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CONSIDERAZIONI INTEGRATIVE DELL'INTERVENTO DEL DEPUTATO LUCIANO D'ULIZIA IN SEDE DI DISCUSSIONE SULLE LINEE GENERALI DEL DISEGNO DI LEGGE DI CONVERSIONE N. 3324-A
LUCIANO D'ULIZIA. Ripercorro in modo sintetico le principali motivazioni a sostegno detta soppressione o della modifica dell'articolo 7, comma 4, del decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248. La prima concerne l'abrogazione dell'articolo 7, comma 4, del decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248.
L'articolo 7, comma 4, del decreto-legge n. 248 del 2007 prevede che, «fino alla completa attuazione della normativa in materia di socio lavoratore di società cooperative, in presenza di una pluralità di contratti collettivi della medesima categoria, le società cooperative che svolgono attività ricomprese nell'ambito di applicazione di quei contratti di categoria applicano ai propri soci lavoratori, ai sensi dell'articolo 3, comma 1, della legge 3 aprile 2001, n. 142, i trattamenti economici complessivi non inferiori a quelli dettati dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria».
La seconda concerne l'assenza di motivazioni inerenti la necessità ed urgenza.
Il preambolo del decreto-legge fa riferimento alla «straordinaria necessità ed urgenza di provvedere alla proroga di termini previsti da disposizioni legislative, al fine di consentire una più concreta e puntuale attuazione dei correlati adempimenti, di conseguire una maggiore funzionalità delle pubbliche amministrazioni, nonché prevedere interventi di riassetto di disposizioni di carattere finanziario».
L'inserimento del comma 4 nell'articolo 7 contrasta con la logica sottostante al meccanismo di emanazione dello stesso decreto-legge, considerato che la sua ratio è quella di intervenire, così come previsto dall'articolo 77 della Costituzione, soltanto in casi straordinari di necessità ed urgenza che non paiono affiorare se riferiti al termine temporale del completamento dell'attuazione della normativa in materia di socio lavoratore.
I presupposti dell'intervento, infatti, oltre a non essere legati ad improrogabili scadenze o necessità socio-economiche, contrastano con il contenuto dell'articolo 3, comma 1, della legge n. 142 del 2001 (articolo 3 - Trattamento economico del socio lavoratore: «Fermo restando quanto previsto dall'articolo 36 della legge 20 maggio 1970, n. 300, le società cooperative sono tenute a corrispondere al socio lavoratore un trattamento economico complessivo proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato e comunque non inferiore ai minimi previsti, per prestazioniPag. 51 analoghe, dalla contrattazione collettiva nazionale del settore o della categoria affine, ovvero, per i rapporti di lavoro diversi da quello subordinato, in assenza di contratti o accordi collettivi specifici, ai compensi medi in uso per prestazioni analoghe rese in forma di lavoro autonomo»), normativa che non è mai stata dichiarata lacunosa o deficitaria al punto da richiedere interventi legislativi in materia.
Per quanto riguarda il rapporto tra Costituzione e diritto di libertà sindacale per il movimento cooperativo, l'articolo 3, comma 1, della legge n. 142 del 2001 ricalca le norme già impresse nell'ordinamento giuslavorista dal dettato dell'articolo 36, comma 1, della Costituzione, laddove specifica che «il trattamento economico complessivo deve essere proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato e comunque non inferiore ai minimi previsti per prestazioni analoghe dalla contrattazione collettiva nazionale del settore o della categoria affine» senza ulteriormente specificare o richiedere i requisiti o le condizioni di rappresentatività delle associazioni stipulanti i contratti collettivi nazionali di lavoro. Apportare, pertanto, modifiche al principio così come sopra argomentato, significherebbe non tener conto dell'indirizzo dettato dalla stessa Costituzione.
Per di più, il medesimo decreto mira a puntualizzare requisiti e specificità delle associazioni sindacali «abilitate», che non apparvero necessari neppure all'atto detta redazione dell'articolo 19 della legge 20 maggio 1970, n. 300, per il quale bastò dapprima la maggiore rappresentatività sul piano nazionale (parte comunque successivamente abrogata) o che fossero firmatarie di contratto collettivo nazionale di lavoro applicati nell'unità produttiva.
Nell'ambito delle fonti del diritto del lavoro, al contratto è riconosciuta forza di legge tra le parti, tanto che esse possono autonomamente disciplinare i propri rapporti: ciò ovviamente non vuole invertire l'ordine gerarchico tra le fonti, ma è legittimo sostenere che il legislatore, proprio a garanzia del medesimo diritto di autodeterminazione, non dovrebbe indicare, seppur implicitamente, i minimi retributivi da applicare ai rapporti di lavoro. La legge n. 142 del 2001 concerne la tutela del socio lavoratore e della concorrenza
L'articolo 39 della Costituzione garantisce l'autonomia e la libertà sindacale, un diritto ad oggi riconosciuto dalla presenza di una pluralità di organizzazioni presenti nel Paese.
Il legislatore della legge n. 142 del 2001 utilizzò l'espressione «contrattazione collettiva nazionale del settore o della categoria affine» senza aggiungere, come in altre disposizioni, l'ulteriore inciso «stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative su base nazionale». Facendo riferimento al dato testuale, quindi, il disposto dell'articolo 3 è rispettato laddove la cooperativa si limiti ad adottare il trattamento economico previsto da un contratto collettivo nazionale di lavoro che abbia valenza sul territorio nazionale, anche se sottoscritto da organizzazioni sindacali non comparativamente più rappresentative.
Il presente decreto tenta di istituire una pericolosa oligarchia sindacale! Ciò perché la presenza di una pluralità di organizzazioni e di conseguenti contratti collettivi nazionali di lavoro non solo garantisce il regolare compimento di una sana e produttiva concorrenza, ma costituisce, inoltre, la realizzazione di quei principi di libertà ed autonomia posti a fondamento degli intenti del legislatore costituzionale.
Alle parti, infatti, è riconosciuta la facoltà di poter scegliere da quale articolato far disciplinare la propria attività o prestazione lavorativa e la possibilità paventata dal decreto-legge n. 248 del 2007 di un unico accordo regolamentare al riguardo mostra il fianco a dubbi di legittimità costituzionale.
In ultimo, si annota che l'articolo 7, comma 4, limita la propria applicazione «solo» alla retribuzione corrisposta ai soci lavoratori; pertanto ciò escluderebbe la categoria dei lavoratori non soci, producendo una dicotomia insostenibile; ai soci verrebbe, in ipotesi, applicata una normativa Pag. 52non aderente alla figura stessa del socio lavoratore e più favorevole rispetto a quella dei dipendenti non soci.
Il socio lavoratore, infatti, è, sì, un lavoratore, ma soprattutto un socio imprenditore, anzi coimprenditore, e quindi partecipa al rischio d'impresa (l'articolo 3 della legge n. 142 del 2001 prevede, infatti, che ai soci lavoratori possono essere erogati trattamenti economici ulteriori deliberati dall'assemblea: a titolo di maggiorazione retributiva, secondo le modalità stabilite in accordi stipulati ai sensi dell'articolo 2; in sede di approvazione del bilancio di esercizio, a titolo di ristorno): agganciando la sua retribuzione a quella di un contratto collettivo nazionale di lavoro soltanto, si andrebbe ad ingessare il sistema cooperativo, configurando il socio quale dipendente tout court che andrebbe a ricevere un salario sostanzialmente predeterminato, in completa antitesi con la normativa prevista dalla legge n. 142 del 2001.
In conclusione, si chiede la soppressione dell'articolo 7, comma 4, del decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248, in quanto non solo non appare urgente un intervento legislativo rivolto in siffatta direzione, ma circoscrivere la potestà sindacale a quelle poche organizzazioni sindacali elette e risultate le uniche «comparativamente più rappresentative» lascia perplessi sulla legittimità costituzionale del provvedimento.
In ultimo, quanto introdotto dal decreto non risulta coerente con la normativa in tema di socio lavoratore e porterebbe a ledere i principi basilari della concorrenza nel mercato del lavoro, con il conseguente obbligo, per le cooperative, di corrispondere uguali retribuzioni minime ai soci lavoratori, anche quand'anche non fossero in grado di sostenerle. Pertanto, appare opportuno sostituire, al citato comma, l'espressione «comparativamente più rappresentative» con «maggiormente rappresentative».
Per quanto concerne le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative, la maggiore rappresentatività garantisce una più idonea certezza identificatrice del requisito della rappresentatività dette organizzazioni sindacali firmatarie di contratto collettivo nazionale di lavoro, individuate tramite: l'ampiezza e la diffusione nel territorio di strutture organizzative; la capacità della formazione e stipula di contratti collettivi nazionali di lavoro; l'effettiva partecipazione alla trattazione delle controversie individuali e collettive.
Giova appena ricordare che il requisito della rappresentanza delle organizzazioni presso il CNEL rafforza ulteriormente la preferenza della maggiore rappresentatività, quale criterio indicatore; l'articolo 4 della legge n. 936 del 30 dicembre 1986, recante «norme sul Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro», espressamente prevede che «il Presidente del Consiglio dei ministri, uditi i ministri interessati, definisce l'elenco dei rappresentanti delle organizzazioni maggiormente rappresentative (...)», senza procedere, pertanto, ad alcuna comparazione.
Veniamo alla definizione di retribuzione per il socio lavoratore.
Ulteriore argomento a sostegno della modificazione del dettato del decreto risiede nell'articolo 36, comma 1, della Costituzione (vedi punto 2, paragrafo precedente), in cui non vengono specificati i requisiti o le condizioni di rappresentatività delle organizzazioni stipulanti contratti collettivi nazionali di lavoro. Ne consegue come la locuzione «comparativamente più rappresentative» vada, da un lato, ad abrogare e, dall'altra, ad integrare un principio che per il legislatore costituente, invece, fu sufficientemente chiaro.
A suffragio di quanto sostenuto finora, si cita il seguente importante dato normativo: il decreto-legge n. 338 del 9 ottobre 1989, convertito nella legge n. 389 del 7 dicembre 1989, indica come la retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi di previdenza e di assistenza sociale non possa essere inferiore all'importo delle retribuzioni stabilito, tra gli altri, dai contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati «dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale»; anche in questo caso non apparve necessario procedere ad alcuna comparazione.Pag. 53
Per quanto concerne, infine, la retribuzione prevista nei contratti collettivi nazionali di lavoro, è doveroso sottolineare che, nel nostro ordinamento, non vige un principio di parità retributiva con parità di mansioni.
L'articolo 36 della Costituzione, infatti, sancisce soltanto la sufficienza e la proporzionalità della retribuzione alla quantità e qualità del lavoro prestato, ma non la parità nel trattamento retributivo tra lavoratori addetti ad identiche mansioni. In conclusione, anche se la soluzione migliore dovrebbe scaturire dalla soppressione dell'articolo 7, comma 4, del decreto-legge n. 248 del 2007, purtuttavia, ragioni di ordine pratico e una soluzione condivisa potrebbe aversi anche con la semplice modifica dell'articolato, così come indicato in premessa.
Ciò consentirebbe di rispettare il dettato costituzionale e le normative conseguenti, una maggiore certezza nell'identificare i contratti collettivi nazionali di lavoro (e le rispettive organizzazioni sindacali firmatarie, da prendere a parametro di riferimento, di proseguire nel rispetto della concorrenza e di permettere una maggiore scelta per i soci lavoratori del contratto collettivo nazionale di lavoro più confacente alla situazione dell'impresa cooperativa.