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TESTO INTEGRALE DELL'INTERVENTO DEL DEPUTATO ALBERTO BURGIO IN SEDE DI DISCUSSIONE SULLE LINEE GENERALI DEL DISEGNO DI LEGGE N. 3178-A
ALBERTO BURGIO. Signor Presidente, signor Ministro del Lavoro, colleghe, colleghi, su una considerazione penso siamo tutti d'accordo: quello che quest'Assemblea si accinge a discutere - se il Governo non prenderà la decisione, a nostro parere non opportuna, di porre la fiducia - è un provvedimento importante (che si capisce abbia destato sin dall'inizio grande attenzione e anche polemiche). Il disegno di legge tocca aspetti molto rilevanti della condizione sociale e della condizione lavorativa (dalla previdenza ad aspetti fiscali e retributivi, a figure contrattuali di primaria importanza come i contratti a termine). Data la sua complessità, il giudizio non può che essere articolato. D'altra parte la ristrettezza dei tempi ci impone in questa sede una valutazione sommaria, riferita ai soli aspetti cruciali, sui quali si è concentrato anche l'esame della Commissione.
La decisione di porre la fiducia, ventilata in questi giorni e ancora al vaglio del Governo, non ci sembra opportuna. Non vediamo infatti la necessità di blindare il provvedimento, impedendo una discussione che si svilupperebbe con ogni probabilità in modo costruttivo com'è accaduto sin qui in Commissione. Il lavoro della Commissione - lo dico perché taluno ha voluto introdurre toni esasperatamente polemici, drammatizzando un confronto che ha invece portato un contributo importante senza sconvolgere alcunché, senza produrre alcun vulnus - è stato condotto, da ciascuno nel rispetto del proprio ruolo, in modo ordinato e produttivo.
Quanto è avvenuto nei giorni successivi si inscrive nel costume oggi invalso (e non è un bel segno di questi tempi) di pretendere che il Parlamento riduca il proprio ruolo a quello di una Camera di ratifica: salvo poi sostenerne la superfluità, e invocarne una ulteriore marginalizzazione.
Noi siamo contrari a questa deriva. Abbiamo apprezzato la battuta del Ministro Di Pietro che, certo per introdurre una nota spassosa, ha affermato che proprio la fiducia esalterebbe il ruolo del Parlamento, poiché lo porrebbe in condizione di apprezzare gli sforzi compiuti dal Governo. Ma quando torniamo a parlare seriamente, il punto è quello che dicevo poc'anzi. Stiamo seguendo un iter del tutto regolare e non c'è alcun bisogno di introdurre blindature. Per questo chiediamo al Governo di non cedere alla tentazione di operare forzature, almeno fin quando non vi sarà la prova provata che questa Camera non è in condizione di rispettare il calendario che si è data. In tal caso - ma solo in questo caso - la posizione della fiducia rientrerebbe in una prassi regolare e sarebbe a nostro giudizio accettabile, purché, beninteso, il testo di riferimento fosse quello licenziato dalla Commissione Lavoro, che è - sino a prova contraria - l'istituzione parlamentare che nel pieno delle proprie prerogative ha lavorato e deliberato sulla materia.
Una decisione diversa, che cancellasse questo lavoro, costituirebbe ai nostri occhi una forzatura incomprensibile, che rischierebbe di apparire lesiva delle prerogative del Parlamento, costituendo un precedente decisamente negativo. Il Ministro FerreroPag. 110ha parlato in proposito di uno «sfregio all'ordinamento democratico»: siamo del tutto d'accordo con questo giudizio.
Riguardo al lavoro della Commissione, sappiamo che proprio su di esso si sono scatenate le polemiche di chi teorizza la presunta intangibilità del Protocollo. E sappiamo che si è preso a pretesto il lavoro della Commissione per sostenere che il Protocollo sarebbe stato stravolto. Sono state dette a questo proposito, anche da parte di personaggi autorevoli, che dovrebbero per ciò stesso misurare attentamente le parole, delle enormità.
Una tesi - sostenuta in modo convergente da alcuni imprenditori e da taluni dirigenti sindacali - è che il Parlamento si sarebbe dovuto astenere da qualsiasi modifica, trattandosi di un accordo tra le parti sociali. Si è aggiunto, con toni vagamente minacciosi, che qualunque cambiamento del testo del 23 luglio sarebbe responsabile di un crimine capitale: nientemeno che la definitiva «messa a morte» (questa l'espressione impiegata in coro dal presidente della Confindustria e dal senatore Dini) della concertazione.
Ora, sulla concertazione possiamo pensarla in vario modo. Noi vorremmo che una valutazione sulla concertazione non eludesse - come invece sempre accade - alcune questioni capitali: i tassi di inflazione programmata avrebbero dovuto essere rispettati, il che non è avvenuto; la politica dei redditi supponeva un controllo dei prezzi e delle tariffe che non c'è stato; il fiscal drag (che questo Governo si è impegnato a restituire - ma sembra che nessuno se ne ricordi più) ha falcidiato le retribuzioni. Il risultato è quello che leggiamo in questi giorni nel rapporto dell'Ires-Cgil: una perdita del potere d'acquisto dei salari pari a circa 1.900 euro nell'arco degli ultimi 5 anni. Ma, ripeto, lasciamo pure questo discorso sullo sfondo e occupiamoci della pretesa che il Parlamento si limiti a ratificare l'accordo tra le parti sociali e il Governo. Questa pretesa riflette una concezione corporativa, in base alla quale le leggi - perché di una legge stiamo parlando, non di un contratto - le debbono fare i corpi intermedi, diretta emanazione degli interessi particolari. E una concezione che semplicemente nega in radice l'esistenza stessa di una società quale sede dell'interesse generale e per questa ragione fonte della sovranità.
Si capisce che questo piaccia agli industriali e alla destra; inquieta e allarma che seduca anche taluni dirigenti delle maggiori organizzazioni sindacali, che evidentemente non scorgono i pericoli che si annidano in un modello del genere, qualora si affermasse: perché se tutto si riduce al conflitto tra interessi particolari, è inevitabile che vinca l'interesse più forte, senza che possa darsi alcun terreno di regolazione, alcun intervento arbitrale sovraordinato.
E ad ogni modo, quanti in questi giorni tuonano e s'impancano a maestri di teoria politica farebbero buona cosa se si rileggessero la Costituzione (che, lo sappiamo, sta stretta a molti, ma è ancora vigente). A Costituzione vigente, le leggi le fa il Parlamento, per la semplice ragione che nessuna delle parti sociali - nessuna, per definizione - può aspirare a una rappresentatività generale. È increscioso dovere ripetere con energia simili banalità, ma evidentemente la tendenza alla privatizzazione del sistema istituzionale è talmente forte e si è andati talmente in là in questa deriva, che è necessario ribadire anche l'ovvio, prima che anche questi argini siano travolti nell'indifferenza o nell'inconsapevolezza generale.
E tuttavia appare fondata una critica al metodo seguito dal Governo (metodo che è la conseguenza della pretesa di fare della concertazione l'alfa e l'omega del processo di formazione delle decisioni in materia di politiche del lavoro). Mi pare lo abbia riconosciuto anche l'onorevole Soro, che ha giustamente osservato che il Governo avrebbe dovuto cominciare il percorso dal Parlamento, per ottenere una delega circostanziata in base alla quale impostare il confronto con le parti sociali. Ha ragione l'onorevole Soro, e dispiace che il segretario del neonato Partito democratico - al quale evidentemente non stanno molto a cuore né la solidità di questa maggioranza e di questoPag. 111Governo, né le funzioni del Parlamento - si sia espresso su questa materia in modo difforme dal suo capogruppo.
Sta di fatto che non si sarebbe dovuto dare al protocollo uno statuto di per sé incompatibile con le prerogative costituzionali del Parlamento. L'incontro e l'accordo tra le parti sociali sono aspetti rilevanti, che forniscono al Parlamento importanti elementi di giudizio e di orientamento. Ma non possono precostituire un vincolo per il legislatore, al quale compete la piena sovranità sul piano legislativo. E questo andava detto con chiarezza sin dall'inizio del percorso, per prevenire le polemiche di questi giorni, che erano facilmente prevedibili.
È strano che il Governo abbia fatto questo errore: è strano che abbia potuto credere che la maggioranza in Parlamento si sarebbe limitata a una ratifica, ed è anche strano che non abbia previsto che ci sarebbe stato chi - anche nelle stesse file della maggioranza - ne avrebbe approfittato per minacciare, ricattare, segnalarsi come affidabile garante degli interessi confindustriali.
E non ci si dica: c'è stato un referendum (i famosi cinque milioni di sì) che ha conferito sacralità, intangibilità al Protocollo. Lo sappiamo e non vogliamo riaprire qui polemiche che è bene stiano alle nostre spalle. Tutti sappiamo quanto il referendum sia stato problematico: non solo per gli aspetti procedurali e per la scarsa agibilità riservata alle tesi in dissenso, ma anche per un fatto elementare. Ai lavoratori è stato chiesto: «volete questo Protocollo, o la Maroni?». Non è stato chiesto: «che cosa volete in luogo della Maroni?». La questione era mal posta e per così dire pregiudicata sin dall'inizio.
Ma allora è chiaro - persino tautologico e chiedo scusa di queste banalità - che l'esito della consultazione (che peraltro non ha registrato un massiccio consenso nei luoghi attivi della produzione) non preclude miglioramenti nell'interesse dei lavoratori espressisi nel referendum. Sarebbe il caso di evitare, tutti, ipocrisie e strumentalità.
Due sono le cose sostanziali che dovrebbero contare per chi ha davvero a cuore i diritti e gli interessi dei lavoratori di questo Paese.
La prima chiama in causa la maggioranza e il Governo: ci sono alcuni impegni nel programma dell'Unione, che attendono di essere onorati. Nel programma si prevede la cancellazione delle tipologie di lavoro più precarizzanti istituite dalla legge 30 e si prevede altresì di introdurre vincoli ai contratti a termine ben più pesanti di quelli di cui stiamo parlando: il programma parla testualmente di causali legate all'«oggettivo carattere temporaneo delle prestazioni». Se questo è vero, le modifiche apportate dalla Commissione che si muovono in questa direzione dovrebbero essere considerate semplici atti dovuti, non già dare adito a polemiche politiche in seno alla maggioranza.
La seconda considerazione riguarda tutti coloro che intendono difendere i diritti del lavoro, a cominciare dalle organizzazioni sindacali: crediamo che quel che conta non sia tanto chi fa una cosa (chi sigla un accordo, chi propone una modifica, chi vara una norma); quel che conta - alla fine - è il risultato, che deve essere migliorativo nell'interesse dei lavoratori. Con questo spirito ci siamo mossi e intendiamo continuare a muoverci; con questo spirito ciascuno dovrebbe valutare il contributo fornito da tutti gli attori impegnati.
E allora veniamo agli aspetti di merito, limitandoci, come dicevo, ai più importanti.
Sulla previdenza: noi non abbiamo mai nascosto il nostro giudizio non positivo sulla riduzione dei coefficienti, sulla triennalizzazione del ricalcolo e sul modo con cui si è modificato lo scalone, limitandosi a diluirlo in tre anni e anzi ipotizzando persino un maggiore innalzamento dell'età pensionabile. Non abbiamo condiviso queste misure per la semplice ragione che non è vero che i conti della previdenza siano in rosso. I conti sulla base dei quali si sono fatte le riforme previdenziali nello scorso decennio (che hanno ridotto drasticamente la copertura pensionistica per le giovani generazioni) si sono rivelati sbagliati, maPag. 112questo sembra non interessare al Governo, che si guarda bene dall'applicare una legge del 1998 (che dispone la separazione tra assistenza e previdenza) che aiuterebbe a fare chiarezza una volta per tutte e impedirebbe questo ciclico attacco alle pensioni dei lavoratori dipendenti.
Nondimeno, abbiamo proposto una modifica che, tenendo fermo il risultato, preveda la possibilità di raggiungerlo anche senza innalzare l'età. Perché non si è voluto ascoltare? Perché non si vuole riconoscere che se un lavoratore ha lavorato uno o due anni in più del minimo richiesto, questo fatto gli va riconosciuto, accettando una riduzione dell'età?
Si dice: il rigore, i conti, la finanza pubblica. Ma la realtà è ben diversa: la realtà è quella di un Paese che diventa sempre più ingiusto e che oltre tutto, proprio per questo, si sta impoverendo.
In questi giorni ero nel biellese, un distretto del tessile in profonda crisi. Ho incontrato decine di lavoratrici e di lavoratori. Ce ne sono moltissimi ormai senza lavoro, che hanno più di cinquant'anni e oltre trent'anni di lavoro alle spalle. Vorrebbero trovare un impiego per potere andare in pensione ma nessuno li vuole. Le aziende chiedono di alzare l'età ma assumono solo chi ha meno di trent'anni. E noi a queste persone che cosa rispondiamo? Innalziamo l'età pensionabile e li mettiamo in una situazione drammatica, senza vie d'uscita. Possiamo meravigliarci senza ipocrisie se per disperazione vanno a lavorare al nero - e se poi ci scappa anche qualche suicidio, come è avvenuto ancora qualche giorno fa ad Imperia?
Poi c'è la questione dei lavori usuranti, a proposito della quale la Commissione ha approvato una modifica importante, che elimina una clausola restrittiva che avrebbe di fatto escluso la gran parte dei lavoratori notturni. Credo che si tratti di uno dei risultati più significativi del nostro lavoro in Commissione, e rendiamo atto sia al relatore sia al Governo di averlo agevolato, dando parere favorevole all'emendamento.
Noi qui stiamo parlando - vorrei non lo si dimenticasse - di lavoratori che hanno alle spalle decenni di lavoro in condizioni pesantissime, non di rado nocive per la salute psico-fisica. È una questione che dovrebbe essere trattata con responsabilità, se non con uno spirito di solidarietà e di giustizia che non può essere imposto a chi non lo abbia. Proprio per questo non vogliamo nemmeno prendere in considerazione l'ipotesi che questa modifica - al pari delle altre migliorative introdotte in Commissione - possa venire revocata da parte dell'Aula.
Vi sono ancora due questioni su cui mi pare necessario soffermarmi prima di concludere.
Si tratta di una misura sulla competitività - la decontribuzione dello straordinario - e della partita dei contratti a termine.
Noi siamo sempre stati contro l'idea di dispensare le imprese dall'onere aggiuntivo previsto dall'articolo 2 della legge 549 del 1995 per il ricorso allo straordinario. Critichiamo questa decisione per svariate ragioni. Ostacola la crescita dell'occupazione. Va in direzione contraria alla tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori. Asseconda le posizioni di chi pensa che le retribuzioni debbano essere sempre più commisurate alle prestazioni individuali, al salario di rischio. Dietro si intravede la pressione per ridurre l'incidenza dei contratti collettivi nazionali, un altro elemento che consideriamo del tutto negativo - ed è per questo che non abbiamo apprezzato nemmeno gli incentivi alla contrattazione di secondo livello (che riguarda solo il 20 per cento delle imprese italiane).
Dunque siamo contrari, e non per ragioni di poco conto. Riteniamo che molto meglio sarebbe detassare gli aumenti salariali, il che favorirebbe anche una rapida chiusura dei contratti. E tuttavia non abbiamo alzato barricate contro questa norma. Vorremmo che lo si tenesse presente. Noi riteniamo questa misura sbagliata. La consideriamo un ennesimo regalo alle imprese, su cui stranamente gli arcigni guardiani del rigore nulla eccepiscono. Un regalo del quale il Paese non si gioverà (sappiamo bene che impiego lePag. 113imprese facciano di questi continui benefici). Ma, pur dissentendo, siamo disposti, in una logica complessiva, ad accettare questa misura. Lo ripeto, in particolare al Ministro che ha la cortesia di ascoltare con attenzione queste mie parole (e di ciò lo ringrazio): si tenga conto di questo nostro comportamento costruttivo, perché non è possibile che le osservazioni avanzate dalle diverse componenti di questa maggioranza vengano vagliate di volta in volta in modo astratto, enucleandole dal contesto complessivo, senza considerare che a fronte di una richiesta ci sono apertura e disponibilità.
E veniamo alle misure sul lavoro, che non dovrebbero essere poste sotto il solo titolo «mercato del lavoro», che è quanto meno riduttivo, ma anche sotto quello dei «diritti del lavoro» nel quadro di una politica di sviluppo.
Il tema cruciale riguarda i contratti a termine. Che cosa abbiamo chiesto a questo riguardo? È molto semplice. Noi prendiamo sul serio le dichiarazioni rese in più sedi dal Ministro Damiano di volere fare del tempo indeterminato la forma contrattuale normale. Nessuno di noi dice: niente più tempo determinato. Non diciamo neppure, in questa sede (anche se sarebbe elementare, come riconosce la stessa normativa comunitaria): contratti a termine solo in presenza di causali oggettive. E non basta ancora. Accettiamo anche - appunto perché siamo ben consapevoli di non essere i soli a decidere - un tempo di per sé lunghissimo (36 mesi) e persino la proroga in deroga (8 mesi), anche se non apprezziamo il coinvolgimento del sindacato ai fini della validazione dei contratti, una funzione che non gli compete e che rischia di snaturare il ruolo del sindacato quale parte impegnata nella difesa del lavoro. Solo che, a questo punto, osserviamo che - se non vogliamo scherzare - dobbiamo poi fare in modo che i lavoratori ai 36 mesi possano effettivamente arrivare, altrimenti non è solo una presa in giro (una soglia irraggiungibile è un traguardo illusorio, una sorta di supplizio di Tantalo), rischia di essere anche un danno (perché, lasciata libera, l'impresa avrà tutto l'interesse a sbarazzarsi del lavoratore giunto a 35 mesi: e così si rischia che una misura in sé giusta, com'è un limite alla durata massima del tempo determinato, si rovesci nel suo contrario, nella premessa della perdita del posto di lavoro).
Per questo chiediamo al relatore e al Governo di riflettere bene. Noi diciamo che quando un lavoratore accede al rapporto di lavoro, dev'essere messo in una sorta di corsia preferenziale, che - pur rimanendo egli a termine - gli dà tuttavia qualche prospettiva certa, nella misura in cui l'impresa che vuole procedere a nuove assunzioni deve dare a lui un nuovo contratto a tempo determinato una volta che il precedente si è concluso, e così fino al raggiungimento della soglia dei 36 mesi.
Non è nulla di rivoluzionario, non costa nulla, non impedisce all'impresa di avere contratti a termine. Mette solo in pratica le dichiarazioni del Ministro, evitando che il solo limite temporale si tramuti in un boomerang: nella garanzia per il lavoratore di essere cacciato via dall'impresa una settimana prima del raggiungimento della soglia che farebbe scattare la stabilizzazione.
A proposito del fatto che queste modifiche siano evidentemente a costo zero, vorrei aggiungere una breve considerazione. Questo semplice fatto dimostra che la teologia del rigore (in nome della quale certi settori della maggioranza minacciano rappresaglie in caso di modifiche parlamentari del Protocollo) è un pretesto (peraltro a senso unico, visto che - come notavamo - nessuna protesta si leva quando un mucchio di denaro pubblico prende la strada delle imprese).
La retorica del rigore serve a dire che se il lavoro ha problemi deve risolverseli da sé, senza chiedere nulla al Paese. Con una mano si toglie (tagliando la spesa, mantenendo la precarietà, non tutelando i salari e gli stipendi contro l'inflazione), con l'altra ci si rifiuta di dare. E sappiamo che cosa questo significhi: una gigantesca redistribuzione della ricchezza dal lavoro al capitale (nel 2005 al lavoro dipendente è andato appena il 43,9 per cento del Pil, come nel 1951! Mentre negli ultimi 25 anni i redditi da capitale sono passati dalPag. 11422,3 per cento al 32,9 per cento), e una società sempre più ineguale e ingiusta.
Quando denunciamo tutto questo qualche industriale dice che siamo contro l'industria. No, non siamo contro l'industria, che è un patrimonio nazionale, il frutto del lavoro e dei saperi prodotti dalla collettività, e un elemento-chiave per lo sviluppo del Paese. Siamo contro questo modo speculativo, affaristico, di concepire il proprio ruolo da parte di tanti industriali italiani: contro una concezione miope che ha puntato tutto sulla riduzione dei costi riducendo la competitività internazionale del nostro sistema produttivo e frustrando ogni tentativo di dare forma ed efficacia a un progetto di politica industriale in questo Paese.
Nessuno pretende altruismo, ma chi si fregia del titolo di classe dirigente e ne reca la responsabilità dovrebbe anche dimostrarsi capace di riconoscere le esigenze altrui e di non assolutizzare le proprie. Soprattutto, imprenditori degni di questo nome dovrebbero avvertire anche la responsabilità verso il Paese e verso il suo sviluppo complessivo (economico, sociale, civile); dovrebbero ringraziare questo Governo che, dopo la munifica finanziaria dell'anno scorso, anche quest'anno è assai generoso: ripristina gli incentivi tagliati nel 2007 e accresce di 1,6 milioni lo stanziamento a favore delle imprese (mentre - lo ricordiamo - ci sono 400 milioni in meno per le politiche del lavoro). Imprenditori degni di questo nome dovrebbero smetterla di guardare solo al profitto immediato e di usare il ricatto delle delocalizzazioni per impedire qualsiasi miglioramento delle condizioni di chi lavora, e questo in anni in cui hanno accumulato profitti (tra il 1974 e il 2005 la quota dei profitti sul Pil è balzata dal 2 al 16 per cento; nel 2005 le grandi e medie imprese italiane - secondo uno studio di Mediobanca - hanno chiuso con un utile del 37 per cento superiore rispetto a quello dell'anno precedente) e si sono ben guardati dall'investire in innovazione e ricerca. Mi fermo qui, senza entrare nella discussione (che considero meno rilevante di quanto non sia apparso dalle polemiche di questi giorni) sull'abrogazione dello staff leasing. Potrei invece dire molto sulla deroga inserita in tema di lavoro a chiamata, una deroga grave sia per il merito (il programma del Governo prevede l'abrogazione del job on call e il Protocollo aveva sancito questa misura sacrosanta) sia per come è maturata, saldando un fronte tra maggioranza e opposizione che, soprattutto su queste materie, si sarebbe dovuto viceversa evitare con ogni cura. Ma voglio astenermi da ogni polemica. Mi auguro che sulla deroga in materia di lavoro a chiamata l'Aula decida di tornare al testo originario del disegno di legge, ma - lo ripeto - consideriamo decisive altre materie, su cui mi sono soffermato in precedenza. E a proposito di responsabilità - e chiudo su questo - evocarla ha un senso se si chiarisce nei confronti di chi la si avverte e la si assume.
L'ho detto in precedenza e mi pare opportuno ribadirlo concludendo questo mio intervento: disponendoci all'esame di questo provvedimento, prima in Commissione, ora in Aula, noi abbiamo guardato solo a un obiettivo: accrescere le tutele dei lavoratori, sia di quanti si approssimano all'età della pensione e non si meritano di vedersi negato un diritto acquisito dopo una vita di lavoro, sia di quanti si trovano a combattere con una flessibilità che troppo spesso nel nostro Paese si trasforma in una trappola di precarietà senza scampo.
Noi ci sentiamo responsabili in primo luogo nei confronti di queste persone. Migliorarne la condizione, ricostruirne i diritti, rafforzarne le tutele è il nostro interesse prioritario. Su questa base matureranno le nostre decisioni nel corso dell'esame in Aula di questo disegno di legge.