Un ruolo peculiare nell’ambito
del procedimento legislativo ha assunto la valutazione
della legislazione nazionale sotto il profilo della compatibilità
comunitaria. Tale valutazione viene svolta su due versanti:
Ø
in sede consultiva da parte della XIV Commissione (Politiche dell’Unione europea);
Ø
nell’ambito dell’istruttoria legislativa, da parte di tutte le Commissioni permanenti.
In merito al primo profilo, si ricorda la particolare
configurazione assunta dalla XIV Commissione,
alla quale vengono assegnati, in base all’articolo 126 del regolamento della
Camera:
§
i progetti di legge e gli schemi di atti
normativi del Governo concernenti l'applicazione
dei trattati istitutivi delle Comunità europee e dell’Unione europea nonché
le loro successive modificazioni e integrazioni;
§
i progetti di legge e gli schemi di atti
normativi del Governo relativi all'attuazione
di norme comunitarie[1];
§
in via generale, tutti i progetti di legge,
limitatamente ai profili di
compatibilità con la normativa comunitaria.
Questa verifica assume un
particolare significato per le funzioni svolte dalla XIV Commissione in ragione
delle sue specifiche competenze: nella lettera circolare del Presidente della
Camera sull’istruttoria legislativa si chiarisce, infatti, che i pareri
espressi dalla XIV Commissione sotto questo riguardo hanno efficacia rinforzata ai sensi dell’art. 73, comma 1-bis, R.C.
Si ricorda che quest’ultima
norma stabilisce che: “se un progetto di legge, assegnato ad una Commissione,
reca disposizioni che investono in misura rilevante la competenza di altra
Commissione, il Presidente della Camera può stabilire che il parere di
quest'ultima Commissione sia stampato ed allegato alla relazione scritta per
l'Assemblea”.
Sul versante delle Commissioni permanenti, invece, il comma 4 dell’art. 79 R.C. prevede che
l’istruttoria legislativa in Commissione debba prendere in considerazione, tra
gli altri criteri, la verifica della compatibilità della disciplina proposta
con la normativa dell’Unione europea.
In particolare, la XIV
Commissione ha basato l’attività di verifica della compatibilità comunitaria
della legislazione nazionale in corso di formazione sulla considerazione di
almeno tre distinti profili:
§
in primo luogo,
il confronto con i princìpi e le norme
dei trattati e del diritto comunitario derivato vigente;
§
in secondo luogo,
l’eventuale esistenza sulla materia di un contenzioso
con l’Unione europea;
§
in terzo luogo,
l’inquadramento della legislazione nazionale nel più ampio contesto dell’evoluzione
della produzione normativa in sede comunitaria e quindi della verifica degli
orientamenti del legislatore italiano rispetto all’elaborazione degli atti all’esame delle Istituzioni dell’UE.
In questa
prospettiva, i rilievi che la Commissione ha formulato nei suoi pareri, nel
corso della legislatura, hanno avuto prevalentemente riguardo a:
Ø
specifiche
questioni di rispetto di singole
disposizioni di direttive da attuare o di altri atti comunitari;
Ø
questioni di adeguamento a procedure di infrazione
avviate nei confronti dell’Italia;
Ø
profili più
generali di rispetto delle norme contenute
nei Trattati. In quest’ambito, i principi maggiormente richiamati nei
pareri sono stati quelli relativi a:
1)
aiuti di stato;
2)
tutela della concorrenza;
3)
libera prestazione dei servizi e libertà di
stabilimento;
4)
divieto di restrizioni all’importazione.
In riferimento al punto 1), è stato più volte richiamata la necessità di verificare l’effettivo rispetto degli articoli 87 ed 88 del TCE[2]. Si ricorda, in particolare, che l’art. 87 del TCE vieta gli aiuti pubblici alle imprese che favorendo determinate imprese o produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza, incidendo sugli scambi tra gli Stati membri. L’art. 88 prevede inoltre che la Commissione proceda con gli Stati membri all’esame permanente dei regimi di aiuti esistenti; a tal fine, alla Commissione devono essere presentati, affinché essa possa esprimere le proprie osservazioni, i progetti diretti ad istituire o a modificare aiuti (paragrafo 3). In caso di incompatibilità di un aiuto di Stato con l’articolo 87 del Trattato, la Commissione sollecita lo Stato in questione a sopprimerlo o a modificarlo; se lo Stato non si conforma, la Commissione o qualsiasi altro Stato interessato può adire direttamente la Corte di Giustizia. Ai sensi dell’art. 88, paragrafo 2, del Trattato, su richiesta di uno Stato membro, il Consiglio, deliberando all’unanimità, può decidere che un aiuto, istituito o ancora da istituirsi da parte di questo Stato, deve considerarsi compatibile con il mercato quando circostanze eccezionali giustifichino tale decisione. Se su tale aiuto è aperta una procedura da parte della Commissione, la richiesta dello Stato interessato rivolta al Consiglio avrà per effetto di sospendere tale procedura fino a quando il Consiglio non si sia pronunciato. Tuttavia se il Consiglio non si è pronunciato entro tre mesi, la Commissione delibera.
L’articolo 87 non definisce la nozione di aiuto, né elenca le tipologie di aiuto vietate, limitandosi invece a prevedere, ai paragrafi 2 e 3, talune deroghe al principio generale. Peraltro, la Commissione e la Corte di giustizia, sono intervenuti nel corso degli anni al fine di precisare la nozione di aiuto, statuendo, attraverso un orientamento costante, che si è in presenza di un aiuto di Stato, ai sensi del citato articolo 87, qualora ricorrano congiuntamente i seguenti presupposti:
· vi sia un vantaggio concesso dalle autorità pubbliche
a favore di una impresa, senza contropartita o con una contropartita che
corrisponde in misura minima all’importo al quale può essere valutato il
relativo vantaggio;
· il vantaggio concesso all’impresa sia finanziato con
fondi pubblici (le risorse statali possono assumere varie forme - sovvenzioni,
riduzione tassi d’interesse, conferimento di capitali, ecc. - e possono
provenire da risorse di bilanci statali, regionali, locali, nonché da banche o
intermediari pubblici e privati incaricati dallo Stato di gestire un
regime di aiuti pubblici);
· l’aiuto abbia un carattere selettivo diretto a favorire
soltanto alcune imprese e alcune produzioni;
· l’aiuto sia in grado di falsare la concorrenza e di
incidere sugli scambi tra gli stati membri.
Rispetto a tale divieto generale, lo stesso articolo
87 ammette deroghe, ritenendo compatibili con il mercato comune:
a) gli aiuti a carattere sociale concessi ai singoli
consumatori, a condizione che siano accordati senza discriminazioni determinate
dall'origine dei prodotti,
b) gli aiuti destinati a ovviare ai danni arrecati
dalle calamità naturali oppure da altri eventi eccezionali;
c) gli aiuti concessi all'economia di determinate
regioni della Repubblica federale di Germania che risentono della divisione
della Germania, nella misura in cui sono necessari a compensare gli svantaggi
economici provocati da tale divisione.
Possono inoltre considerarsi
compatibili con il mercato comune:
a) gli aiuti destinati a favorire lo sviluppo
economico delle regioni ove il tenore di vita sia anormalmente basso, oppure si
abbia una grave forma di sottoccupazione;
b) gli aiuti destinati a promuovere la realizzazione
di un importante progetto di comune interesse europeo oppure a porre rimedio a
un grave turbamento dell'economia di uno Stato membro;
c) gli aiuti destinati ad agevolare lo sviluppo di
talune attività o di talune regioni economiche, sempre che non alterino le
condizioni degli scambi in misura contraria al comune interesse;
d) gli aiuti destinati a promuovere la cultura e la
conservazione del patrimonio, quando non alterino le condizioni degli scambi e
della concorrenza nella Comunità in misura contraria all'interesse comune;
e) le altre categorie di aiuti, determinate con
decisione del Consiglio, che delibera a maggioranza qualificata su proposta
della Commissione.
Per approfondimenti sul tema
degli aiuti di stato, si rinvia al capitolo Gli
aiuti di Stato.
Per quanto riguarda il punto 2), invece, si è invocato il rispetto del principio comunitario di concorrenza, che può desumersi dal
combinato disposto degli articoli 3, paragrafo 1, lett. c) e g), e 4, paragrafo
1, del TCE. Tali norme prevedono, infatti, che l'azione della Comunità comporta
un mercato interno caratterizzato dall'eliminazione, fra gli Stati membri,
degli ostacoli alla libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi
e dei capitali (art. 3, par. 1, lett. c) nonchè un regime inteso a garantire
che la concorrenza non sia falsata nel mercato interno (art. 3, par. 1, lett.
g). L'azione degli Stati membri e della Comunità inoltre è volta all'adozione
di una politica economica che è fondata sullo stretto coordinamento delle
politiche degli Stati membri, sul mercato interno e sulla definizione di
obiettivi comuni, condotta conformemente al principio di un'economia di mercato
aperta e in libera concorrenza (art. 4, par. 1). Da tale quadro normativo si
evince quindi che la Comunità europea si basa su di un mercato interno caratterizzato dall’eliminazione degli ostacoli alla libera circolazione di merci,
persone, servizi e capitali, che si persegue attraverso una politica condotta
conformemente al principio di
un’economia di mercato aperta ed in libera concorrenza.
Nell’ambito dei principi della
concorrenza, è poi opportuno ricordare la nozione di mercato rilevante, ai fini dell’eventuale individuazione di una
posizione dominante. Secondo la giurisprudenza comunitaria[3], il mercato rilevante comprende
quei prodotti o servizi tra loro intercambiabili sia sotto il profilo delle
caratteristiche tecnologiche, sia per la loro idoneità a soddisfare egualmente
le esigenze dei consumatori[4].
Si ricorda, da ultimo, che a partire
dagli anni ’80 è stata avviata l’estensione della disciplina comunitaria della
concorrenza alla materia dei servizi
pubblici, che sono attualmente assoggettati alla disciplina comunitaria
generale relativa alla concorrenza. Tuttavia, in base all’art. 86 del Trattato,
i servizi di interesse economico generale e quindi i servizi pubblici sono
sottoposti alle norme sulla concorrenza, fatta salva “la specifica missione
loro affidata”. Il diritto comunitario, inoltre, accanto all’obiettivo della
liberalizzazione, persegue quello di garantire la fruizione diffusa ed uniforme
dei servizi essenziali. A tal fine impone di rispettare i principi di parità di
trattamento, adeguatezza e continuità; di disciplinare le modalità di offerta;
di garantire l’accessibilità dei prezzi; di assicurare determinati livelli
quantitativi. Per quanto riguarda poi più specificamente gli interventi volti
alla determinazione delle tariffe, essi possono ritenersi conformi al diritto
comunitario quando siano volti a garantire la fruizione dei servizi pubblici e
non pregiudichino la libera iniziativa privata e la concorrenza tra le imprese[5].
In
merito al punto 3), si ricorda che l’art.
43 TCE vieta le restrizioni alla libertà
di stabilimento dei cittadini di uno Stato membro nel territorio di un
altro Stato membro, mentre l’art. 49
vieta le restrizioni alla libera
prestazione dei servizi all'interno della Comunità nei confronti dei
cittadini degli Stati membri stabiliti in un paese della Comunità, che non sia
quello del destinatario della prestazione. Quest’ultima norma ammette eccezioni solo per attività che
partecipino all’esercizio dei poteri
pubblici, ovvero per motivi di ordine
pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica (combinato disposto degli
articoli 55 e 45-46 TCE). L’art. 49, così come interpretato dalla Corte di
Giustizia, si è rivelata suscettibile di fornire una copertura a una serie di
differenti fattispecie. Infatti, secondo una giurisprudenza costante della
Corte di Giustizia, l'art. 49 prescrive non solo l'eliminazione di qualsiasi
discriminazione nei confronti del prestatore di servizi stabilito in un altro
Stato membro in base alla sua cittadinanza, ma anche la soppressione di qualsiasi restrizione, anche qualora essa si
applichi indistintamente ai prestatori nazionali e a quelli degli altri Stati
membri, allorché essa sia tale da
vietare, da ostacolare o da rendere meno attraenti le attività del prestatore
stabilito in un altro Stato membro ove fornisca legittimamente servizi analoghi
(cfr. sentenza 13 febbraio 2003, in causa C-131/01). Sempre in base alla
giurisprudenza della Corte di Giustizia, una restrizione alla libera prestazione dei servizi può essere giustificata da ragioni imperative di
interesse generale – quali, ad esempio, la necessità di garantire la
qualità delle prestazioni ad utenti che non siano appieno in grado di valutarla
autonomamente, anche attraverso l’istituzione di albi professionali – che non
risultino già garantite dagli obblighi cui il prestatore di servizi è tenuto
nello Stato membro in cui è stabilito (si vedano, in particolare, le sentenze 9
marzo 2000 in causa C-355/98, 17 dicembre 1981, in causa C-279/80). In ogni
caso, la procedura nazionale deve essere idonea a garantire il conseguimento
dello scopo perseguito ma non andare oltre quanto necessario per il suo
raggiungimento. Di conseguenza la
disciplina nazionale non dovrebbe né ritardare né rendere più complesso
l'esercizio del diritto di un soggetto stabilito in un altro Stato membro di
prestare i propri servizi in un altro Stato quando l'esame dei requisiti
per l'accesso alle attività di cui trattasi sia stato effettuato e sia stata
accertata la sussistenza dei requisiti medesimi (cfr. sentenze Schnitzer
dell’11 dicembre 2003 e Corsten del 3
ottobre 2000).
In
ogni caso, la medesima Corte ha ritenuto compatibile con l’articolo 49 TCE
l’introduzione del requisito di iscrizione
in appositi albi e simili solo a determinate condizioni. Tale requisito,
infatti, deve risultare automatico e
non costituire una previa condizione
alla prestazione dei servizi, né
implicare oneri amministrativi o contributivi per il prestatore interessato
(cfr. sentenze Schnitzer dell’11 dicembre 2003 e Corsten del 3 ottobre 2000)[6].
Al
profilo della libera prestazione dei servizi e della libertà di stabilimento è
strettamente legato quello relativo al reciproco
riconoscimento dei diplomi, certificati ed altri titoli e alle qualifiche
professionali, di cui all’art. 47 TCE,
che ha previsto, tra l’altro, l’adozione di direttive, allo scopo di evitare
agli interessati la ripetizione del percorso degli studi e della successiva
formazione per esercitare professioni subordinate al possesso di titoli
universitari o comunque post-secondari[7].
Anche su tale aspetto si è soffermata la XIV Commissione, in occasione
dell’espressione dei suoi pareri[8].
Infine,
per quanto attiene al punto 4)[9],
si ricorda che l’articolo 28 TCE
vieta fra gli Stati membri le
restrizioni quantitative all’importazione e le misure di effetto equivalente.
Tuttavia, secondo l’articolo 30 del
medesimo Trattato, le restrizioni all’importazione giustificate, tra l’altro,
da motivi di tutela della proprietà industriale e commerciale sono autorizzate,
qualora non costituiscano un mezzo di discriminazione arbitraria, né una
restrizione dissimulata al commercio tra Stati membri. In base
all’interpretazione dalla Corte di giustizia di tale normativa, i requisiti cui
le normative nazionali assoggettano la concessione di denominazioni nazionali di qualità, a differenza di quanto accade
per le denominazioni di origine e le indicazioni di provenienza, possono
riguardare solo le caratteristiche
qualitative intrinseche dei prodotti, indipendentemente
da qualsiasi considerazione relativa all’origine
o alla provenienza geografica degli stessi. Infatti, secondo tale giurisprudenza è incompatibile con il mercato unico, sulla base dell’art. 28, la presunzione di qualità legata alla
localizzazione nel territorio nazionale di tutto o di parte del processo
produttivo, “la quale di per ciò stesso limita o svantaggia un processo
produttivo le cui fasi si svolgano in tutto o in parte in altri Stati membri”[10].
[1] Gli effetti
attribuiti al parere che la XIV Commissione esprime sugli schemi di atti
normativi di recepimento delle direttive comunitarie (spesso adottati in base
alla delega contenuta nella legge comunitaria annuale) risulta particolarmente
significativo in quanto lo stesso viene trasmesso direttamente al Governo
contestualmente a quello della Commissione di merito.
[2] Si vedano le questioni sorte in occasione dell’espressione dei pareri relativi agli AA.CC. 3053 e abb., 6176, 5736, 3258, 4444 e abb., 3226 e abb.
[3] Si vedano, in particolare, le sentenze della Corte di giustizia del 9 novembre 1983, in causa C-322-81, del 14 novembre 1996, in causa C-333/94, e del Tribunale del 30 marzo 2000, in causa T- 65/96.
[4] Si veda, in particolare, le questioni sorte in occasione dell’espressione del parere reso sull’A.C. 310 e abb.-D.
[5] Si vedano, ad esempio, le questioni sorte in occasione dell’espressione dei pareri relativi agli AA.CC. 3244, 587 e abb., 6176 e allo schema di decreto legislativo atto n. 550.
[6] Si vedano le questioni sorte in occasione dell’espressione dei pareri sugli AA.CC 1048, 6176, 1219, 1698, 5133, 587 e abb.
[7] Si ricorda che in materia è stata di recente adottata la direttiva 2005/36/CE, che mira a consolidare in un unico testo e a semplificare le direttive settoriali in materia di professioni. In particolare, la direttiva dispone che, se in uno Stato membro l'accesso o l'esercizio di una delle attività elencate nell’allegato alla proposta, è subordinato al possesso di conoscenze e competenze generali, commerciali o professionali, ogni Stato membro riconosce come prova sufficiente di tali conoscenze e competenze l’esercizio dell’attività considerata in un qualunque altro Stato membro. La direttiva, tra l’altro, prevede:
§ un regime generale di riconoscimento reciproco: se in uno Stato membro ospitante l’accesso a una professione regolamentata o il suo esercizio è subordinato al possesso di determinate qualifiche professionali, l’autorità competente di tale Stato membro dà accesso alla professione e ne consente l’esercizio, alle stesse condizioni dei cittadini, ai richiedenti in possesso dell’attestato di competenza o del titolo di formazione prescritto, per accedere alla stessa professione o esercitarla sul suo territorio, da un altro Stato membro.
§ il riconoscimento automatico delle qualifiche comprovate dall'esperienza professionale per una serie di attività industriali, artigiane e commerciali elencate nell’allegato IV della proposta (come ad esempio quelle delle attività dell’intermediazione commerciale).
§ il riconoscimento automatico dei titoli di formazione, sulla base di un coordinamento delle condizioni minime di formazione, per medici, infermieri, responsabili delle cure generali, odontoiatri, veterinari, levatrici, farmacisti e architetti.
[8] Si vedano le questioni sorte in occasione dell’espressione dei pareri sugli AA.CC 587 e abb., 5337, 1219, 1698.
[9] Si vedano, in particolare, le questioni sorte in occasione dell’espressione del parere sull’A.C. 472 e abb.
[10] Vedi
la sentenza della Corte UE del 12 ottobre 1978, causa 13/78, Eggers Sohn et Co.
contro Città di Brema; in tale sentenza sono stati chiaramente enucleati i
motivi alla base dell’interpretazione dell’art. 28 (allora 30) del Trattato
fatta dalla Corte, in tema di marchi di qualità di titolarità di enti pubblici.
In particolare, nel punto 24 della sentenza citata si afferma che “in effetti,
in un mercato che deve possedere, nella misura del possibile, le
caratteristiche di un mercato unico, il diritto a una denominazione di qualità
per un prodotto dovrebbe dipendere – salve restando le norme da applicarsi in
materia di denominazione di origine e indicazione di provenienza – unicamente
dalle caratteristiche obiettive intrinseche dalle quali risulti la qualità del
prodotto, rispetto allo stesso prodotto di qualità inferiore, ma non dalla
localizzazione geografica di questa o di quella fase della produzione. Nel
punto 25 della medesima sentenza si afferma, inoltre, che “per quanto auspicabile, la politica di
controllo della qualità da parte di uno Stato membro non può essere attuata, in
ambito comunitario, se non con mezzi conformi ai principi fondamentali del
Trattato; ne consegue che, se è vero che gli Stati membri sono competenti a
stabilire norme di qualità dei prodotti messi in commercio sul loro territorio
e possono subordinare l’uso di denominazioni di qualità al rispetto di queste
norme, essi lo sono a condizione che queste norme e denominazioni, a differenza
di quanto accade per le denominazioni di origine e le indicazioni di
provenienza, non siano legate alla localizzazione nel territorio nazionale del
processo di produzione dei prodotti in questione, bensì unicamente al possesso
delle caratteristiche obiettive intrinseche che danno ai prodotti la qualità
richiesta dalla legge; sempre facendo eccezione per le regole relative alle
denominazioni di origine e per le indicazioni di provenienza, è incompatibile
con il mercato comune la presunzione di qualità legata alla localizzazione nel
territorio nazionale di tutto o di parte del processo produttivo, la quale di
per ciò stesso limita o svantaggia un processo produttivo le cui fasi si
svolgano in tutto o in parte in altri Stati membri (…).Nello stesso senso, si
vedano inoltre le decisioni del 5 novembre 2002 (causa C-325/00), 6 marzo 2003
(causa C-6/02), del 17 giugno 2004 (causa C-255/03).