia, a l'Unità, ai giornali di partito o a il Manifesto, bensì ai quattrini che Il Sole 24 Ore, il Corriere della Sera, il Resto del Carlino, la Repubblica, Il Messaggero e tutti grandi i gruppi privati ricevono dallo Stato.
Io credo nella regola per cui chi riceve soldi dallo Stato è in qualche modo chiamato ad un supplemento di attenzione rispetto ad un valore fondamentale, usando una parola un po' desueta, in questa sorta di ideologia e di «grande messa» che canta l'impresa come il cuore della società contemporanea. Tuttavia, il candidato della destra alle elezioni presidenziali francesi, Sarkozy, nel suo discorso di investitura dell'altro giorno ha detto che vuole rimettere al centro la parola «lavoro». Forse questa riscoperta, che viene anche da culture politiche molto lontane dalle nostre, magari un po' colbertiane - Presidente Tremonti? - e che mettono in critica una visione un po' povera della società e del mercato, prevalsa nel corso di tutti questi anni, dovrebbe essere tenuta in considerazione.
Le due grandi questioni esistenti in questa situazione sono, da un lato, la precarizzazione del lavoro giornalistico e dall'altra i fatturati di questi gruppi. Infatti, se fossimo di fronte a gruppi economici in enorme difficoltà da aiutare, saremmo in una condizione che non dico giustificherebbe il mancato rinnovo ma che obiettivamente sarebbe diversa.
Iniziando dal precariato, sono soltanto 12.500 i lavoratori dipendenti nelle più varie redazioni - dalla stampa ad Internet, dalla TV alla radio - a fronte di circa 30 mila lavoratori precari. I primi sono dati ufficiali dell'ordine dei giornalisti, i secondi vengono da una stima sugli iscritti alla cosiddetta gestione separata dell'INPGI, di cui si è già parlato, dove versano i contributi tutti i redattori parasubordinati e i collaboratori in diverse forme.
Gli iscritti alla cosiddetta INPGI 2, alla fine del 2005, sono risultati 22 mila; ma, fra questi ultimi, la vera fascia a rischio è composta da 10 mila lavoratori che non raggiungono i 700 euro lordi di compensi mensili.
Inoltre, i soli dati INPGI non bastano. Vi sarebbero diverse migliaia di giornalisti, che lavorano senza versare contributi di alcun tipo e che sono invisibili anche a queste statistiche. È il mondo del lavoro nero e del pagamento «a pezzo», ancora più sfruttato, ancor più dei contratti dei co.co.co o dei co.pro.co. A tutto ciò bisogna aggiungere 2.500 disoccupati.
Ora, nei gruppi Riffeser o De Benedetti (tanto per citare due esempi che possiamo definire bipartisan o, comunque, di colorazioni diverse) per un pezzo di corrispondenza regionale (noi abbiamo incontrato anche i lavoratori precari e non solo la Federazione nazionale della stampa in Commissione cultura) si paga un compenso pari ad un euro e mezzo, due euro e mezzo o tre euro! Allora, quel ragazzo che deve fare carriera (e che a trenta, trentacinque o quarant'anni deve ancora fare carriera) potrà essere un giornalista libero?
Il tema dei diritti dei lavoratori è importante per tutti i lavoratori e, nella nostra visione, è decisivo nell'ambito di un'idea di coesione sociale; ma quando si ha di fronte un bene come quello dell'informazione, Pag. 83tutelato dall'articolo 21 della Costituzione, tale tema riveste ancora maggiore importanza.
La FIEG ci ha inviato un dossier, in polemica con le nostre affermazioni, sostenendo che il precariato nel settore giornalistico è pari al 6,22 per cento, facendo riferimento alla percentuale di contratti a termine fra coloro che sono stati assunti. Poi, anche loro, però, sono costretti ad ammettere che 22 mila giornalisti - come ho già detto - ossia oltre la metà di tutti i giornalisti italiani, sono iscritti al fondo separato.
Quando vi sono tanti giornalisti che vivono con 7 mila euro l'anno si può legittimamente parlare di una proletarizzazione del lavoro culturale ed intellettuale che non conosce paragoni nell'epoca recente. Se a ciò aggiungiamo quanto succede in altri settori del lavoro culturale, ci rendiamo conto che vi è una generazione, che sta invecchiando, di giovani talenti e di ingegni, di capaci giornalisti, di creativi, di scrittori e anche di artisti che si trova a patire la fame, senza alcuna forma di protezione sociale.
A fronte di tutto ciò - e mi avvio alla conclusione - il mondo dell'informazione - come il sottosegretario Levi ha giustamente ricordato a più riprese in Commissione - è attraversato da cambiamenti profondissimi. Basti pensare a Internet ed alla sfida multimediale, che ha visto la riorganizzazione di alcuni gruppi, oppure alla free press: il dibattito francese di queste ore sulla crisi della stampa a pagamento è clamoroso ed in Francia si registrano similitudini impressionanti.
Tuttavia, i dati sono questi: la pubblicità, da gennaio a settembre 2006, è in crescita del 3 per cento; la stampa registra una crescita pari al 4,2 per cento (evidentemente, Internet corre al 48,8 per cento). I dati di novembre: stampa e pubblicità registrano un incremento pari al 3,7 per cento ed un fatturato da 1 a 8 miliardi. Per quanto concerne il gruppo Resto del Carlino-Riffeser-Poligrafici, che corrisponde i compensi che ho citato prima, vi è un utile netto di 2,7 milioni di euro al 30 settembre scorso. RCS porta i ricavi del 2006 a 2,3 miliardi. Per quanto concerne Caltagirone Spa, l'utile vola a più 119 per cento: vi sono ricavi in forte aumento con l'espansione all'estero. Per quanto riguarda il gruppo L'Espresso, il fatturato cresce a più 5,3.
C'è da domandarsi come mai il gruppo Caltagirone, per un verso, e il gruppo L'Espresso dall'altro, all'interno della Federazione degli editori siano gli oltranzisti che vogliono impedire il rinnovo del contratto.
PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE CARLO LEONI (ore 18,50)
PIETRO FOLENA. Credo che questa ideologia sia volta a rendere la forza lavoro (in questo caso la forza lavoro intellettuale) mera merce, per potere effettuare operazioni magari anche di diversificazione: abbiamo sentito parlare di interessi di alcuni di questi gruppi in tanti campi, dalla privatizzazione dell'acqua (per quanto riguarda il gruppo Caltagirone) a prospettive di privatizzazione in altri campi. Tutto ciò a mio modo di vedere merita una fermissima posizione politica.
Salutiamo con favore il fatto che la RAI, pur non facendo parte della FIEG, ha rotto il fronte e ha detto di voler concludere il contratto. Saluto con favore, inoltre, il fatto che anche editori come Grauso - non esprimo alcuna simpatia - o come un altro editore della provincia di Cremona hanno espresso le medesime dichiarazioni. Ci auguriamo che anche chi, più timidamente, ha subito la posizione degli oltranzisti della FIEG si dissoci. Noi andremo avanti e ne faremo una questione enorme, dato che il Parlamento dovrà affrontare la riforma dell'editoria. Se questa è la posizione degli editori, io credo che dobbiamo accelerare il processo che porta a questa riforma e vincolare sempre più chiaramente la erogazione dei finanziamenti alla lotta alla precarizzazione del lavoro e all'obiettivo della stabilizzazione dei lavoratori precari, come riportato nel testo della mozione che abbiamo presentato insieme al collega Giulietti e ad altri.Pag. 84
Da parte degli editori si chiede al Governo fermezza nella trattativa europea sulla direttiva «TV senza frontiere», fermezza che, in grande misura, vi è stata contro le impostazioni eccessivamente favorevoli alla televisione e ad un mercato pubblicitario che travolgerebbe la carta stampata. Non si può chiedere, però, fermezza e poi rifiutare financo di sedersi ad un tavolo delle trattative con una controparte, la Federazione nazionale stampa italiana, che ha già dichiarato che tutti i propri punti sono assolutamente negoziabili.
Per tutte queste ragioni, ribadiamo la nostra piena solidarietà a questi lavoratori e facciamo della stabilizzazione del lavoro precario nel settore giornalistico una grandissima battaglia. Chiediamo al Governo di essere conseguente, nelle prossime settimane. Il ministro Damiano ha tenuto un comportamento assolutamente ineccepibile, in questi mesi, nel perseguire con determinazione l'obiettivo di sbloccare la trattativa. Per nostra parte, anche in sede di Commissione cultura, senza condizionamenti e senza che ciò possa sembrare ritorsivo, agiremo dal punto di vista legislativo e normativo perché si dia una concreta mano a tantissime persone, decine di migliaia, che non riescono a vivere e che fanno la fame, pur avendo studiato e compiuto tanti sacrifici per poter realizzare una delle più grandi aspirazioni: credo, infatti, che quello di giornalista sia uno dei mestieri più difficili, ma anche uno dei più belli, che ci siano al mondo (Applausi dei deputati dei gruppi Rifondazione Comunista-Sinistra Europea e L'Ulivo).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Nardi. Ne ha facoltà.
MASSIMO NARDI. Signor Presidente, lo scontro in atto tra la Federazione dei giornalisti e la Federazione degli editori, proprio perché molto aspro, è un terreno sul quale la capacità di mediazione della politica deve sentirsi impegnata al massimo livello, beninteso non per imporre impossibili e antistorici diktat a chicchessia, ma per offrire un contributo di idee e di attenzione all'interesse generale del paese, oltre alle pur legittime aspettative delle parti in causa.
In questa Assemblea, le esigenze dei giornalisti e degli editori sono fortemente sentite anche perché, spesso, gli esponenti politici provengono dai ranghi delle imprese editoriali, giornalisti e non solo, ai vari livelli di responsabilità, con ruoli che hanno una particolare sensibilità per il dibattito delle idee. È addirittura ovvio ricordare che la politica tiene costantemente accesi i riflettori sul modo con il quale sono diffuse, o meno, le iniziative del proprio schieramento o di quello avversario. In questi ultimi mesi, anche per effetto dei numerosi scioperi proclamati dalla Federazione nazionale stampa italiana, sembra che lo scontro si svolga unicamente per il rinnovo del contratto di lavoro, scaduto, come giustamente ricorda il sindacato unitario dei giornalisti, due anni fa, per la precisione nel febbraio 2005.
Per la verità, questa non è la principale posta in gioco, almeno per quanto riguarda gli aspetti retributivi. Se fosse solo una questione di stipendi da ritoccare, devo ritenere che la vertenza si sarebbe già risolta positivamente, per lo più con reciproca, se non identica soddisfazione. I cittadini - noi con loro - non avrebbero subito l'assenza di vari quotidiani dalle edicole né la limitazione, appunto a causa dello sciopero, dell'informazione radiofonica, televisiva e via Internet. Per quanto siano importanti, non è solo questione di soldi. Non a caso, la Federazione degli editori ha ricordato che, già un anno fa, aveva proposto vantaggi economici per concludere la trattativa con il sindacato dei giornalisti, non riuscendo, tuttavia, a trovare ascolto nella controparte.
Lo scontro è così aspro perché si confrontano due strategie molto diverse tra loro e, si auspica, non destinate ad essere per sempre irriducibilmente contrapposte, entrambe con delle buone ragioni sul futuro della professione giornalistica, sul Pag. 85destino delle aziende editoriali, sulla trasformazione in atto dell'industria delle notizie.
Lo scontro sul contratto che non arriva non riguarda un rinnovo qualsiasi, ma più in generale la libertà del giornalismo italiano. Il 30 giugno 2005 il consiglio d'amministrazione dell'INPGI approvò, con il concorso della Federazione degli editori, la riforma previdenziale sollecitata dallo stesso ministro del lavoro. La delibera si è poi arenata perché gli editori non hanno ancora hanno espresso in sede sindacale il parere previsto dal decreto legislativo n. 509 del 1994. Un parere che non arriva in quanto la Federazione degli editori ritiene che la questione della previdenza, e quindi dell'INPGI, debba essere risolta nell'ambito del rinnovo del contratto di lavoro.
Gli editori contestano la chiusura espressa dai giornali di fronte ad ogni ipotesi di riequilibrio degli organi direttivi dell'INPGI e ricordano che nel consiglio d'amministrazione dell'istituto di previdenza siedono 12 rappresentanti dei giornalisti a fronte di due degli editori, mentre nel consiglio generale il rapporto è di 60 a 2.
In questo paradossale squilibrio, che non tiene conto del fatto che i fondi dell'INPGI provengono per il 60 per cento dagli editori di giornali - aggiunge la FIEG - risiede la causa prima della attuale insoddisfacente funzionamento della gestione politica dell'istituto. La differenza di vedute sull'INPGI dà la prova concreta che non basta prendere posizione a favore della FNSI o della FIEG. È troppo facile iscriversi ad uno dei due «partiti».
La questione è più complessa, perché ci troviamo in una stagione di cambiamento, di svolta di importanza fondamentale per un settore chiave quale quello dell'informazione.
Se le questioni sono complesse, di svolta appunto, non si può commettere l'errore di pensare di risolverle gli uni contro gli altri, nel caso accentuando lo scontro tra giornalisti ed editori. I problemi fondamentali si affrontano e si risolvono insieme.
Non è una affermazione ovvia. È, invece, la sintesi della strategia sempre adottata dalla Democrazia cristiana, che con Alcide De Gasperi ha fatto rinascere il nostro paese, lo ha ricostruito e proiettato tra le nazioni più avanzate. Occorre ricordarlo? Nella libertà di stampa c'è il pilastro della libertà.
Giornalisti ed editori, insieme, devono riflettere sul fatto di essere in ruoli diversi ma non conflittuali almeno per quanto riguarda il fatto di affrontare la sfida costante della libertà di stampa. La stampa è un veicolo privilegiato del dibattito delle idee, senza le quali non esiste la politica, cioè l'interesse generale del paese e dei cittadini.
La Federazione della stampa ha ragione nel sottolineare che non esiste informazione senza i giornalisti, ovvero di quella complessa figura professionale dove cultura, mestiere, autonomia e deontologia si mettono al servizio della realtà dei fatti e sanno pure fornire una interpretazione degli stessi, distinguendo e separando con onestà intellettuale le notizia dal commento.
Sappiamo che non è sempre così, ma in questo sforzo sta la qualità del giornalismo e dei giornalisti. I giornalisti sottolineano che non vi possono essere giornalismo e giornalisti liberi se c'è la precarietà; gli editori invitano a non confondere la flessibilità con la precarietà, perché anzi è nei sistemi estremamente rigidi che si sviluppano le sacche di lavoro nero e di mortificazione del ruolo dei giornalisti.
Gli editori hanno ragione quando insistono nel sottolineare che aziende editoriali sane sono anch'esse, come i giornalisti che vi lavorano, un presidio indispensabile della libertà di stampa e della qualità dell'informazione in un paese democratico.
È nell'interesse generale - costituisce un faro della politica in un paese democratico - avere sia giornalisti liberi e non riscattabili, sia aziende editoriali capaci di competere con il mercato e con le nuove sfide che tutti conosciamo e che ci affascinano.Pag. 86
Ai giornalisti e al paese non conviene che ci siano aziende editoriali incapaci di competere e fatalmente destinate a mettere in pericolo il lavoro di quanti vi operano; la flessibilità, nella giusta misura, non è sinonimo di precarietà, ma uno dei mezzi per combatterla. Agli editori e al paese non conviene che ci siano giornalisti mortificati nel proprio ruolo e nella propria autonomia; un giornalismo libero e autorevole rappresenta un capitale inestimabile per ogni azienda editoriale, perché attrae lettori e pubblicità e fornisce capacità di competizione. Ogni editore vorrebbe portare nelle edicole un quotidiano dotato di autorevolezza, piuttosto che il contrario.
Ogni editore sogna di avere un giornale con le «firme», piuttosto che un giornale dove gli articoli appaiono non firmati a causa della protesta per il rinnovo del contratto che - ripeto -, a nostro giudizio, non è la vera o la principale posta in gioco.
Non si deve trascurare, però, che bisogna avviare al più presto le trattative per il contratto, con ragionevolezza e senso di responsabilità, senza la pretesa di imporsi reciprocamente mortificazioni e tenendo presente che una rinnovata armonia tra i diversi protagonisti del mondo dell'informazione non è un punto di arrivo, ma di partenza, di fronte alle sfide che abbiamo tentato di sintetizzare in questo intervento. Sono sfide difficili da vincere anche con uno sforzo comune; sicuramente perdenti se ci si proverà in ordine sparso o addirittura pensando più agli sgambetti che agli ostacoli da saltare.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Tranfaglia. Ne ha facoltà.
NICOLA TRANFAGLIA. In questo dibattito, che mostra un grande interesse da parte di gran parte dei gruppi parlamentari, è emerso con evidenza un complesso di problemi non trascurabili, anche perché nella nostra Costituzione esistono articoli che definiscono la libertà di stampa come uno dei principi basilari dell'ordinamento.
Sappiamo di non brillare per quanto riguarda la diffusione della libertà di stampa; infatti, l'Italia è agli ultimi posti, non solo in Europa ma nel mondo intero, per quanto concerne l'attuazione di tale principio. Ciò evidenzia responsabilità sia da parte degli editori sia da parte dei giornalisti. Detto questo, non vi è dubbio sul fatto che la diffusione del precariato nel giornalismo, sia della carta stampata sia dell'assetto radiotelevisivo, è superiore a quello che si registra in molte altre importanti categorie professionali. Ciò è molto grave, in quanto vi sono intere generazioni che, praticamente, non accedono ad un lavoro stabile nelle aziende giornalistiche.
Mi chiedo perché il ministro del lavoro non promuova ispezioni molto ampie nelle aziende giornalistiche, visto che sicuramente una parte di quel precariato nasce dal mancato rispetto delle nostre leggi.
Siamo di fronte a giornalisti che non dispongono delle competenze necessarie per lavorare in quel settore o a giornalisti professionisti che vengono trattati come precari e pagati in maniera ridicola. Già l'onorevole Folena ha ricordato le condizioni economiche applicate a molti precari, evidenziando sempre di più che le regole contenute nel vigente contratto giornalistico non sono assolutamente rispettate. Ciò è preoccupante, perché il mancato rispetto delle leggi riguarda le grandi, le medie e le piccole aziende giornalistiche.
Sono sicuro che il ministro del lavoro si occuperà di tale problema, perché questa situazione non riguarda soltanto l'ultimo periodo, ma anche quello attuale.
Per quanto riguarda l'aspetto cui ho fanno cenno a proposito della libertà di stampa e del rispetto delle altre leggi che la riguardano, ritengo che, dietro l'atteggiamento oltranzista della maggioranza degli editori, vi sia qualcosa che fino ad ora non è stato citato, ma che conosce chi ha seguito la vertenza come noi, ad esempio, della Commissione cultura: gli editori, che hanno disposto fino ad alcuni anni fa con estrema libertà della formazione dei giornalisti, sono in gran parte preoccupati perché negli ultimi anni sono stati approvati una serie di atti legislativi che hanno Pag. 87portato a diventare professionisti attraverso un'altra strada, attraverso un accordo fatto tra la federazione della stampa e l'università italiana.
A tale proposito, da alcuni anni - da tre per l'esattezza - vi è un numero sempre più alto di giovani che diventano giornalisti non attraverso le scelte degli editori, ma attraverso il conseguimento di una laurea e, dopo essa, un praticantato con un master o una laurea specialistica. Ciò li sottrae nella fase iniziale del loro lavoro alle scelte arbitrarie degli editori, ponendoli in una condizione paritaria, certamente, attraverso lo studio e la pratica fatta nei giornali, nelle radio e nelle televisioni, ma molto anche attraverso la formazione culturale che proviene dalle università. Ciò rappresenta per gli editori un grosso problema, perché è la prima volta, da quando è stato istituito l'ordine dei giornalisti (durante il periodo fascista, come tutti sanno, nel 1928), che gli editori non possono decidere loro stessi, attraverso scelte di cui non conosciamo le caratteristiche, che qualcuno diventi o meno giornalista professionista.
È chiaro che la Federazione della stampa su questo punto non può cedere, perché, mentre in tutto l'Occidente, compresi gli Stati Uniti d'America, si diventa giornalisti attraverso la scuola fino al raggiungimento di una laurea, in Italia si vuole mantenere una situazione estremamente arretrata, che non ha nulla a che fare con le necessarie innovazioni tecnologiche su cui siamo tutti d'accordo.
Dunque, dietro l'atteggiamento degli editori vi è la motivazione della perdita di potere rispetto alle nuove generazioni di giornalisti: su questo il Governo dovrebbe dire qualcosa, non potendo restare passivo di fronte ad un atteggiamento di questo genere.
L'ultimo punto di cui vorrei parlare riguarda le richieste economiche e normative dei giornalisti che, leggendo la proposta di contratto, non determinano un particolare aggravio per le aziende editoriali; e questo lo si vede e lo si è visto perché, mentre vi sono alcune piccole aziende editoriali che sono disponibili e stanno firmando il nuovo contratto, alcune tra quelle più grandi, e che - come è stato ricordato già oggi - hanno ricevuto negli ultimi anni degli utili straordinari, sono le più estreme nel negare la possibilità del rinnovo del contratto.
Nel rifiuto di mantenere la figura professionale del giornalista e di riconoscergli quei requisiti che costituiscono la caratteristica della professione giornalistica, come anche quella di altre importanti categorie intellettuali, vi è un progetto di distruzione di tali figure professionali e di ritrovare, attraverso la nuova struttura precariale, la possibilità di mantenere un potere assoluto sulle scelte degli editori.
D'altra parte, non credo di dire nulla di particolarmente nuovo quando dico che, perfino nella percezione della maggior parte degli italiani, vi è la sensazione di aver avuto sempre aziende giornalistiche in gran parte legate al sistema politico e al potere di chi è al Governo. Si comprende dunque quella resistenza così forte a firmare il contratto.
Come Parlamento abbiamo tutti il dovere - come il Governo, a mio avviso, ha il diritto di intervenire in qualche modo con atti politici, senza per questo mettersi tra le parti - di salvare il bene assoluto della libertà di stampa e di informazione e, nello stesso tempo, di difendere la categoria, che è disposta a discutere e a negoziare di fronte ad un soggetto che continua a rifiutare addirittura di entrare nel merito del contratto. Quindi, da parte nostra chiediamo che il Governo affronti i problemi legati al precariato e al non rispetto delle leggi nelle aziende giornalistiche, ed intervenga sul piano politico (può esserlo in parte la legge sull'editoria, ma non credo che possa essere solo quella). Infine, abbiamo il dovere di fare atti politici per difendere una formazione dei giornalisti che li renda più preparati e, quindi, in grado di garantire al meglio le libertà di stampa, uno dei principi fondamentali della nostra Costituzione (Applausi dei deputati del gruppo Comunisti Italiani).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Gasparri. Ne ha facoltà.
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MAURIZIO GASPARRI. Onorevole ministro, onorevoli colleghi, il fatto che la Camera dei deputati dedichi spazio ad una questione così rilevante come il mancato rinnovo del contratto giornalistico è di per sé un segnale di attenzione e un richiamo rivolto a tutti affinché questa vertenza, che da circa due anni dalla scadenza del contratto non vede la conclusione, possa subire un'accelerazione. Francamente, dall'intervento del ministro Damiano non ho tratto elementi utili a risolvere la vertenza. Forse non avrò seguito bene l'intervento, ma non c'è stata - né, forse, poteva esserci - un'indicazione, uno stimolo, una qualche utilità ai fini della soluzione di questa vertenza. Del resto, è una vertenza tra gli editori e i giornalisti, e, quindi, il Governo e il Parlamento ancor meno possono incidere; tuttavia, se discutiamo, si ritiene che una funzione di persuasione, si direbbe di moral suasion, si possa esercitare, altrimenti il dibattito non si sarebbe svolto.
Tuttavia, il Governo forse potrebbe assumere - pur nel rispetto dell'autonomia delle parti, a cui molti colleghi si sono richiamati - una funzione più incisiva e decisa in questa vertenza. Da questo punto di vista, invito personalmente il Governo - nelle persone che, per le competenze sull'editoria e sul lavoro, possono svolgere questa azione - ad assumere delle iniziative. Del resto, la vicenda delle crisi e delle trattative che si incagliano e tradizionalmente si sbloccano ha visto sempre i Governi fare tavoli. A volte, i Governi sembrano delle «falegnamerie» perché aprono tavoli su tavoli, che, poi, talvolta arrivano a conclusioni, mentre altre volte sono soltanto un luogo dove si decongestiona una situazione (già questa è una funzione di carattere politico e istituzionale che un Governo può assolvere). Quindi, da questo punto di vista, non troverei nulla di strano se ci fossero anche delle convocazioni e delle iniziative più concrete e dirette. Avviene in tanti casi e in tanti momenti della vita italiana e non sempre solo la natura pubblica delle società interessate può giustificare questa intromissione. Quando si rinnovano i contratti della pubblica amministrazione il Governo è controparte, ma in tanti altri casi è soggetto che funziona come stimolatore di intese.
Del resto, se tutto fosse devoluto interamente alle parti, dei Governi non ci sarebbe nemmeno necessità e il mondo si regolerebbe da solo; invece, i Governi devono tentare di svolgere una funzione. Probabilmente, questa vertenza si è incagliata perché, da un lato, forse abbiamo richieste rigide da parte del sindacato della federazione della stampa che poco si prestano ad un'evoluzione della professione giornalistica (c'è fatica a vivere e ad accettare il futuro) e, dall'altro, gli editori sono imputabili più dei giornalisti per un atteggiamento statico e rigido che non trova giustificazioni.
Peraltro, «dramma nel dramma», vi è uno scontro a sinistra, infatti la federazione nazionale della stampa, nella sua libera autonomia, esprime vertici la cui collocazione politica è ben nota, anche perché, nel libero dibattito della democrazia i vertici della federazione nazionale della stampa molte volte sono scesi in campo non solo su tematiche attinenti alla propria professione, ma un po' sull'«universo mondo». Del resto, la libertà di pensiero è ampia e, quindi, ognuno interviene su ciò che vuole, i giornalisti, poi, a maggior ragione. Quindi, è corretto che gli esponenti della federazione nazionale della stampa si pronuncino su tutto ciò che ritengono importante e non solo sulle materie di stretta attinenza alla loro professione ed è corretto che si individui una certa collocazione di quei vertici in una certa area politico-culturale. Così come alcuni editori che hanno preso di punta questa vertenza sono editori notoriamente schierati in un certo ambito. L'editore di la Repubblica vanta la tessera numero 2 - o numero 1, non ricordo -, forse la numero 1, del Partito Democratico. Forse ha portato sfortuna allo stesso Partito Democratico questa precoce iscrizione dell'ingegner Carlo De Benedetti, perché da quando lui ha preso la tessera numero 1 non si trova qualcuno che possa prendere - non che voglia, che possa - prendere la Pag. 89tessera numero 1, nel senso che non si trova questa creatura (ma questa è un'altra storia, come si suol dire, e non voglio introdurla). Però, lo scontro tra il gruppo la Repubblica-L'Espresso, la redazione di tali testate e la federazione nazionale della stampa è interessante, vissuto come una lacerazione interna alle varie anime giornalistiche, culturali, editoriali ed economiche della sinistra. Noi lo osserviamo così, non con fare divertito, perché le vertenze dure, che non hanno un esito, preoccupano e rattristano, spinti a fare considerazioni quale quella che ho testè fatto.
Faccio presente che in passato ho svolto il ruolo di ministro delle comunicazioni, ma sono anche - e ne sono orgoglioso - giornalista professionista dal 1985; ho fatto vita di redazione, dal praticantato fino alla direzione di giornali, e pertanto, a differenza di molti politici che poi diventano giornalisti per decisioni politiche, ho fatto anche esperienza giornalistica e in questa funzione spesso mi è capitato, prima e dopo l'esperienza di Governo di essere coinvolto in occasioni di confronto. Recentemente, la federazione nazionale della stampa mi ha invitato ad un dibattito sul lavoro nero nelle redazioni giornalistiche. È stato pubblicato un libro bianco sul lavoro nero (l'antinomia dei colori era provocatoriamente richiamata nei titoli). Si trattava di una seconda edizione di tale libro bianco. Debbo dire che nella prefazione, che ho citato ampiamente in tale occasione (mi ero diligentemente letto il libro prima di presenziare al dibattito, che si è svolto il mese scorso, al quale credo abbia partecipato anche il Presidente Bertinotti), redatta dai vertici della federazione nazionale della stampa, viene smentito uno tra i luoghi comuni che anche in quest'aula è riecheggiato. Sono autore di una riforma del sistema della radiotelevisione, attinente anche al mondo dei giornali; il «famigerato» sistema integrato delle comunicazioni e quel criterio antitrust, che mette insieme televisioni, giornali, Internet e quant'altro, è la fotografia del progresso, dove il mondo dell'editoria diventa qualcosa di generale e di globale. Ebbene, si era detto che tale legge avrebbe stroncato i giornali, perché, favorendo lo strapotere pubblicitario delle televisioni, avrebbe impoverito ancora di più i giornali e, quindi, si sarebbe assistito ad un disastro. Nella prefazione del libro bianco edito dalla federazione nazionale della stampa sul lavoro nero si afferma che nel 2005 (non vi sono ancora i dati di consuntivo del 2006), in epoca, quindi, di vigore della legge n. 112 del 2004 (la chiamo così per non autocitare il titolo della legge), si è riscontrato un aumento della pubblicità sui quotidiani in percentuali superiori al tasso di inflazione e, in percentuali ancora più elevate, sulla cosiddetta free press, uno dei veri problemi, secondo me, perché se si regalano giornali è chiaro che poi non se ne vendono molti altri (mi riferisco alla distribuzione, onorevole Bocchino, di giornali gratuiti, che non si pagano: questa è la free press). Ebbene, nei periodici la pubblicità è aumentata, cito a memoria, mi pare del cinque-sei per cento nel 2005. Quindi, possiamo dire - e lo diremo anche se si arriverà a discutere di riforma radiotelevisiva - che, vigente la legge n. 112 del 2004, la pubblicità per i periodici, per i quotidiani, per i giornali gratuiti è aumentata più del tasso di inflazione (fonte: Paolo Serventi Longhi, nella prefazione al libro bianco sul lavoro nero nei giornali).
Queste cifre le citava Serventi Longhi per invitare a mettere in regola - ha ragione! - tutti quelli che vengono impiegati nelle redazioni. Quindi, le entrate pubblicitarie sono cresciute.
Inoltre, la questione è oggetto di un altro dibattito. La Commissione europea ha presentato al Parlamento europeo, che l'ha approvata, una proposta di aggiornamento della direttiva «TV senza frontiere», che aumenta le possibilità di affollamento pubblicitario delle televisioni. Forse se ne accorgeranno anche gli esponenti dell'attuale Governo, che, in effetti, se ne sono accorti: sono andati a fare lobbying in Parlamento europeo per non far votare a favore della nuova direttiva e sono state sconfitti, perché il Parlamento europeo ha votato a favore della proposta della Reding, che non è manovrata né da Mediaset Pag. 90e da Berlusconi né tanto meno (che volete che possa fare io?) dal sottoscritto. Il Parlamento europeo ha votato, e tornerà a votare, una direttiva che aumenta, al di là di quelli che la legge che porta il mio nome ha indicato - e che, peraltro, erano conformi a quelli che l'Europa ha tenuto in vigore -, i limiti di affollamento pubblicitario.
Ho fatto queste precisazioni per una duplice ragione: perché le nuove leggi sulla radiotelevisione non possono andare in controtendenza rispetto all'Europa e perché gli editori dei giornali di soldi in più ne hanno avuti. Ricordo che, come Governo, noi disponemmo stanziamenti - do un suggerimento all'attuale Governo - per abbattere il costo di acquisto della carta. Anche allora si discuteva della difficoltà dei giornali. Io, il sottosegretario all'editoria dell'epoca, Bonaiuti, ed altri esponenti del Governo proponemmo, e portammo all'approvazione, misure per abbattere gli oneri fiscali per l'acquisto della carta (non a favore degli editori in generale, ma per quelli che stampano i giornali: ovviamente, chi fa televisione, radio o Internet, acquista soltanto la carta che serve per compilare le fatture, ma non quella per stampare i giornali).
Allora, cari amici, bisogna guardare avanti. Invito il Governo a svolgere un'azione di stimolo un po' più incisiva di quella attuale e gli editori a guardare al futuro. Ci si lamenta che si vendono pochi giornali: cinque o sei milioni di copie. Attenti! Nel numero di copie al quale abbiamo riguardo ci sono quelle che, ogni mattina - ne siamo tutti testimoni -, vengono distribuite in omaggio nelle scuole, sui treni, negli alberghi, sugli aerei, dappertutto. Pertanto, le copie vendute a persone che si recano in edicola e che pagano 90 centesimi, un euro o quel che costano i copiosi inserti ed allegati che escono insieme ai giornali (e che comportano il pagamento di un sovrapprezzo) sono inferiori al numero indicato di cinque o sei milioni (all'interno del quale vi sono, ripeto, anche tutte quelle che vengono diffuse più o meno a titolo gratuito, nelle quali ci imbattiamo; non parlo della free press, ma dei quotidiani classici, per così dire, oggetto delle azioni promozionali degli editori). In sostanza, le copie vendute sono le stesse di sessant'anni fa! Quindi, non è colpa di questa o di quella legge: evidentemente, c'è la necessità di modernizzare il mondo dell'editoria.
Stamani, proprio leggendo i giornali, che, a mio avviso, sono essenziali e non possono essere sostituiti dal web, dalle televisioni, dalle radio o dalla società digitale - nulla può sostituire la possibilità di «toccare» i giornali (personalmente, non amo nemmeno le rassegne stampa, ma i giornali nella loro fisicità: amo conservarli o strapparli, come molti di noi fanno, ed ho un rapporto con il giornale come oggetto, oltre che come contenitore di articoli) -, mi sono imbattuto in un articolo pubblicato dal quotidiano La Stampa, dal titolo «Giornali, il rischio del gambero», anticipazione di un libro che uscirà venerdì: L'ultima copia del New York Times - titolo inquietante! - edito da Donzelli, del giornalista Vittorio Sabadin, del medesimo quotidiano.
Ovviamente, ci auguriamo che il giorno dell'uscita dell'ultimo numero del New York Times, come di qualunque altro giornale italiano, non sia in calendario, ma il titolo del libro è chiaramente provocatorio: esso allude all'evoluzione delle tecnologie. Avete fatto fuoco e fiamme, colleghi della sinistra, sulle televisioni digitali e simili: quali mostruosità! Ebbene, il libro che ho menzionato cita l'opinione di un editore che è caro, così si dice, più alla sinistra che alla destra (non lo so, ma viene sempre elogiato...). Mi riferisco al potente Rupert Murdoch, il quale ha affermato (traggo la citazione dal giornale La Stampa, che oggi anticipa l'uscita del libro): «Le società e le compagnie che sperano che un glorioso passato le protegga dalle forze del cambiamento guidate dall'avanzante tecnologia falliranno e cadranno. Una nuova generazione di consumatori di media» - parola che dovremmo correttamente pronunciare con la «e», vista la sua origine latina - «è davanti a noi e chiede di ricevere informazioni quando le vuole, dove le vuole e come le Pag. 91vuole. C'è un solo modo» - dice Murdoch nell'intervento citato nel libro - «utilizzare le nostre competenze per creare e distribuire un contenuto dinamico e brillante. Ma i giornali dovranno adattarsi, perché i loro lettori ora chiedono di ricevere notizie su una gran varietà di piattaforme: siti web, iPod, telefonia mobile, lap-top. Credo che i quotidiani avranno ancora molti anni di vita» (molti decenni e secoli di vita, aggiungiamo noi).
Tornando alla citazione, Murdoch dice: sono anche convinto che, nel futuro, l'inchiostro e la carta saranno solo uno dei molti modi con i quali comunicheremo con i nostri lettori; la sfida - aggiunge l'autore di questo libro - si è spostata altrove, ovvero sulle nuove tecnologie di comunicazione esistenti in arrivo, sulla concorrenza dei giornali gratuiti apparsi in ogni città, sulla conquista del tempo del lettore, sul rinnovamento dei formati e dei contenuti; la gente che vuole restare informata non ha mai vissuto un momento più felice - condivido di certo l'opinione dell'autore del libro - ora ha disposizione la più vasta offerta di media della storia dell'umanità, una combinazione di rotative del XIX secolo, di radio e televisioni del XX secolo e di siti web e wap del XXI secolo. Saranno i sistemi più vecchi a doversi adattare e a cambiare. Cambiare o morire.
Credo che questa sia una riflessione che devono fare anche gli editori. Essi dicono: faremo gli sconti sull'IVA nell'acquisto della carta. Sì, magari li farete e ricordo, a tale proposito, che, da ministro, ho proposto questa iniziativa per difendere i giornali che sono un dato essenziale della democrazia e della cultura. Un giornale fa riflettere; la cultura orale e visiva della televisione o della radio, spesso, non ha ricadute positive. Non voglio però svolgere troppo un dibattito unicamente di natura culturale (anche se siamo qui per svolgere un'azione di moral suasion).
Anche il sindacato dei giornalisti prenda atto che c'è una realtà in cui l'informazione si moltiplica. Oggi, gli uffici stampa, le strutture pubbliche, le società, sempre di più, devono attingere alla professionalità dei giornalisti. Oggi, rispetto a cinquant'anni fa, le occasioni di impiego del giornalista si sono moltiplicate; non sono scomparse le situazioni di sfruttamento di precarietà e di incertezza. Però, pensate alla moltiplicazione delle televisioni: sono nato nel 1956, quando c'era un solo canale in televisione e per di più in bianco e nero; oggi, invece, ci si perde tra analogiche, ancora residuali, digitali spaziali, digitali terrestri, per non parlare di Internet, l'abbondanza di canali e quindi anche di giornalisti che possono confezionare i telegiornali, gli speciali e le informazioni; anzi, talvolta, hanno fatto irruzione soprattutto nella televisione gli imbonitori, e le interviste - su questo si è giustamente polemizzato - invece di essere condotte dai giornalisti, le fanno le cantanti o le presentatrici.
Oggi, si sono moltiplicati i giovani che, forse, in misura eccessiva, hanno sperato di diventare ricchi affermati giornalisti, come chiaramente si sono moltiplicati anche coloro che riescono a fare questo lavoro nelle varie dimensioni.
Bisogna prendere atto che l'attività giornalistica, oggi, può essere multiforme e quindi anche un gruppo editoriale che ha un giornale avrà forse una televisione locale o un sito. Anche i principali quotidiani hanno le loro radio, dalle quali, spesso, molti di noi vengono intervistati. Quanti saranno coloro che le ascolteranno? Non lo so, ma comunque fanno opinione e sono strumenti che esistono. Anche i siti dei quotidiani principali sono uno strumento sempre più di conoscenza che in tempo reale ci consente di entrare nel mondo dell'informazione.
Forse il mondo sindacale non solo deve esigere un contratto, ma deve anche sedersi attorno ad un tavolo con il mondo della politica, delle istituzioni e dei governi. L'onorevole Raisi è stato autore di una piccola ristrutturazione, del nostro piccolo giornale Il Secolo d'Italia ed anche lui ha dovuto fare i conti con il colore, i formati o i problemi occupazionali. Perfino, quindi, piccoli giornali, ai quali molti di noi sono affezionati, devono prendere Pag. 92atto di una necessità di modernizzare e di dare più spazio ad Internet e forse di produrre un po' di carta in meno.
Allora, il Governo prenda iniziative e gli editori, la federazione della stampa, le Commissioni parlamentari, se vorranno insieme, intraprendano una riflessione vera sulla modernizzazione di questi settori, che, a mio avviso, offrono più possibilità di lavoro, tra l'altro, migliore e meno faticoso. Bisogna prendere atto. Cambiare o morire, diceva l'autore del libro citato. Siccome, però, non si può in alcun modo accettare la morte dell'editoria, dobbiamo lavorare in questa direzione, con meno rigidità ottocentesche sul fronte sindacale e con meno egoismo degli editori. Spesso, coloro che amministrano i giornali - forse, si offenderà qualcuno - sono impiegati di grandi gruppi finanziari. Si parla sempre di un certo conflitto di interessi che è ben noto a tutti gli italiani. Si pensi a quanti conflitti di interesse vi sono in questo campo. Quanti sono i grandi costruttori che fanno gli editori dei giornali? Pensate che si tratti di una vocazione culturale o forse, con il giornale, essi riescono, ad esempio, a contare quando si fanno i piani regolatori? Anche l'editore che ho citato all'inizio, caro alla sinistra, la tessera numero 1 un po' iettatoria del partito democratico, ha mille interessi in mille settori. I giornali sono autonomi ed indipendenti, per carità.
Tutti hanno un editore, però, e alla fine cercheranno di non offenderlo; grandi aziende automobilistiche e grandi società hanno interessi in tutti i settori. Spesso coloro che amministrano i giornali non hanno la capacità innovativa perché devono soltanto fare gli impiegati per conto terzi, e l'interesse dell'imprenditore x o y più che innovare nel settore è quello di avere uno strumento che al momento buono può influire sulla situazione. Sappiamo tutti, siamo politici, quanto siano importanti i giornali e tutti gli altri mezzi di comunicazione, e allora anche gli editori si sveglino, non usino in modo improprio i giornali e l'informazione perché devono edificare quartieri nelle periferie delle metropoli o vendere qualche automobile in più, cose che dovranno comunque fare, glielo auguriamo, perché contribuiranno così allo sviluppo.
Occorre un'editoria più coraggiosa, che sappia guardare al futuro. Credo che questo sia un invito, un'esortazione che deve provenire da questo dibattito e che probabilmente non sbloccherà le cose, ma dimostra comunque che il Parlamento e le forze politiche nutrono una preoccupazione. Ed oltre che ad urlare agli editori, che hanno i soldi e lo spazio economico per fare un contratto equo - tralascio indici e altri elementi per evitare conflitti di interesse come appartenente alla categoria - credo che questo dibattito serva se non altro a decidere, tutti insieme, di parlare di modernizzazione del mondo dell'editoria invece di fare le crociate contro il digitale terrestre o altro. Il mondo è ancora più avanti, cari colleghi, ce lo dice il Parlamento europeo con la direttiva «TV senza frontiere»; ce lo dice Murdoch, così almeno citiamo un editore che anche alla sinistra sembra essere molto caro; ce lo dice la realtà che viviamo tutti i giorni, tra siti Internet, SMS, videotelefonia e tutti i mezzi della tradizione che per fortuna sono rimasti, anche i libri, che da quando sono allegati ai giornali hanno avuto una possibilità di diffusione ben superiore al passato. Novità e modernizzazione non cancellano ciò che è tradizionale. I libri hanno antica e nobile tradizione e oggi ne circolano molti di più nelle case e c'è la speranza che qualcuno, oltre a comprarli a pochi euro, li possa poi anche leggere. Il Governo, allora, non resti inerte e faccia la sua parte (Applausi dei deputati dei gruppi Alleanza Nazionale e Forza Italia)!
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Giulietti. Ne ha facoltà.
GIUSEPPE GIULIETTI. Grazie, Presidente. Al di là delle battute che servono a poco, perché stiamo parlando di una grande questione politica e materiale che riguarda il lavoro di migliaia di persone e non credo che si possa affrontare schedando gli editori, i giornalisti o i sindacalisti, perchè non è questo il modo di Pag. 93affrontare la delicata situazione. È invece un modo per ridurla a poca cosa: a propaganda. Ho un grande rispetto per gli editori ed i giornalisti di destra, che sono molti, ma anche per i cittadini che avrebbero diritto ad una informazione libera e plurale e, quindi, alla chiusura di questa vertenza. Impariamo a rispettare gli oggetti e gli articoli della Costituzione, che non sono di proprietà di qualcuno o di un passante.
Che la situazione sia delicata - altro che delibere del Parlamento europeo lette di straforo - è dimostrato da questo dibattito. È la prima volta dopo anni che si discute di una vertenza simile in Assemblea e io ringrazio per la sensibilità il Presidente della Camera ed i presidenti di gruppo, li ringrazio soprattutto perché abbiamo già rimosso con queste battute il fatto che quest'Assemblea ascoltò l'unico messaggio del Presidente della Repubblica Ciampi proprio sulla libertà di informazione. Altro che paese normale: fu l'unico dibattito! Qualcuno stracciò quell'appello facendo finta di ascoltarlo! Vi fu una finta ed ipocrita condivisione su un messaggio che poneva proprio il problema della malattia italiana nel sistema della comunicazione, cioè il conflitto di interessi.
Altro che liberalizzazione! Abbiamo davanti a noi un mercato chiuso che si è vieppiù concentrato negli ultimi mesi. Dovremmo fare un grande sforzo per liberalizzare con più tenacia e con forza questo settore, liberandolo da ogni forma di pedaggio improprio, di conflitto di interesse, di rendita di posizione. Ecco perché si tratta di una grande questione e non di una piccola questione. È stata posta con chiarezza da Carra, da Folena, da Tranfaglia, ma precedentemente dai Presidenti delle Camere ed anche da esponenti del centrodestra quando non sono in vena di comizi, ma ragionano seriamente sulla questione.
Non avemmo esitazioni ad appoggiare la riforma Bonaiuti; vorrei quindi analoga correttezza in questa fase. La vertenza sul contratto non si è aperta con Damiano e Levi, ma sotto un altro Governo. Bisognerebbe riflettere anche sulle proprie inefficienze, sui propri ritardi, sui propri silenzi o sulla propria subalternità all'editore di riferimento, che magari è anche un capo partito! L'unico editore che non ho sentito citare in conflitto di interesse! Non c'è la tessera numero 1 di De Benedetti, ci sono ben altre tessere, di ogni tipo, di altri editori capipartito in questa aula. Vorrei un po' di correttezza, evitando di fare comizi postumi dopo essersi distratti rispetto a grandi questioni.
Ecco perché può essere inusuale parlare di una vertenza come questa in Assemblea, anche perché non vorrei che dimenticassimo - e lo sanno bene le colleghe ed i colleghi della Commissione lavoro di ogni schieramento - quante altre vertenze serie esistano in questo paese e quanti silenzi, in ipotesi sui meccanici o sui chimici, vi siano stati in altre stagioni. Quindi, non affrontiamo il dibattito perché si tratta di una corporazione più potente - in tal caso, la discussione mi interesserebbe poco, pur se provengo da quell'ambito - ma perché vi è una valenza nazionale. Anche in questo settore vi sono infatti vite precarie, ma guai a dimenticarsi delle altre.
Quindi, il dibattito non può avere come propria fonte la maggiore visibilità di editori e giornalisti; esso ha invece le sue origini - altrimenti, non si spiegherebbe - in una situazione di profonda anomalia del settore che ha destato lo scandalo internazionale. Il Parlamento europeo ha adottato anche una delibera, nel 2004; la porteremo in Assemblea quando discuteremo di altri temi e la leggeremo insieme.
Sono favorevole ad accogliere tutte le direttive del Parlamento, tutte! Smettiamola di servirci della Commissione europea come di un menu à la carte: ciascuno ne legge una riga.
Questo paese ha un tasso di concentrazione che è il più alto in Europa: ciò determina poca innovazione, poca libertà, poca qualità, poca mobilità delle idee e della professione. Ecco perché vi è un'anomalia che affrontiamo. E non è solo il conflitto di interessi (non voglio imitare altri) ma è anche un sistema di norme di chiusura del sistema industriale, che ha Pag. 94reso questo uno dei mercati più chiusi in Europa, con la presenza dei drammatici problemi di quando si assiste ad una chiusura; altro che l'innovazione!
Non è certo attraverso lo sviluppo della telefonia che si realizza la compensazione del settore; sono realtà molto diverse e bisogna studiarle bene. Del resto, questa anomalia è stata resa visibile in tutte le sedi; dunque, questa vertenza riguarda direttamente, ministro Damiano e sottosegretario Levi - e vi ringrazio della passione e della serietà con cui, a differenza di altri, state seguendo questo tema -, ebbene, riguarda direttamente l'articolo 21 della Costituzione, anche perché vi è una cessazione continuata dell'informazione, una modifica ed una alterazione dei flussi informativi. E vi è altresì un contratto che non riguarda solo la parte economica che poco interesserebbe ad una parte politica (dobbiamo imparare a distinguere le nostre professioni ed i nostri interessi dal ruolo di parlamentari), ma vi è una trasformazione del lavoro delle redazioni con una riduzione ulteriore dell'autonomia: pensate a cosa significa cancellare la figura dell'inviato in un momento in cui già le fonti sono sempre più ristrette. Fabrizio Gatti ha svolto un'inchiesta che può piacere o meno e tuttavia non potrebbe più fare un'inchiesta sugli ospedali in un meccanismo di giornale fatto solo di precari ricattabili. Ricatto il precario, ma ricatto la notizia! Si riduce il grado di conoscenza, di ciò discutiamo. Non facciamo finta che stiamo parlando del Parlamento europeo: a ciò dobbiamo rispondere.
Questo rischia di accadere: uno stravolgimento dell'articolo 21 della Costituzione e della libera contrattazione. Vedete, lo hanno detto il sottosegretario Levi ed il ministro Damiano, che ringrazio e a cui chiedo, tuttavia, di andare fino in fondo in questa mediazione, sapendo che vi è una novità: il consenso di tanta parte del Parlamento, e non solo del centrosinistra, che dice che bisogna proseguire trovando tutti i modi per portare a conclusione il percorso nell'interesse generale.
Allora, vedete, io ritengo sia assolutamente necessario realizzare alcuni interventi. Non si può accettare che una delle parti agisca in modo ideologico; quante volte abbiamo detto: la chiusura corporativa dei sindacati? Ma quando un'associazione di datori di lavoro dichiara che non risponde neanche all'invito del Governo, in questo caso che tipo di chiusura è? Siamo sempre preoccupati, e giustamente, delle corporazioni, ma occorre analoga attenzione alle corporation, che non sono meno insidiose nella tutela di interessi chiusi.
Occorre un'equivalenza, con garbo, perché io non penso che i partiti siano bande, non ritengo che dobbiamo approfittare del contratto per fare un regolamento di conti con gli editori che non ci piacciono, compresi quelli di destra che sono sempre in edicola nel giorno dello sciopero. Ne approfittano per fare propaganda, il che è uno sconcio. E se si vuole manifestare solidarietà ai giornalisti non lo si può fare insieme ai crumiri: dovete scegliere, perché non si può sempre portare avanti tutto insieme: anche la propaganda ha dei limiti oggettivi, di tipo matematico; non è possibile, non si può fare.
Allora, non si tratta di intervenire o di interferire, ma di agire politicamente; mi permetto di dire al Governo che non si tratta solo di convocare le parti sulla questione economica. Si deve anche intervenire di fronte ai tanti che cercano di ostacolare in questa Assemblea la riforma della cosiddetta legge Gentiloni, che vuol dire liberalizzazione delle frequenze e delle pubblicità. Inseriamola tra le prime dieci priorità del post-Caserta, acceleriamo l'approvazione in Assemblea di meccanismi di forte liberalizzazione del mercato perché ciò è una risposta comprensibile, che ricrea un mercato che oggi non esiste. Acceleriamo l'approvazione del provvedimento sull'editoria, come in questi giorni hanno dichiarato meglio di me l'onorevole Barbi, gli intervenuti in questa Assemblea, l'onorevole De Biasi ed i soliti parlamentari che con passione, Carra e tanti altri di ogni schieramento - non ne faccio una questione di parte - seguono con più attenzione di me questi temi ogni giorno.
La riforma dell'editoria deve essere una riforma che certamente ridistribuisce, allarga Pag. 95ed amplia il mercato; però, sottosegretario, deve esservi uno statuto dell'impresa che fissi i diritti degli imprenditori, perché non penso che siano nemici da abbattere. Trovo strano che ogni tanto in Italia vi sia una destra che scopre come nemico l'impresa ed il giorno dopo però dichiara che è stato Prodi. Inviterei tutti noi ad avere un atteggiamento più serio su tali situazioni.
Serve uno statuto dell'impresa giornalistica, che fissi diritti e doveri delle parti, in particolare, per quel mondo del precariato, ministro Damiano. Questa è la mia proposta: al di là di ciò che accadrà nella vertenza, per esempio, sulla previdenza, la si levi dalla vertenza, si porti ad approvazione la delibera; si dia il via libera ad un accordo che era stato raggiunto, e non sia messa nel contratto.
Sugli ammortizzatori sociali e le vite precarie, se non si vuole trattare in quella sede, se ne parli nell'ambito della cosiddetta legge Biagi! Più volte il Presidente Prodi ha detto che la materia dell'editoria non può riferirsi alla normale trattativa e alla normale organizzazione antitrust, ma essa deve avere un diverso modulo organizzativo. Si annunci che lo si farà!
So che voi avete posto questo problema con forza. Lo dico con passione, ma lo condivido: portiamolo in approvazione! Portiamo in approvazione, con il consenso del Parlamento, quegli elementi che sono maturi. Diamo un segnale al mondo dell'editoria, non sempre di chiusura: liberalizzazione dei mercati, ma anche attenzione su altri provvedimenti, sottosegretario, come le intercettazioni.
Non diamo la sensazione che qualcuno voglia ridurre il ruolo e le funzioni dei cronisti e i poteri di controllo in Italia. Dobbiamo sostenere, invece, che vogliamo una società più aperta, con una chiarezza di poteri, ma anche che non temiamo alcuna forma di controllo, anzi, che sollecitiamo i controlli positivi e trasparenti. Questa è una società aperta! Apre il mercato, ma anche le idee. Non ha paura, ma invita il meglio della comunicazione ad esprimersi!
Mi avvio alla conclusione. Non sono preoccupato, dunque, della parte economica, ma della tutela del pluralismo editoriale, sociale e culturale e del rischio della trasformazione del quotidiano in un fascicolo pubblicitario e lo sono per qualunque forma di giornale, fosse anche il più lontano da me. Non auspico una riforma dell'editoria che danneggi l'editore, il gruppo o le associazioni più lontani, perché questa è barbarie! È cosa diversa da una politica industriale e culturale.
Ecco perché, invece, penso che si debba procedere con il più largo consenso. Non cambio idea! Penso che ci sia del buono nella riforma Bonaiuti. Non mi faccio trascinare. Non facciamoci trascinare dalla ripicca, ma pensiamo alla difesa di un interesse e di uno scopo generali.
Questo deve essere l'appello comune agli editori e ai giornalisti: un Parlamento forte, che su queste questioni tenta di portare avanti un obiettivo comune. Non si fa trascinare. Porta avanti un cammino, un percorso e non approfitta per una polemica con il ministro Damiano, che, francamente, sarebbe spiacevole e sbagliata, perché rischia di portare il sottoscritto o altri a dare risposte che non si vorrebbero dare, in un momento che deve essere di grande convinzione e di lavoro comuni.
Ecco perché, sulla legge Gentiloni e sull'editoria, in particolare, penso che dobbiamo lavorare anche con l'altra parte di questo Parlamento, ascoltando, però, le forze sociali, per evitare che ciascuno si scelga l'editore o il sindacalista di riferimento. Ciò è sbagliato. Peraltro, nell'ordine dei giornalisti molti votano in modo opposto al mio. Quindi, attenzione anche alle schedature, che fanno irritare le persone, perché affermazioni sbagliate e infondate rischiano di essere offensive per la storia delle persone, dei sindacati, delle imprese e delle associazioni.
Vorrei difendere anche i diritti di costoro, che sono miei fieri avversari politici. Ciò richiede un grande sforzo di mediazione. Richiede la capacità, con pazienza, con forza e con tenacia, di riaprire quei Pag. 96tavoli e, se quei tavoli non saranno riaperti, di portare all'approvazione gli altri provvedimenti possibili, senza cedere al ricatto di nessuno, chiunque esso sia.
Quel cammino, però, va portato avanti con convinzione, perché oggi siete più forti e perché credo che il Governo - non so se replicherà - ha sentito non solo questa parte dell'aula, ma anche alcuni colleghi del centrodestra che, con capacità e passione, hanno sostenuto le stesse ragioni. Quindi, credo che siate più forti per sostenere questa mediazione e per portare alla conclusione questa vertenza. Ecco perché vi chiediamo di proseguire sull'azione intrapresa.
Concludo su un aspetto, senza alcun amore di polemica. Me lo consentirete, però, perché, se qualcuno ormai si è convinto che il centrosinistra ascolta, che ognuno dice quello che gli pare e nessuno replica. Ma è un film che è finito: non funziona più.
Ho sentito dire che la crisi dell'editoria è colpa di Prodi: forse, il conflitto di interesse è di Damiano e Levi (forse, Damiano è proprietario di Mediaset). Risparmiamocelo, però, tra di noi.
Ho sentito dire che la crisi è degli editori rossi (lo diremo ai tanti editori che hanno votato a destra). Non è un metodo. Ma ci avete sfidato. È stato detto: mi raccomando, quando arriveranno i provvedimenti in aula sul conflitto di interessi, l'editoria e la TV, non dovete difendere gli editori amici! Avete ragione. Non difendete De Benedetti: mi convincete con entusiasmo! Non fate provvedimenti per questo: bravissimi! Sono felice che ci sia questo empito! Questo sentimento sul conflitto di interessi mi fa ben sperare. Sapete perché? Perché mi auguro che noi vi dimostreremo che possiamo convergere o meno con questo o quell'editore, con questo o quel sindacato, ma questa volta mi auguro di vedervi dissentire in aula, per una volta, dall'unico editore non nominato.
Mi auguro che sarete capaci di votare anche contro gli interessi di Berlusconi in questo settore e di dimostrare che, anche per voi, è terminata questa situazione. Vorrei sentirvi nominare l'unico editore amico cancellato dal dibattito. Sarebbe utile per tutti che vi fosse una grande sorpresa e che ci possiate stupire, diciamo così, con effetti speciali, e che qualcuno si alzi a dire che non ne potete più di questo editore un po' invadente cui è necessario tagliare le unghie. Ditelo voi: sarebbe più elegante, più cortese, più apprezzato dagli italiani ed anche da molti giornalisti ed editori.
Mi rivolgo al ministro Damiano: so che il 25 si terrà una conferenza sulla sicurezza. Più volte il Governo, ma anche colleghi dell'opposizione, hanno richiamato l'attenzione sul dramma dei morti e degli infortuni sul lavoro. Questa è davvero una grande questione cancellata dai media italiani. Le chiedo, signor ministro, pur nello scontro che vi è tra le parti, di insistere sull'idea di una grande conferenza che coinvolga tutti su come i media e la cultura italiana oscurino un dramma che è stato cancellato, e vorrei che editori e giornalisti, anche nello scontro più aspro, almeno su questo punto, insieme, affermassero che, pur essendo divisi su tutto, su alcune grandi questioni, nei confronti di coloro che, spesso, non hanno né volto, né nome, né voce, sono disponibili a portare avanti una grande battaglia di civiltà comune.
Le rivolgo gli auguri che anche questa campagna possa giungere a conclusione e rivolgo gli auguri soprattutto al Governo affinché questa mediazione, con il nostro aiuto, possa concludersi positivamente, non per gli editori ed i giornalisti, ma per l'opinione pubblica italiana (Applausi dei deputati dei gruppi L'Ulivo, Comunisti Italiani e Verdi).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato De Laurentiis. Ne ha facoltà.
RODOLFO DE LAURENTIIS. Signor Presidente, ho ascoltato con grande attenzione gli interventi dei colleghi che mi hanno preceduto. La passione e le argomentazioni serie addotte nei singoli interventi dimostrano l'attenzione che il Parlamento e tutte le forze politiche rivolgono Pag. 97a questa lunga vicenda che si snoda, ormai (lo ricordava esattamente il ministro Damiano), da oltre 680 giorni. Proprio questa attenzione unanime e la generale condivisione della necessità di porre fine alla trattativa sul rinnovo del contratto dei giornalisti spingono ancora di più il Governo, viste le indicazioni del Parlamento, ad assumere un ruolo di grande responsabilità, un ruolo fondamentale di stimolo, di pungolo, di definizione di strumenti che facilitino, in modo concreto, il dialogo tra le parti.
Troppo spesso, in Assemblea e nelle Commissioni, alla serietà di argomentazioni che condivido in pieno, sento far seguito l'inevitabile, costante e continua tentazione di ritornare sul tema del conflitto di interessi, che, proprio per il fatto di essere agitato, pone la vicenda su una logica di parte, mentre si tratta di una questione che appartiene a tutte le forze politiche che condividono la necessità di affrontare seriamente il tema alla nostra attenzione.
Rivolgo allora un pacato e sommesso invito ai colleghi della maggioranza di evitare, in alcuni momenti, quando nel Parlamento vi è una posizione di assoluta condivisione, di agitare costantemente il tema del conflitto di interessi come un fantasma quando si parla di informazione e di comunicazione.
Si tratta di un tema su cui noi dell'UDC siamo sfidati, poiché crediamo che esso non debba rappresentare un alibi per le forze politiche.
Abbiamo perso troppe occasioni nell'intento di trovare delle regole condivise, comuni per questo settore che, voglio ripeterlo, appartiene al patrimonio indisponibile di ogni moderna democrazia. Ritengo che su questo terreno si possano individuare molte e diffuse responsabilità riguardanti anche l'incapacità di elaborare quelle regole condivise di cui parlavo in precedenza.
Il ministro Damiano ci ha esattamente riportato i termini della vicenda ricordando i sedici giorni di sciopero, che hanno contrassegnato questi due anni di difficoltà strutturali concernenti il dialogo tra le parti. Non sono stati affrontati e sciolti i veri nodi di questa vicenda contrattuale che - voglio ripeterlo e sottolinearlo - ovviamente appartiene all'autonomia contrattuale delle parti. Su questo il Governo può però svolgere un ruolo importante, fondamentale e strategico - al quale noi lo richiameremo, anche in successivi momenti - volto a facilitare il dialogo.
La nostra preoccupazione - emersa anche grazie a qualche collega intervenuto in precedenza - aumenta, poiché questa difficoltà di dialogo crea un freno allo sviluppo, alla crescita di un settore strategico. Ci troviamo dinnanzi ad uno scenario profondamente cambiato: l'informazione sta andando incontro a sviluppi epocali contrassegnati da nuovi strumenti informativi e da nuove e più sofisticate tecnologie che stanno modificando le regole fondamentali del settore stesso.
Si tratta di un cambiamento che non riguarda soltanto il nostro paese: basta vedere ciò che è successo in altre realtà - Inghilterra, Stati Uniti e così via - nell'ambito delle quali innovazioni tecnologiche profonde hanno prodotto un riallineamento, un assestamento delle imprese editoriali.
Rispetto a questo nuovo scenario occorre cambiare anche l'approccio culturale al tema in oggetto che, inevitabilmente, vede il principio del pluralismo garantito dalla nostra Carta costituzionale, poiché degno di rilievo in ogni moderna democrazia. In ogni caso, bisogna coniugare questo approccio con una nuova logica, che veda riconosciute le specificità di un settore industriale e si muova nell'ambito di più ampi scenari. Infatti, il quadro di riferimento è ormai internazionale e non corrisponde più al solo mercato domestico; quindi, ritengo che, coniugare il principio del pluralismo con le specificità di un settore industriale così rilevante rappresenti la prima sfida che un Governo deve saper affrontare per la modernità e il cambiamento.
Tra l'altro, sono del parere che questa sfida non vada affidata solamente alla buona volontà delle parti (editori, giornalisti Pag. 98e quant'altro), poiché compito del Governo è interpretare la modernità e introdurre quegli strumenti e quelle profonde innovazioni che tutti si aspettano.
Sono convinto che - lo ripeto e condivido le cose che hanno detto alcuni colleghi - questa vertenza possa essere affrontata in modo più incisivo ed efficace, ma solo se esistono dei mutamenti generali del quadro di riferimento che presuppongono inevitabilmente l'abbandono di un ruolo notarile da parte del Governo e l'assunzione di una forte responsabilità, che deve portare a provvedimenti organici che consentano di affrontare e aiutare le parti coinvolte nello sciogliere nodi strutturali. Questo è quello che ci aspettiamo.
Ho letto con attenzione le dichiarazioni del ministro, quelle di altri esponenti del Governo e di alcuni esponenti della maggioranza, in cui si parlava di maturità dei tempi per il rinnovo del contratto e di un intervento deciso da parte del Governo. Un rappresentante della maggioranza ha parlato di un Governo responsabile, che deve intervenire immediatamente per porre fine a questa anomalia.
Io sono convinto - lo dicevano anche i colleghi della maggioranza - che per facilitare il dialogo tra le parti occorre ridefinire, anche in termini innovativi, il quadro degli strumenti che abbiamo a disposizione, ma di questi provvedimenti finora non vedo traccia. Mi fa piacere che qualcuno abbia parlato del disegno di legge Gentiloni, ma non ritengo che esso aiuti a rinnovare il contratto collettivo di lavoro; infatti, solo incidentalmente tratta di un tema che riguarda l'editoria, solo incidentalmente affronta uno dei temi che è quello delle risorse pubblicitarie, delle risorse economiche da destinare al settore, sul quale c'è un ampio dibattito in Parlamento, anche con sensibilità diverse. Non credo che sia quello il termine di confronto di un Parlamento, che vuole affrontare seriamente il quadro di riferimento dei provvedimenti come è avvenuto in finanziaria. Non mi sembra che la legge finanziaria - non lo dico io, lo dice una delle parti coinvolte - offra strumenti innovativi che possano aiutare il dialogo.
Anch'io sono convinto che la riforma dell'editoria sia un'occasione perduta nella precedente legislatura, voglio affermarlo con grande determinazione e convinzione; infatti, la passata maggioranza, oltre alla riforma del sistema radiotelevisivo, avrebbe dovuto affrontare anche questa riforma, che rappresenta un altro elemento importante del sistema della comunicazione. È ovvio ed evidente però che, rispetto al protrarsi di una situazione di difficoltà strutturale del dialogo tra le parti - io ho ascoltato le dichiarazioni del sottosegretario alla Presidenza del consiglio per l'editoria, che afferma che il provvedimento sull'editoria non vedrà la luce se non nella prossima primavera - c'è una certa disorganicità nella tempistica dei provvedimenti.
Ritengo che rispetto all'eccezionalità della situazione bisogna evidentemente avere un'azione più incisiva, più fattiva che sia in grado di pungolare; quindi, provvedimenti di questo genere non possono attendere la prossima primavera, ma devono essere immediatamente predisposti e posti all'attenzione immediata delle istituzioni.
Mi voglio unire anch'io all'invito rivolto al Governo da tutti i colleghi che mi hanno preceduto a svolgere un ruolo più incisivo. Non dico ciò per mera polemica politica, ma perché lo crediamo profondamente; infatti, non bastano i tavoli tecnici e le enunciazioni di principio per affrontare alcuni temi. Ritengo che ci sia la necessità di costruire veramente un quadro di strumenti innovativi e di provvedimenti che incidano complessivamente sul settore, che sta assumendo sempre più un quadro di riferimento diverso, in modo da favorire appunto il dialogo tra le parti.
Di fronte a questo io e il mio gruppo vogliamo un'assunzione di responsabilità; quindi, siamo disponibili a discutere su provvedimenti seri che favoriscano questo settore, lo aiutino a crescere, gli diano un respiro anche internazionale, facilitando la chiusura di questa vertenza riguardante il rinnovo del contratto dei giornalisti.
Siamo, inoltre, disponibili a lavorare ad un'iter accelerato dal punto di vista legislativo Pag. 99in Parlamento affinché si possa chiudere per sempre e per tutti, con regole condivise, un quadro di riferimento da offrire al settore e a tutti i suoi operatori, sia lavoratori che imprenditori. Per questo richiamiamo fortemente e con convinzione il Governo a svolgere un'azione forte ed autorevole, come è nelle sue possibilità (Applausi dei deputati dei gruppi UDC (Unione dei Democratici Cristiani e dei Democratici di Centro) e Forza Italia).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Evangelisti. Ne ha facoltà.
FABIO EVANGELISTI. Signor Presidente, credo che il nostro dibattito e le cose che ci diciamo possano avere un valore (lo avranno senz'altro) se oltre ai legittimi posizionamenti o riposizionamenti politici sapremo anche dar prova di aver compreso che la partita aperta tra editori giornalisti è certamente attinente alla sfera del diritto comune e rientra senz'altro nelle precipue prerogative dell'autonomia privata collettiva, come ricordato con assoluta correttezza dal ministro Damiano.
Tuttavia, essa non esaurisce certo i suoi effetti in questo ambito ristretto, altrimenti non si capirebbe il senso di questa «prima volta», in cui la Camera dei deputati si misura e si interroga su una vertenza contrattuale. Infatti, in questione vi è qualcosa di più; stiamo discutendo di pluralismo dell'informazione, stiamo parlando di civiltà, di libertà, di impresa, di lavoro, di diritti e di doveri. Insomma, stiamo parlando di democrazia. Non voglio enfatizzare né scomodare paroloni, ma, con tutto il rispetto, non stiamo parlando del rinnovo del contratto dei tessili.
Sarà perché del giornalismo mantengo ancora un'immagine romantica e, se mi si permette, «novecentesca» più che «ottocentesca», con riferimento all'intervento dell'onorevole Gasparri. Mi riferisco all'immagine romantica dei Barzini e degli Albertini, di Montanelli a Budapest nel 1956 con la Olivetti Lettera 22, così come ho in mente la Fallaci inviata di guerra, ma anche più recentemente la Anna Politkovskaia uccisa a Mosca, oppure la Giuliana Sgrena rapita in Iraq, oppure - è stato citato appropriatamente, ma non compiutamente - Enzo Baldoni, un free lance, definibile anche come precario, il cui corpo peraltro non è ancora rientrato in Italia. Qualcuno, che preferirei definire «pennivendolo» anche se regolarmente iscritto all'albo dei giornalisti, lo definì un «pirlacchione» (grande «pirla») partito per fare vacanze intelligenti in Iraq, dove in verità di intelligence c'erano soltanto i servizi segreti che pagavano queste espressioni offensive del «pennivendolo». Questa non è un'altra storia, ma attiene al senso della discussione e del confronto che dobbiamo fare oggi in quest'aula.
Dicevo che si tratta di un'immagine romantica, che si rivolge ancora al giornalismo come ad una sorta di quarto potere, che controlla e stimola gli altri tre, o almeno dovrebbe farlo. Si tratta di un quarto potere che oggi, anziché vedere una contrapposizione tra giornalisti ed editori, dovrebbe e potrebbe vedere una sinergia tra di essi, per conoscere una nuova ed esaltante stagione.
Vi è anche questo: il peso e la portata della rivoluzione informatica e delle nuove tecnologie ha certamente comportato trasformazioni profonde, lacerazioni violente, sacrifici, ma anche fusioni e sinergie. Soprattutto essa ha aperto possibilità nuove: basti pensare al ruolo delle TV e del web, alla telefonia mobile, all'interattività. Insomma, oggi nel mondo la possibilità di fare e fornire informazioni non è diminuita, bensì aumentata a dismisura così come oggi, ogni giorno di più, aumenta la domanda e la voglia di muoversi e comunicare, di muoversi e conoscere, di fare e ricevere informazioni.
Insomma, è quasi una sorta di assillo per ciascuno di noi, salvo poi essere capaci di rivendicare tali diritti all'Occidente ricco e prospero e, magari, negarli a qualcun altro. In questo quadro colloco il conflitto tra giornalisti ed editori di cui stiamo parlando.
Stiamo, dunque, discutendo di un conflitto tra datori di lavoro del tutto particolari (anche qui vi è un riferimento Pag. 100soltanto romantico all'editore puro) e lavoratori altrettanto particolari. È una categoria - questa dei giornalisti - a metà strada (forse, è meglio dire «compressa») tra il salario e la libera professione. È una categoria dove la maggior parte dei lavoratori si trova nella condizione dei nostri ricercatori universitari, costretti a barcamenarsi con mille euro al mese, e dove, invece, brillano, come le star del calcio professionistico, autorevolissime firme che il problema del rinnovo del contratto lo hanno già risolto in proprio.
La domanda, quindi, è la seguente: è davvero uno strumento desueto il contratto collettivo di lavoro per i 12 mila giornalisti che chiedono tutela anche per gli altri 8 mila i quali, a malapena - lo ha ricordato il Governo nel suo intervento - raggiungono i 5 mila euro all'anno? A nostro avviso, lo strumento non solo non è desueto, ma può contribuire a liberare le molte penne che oggi non sono libere perché precarie, intimidite e sotto ricatto.
Pertanto, invitiamo il ministro ed il Governo a continuare in questa azione di moral suasion; lo invitiamo a non ascoltare i consigli interessati dei vari Testoni o Gasparri. Non so se l'onorevole Giulietti nel suo intervento avesse in mente il nome di Silvio Berlusconi, non so se fosse questo il riferimento che intendeva fare menzionando un editore che in questa sede non è stato mai citato. Mi permetto sommessamente di fare io questo nome: egli non è soltanto un esponente politico portatore di un conflitto di interessi, ma è anche un editore (in verità, per niente puro, ma è un editore). E, forse, è tra quegli editori che possono dirsi veri padroni di deputati che prendono la parola in quest'aula.
Non ascolti, il Governo, questi consigli interessati, ma porti avanti la sua azione. Al tempo stesso, il Governo si impegni (lo sta già facendo e nelle prossime settimane avremo modo di approfondire il tema in occasione dell'esame del disegno di legge presentato dal ministro delle comunicazioni) affinché, davvero, la TV pubblica possa liberarsi dalla morsa dei partiti sull'esempio di Zapatero in Spagna. E non si faccia scrupoli, il Governo, neppure ad utilizzare la leva dei contributi pubblici. Però, più che per sbloccare la situazione contrattuale, usi questa leva per favorire innovazione, diritti, ricerca e tecnologia. E faccia ricorso ad una flessibilità che non significhi solo precarietà, sapendo, signor ministro, che per essere credibile dovrà usare la stessa leva anche verso i giornali di partito.
PRESIDENTE. È iscritta a parlare la deputata Tana De Zulueta. Ne ha facoltà.
TANA DE ZULUETA. Signor Presidente, questi sono tempi abbastanza duri per i giornalisti e per l'informazione in Italia. Oltre alla vertenza, che si è prolungata per un tempo davvero anomalo, vi sono stati anche atti legislativi recenti che rischiano di comprimere, addirittura compromettere, la libertà di stampa. Cito l'esempio delle recenti norme sulle intercettazioni: per tutelare la privacy si è fatto un torto - spero non irrimediabilmente - alla libertà di informazione con un provvedimento irragionevolmente punitivo.
Già nella scorsa legislatura si è evidenziata l'incapacità di approvare una norma che davvero fosse di tutela contro la diffamazione. Adesso, assistiamo a questa strana vertenza; strana perché è anomala, per la sua durezza, considerando il settore in cui si sta svolgendo. Due anni sono davvero molti. Nonostante le ripetute dichiarazioni di disponibilità da parte dei giornalisti e nonostante il Governo si sia reso mediatore e sostenitore di una vertenza importante, ci troviamo di fronte ad una sorprendente e totale intransigenza degli editori, guidati da un ambasciatore (anche questo mi sembra incongruo). Come ha affermato, prima di me, l'onorevole Tranfaglia, non credo che questa vertenza si basi sulla valutazione dell'eccessivo costo del contratto proposto. Credo, invece, che riguardi proprio il modo in cui il settore è organizzato; lo hanno quasi dichiarato, nel corso delle loro audizioni in Parlamento, alcuni editori. Si ambisce ad una destrutturazione del lavoro giornalistico, con la tentazione di seguire l'intermodalità mediatica in Pag. 101atto. Questa è, tuttavia, una interpretazione perversa di ciò che dovrebbe essere una opportunità di sviluppo, finalizzata a ridurre il lavoro, la produzione di idee e l'informazione ad una merce assolutamente non garantita, né tutelata.
Insomma, è una specie di battaglia ideologica i cui profili sono non soltanto economici. Il rinnovo del contratto dei giornalisti - come hanno ripetuto quasi tutti i colleghi che sono intervenuti in precedenza - non è una mera questione sindacale, ma riguarda la libertà di stampa, la tutela della professionalità dei giornalisti e, soprattutto e in primo luogo, il diritto di tutti noi, dei cittadini, ad una informazione corretta e completa, a quel pluralismo che è tutelato dalla Costituzione e che, nei fatti, in Italia fatica a realizzarsi pienamente. Gli editori, imprenditori del settore, parlano con convinzione della necessità di maggiore flessibilità. Nel contesto in cui essi operano, questo si è già tradotto in una perversa precarizzazione del lavoro: perversa, perché basta guardare alle cifre, a quanto guadagnano i giornalisti con contratti cosiddetti precari. Ci sono anche problemi di affidabilità nei pagamenti e chiunque abbia lavorato in questo settore lo sa. Sono stata giornalista free lance per quasi vent'anni; conosco bene questi problemi e sono ben contenta di non aver tentato di lavorare in tal modo in Italia, nel settore editoriale italiano, perché avrei faticato a sopravvivere. Semplicemente, si tenga presente che, oltre all'editore che paga poco, c'è anche l'editore che non paga affatto. In questa situazione, noi stiamo apponendo - come hanno affermato l'onorevole Giulietti e molti altri - una pesantissima ipoteca sulla indipendenza dei giornalisti. Ringrazio il Governo per l'attenzione e per lo sforzo profusi finora, anche se non ha raggiunto l'auspicato risultato. Proprio per questo motivo l'attenzione di questa Assemblea si è fatta così stringente.
Tutti i giornalisti (ma non solo, perché è stata citata molte volte) conoscono la tabella di Freedom House, quell'associazione americana che tenta di monitorare la libertà di espressione in tutto il mondo.
C'è chi si è lamentato con durezza del fatto che l'Italia è collocata in una posizione bassissima, sotto molti paesi che sono considerati del Terzo mondo. Faccio presente che la tabella di Freedom House non è costruita su criteri soggettivi, bensì su una griglia con la quale quell'associazione tenta di misurare la libertà di espressione.
Noi in Italia abbiamo dei problemi di cui si sa fin troppo: il duopolio televisivo, che, come ha detto il collega Giulietti, schiaccia il mercato, l'innovazione: il fatto è che schiaccia anche il mondo del lavoro e la qualità, a danno dei cittadini, cioè di quella categoria così ambita da alcuni editori, ovvero quella dei cosiddetti consumatori.
Vi è poi l'anomalia del conflitto di interesse, cioè del primo editore e monopolista assoluto della televisione commerciale, che è anche leader politico. C'è un altro aspetto della anomalia italiana di cui si parla poco: il collega Gasparri ha accennato al problema, egli dice, di direttori di testate o di amministratori del settore editoriale che non sono altro che impiegati per conto terzi. Si tratta cioè di persone che gestiscono l'impresa editoriale non in funzione della sua attività intrinseca, ma della capacità di influenzare la politica e magari di scambiarsi favori con questo mondo.
Le drammatiche vicende, spesso finite in sede penale, dei successivi tentativi di controllare il Corriere della Sera, a cominciare da quello della P2, nonché altri tentativi un poco meno criminogeni degli anni successivi (ma ce ne è stato uno solo un paio di anni fa) vanno molto al di là del valore intrinseco di quella testata. Nessuno si è scannato in quel modo per controllare il Times, ad esempio.
Il Corriere della Sera è considerato una piattaforma dalla quale gestire appunto l'attività dello scambio di influenze. Questo ha ben poco a che fare con l'informazione. Ritengo che gli editori italiani si siano adagiati in una nicchia che per certi versi è protetta. Godono, fatto unico in Europa, di centinaia di milioni di euro di provvigioni e di aiuti. Questo sistema sarà Pag. 102adesso sotto la lente, sotto l'esame del Governo con la riforma dell'editoria. Credo che questo sia una cosa sana.
Credo però che, se gli editori godono appunto di questi speciali incentivi (è stato citato il sussidio all'abbonamento postale) ciò è possibile perché operano in un settore con una valenza costituzionalmente rilevante: quella di garantire ai cittadini la pluralità della informazione. Non possono pretendere di godere soltanto delle provvigioni e non concepire invece che anche la merce che loro vorrebbero vendere in un sistema incontrollato, e cioè l'informazione, ha bisogno di garanzie nelle modalità e soprattutto negli autori che la producono, perché questo è lavoro di ingegno, che merita un trattamento speciale.
Il contratto nazionale dei giornalisti costituisce un tentativo di creare una regolamentazione corretta, aggiornandola al nuovo mondo dell'informazione e, appunto, a quella intermodalità. Tuttavia, la flessibilità che può essere contemplata all'interno di un contratto ben fatto è altra cosa rispetto al mondo selvaggio, che abbiamo di fronte e che mi sembra gli editori vorrebbero ingiustificabilmente ottenere.
È stato affermato che una riforma collegata a quella dell'editoria e al contratto dei giornalisti è quella del settore radiotelevisivo, che si trova sotto la pesantissima zavorra del duopolio, che ne impedisce un sano sviluppo e una corretta informazione. Ritengo che una buona riforma del settore aiuterebbe anche l'editoria ad uscire da un'eccessiva dipendenza dalle vendite e da sussidi magari impropri.
Non vi è paese nel mondo occidentale nel quale una quota così rilevante del reddito pubblicitario sia assorbita dall'idrovora della televisione. Spero che liberando tali risorse si possano creare migliori condizioni di sviluppo.
Pertanto, sollecito il Governo a lavorare con convinzione, come ha fatto fino ad oggi, per giungere ad una soluzione di questo contratto, tenendo presente che se il settore dell'editoria vuole continuare a godere dei sussidi e degli aiuti che ha fin qui ricevuto, deve anche affrontare le proprie responsabilità.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Satta. Ne ha facoltà.
ANTONIO SATTA. Signor Presidente, colleghi, ritengo che il fatto che si svolga in aula un dibattito sull'informazione, traendo spunto dal contratto nazionale dei giornalisti che rimane ancora appeso dopo diversi anni, costituisca un evento di grande rilevanza politica, non in quanto il Parlamento debba risolvere il contratto né tantomeno perché il Governo debba sottoscrivere il contratto tra giornalisti ed editori, ma in quanto il Parlamento, per il ruolo che ricopre nel paese, può certamente rafforzare e stimolare l'opera del Governo affinché le parti possano ritrovarsi e chiudere finalmente una vertenza che si trascina ormai da oltre due anni.
A fine anno i lettori dei giornali e gli ascoltatori delle radio e delle televisioni hanno più volte letto o sentito parlare di sciopero delle firme e del contratto di lavoro scaduto da quasi due anni, che gli editori non vogliono rinegoziare. Si tratta di una notizia che si ripete da mesi e che rimarrà attuale chissà ancora per quanto tempo; ricordo che vi sono state 18 giornate di sciopero in 22 mesi.
Il Presidente Prodi ha affermato di non ricordare una vertenza così lunga e difficile, sia per stipulare un contratto di lavoro sia per aprire un tavolo negoziale tra le parti sociali. Il Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, il 28 settembre, aveva fatto sentire la sua voce per dire con chiarezza che il contratto dei giornalisti, come tutti i contratti, è un diritto primario, ma nello specifico rappresenta qualcosa di molto particolare perché interviene a garanzia della democrazia dell'informazione. Concetti simili hanno espresso più volte negli ultimi mesi anche i Presidenti di Camera e Senato.
Gli imprenditori della Federazione italiana editori di giornali però non ci sentono o fingono di non sentire, ingaggiando una sorta di lotta verso i giornalisti contro Pag. 103lo sciopero di questi ultimi, negando ogni confronto e finora qualsiasi ipotesi di discussione comune sui problemi del settore.
Si tratta di una linea di rottura assoluta, da resa dei conti finale nei confronti dei giornalisti che - occorre ricordarlo sempre - assicurano ogni giorno la circolazione delle notizie e delle idee: senza il loro intervento i giornali, la radio, i telegiornali non ci sarebbero, perché con le sole macchine e con i soli meccanismi tipici di qualsiasi altra produzione industriale non è possibile fare informazione.
Ha detto bene il ministro del lavoro, che certamente non è noto per i suoi eccessi ma per la sua moderazione e per il suo self control, quando alla fine, dopo tanti tentativi, ha affermato testualmente: «Il negoziato per il contratto dei giornalisti, che riguarda un ambito direttamente connesso alla salute della democrazia, è sin qui fallito per colpa della FIEG». Sono in gioco questioni attinenti alle libertà che si ricollegano alla vita del lavoro. Si vuol far credere - cari colleghi - che il tempo del contratto collettivo sia finito, che sia cioè antimoderno e non riformista. Ma a costoro (fra essi anche colleghi di centrosinistra e di centrodestra) bisognerebbe ricordare quello che sostiene il manifesto dell'Unione democratica nazionale di Giovanni Amendola, quando afferma che vanno respinte, come utopie retrive, incivili ed antieconomiche, le pretese di incatenare al capriccio di un sistema politico o al tornaconto di capitalisti o di imprenditori miopi, la legittima difesa e la contrattazione del lavoro. I sottoscrittori liberali del manifesto amendoliano affermano che la libertà dell'organizzazione del lavoro e dell'azione sindacale, entro i limiti della legge, è sacra quanto ogni altra libertà e rappresenta non soltanto un diritto dei lavoratori, ma altresì un interesse della produzione e perciò un interesse nazionale.
Cosa si può pensare di questo sistema contrattuale che non si chiude? Fino a qualche tempo fa poteva essere lecito considerare i rifiuti della Federazione degli editori la solita battaglia di posizione per - come si diceva una volta - «non pagare dazio», guadagnare cioè un anno prima del rinnovo contrattuale e quindi realizzare dei risparmi di costo. Ora, anche per chi un anno e mezzo fa non voleva guardare oltre e valutare appieno il nuovo scenario verso cui vorrebbero andare gli editori più potenti, è chiaro che l'obiettivo è diverso.
Accanto all'idea di risparmiare sui costi del lavoro si persegue il disegno di rendere marginale o nulla la contrattazione collettiva, di ampliare l'area del precariato, riducendo la quota di giornalisti a tempo indeterminato e aumentando a dismisura i contratti a termine e i rapporti anomali di collaborazione coordinata (i famosi co.co.co), che, nella maggior parte dei casi, nascondono forme di lavoro parasubordinato.
È di tutta evidenza che un giornalista, privato dei suoi diritti elementari di lavoratore, chiamato a trattare non con una merce qualsiasi ma con un bene speciale come l'informazione, fondamentale per l'espressione di una libera coscienza pubblica, può essere intimidito, piegato, ricattato, nel migliore dei casi indirizzato, a scrivere secondo il volere e il potere superiore. Sono in gioco, pertanto, le questioni del pane e quelle fondamentali della libertà.
Si tende talvolta ad ironizzare sui giornalisti inginocchiati, cortigiani, addirittura prezzolati. Capita che, come nelle migliori famiglie, vi sia chi si trovi realmente in queste condizioni, ma la realtà, quella della grande maggioranza della categoria, è un'altra e meritano una medaglia la correttezza e la lealtà delle migliaia di giornalisti precari che vengono impiegati del tutto o quasi come un collega a tempo indeterminato e che sono pagati tra i 3 e i 12 euro ad articolo (ricordo ai miei tempi 25 lire a riga), che rendono onore alla professione, a se stessi e anche alle televisioni o ai giornali per i quali lavorano: ma è giusto che continuino a lavorare in queste condizioni?
La Federazione nazionale della stampa dice di no! Ha chiesto perciò che venga fatta una ricognizione congiunta con gli Pag. 104editori: chi svolge attività tipica da lavoro dipendente deve essere inquadrato regolarmente negli organici; quanti invece svolgono una reale attività di collaborazione autonoma hanno diritto a un giusto compenso e non agli scandalosi tariffari applicati oggi dai nostri editori e al trattamento previdenziale. Si tratta forse di una richiesta fuori dal mondo? Sembra di sì, soprattutto quando si pensa che i giornali e gli editori possono ottenere benefici a basso costo da questo modo di trattare i giornalisti.
Allo stesso modo, si vuole abbattere lo stipendio dei nuovi assunti, ridurre gli incrementi retributivi per tutti, tagliare gli aumenti di anzianità, che, per chi non fa carriera, sono l'unica garanzia di progressione durante tutta la vita lavorativa. Ho sentito che il ministro ha già fatto un riferimento - in quel momento non ero presente - su un dato che non è conosciuto da molti, e cioè che sono più di 12 mila i giornalisti con un contratto di lavoro stabile. Ebbene, il 25 per cento di essi sta molto bene, forse è anche ricco, gode di molti benefit; un altro 25 per cento fa parte della classe media; il terzo 25 per cento ha difficoltà con il bilancio familiare mensile, con uno stipendio tra gli 800 e i 1.200 euro; l'ultimo 25 per cento è proprio povero. Se poi parliamo dei 22 mila giornalisti autonomi, ben 9 mila non superano i 7 mila euro di reddito annuo. Come se non bastasse, si vogliono mettere a rischio le pensioni, negando - questo è un fatto gravissimo, signor ministro - la firma su una riforma che agli editori non costa un euro e che paga tutta intera la categoria, aumentando l'età pensionabile ed introducendo altri correttivi sulla spesa. La firma degli editori, purtroppo, è necessaria perché così prevede la legge. L'istituto di previdenza dei giornalisti gode di un'autonomia che dà fastidio perché allo stesso per legge è affidato anche il compito dei controlli di legalità sulla correttezza dei versamenti contributivi da parte delle aziende.
Forse non è chiaro a tutti, ma quella del sindacato dei giornalisti è una battaglia di legalità e di civiltà per la dignità del lavoro e della libertà di informazione. Penso che chi avverte questa battaglia di civiltà e di libertà, il Governo e, in questo caso, il ministro Damiano, oggi si senta confortato da una presa di posizione generale, al di là delle considerazioni di parte fatte da questo o da quell'altro collega; tuttavia, al centro rimane il problema del giornalista, della libertà di stampa, dell'informazione, del trattamento economico e del precariato, per il quale questo Governo e questa maggioranza si stanno battendo a tutti i livelli nei vari settori. Quindi, il cambiamento positivo si può realizzare insieme - come afferma il presidente della Federazione nazionale della stampa, Franco Siddi -, tanto più in un settore dove, comunque la si pensi, le macchine, le tecnologie più sofisticate e i soldi non potranno mai sostituire le mani e il pensiero intelligente dell'uomo. Negoziare rimane l'unica via di uscita per affrontare i problemi e disegnare una nuova fase di sviluppo dell'industria dell'informazione, senza che nessuno rinunci in partenza alle proprie idee. Occorre però rinunciare ad idee di annientamento ed affrontare con serenità e rigore tutte le questioni, perché le ragioni di fondo delle parti possano avere uno sviluppo in una nuova composizione condivisa dei patti del lavoro.
Per tali motivi, facciamo gli auguri al ministro perché possa, ancora una volta, tentare di ricomporre al più presto questa vertenza durissima, di cui pagano le conseguenze non soltanto i lavoratori, ma l'intera opinione pubblica del nostro paese. Quindi, si tratta di un segnale di democrazia che viene a cadere, dopo che - qualche collega l'ha ricordato - siamo all'ottantesimo posto nel mondo sulla libertà di informazione. Di conseguenza, occorre una spinta maggiore e forzare i tempi perché questa vertenza possa davvero chiudersi in tempi veramente molto brevi (Applausi dei deputati dei gruppi Popolari-Udeur e L'Ulivo).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Villetti. Ne ha facoltà.
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ROBERTO VILLETTI. Signor Presidente, il rischio che corre questo dibattito parlamentare, sicuramente importante, è quello di rimanere puramente e semplicemente sul terreno della moral suasion. Ci sono stati diversi inviti delle massime autorità dello Stato a questo proposito; c'è stato un intervento di evidente chiarezza fatto dal ministro del lavoro Damiano e, tuttavia, finora queste pressioni non hanno ottenuto dei risultati. La speranza è che questo dibattito parlamentare dia ancora più forza di persuasione al Governo.
Ci troviamo in una situazione nella quale, come è stato ricordato, il divario tra i rappresentanti dei giornalisti e quelli dell'editoria non riguarda soltanto il merito - tutti abbiamo compreso questo aspetto -, ma coinvolge la stessa valutazione se sia valido o non valido il contratto nazionale e, più al fondo, si prospetta una figura del giornalista totalmente deregolamentata e fortemente individualizzata. Credo che è di fronte a tale tipo di sfida che dobbiamo agire, ed agire come deve farlo il Parlamento, ossia attraverso le leggi e le regole.
Onorevoli colleghi, noi, quale gruppo parlamentare della Rosa nel Pugno, siamo stati sempre contrari a limitare le professioni entro ordini chiusi e corporativi, che, di fatto, pongono barriere nei confronti dei giovani. Questa nostra valutazione ci ha portato ad impegnarci per il superamento degli ordini professionali, non con molta fortuna e, tra questi, di quello dei giornalisti e, comunque, per operare affinché ci fosse - e ciò che si è verificato (ricordo il «pacchetto Bersani») - una spinta ad una forte liberalizzazione. Il caso, tuttavia, del settore giornalistico è emblematico. Esiste l'ordine professionale, ma non viene tutelata la professione di giornalista o, meglio, si è creata una situazione che presenta una forte distorsione, che non ha nulla a che vedere con la flessibilità. In altre parole, nel mondo giornalistico vi è quasi il doppio dei lavoratori a tempo determinato o, comunque, di collaborazioni. È un mondo molto complesso rispetto a quello dei lavoratori a tempo determinato. Ciò pone un problema molto forte al sindacato dei giornalisti, lo ricordava Paolo Serventi Longhi, segretario generale della federazione nazionale della stampa, che diceva che si devono riuscire a difendere gli interessi dei nostri rappresentati, dei 12.500 giornalisti con contratto di lavoro (articolo 1) e, nello stesso tempo, si deve ampliare il fronte delle tutele per coloro che da anni lavorano in regime di precariato, per chi un rapporto di lavoro, per quanto labile, lo vede come un miraggio. La possibilità di realizzare una tutela in merito passa attraverso un vero e proprio cambiamento, anche di mentalità. Occorre che nel campo del lavoro a tempo indeterminato prevalga una maggiore flessibilità e nel campo del lavoro che viene considerato flessibile vi sia una maggiore regolamentazione.
Ed è questo il punto di crisi che vedo molto forte nel mondo dell'editoria. Perché ce ne preoccupiamo? Onorevoli colleghi, la concezione liberale della libertà di informazione si è sempre fondata sul pluralismo, il pluralismo delle proprietà, il pluralismo degli editori, il pluralismo che assicura un ventaglio di voci. Stiamo assistendo ad un mastodontico processo di concentrazione che porta a grandi conglomerati multimediali, a livello nazionale ed internazionale. In Italia vi è addirittura un conglomerato che non è solo multimediale, ma anche politico, rappresentato da Berlusconi, un fattore assolutamente inedito nelle grandi democrazie liberali.
Questo ci deve far riflettere: una condizione di oligopolio non assicura quella concorrenza e quella competitività che sono necessarie per porre il pluralismo alla base della libertà di informazione. Quindi, dobbiamo trovare, in qualche modo, gli strumenti per tutelare la libertà di informazione, non in quanto concessione dello Stato, ma come qualcosa che sia attivato dalla società civile. In tale contesto, proprio perché il pluralismo non riesce più ad assicurare un ampio arco di voci, è necessario tutelare l'autonomia professionale dei giornalisti.
Guardate che la questione non è facile, perché ci sono l'orientamento della proprietà, Pag. 106l'orientamento del direttore e la linea politica del giornale: in qualche modo, l'autonomia del giornalista è già un oggetto misterioso, nient'affatto manifesto. Si tratta, però, di tutelare il giornalista rispetto ad un certo modo di fare informazione, come uno degli elementi, non l'unico, di un complesso insieme di interventi che devono riguardare il mercato pubblicitario, l'editoria, la valorizzazione dei giornali di opinione. In particolare, penso che quest'ultima sia una grandissima risorsa dell'Italia: il Riformista, diretto da Paolo Franchi, o Il Foglio, diretto da Giuliano Ferrara, sono due testate che danno sale alla nostra democrazia.
Lì dobbiamo operare o, meglio, rioperare. Mi rivolgo anche al sottosegretario Ricky Levi, il quale si occupa della materia presso la Presidenza del Consiglio: questo è un settore che non dobbiamo far vivere tra le ristrettezze, proprio per la crescita di forti conglomerati multimediali che, spesso, hanno risvolti evidentemente politici (pensiamo al ruolo che ha svolto e che svolge Murdoch nel mondo occidentale, al suo peso politico ed al modo in cui lo fa contare).
Quindi, deve esserci, da parte nostra, un aggiornamento di una concezione liberale che, a mio giudizio, conserva alcuni fondamenti assolutamente corretti e giusti, ma che non è più sufficiente nell'attuale situazione di profondo cambiamento.
Il modo per intervenire - mi rivolgo al ministro del lavoro e della previdenza sociale - è soprattutto quello di individuare questa immensa area del precariato giornalistico come qualcosa di patologico. È stato edito dalla federazione nazionale della stampa un libro bianco sul lavoro nero, a cura di Renzo Santelli. In Italia, siamo abituati a pensare, quando dobbiamo affrontare un problema, di approvare una nuova legge. Probabilmente, nuove leggi sono necessarie - e sicuramente lo sono per il riordino del sistema televisivo e nel settore dell'editoria -, ma io dico al ministro del lavoro che una delle cose che bisogna fare in Italia è quella di rispettare le leggi che ci sono. E tutto il mondo giornalistico deve essere una casa di vetro: le violazioni delle leggi che possono essere commesse in tale ambito acquistano maggiore gravità perché hanno a che fare con un bene comune prezioso come la libertà di informazione.
Quindi, sicuramente moral suasion, sicuramente un invito agli editori a togliere le pregiudiziali e a sedersi finalmente al tavolo dei negoziati, ma c'è bisogno anche di una volontà politica di fondo di un Governo che vuole, in questa materia, non creare ed ampliare la sua sfera di influenza e il suo condizionamento nei confronti dei giornali, ma vuole garantire che, in questo mercato giornalistico, ci possano essere più voci, voci contrastanti che sono fondamentali per lo sviluppo della nostra democrazia.
Signor Presidente, credo che questo dibattito dia forza al Governo ed al ministro Damiano, per riuscire, finalmente, a far sì che la vicenda di questo contratto non arrivi a durare tre anni. Già sta durando due anni. Se, infatti, arriva a durare due anni, allora, da questo punto di vista, è una battaglia che, forse, è già persa in partenza. Sono certo che il Governo, il ministro Damiano ed il Presidente del Consiglio si muoveranno in questa direzione e speriamo, finalmente, di vedere seduti ad un tavolo di trattative - lo sanno come si deve trattare - i rappresentanti dei giornalisti e quelli degli editori (Applausi dei deputati dei gruppi La Rosa nel Pugno e Verdi).
PRESIDENTE. Dichiaro chiusa la discussione sulle comunicazioni del Governo.
Sospendo brevemente la seduta, che riprenderà con l'informativa urgente del Governo sul rinvenimento in Sardegna di ordigni esplosivi nei pressi delle abitazioni di due sottosegretari di Stato.
La seduta è sospesa.
La seduta, sospesa alle 19,35, è ripresa alle 19,40.