Immunità – Corte costituzionale e insindacabilità

Gli orientamenti della giurisprudenza costituzionale anteriori alla legge n. 140 del 2003

L’articolo 68 della Costituzione, al primo comma, recita: “I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere per le opinioni espresse o i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni”.

In base alla prassi e alla costante giurisprudenza della Corte (a partire dalla sent. 1150/1988), consolidatesi entrambe anteriormente alle novità legislative del 2003 (sulle quali v. infra), i membri del Parlamento italiano possono far valere la prerogativa di cui al primo comma dell’art. 68 Cost. in due sedi:

§         possono eccepire la guarentigia dell’insindacabilità innanzi al giudice ordinario presso il quale siano stati chiamati a rispondere in sede penale o civile (a seguito di querela o di atto di citazione);

§         possono chiedere alla Camera di appartenenza di valutare la condotta addebitata e di pronunciarsi in ordine all’insindacabilità della condotta stessa.

I due percorsi non si escludono; è possibile, pertanto, che l’autorità giudiziaria e la Camera d’appartenenza si esprimano diversamente. Secondo la Corte costituzionale, tuttavia, se la Camera delibera nel senso dellinsindacabilità, allora lautorità giudiziaria – quale che sia il grado in cui pende il processo – è tenuta a conformarsi al giudizio del Parlamento oppure a elevare conflitto dattribuzioni innanzi alla Corte costituzionale stessa, ove ritenga di dolersi di un cattivo esercizio del potere deliberativo e di un’invasione nelle proprie attribuzioni.

Se la Corte costituzionale ritiene che la Camera abbia esercitato in modo esorbitante il suo potere di qualificare la condotta del parlamentare come pertinente all’esercizio del mandato parlamentare ed abbia pertanto errato nel dichiarare un’insindacabilità, accoglie il ricorso dell’autorità giudiziaria e annulla la delibera della Camera. In caso contrario, rigetta il ricorso.

Negli orientamenti della Corte si possono individuare tre fasi:

§         in un primo tempo, essa ha stabilito il principio della c.d. verifica esterna. Secondo questo principio, in sede di risoluzione dei conflitti, la Corte doveva limitarsi a controllare che la delibera parlamentare in relazione al caso concreto fosse il frutto di un procedimento parlamentare completo, regolare e motivato e non poteva spingersi a valutare la congruità di merito delle argomentazioni della Camera pronunciatasi sul punto[1].

§         in un secondo momento si è affermato un indirizzo lievemente diverso, secondo cui il controllo della Corte sulla delibera parlamentare (impugnata con il ricorso per conflitto d’attribuzione) non poteva arrestarsi alla verifica esterna dinanzi a deliberazioni nelle quali il nesso funzionale tra le dichiarazioni oggetto del contendere e il mandato parlamentare fosse palesemente inesistente[2];

§         nel corso del 2000 e del 2001, si è affermato un ulteriore indirizzo. Partendo dal presupposto che l’insindacabilità delle opinioni espresse nell’esercizio delle funzioni costituisce un’eccezione al principio generale della soggezione di tutti i cittadini alla giurisdizione esercitata secondo la legge, la Corte ha stabilito che di essa occorre dare un’interpretazione rigorosa e aderente alla ratio costituzionale, che prevede un presidio a tutela della funzione e non una guarentigia personale di chi la ricopre. Sono pertanto sicuramente insindacabili gli atti tipici dell’attività parlamentare; quelli svolti “extra moenia” lo sono invece solo se e nella misura in cui siano “identificabili” come attività parlamentare, abbiano cioè una “corrispondenza sostanziale” di contenuto con atti parlamentari tipici. In buona sostanza, intanto una dichiarazione resa alla stampa o in televisione può ritenersi attività prodromica o conseguente all’esercizio del mandato parlamentare in quanto sia fedele riproduzione all’esterno, e dunque divulgazione e rappresentazione, dei contenuti esatti di atti tipici (c.d. teoria della divulgazione[3]). In sintesi:

-          sono insindacabili i contenuti degli atti funzionali tipici (proposte di legge, dichiarazioni di voto, atti di sindacato ispettivo, etc.);

-          sono insindacabili le dichiarazioni rese fuori dalle formali sedi parlamentari, purché siano la riproduzione del contenuto degli atti tipici della funzione;

-          non è sufficiente a rendere insindacabile una dichiarazione la sua mera coloritura politica o la semplice comunanza di argomento con temi trattati nei dibattiti parlamentari.

La legge n. 140 del 2003 e la giurisprudenza della Corte

La L. 140/2003[4], che ha introdotto norme per l’attuazione all’art. 68 Cost. (sulla quale, v. la scheda Immunità – La legge attuativa dell’art. 68 Cost.), all’articolo 3 dispone in materia di insindacabilità parlamentare.

Il comma 1 dell’articolo, in particolare, individua una serie di atti ai quali deve ritenersi applicabile “in ogni caso” la garanzia dell’insindacabilità, richiamando, oltre agli “atti tipici”[5], anche “ogni altra attività di ispezione, di divulgazione, di critica e di denuncia politica, connessa alla funzione di parlamentare, espletata anche fuori del Parlamento”.

 

In base alla procedura delineata nei commi successivi, il giudice è chiamato a provvedere direttamente ove – d’ufficio o su eccezione di parte – ritenga doversi applicare l’art. 68, co. 1°, Cost.. Qualora, invece, ritenga non fondata l’eccezione di applicabilità sollevata da una delle parti, il giudice è tenuto a trasmettere copia degli atti al ramo del Parlamento a cui il parlamentare appartiene o apparteneva al momento del fatto. Il procedimento è sospeso fino alla deliberazione parlamentare; ma in assenza di questa, la sospensione ha termine decorsi 90 giorni dalla ricezione degli atti (salva la possibilità di una proroga per oltre 30 giorni)[6].

La questione può, per altro verso, essere posta direttamente alla Camera di appartenenza da parte dell’interessato, senza necessità di eccepirla previamente innanzi all’autorità giudiziaria. La Camera può chiedere che il giudice sospenda il procedimento.

Qualora la deliberazione parlamentare sia favorevole all’applicazione dell’art. 68, co. 1°, l’autorità giudiziaria non può che conformarsi ad essa (ferma restando la possibilità di elevare conflitto d’attribuzioni dinanzi alla Corte costituzionale).

 

Il co. 1 dell’art. 3 della L. 140/2003 è stato oggetto di una pronuncia della Corte costituzionale che, con la sent. 120/2004, ha dichiarato infondata una questione di legittimità ad esso riferita.

 

Secondo i rimettenti tale disposizione, lungi dal limitarsi ad attuare l’art. 68, co. 1°, Cost., ne avrebbe modificato l’ambito applicativo: nel prevedere, infatti, che la disposizione costituzionale si applichi oltre che ad un elenco di atti funzionali tipici, anche per ogni altra attività connessa alla funzione di parlamentare, espletata anche fuori del Parlamento, il comma denunciato avrebbe ampliato la nozione di insindacabilità, violando anche l’art. 24 Cost. (giacché l’introduzione di una così ampia garanzia con una semplice legge ordinaria, anziché con legge costituzionale, avrebbe determinato una ingiustificata compressione dei diritti della persona offesa dal reato), e l’art. 3 Cost., sotto il profilo della violazione del principio di eguaglianza.

 

A giudizio della Consulta, l’art. 3, co. 1, della L. 140/2003, nonostante l’ampia formulazione lessicale, può considerarsi una disposizione legislativa di attuazione, finalizzata a rendere immediatamente e direttamente operativo sul piano processuale il disposto dell’art. 68, primo comma, Cost.. Le attività ivi analiticamente indicate possono non essere esaustive del concetto di funzione parlamentare, ma, secondo la Corte, ne costituiscono comunque una forma di specificazione, ai fini della loro riconduzione nella sfera di applicabilità processuale dell’art. 68, primo comma, e comunque esse non fuoriescono dal campo materiale dello stesso articolo, dal momento che il legislatore stabilisce espressamente che tutte le attività indicate debbono comunque, anche se espletate fuori del Parlamento, essere connesse con l’esercizio della funzione propria dei membri del Parlamento, in conformità con il primo comma dell’art. 68.

Infatti, per la Corte, “proprio in base a questa formulazione si può ritenere che con la norma in esame il legislatore non innovi affatto alla predetta disposizione costituzionale, ampliandone o restringendone arbitrariamente la portata, ma si limiti invece a rendere esplicito il contenuto della disposizione stessa, specificando, ai fini della immediata applicazione dell’art. 68, primo comma, gli ‘atti di funzione’ tipici, nonché quelli che, pur non tipici, debbono comunque essere connessi alla funzione parlamentare, a prescindere da ogni criterio di ‘localizzazione’, in concordanza, del resto, con le indicazioni ricavabili al riguardo dalla giurisprudenza costituzionale in materia”.

 

Dopo aver affermato che “la vera costante di tutte le decisioni di merito sui conflitti” è l’enucleazione e l’applicazione del principio in base al quale “non qualsiasi opinione espressa dai membri delle Camere è sottratta alla responsabilità giuridica, ma soltanto le opinioni espresse ‘nell’esercizio delle funzioni’”, per cui l’insindacabilità parlamentare “non può mai trasformarsi in un privilegio personale, quale sarebbe una immunità dalla giurisdizione conseguente alla mera ‘qualità’ di parlamentare”, la Consulta ritiene nel caso di specie che la disposizione censurata si sottrae ai vizi di legittimità addebitati, poiché essa “non elimina affatto il nesso funzionale e non stabilisce che ogni espressione dei membri delle Camere, in ragione del rapporto rappresentativo che li lega agli elettori, sia per ciò solo assistita dalla garanzia dell’immunità”; né, d’altra parte, ai fini dell’insindacabilità – ribadisce la Corte – “la prospettata necessità della connessione tra attività di critica o di denuncia politica e atti di funzione parlamentare può essere inficiata dalla precisazione che tali attività possano essere state espletate ‘anche fuori del Parlamento’. Tale precisazione, infatti, nulla aggiunge a quanto ormai è acquisito al patrimonio giurisprudenziale di questa Corte, che non ha mai limitato la garanzia alla sede parlamentare, giacché il criterio di delimitazione dell’ambito della prerogativa non è quello della ‘localizzazione’ dell’atto, ma piuttosto, come già detto, quello funzionale, cioè riferibile in astratto ai lavori parlamentari”.

 

Si può pertanto affermare che la sentenza si pone in sostanziale continuità con la giurisprudenza resa dalla Corte in sede di risoluzione dei conflitti d’attribuzione, con ciò confermando l’ineludibilità nel giudizio sull’applicazione dell’art. 68, primo comma, Cost. di una ricerca seria e motivata del nesso funzionale[7].

Tale orientamento appare confermato da varie, successive pronunzie adottate dalla Corte in sede di risoluzione di conflitti di attribuzioni, con le quali ha annullato delibere delle Camere non rinvenendo in esse un nesso funzionale che giustificasse la dichiarazione di insindacabilità[8].

 

Corte europea dei diritti dell’uomo e insindacabilità. Sembra opportuno, in tale contesto, ricordare la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 3 giugno 2004[9], che ha condannato lo Stato italiano al risarcimento del danno patito da un cittadino diffamato da un parlamentare e non soddisfatto nelle sue ragioni a motivo di una deliberazione d’insindacabilità della Camera.

La Corte europea ha ritenuto violato l’art. 6, co. 1, della Convenzione dei diritti dell’uomo, giacché l’estensione applicativa data all’insindacabilità parlamentare finisce per sacrificare in modo eccessivo il diritto alla tutela giurisdizionale dei diritti dei cittadini, inteso come diritto a una decisione sul merito delle proprie doglianze.

La Corte ammette che il diritto al giudice e a un equo processo possa essere compresso da istituti quali quelli applicativi delle immunità parlamentari, ma esige che tale compressione sia un mezzo proporzionato allo scopo per cui la limitazione medesima si realizza. Da questo punto di vista, secondo la sentenza, un’interpretazione troppo ampia dell’ambito applicativo delle immunità parlamentari, riferite spesso anche a fatti che non abbiano un legame evidente con le funzioni parlamentari, realizza un non proporzionato sacrificio della tutela giurisdizionale dei diritti.

Inoltre, il meccanismo per cui, dinanzi alla deliberazione parlamentare d’insindacabilità, il giudice procedente ha solo l’alternativa secca tra elevare conflitto o sottostare alla determinazione parlamentare vanifica, secondo la Corte, il diritto alla tutela giurisdizionale inteso come possibilità chiara e concreta di far valere le proprie ragioni.

Lo Stato italiano era stato altre tre volte condannato dalla Corte europea per la violazione dell’art. 6 della Convenzione, in relazione a vicende d’insindacabilità parlamentare[10]. Il caso in esame presenta tuttavia un elemento di novità rispetto ai precedenti: la Corte europea ha infatti ritenuto di pronunziarsi non ostante che il tribunale avesse a suo tempo proposto conflitto di attribuzione avverso la pronunzia parlamentare di insindacabilità, e la Corte costituzionale si fosse espressa nel merito in senso sfavorevole al ricorrente.

La Corte europea sembra dunque volersi affiancare alla Corte costituzionale italiana nella verifica della legittimità delle decisioni parlamentari in materia d’insindacabilità.



[1]    Questa giurisprudenza può individuarsi nelle sentt. 1150/1988 e 443/1993, rese in conflitti elevati nei confronti del Senato. Già in tali pronunce, tuttavia, la Corte ha stabilito che non tutta l’attività politica può identificarsi con la funzione parlamentare. Essa ha argomentato che – oltre alle attività tipiche, previste dai regolamenti parlamentari – possono ritenersi appartenenti alla funzione di deputato o senatore le attività che siano rispetto a quelle tipiche “presupposte e consequenziali”.

[2]    Cfr. sentt. 289/1998, 329/1999 e 417/1999, nelle quali la Corte ha svolto un esame del merito della questione oggetto della deliberazione della Camera, professando l’intenzione di non discostarsi dal proprio orientamento precedentemente consolidato ma di dover unicamente verificare la mancanza di arbitrii decisionali.

[3]    Cfr. sentt. 10, 11, 56, 58, 82, 320, 321 e 420 del 2000 nonché 137 e 289 del 2001 e 50, 51, 52, 79 e 207 del 2002. Per esempio, nei casi esaminati nelle sentt. 320/2000 e 321/2000, le deliberazioni d’insindacabilità della Camera sono state ritenute legittime dalla Corte, giacché le affermazioni extra moenia del deputato in questione erano analoghe a quelle contenute in atti di sindacato ispettivo depositati dal deputato stesso. Non così invece per i casi esaminati nelle sentt. 137/2001 e 289/2001. Nella prima, la Corte ha ritenuto che i fatti di cui i parlamentari imputati erano chiamati a rispondere – oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale – non potessero neanche essere ricondotti al concetto di “opinione espressa”; nel secondo, per le affermazioni rese extra moenia dal deputato in questione non è stato riscontrato alcun aggancio contenutistico con attività parlamentari propriamente dette. Questo orientamento è largamente condiviso dalla giurisprudenza di merito nelle numerose sentenze di condanna rese nei casi in cui non è intervenuta una deliberazione parlamentare o prima che essa intervenisse.

[4]    Legge 20 giugno 2003, n. 140, Disposizioni per l’attuazione dell’articolo 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato.

[5]    Testualmente: “per la presentazione di disegni o proposte di legge, emendamenti, ordini del giorno, mozioni e risoluzioni, per le interpellanze e le interrogazioni, per gli interventi nelle Assemblee e negli altri organi delle Camere, per qualsiasi espressione di voto comunque formulata, per ogni altro atto parlamentare”.

[6]    La sospensione non impedisce, comunque, il compimento degli atti non ripetibili (nell’ambito del procedimento penale) e di quelli urgenti (negli altri procedimenti).

[7]    In tal senso si esprime il Presidente della Giunta per le autorizzazioni della Camera, nelle comunicazioni da lui rese alla Giunta nella seduta del 21 aprile 2004.

[8]    Cfr. sentt. 246, 347 e 348 del 2004; 28, 146, 164, 176, 193 e 235 del 2005.

[9]    Depositata il 6 dicembre 2005. Sul punto si veda la comunicazione e l’allegata relazione del Presidente della Giunta per le autorizzazioni della Camera nella seduta dell’11 gennaio 2006.

[10]  Due volte in data 30 gennaio 2003; una terza in data 3 giugno 2004.