Menu di navigazione principale
Vai al menu di sezioneInizio contenuto
INTERVENTI DEI DEPUTATI FRANCO CECCUZZI ED ERMANNO VICHI IN SEDE DI DISCUSSIONE SULLE LINEE GENERALI DEL DISEGNO DI LEGGE DI CONVERSIONE N. 1808
FRANCO CECCUZZI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, signor rappresentante del Governo il provvedimento all'esame dell'Aula prende, certamente, le mosse dalla necessità di dare esecuzione immediata ad una sentenza della Corte di giustizia dello scorso 14 settembre e che il Governo ha prontamente affrontato conPag. 85una riunione straordinaria, del Consiglio dei ministri, che si è tenuto l'indomani, 15 settembre.
Un'assunzione di responsabilità che mette il Parlamento in condizione di esaminare una soluzione ordinata per gestire le domande di rimborso che verranno presentate dai contribuenti, in attesa di affrontare e risolvere il problema a regime.
Vorrei sottolineare che, pur trattandosi di gestire l'ennesima pillola avvelenata lasciata in eredità dal Governo precedente, il disegno di legge da oggi all'esame dell'Aula può, legittimamente, essere inserito in una nuova attenzione che il nostro paese sta mostrando, dopo il cambio di governo, rispetto alla dimensione europea ed internazionale della politica fiscale.
Richiamo il quadro generale e gli obiettivi dell'attività di governo per sottolineare come il modo migliore per evitare in futuro tali incidenti, assai onerosi per le casse dello Stato, e forieri di disagi per i cittadini - che a me non piace chiamare contribuenti - sia quello di lavorare con maggiore convinzione di quanto non abbia fatto il Governo precedente sul terreno dell'integrazione delle politiche fiscali.
Lo scorso 12 ottobre il Viceministro dell'economia e delle finanze, onorevole professor Vincenzo Visco, nel corso dell'audizione presso le Commissioni finanze di Camera e Senato, ha infatti affermato che per il Governo italiano la regolazione sopranazionale delle relazioni fiscali è uno dei capitoli principali della sfida dell'integrazione europea. L'approvazione di normative comuni a livello europeo e, quanto meno, la cooperazione fiscale tra Stati deve consentire di ridurre la «competizione fiscale dannosa», come viene definita nel linguaggio della Commissione Europea.
Va nella giusta direzione il progetto di introduzione di una base imponibile comunitaria comune per la tassazione del reddito delle società. Tale soluzione comporterebbe notevoli vantaggi, tra cui una minore necessità di fare ricorso a regimi anti-elusivi all'interno della Ue. La competizione fiscale diventerebbe più trasparente, in quanto si sposterebbe dalla definizione della base imponibile per concentrarsi sulle aliquote e sulla concessione di crediti d'imposta e trasferimenti. Il Viceministro Visco ha concluso ribadendo l'impegno del Governo italiano affinché il tema del contrasto alla competizione fiscale dannosa torni al centro dell'agenda della Commissione Europea e del Consiglio. «Il decreto - ha spiegato lo stesso Visco - è stato quindi varato per evitare che si andasse a un disordinato meccanismo di autocompensazione. Si è intervenuti con un decreto di urgenza in relazione a una sentenza arrivata a ridosso di una scadenza tributaria».
Il flusso di risorse che sfugge alle casse degli erari dei 25 paesi Ue è ingente. Secondo le stime della Commissione Europea l'evasione fiscale si assesta tra il 2 ed il 2,5 per cento del Pil europeo, pari ad una cifra che oscilla tra i 200 ed i 250 miliardi. Si tratta molto probabilmente di una sottostima per larghissimo difetto, dal momento che una cifra di questo tipo potrebbe prodursi soltanto in un solo paese dei 25 e precisamente nel nostro.
Nei primi sei mesi di attività il Governo italiano si è distinto con due provvedimenti: l'adeguamento alla sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee in data 14 settembre 2006 nella causa C-228/05, in materia di detraibilità dell'IVA, oggi in discussione e lo schema di decreto legislativo recante il regime fiscale comune delle società madri e figlie, di recepimento della direttiva 2003/123/CE del Consiglio, che modifica la direttiva 90/435/CEE, concernente il regime fiscale comune applicabile alle società madri e figlie di Stati membri diversi, sul quale la Commissione finanze ha già espresso il parere favorevole.
Il solo adeguamento della nostra legislazione a quella dell'Unione europea relativamente ai due provvedimenti suddetti è assai consistente ed aumenta l'indebitamento con il quale questo Governo si è dovuto misurare, per oggettiva responsabilità di quello che lo ha preceduto.
Il recepimento della normativa sulle società madre e figlia - gli ultimi paesi rimasti sono Italia e Lussemburgo - producePag. 86conseguenti minori entrate, stimate in 16 milioni di euro per ciascuno degli anni 2006 e 2007, in 13 milioni di euro per l'anno 2008, e in 23 milioni di euro a decorrere dall'anno 2009.
L'interpretazione errata delle norme comunitarie, peraltro, può costare molto cara, e soprattutto in campo fiscale dove si gioca una consistente fetta del livello di competitività di un paese.
È questo il caso della suddetta sentenza che comporta - secondo la nota di aggiornamento del Dpef - un minor gettito stimato in circa 3.700 milioni di Euro per il 2006, ed in ragione della competenza economica, maggiori oneri stimati in 13.400 milioni per il pagamento degli arretrati relativi agli anni 2003-2005.
Come si vede, le ripercussioni sul bilancio pubblico della sentenza sono pesanti e non eludibili, anche in considerazione degli effetti retroattivi. All'indomani della sentenza della Corte di giustizia è stato convocato d'urgenza il Consiglio dei ministri, proprio allo scopo di dare a quella sentenza immediata esecuzione e mettere subito i contribuenti interessati in condizione di sapere come devono comportarsi. È proprio a questo fine che è stato emesso il decreto-legge n. 258 la cui conversione, dopo l'esame del Senato, è oggi alla nostra attenzione.
Per inquadrare in maniera esauriente la congiuntura europea è necessario ripercorrere in sintesi le fasi che hanno portato alla sentenza, non soltanto per chiarirne meglio i caratteri d'urgenza ma anche per sottolineare ancora una volta che si tratta di una grave e perdurata inadempienza da parte del precedente Governo.
Il 29 ottobre 2004 la Commissione europea ha presentato un pacchetto di proposte relativo all'ammodernamento del sistema IVA. Il testo comprende tra l'altro alcune proposte che semplificano gli obblighi di detraibilità, disciplinano il rimborso dell'IVA per i soggetti di imposta che risiedono in un altro Stato membro ed hanno come obiettivo l'introduzione di modalità di cooperazione tra le amministrazioni finanziarie nazionali coerenti con l'introduzione dello sportello unico.
Il pacchetto di proposte è stato esaminato dal Parlamento europeo in lettura unica il 7 settembre 2005. Il 7 giugno 2006 il Consiglio, nell'ambito della procedura di consultazione, ha deciso la continuazione dei lavori sugli altri elementi del pacchetto di misure IVA, allo scopo di giungere ad un accordo globale entro la fine dell'anno.
Lo scopo principale del pacchetto di proposte è quello di alleggerire l'onere amministrativo a carico dei soggetti che, in ragione della propria attività economica, devono assolvere obblighi IVA in un paese diverso da quello nel quale risiedono. A tal fine, tra l'altro, la Commissione ha preso in esame le spese per le quali non è possibile ottenere una detrazione totale dell'IVA, con l'obiettivo di ravvicinare le normative nazionali, che in proposito divergono notevolmente. La Commissione ha infatti individuato specifici capitoli di spesa, come ad esempio spese di divertimenti e di rappresentanza, spese relative a viaggi, alloggio, alimenti e bevande, diverse da quelle sostenute dal soggetto passivo nell'esercizio della sua attività che non necessitano di detraibilità.
Al contrario, le spese relative ai veicoli stradali a motore utilizzati nell'esercizio dell'attività professionale sono stati introdotte fra i costi detraibili.
Coerentemente con queste linee di indirizzo, il 16 marzo 2005 la Commissione europea ha inviato all'Italia una lettera di messa in mora in relazione al trattamento IVA applicato in Italia all'IVA detraibile assolta dai soggetti passivi non stabiliti nel territorio italiano prima della loro registrazione in Italia ai fini IVA.
I tempi per uniformare la normativa sono stretti: il 7 novembre prossimo 2006 è previsto l'accordo politico del Consiglio in vista dell'adozione definitiva della proposta.
Non possiamo quindi sottacere - cari colleghi - come quella sentenza fosse in realtà attesa e prevedibile, dopo che la Commissione si era pronunciata in modo chiaro sui limiti della detraibilità dell'Iva per le vetture aziendali, tanto che nella XIII legislatura, quella governata dal centrosinistra, per intenderci, l'Italia avevaPag. 87avviato subito le trattative per compiere un graduale rientro nella regola europea, stabilendo già nel 2001 una prima riduzione del limite di indetraibilità che, originariamente, riguardava il 100 per cento dei costi. Purtroppo quel percorso di rientro dei costi è stato completamente abbandonato nella legislatura successiva, ignorando anche la presentazione del ricorso alla Corte di Giustizia promosso, nel 2004, dalla Stradasfalti srl avverso l'Agenzia delle entrate, ufficio di Trento.
La sentenza ha affermato l'incompatibilità con il diritto comunitario delle disposizioni contenute nell'articolo 19-bis.1 del decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 1972, le quali stabiliscono l'indetraibilità dell'IVA relativa all'acquisto o all'importazione di ciclomotori, di motocicli e di autovetture e autoveicoli non adibiti ad uso pubblico o che non formino oggetto dell'attività propria di impresa, ovvero all'acquisto e all'importazione dei componenti e dei ricambi dei menzionati ciclomotori, motocicli, autovetture e autoveicoli.
La Corte di giustizia ha rilevato che tali misure risultano incompatibili con l'articolo 17, paragrafo 7 della direttiva del Consiglio 77/388/CEE («sesta direttiva del Consiglio in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra d'affari») in quanto, per le proroghe del regime di indetraibilità intervenute successivamente al 2000, non risulta essere stata osservata la procedura di consultazione del Comitato consultivo IVA prevista dall'articolo 29 della suddetta direttiva.
Inoltre è stato rilevato che la medesima disposizione della direttiva non consente ad uno Stato membro di adottare provvedimenti che escludano alcuni beni dal regime delle detrazioni di tale imposta senza limitazione temporale ovvero nel contesto di un insieme di provvedimenti di adattamento strutturale miranti a ridurre il disavanzo di bilancio e a consentire il rimborso del debito pubblico.
La sentenza riconosce pertanto il diritto di ottenere il rimborso dell'IVA versata e non detratta per gli anni successivi al 2000. La Corte ha inoltre escluso la possibilità di differire o limitare nel tempo gli effetti della sentenza.
In proposito, l'articolo 1, comma 1, del decreto-legge prevede che, ai fini del rimborso, i soggetti passivi che fino alla data del 13 settembre 2006 hanno effettuato nell'esercizio dell'impresa, arte o professione, acquisti ed importazioni di ciclomotori, motocicli, autovetture ed autoveicoli, ovvero sostenuto spese per componenti e ricambi degli stessi (vale a dire i beni e i servizi indicati nell'articolo 19-bis.1 del decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 1972) debbono presentare istanza di rimborso entro il 15 aprile 2007 (il termine è stato modificato nel corso dell'esame presso il Senato; il termine originariamente previsto era quello del 15 dicembre 2006).
A seguito di modifiche introdotte nel corso dell'esame al Senato, si prevede altresì che con il medesimo provvedimento possono essere stabilite differenti percentuali di detrazione dell'imposta per distinti settori di attività in relazione alle quali è ammesso il rimborso in misura forfetaria.
Resta comunque salva la possibilità di rimborso in misura superiore a quella forfetaria. Possono chiederlo i contribuenti che, pur avendo presentato l'istanza di rimborso prevista dal primo periodo, non aderiscono al regime forfetario stabilito a norma del quarto periodo, nonché i contribuenti che non presentano l'istanza di rimborso entro il termine del 15 aprile 2007. Essi dovranno presentare un'istanza agli effetti della presentazione dei ricorsi alle commissioni tributarie provinciali. La domanda di restituzione di tributi deve essere presentata, in mancanza di disposizioni specifiche, entro due anni dal pagamento, ovvero, se posteriore, dal giorno in cui si è verificato il presupposto per la restituzione.
Il comma 2 prevede che i rimborsi siano esclusi dalle procedure di detrazione e di compensazione tra debiti e crediti di imposta previste dal decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 1972 e dal decreto legislativo n. 241 del 1997.Pag. 88
Il comma 2-bis, aggiunto nel corso dell'esame presso il Senato, mira a ridefinire la disciplina complessiva della materia novellando l'articolo 19-bis. 1, comma 1, lettera c), del citato decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 1972, sull'indetraibilità dell'IVA sui veicoli aziendali, oggetto di censura da parte della Corte di giustizia europea. Relativamente a tali veicoli si prevede pertanto che l'IVA sia indetraibile nei limiti previsti dall'autorizzazione che sarà rilasciata dagli organi comunitari.
Il provvedimento al nostro esame assume, dunque, grande rilievo poiché si propone, com'è noto, di regolare il rapporto tributario tra una moltitudine di contribuenti, esercenti, attività di impresa e professionisti, e l'erario.
Se non fosse per l'enorme rilevanza dell'ammontare del debito erariale scaturito dall'accertamento giudiziale suddetto e se il contenuto del decreto non ponesse complessi problemi afferenti alla gestione del bilancio dello Stato, il provvedimento non meriterebbe estesi ed approfonditi commenti e valutazioni.
Infatti, il disegno di legge che siamo chiamati ad approvare si limita a regolare le modalità attraverso le quali rendere certi e liquidi i crediti dei contribuenti, a fissare un termine per la presentazione delle domande, a vietare compensazioni tra il credito pregresso e i debiti di imposta correnti, in tal modo affermando certezze a favore ed a carico delle imprese, dei professionisti e dello Stato.
In realtà, dietro il dato contenutistico del provvedimento, relativamente semplice, si nascondono le sopraindicate complesse problematiche, che è il caso di evidenziare in questo dibattito.
Innanzi tutto, credo meriti apprezzamento la tempestività con la quale il Governo ha inteso regolare la vicenda che è venuta a determinarsi nel modo predetto. Seppure sospinto dall'esigenza di evitare effetti dirompenti sulla finanza pubblica e possibili abusi derivanti dalla teorica possibilità di compensazione da parte dei contribuenti, l'intervento del Governo va sottolineato proprio perché esso è idoneo a definire i rapporti sorti antecedentemente alla sentenza, fissando tempi e procedure di riconoscimento dei crediti.
È sì vero che le pronunce interpretative di norme vigenti della Corte di giustizia hanno efficacia erga omnes, e sono quindi idonee a far sorgere diritti e comunque posizioni giuridiche qualificate, ma è altrettanto vero che dette sentenze non attribuiscono al cittadino l'automatica possibilità di ritenersi titolare di un diritto certo ed immediatamente esigibile, bensì legittimano gli stessi ad azionare la pretesa avanti al giudice italiano, che dovrà nel caso anche procedere all'accertamento della situazione sostanziale sottostante. È necessario comprendere che cosa accade quando la Corte europea si pronuncia perché questo di per sé spiega la necessità e l'urgenza alla base del decreto.
Quando la Corte di giustizia delle Comunità europee si esprime, dichiara il diritto europeo. Quando la regola nazionale è incompatibile prevale la superiorità del diritto europeo: una situazione che produce quindi conseguenze nell'ordinamento interno.
L'effetto non è quindi l'annullamento della regola giuridica nazionale, perché la Corte di giustizia delle Comunità europee non ha questo potere. Si tratta di una conseguenza che tecnicamente possiamo definire come appartenente ad una fattispecie di disapplicazione: vale a dire che il giudice nazionale, chiamato a risolvere una controversia, dovrà disapplicare la regola nazionale e applicare, invece, il principio di diritto europeo, come dichiarato dalla Corte di giustizia.
La conseguenza principale è che, a seconda dei casi, dopo la pronuncia della Corte può essere messa in dubbio la certezza del diritto. Il Governo ha voluto quindi tutelare il cittadino contribuente, dare immediata certezza al rapporto tra cittadino e fisco, cercando di evitare ogni sviante tentativo di interpretazione giuridica.
L'urgenza e la necessità del provvedimento stavano proprio in questo: dare certezza, tutelare il contribuente, rendere chiari i percorsi attraverso i quali si potevaPag. 89da subito aspirare a vedere applicata la regola così come dichiarata dalla Corte di giustizia delle Comunità europee.
Ecco quindi che l'aver disposto una procedura ricognitiva del diritto non soltanto ha evitato immediati e negativi effetti sul bilancio dello Stato, ma ha anche permesso e permetterà ai numerosissimi contribuenti interessati di ottenere il rimborso, in moneta o mediante futura compensazione, senza essere costretti ad attivare una procedura giudiziaria.
Ed anche la già citata proroga per la presentazione di istanza di rimborso spostata al 15 aprile 2007 ed introdotta da Senato rappresenta una scelta precisa per venire incontro alle esigenze del cittadino che avrà più tempo a disposizione per richiedere il rimborso del credito. Un provvedimento che introduce un periodo più lungo e che recepisce, tra l'altro, un suggerimento dalla stessa Commissione dell'Unione Europea.
Si è prodotto dunque un ampliamento, ovvero un giusto riconoscimento e non un restringimento, come è stato sostenuto da rappresentati dell'opposizione, dell'interesse dei diritti dei contribuenti, i quali potranno ottenere in via amministrativa e senza dispendio di energie, di tempo e di denaro ciò che avrebbero potuto pretendere soltanto in sede giudiziaria.
In secondo luogo, è senz'altro utile rilevare che il Governo e il Parlamento stanno facendo buon uso del loro potere di legiferare anche relativamente alla corretta appostazione in bilancio dell'onere finanziario scaturito dalla sentenza di cui ci stiamo occupando.
È stato sconcertante, anche in questa occasione, il comportamento delle forze di minoranza che hanno caratterizzato i lavori parlamentari con interventi demagogici e strumentali pretendendo di sostenere i diritti di quei cittadini a cui avevano precedentemente negato la detraibilità.
È stato inoltre sostenuto e contestato da parte dei colleghi dell'opposizione, nel dibattito al Senato, che il Governo prima e il Parlamento dopo avrebbero dovuto individuare immediatamente una fonte di copertura dell'onere finanziario, ai sensi dell'articolo 81 della Costituzione e della legge di contabilità; così non è per le ragioni che sono state già sostenute dalla maggioranza in Commissione bilancio al Senato e che qui è il caso di riaffermare sinteticamente.
Ipotesi come quella di cui ci stiamo occupando sono esattamente previste e disciplinate dalla legge di contabilità, che al comma 7 dell'articolo 11-ter prevede, appunto, che nel caso di sentenze definitive di organi giurisdizionali, recanti interpretazioni della normativa vigente, suscettibili di determinare maggiori oneri a carico del bilancio dello Stato, il ministro dell'economia e delle finanze riferisce al Parlamento con propria relazione e assume le conseguenti iniziative legislative.
Si badi che detta procedura esclude l'obbligo di prevedere apposita copertura finanziaria, siccome i diritti che generano oneri a carico del bilancio dello Stato, accertati in sede interpretativa, giudiziale, devono ritenersi già riconosciuti dall'ordinamento e quindi non necessitano dell'emanazione di norme positive, attributive del diritto medesimo, nel quale caso, sì, occorrerebbe individuare la copertura, seguendo il normale iter di formazione delle leggi.
La ratio di tale norma di contabilità è evidente: il Governo e il Parlamento non possono rincorrere la giurisprudenza ogni volta che questa emana pronunce interpretative su norme generatrici di oneri a carico del bilancio dello Stato. Si determinerebbero, in tal caso, conseguenze aberranti e incidenti anche sull'autonomia costituzionale del Parlamento.
Allora, bene ha fatto il Governo a seguire la procedura disciplinata con il decreto; bene ha fatto a comunicare al Parlamento gli effetti finanziari della sentenza della Corte di giustizia nella sede propria, cioè con la Nota di aggiornamento al DPEF. Con essa, infatti, si è correttamente reso edotto il Parlamento dell'impatto finanziario della vicenda di cui ci stiamo occupando, stimato in 3,7 miliardi di euro per il 2006, e, in ragione della competenza economica, maggiori oneri stimati in 13,4 miliardi di euro, per il pagamento degli arretrati relativi agli anni dal 2003 al 2005.Pag. 90
Tale ingente onere ha effetti - e non potrebbe essere altrimenti - sull'indebitamento netto, che in tal modo viene a collocarsi al 4,8 per cento del PIL, con un aggravio rispetto alla precedente stima dell'1,2 per cento.
Si riconosce un diritto e i termini dei rimborsi non potranno che essere successivamente fissati, anche in ragione dell'esatta quantificazione dell'onere che scaturirà dalle domande che saranno presentate dai contribuenti; si disciplinano le modalità di presentazione delle istanze; si rileva l'impatto sul debito pubblico. Non si vede cos'altro il Governo avrebbe dovuto fare e non ha fatto.
Le attuali opposizioni dovrebbero spiegarci perché il Governo Berlusconi non ha inteso mantenere l'impegno, che fu assunto in sede comunitaria nel 2000, di riesaminare la misura limitativa di cui stiamo discutendo a partire dall'anno 2001, modificando il regime restrittivo del diritto alla detrazione dell'IVA, per troppo tempo prorogato.
Anche questa, colleghi dell'opposizione, è dunque un'eredità del vostro Governo, che avrebbe potuto e dovuto attivarsi in sede comunitaria negli ultimi cinque anni, per modificare la norma in questione.
Per queste ragioni, sosteniamo con convinzione questo decreto.
Oggi non possiamo che attenerci alla norma richiamata e alla prassi parlamentare in passato formatasi. Non possiamo che ribadire il nostro sostegno convinto a questa iniziativa legislativa, che introduce chiarezza e certezza nel rapporto tra contribuenti e amministrazione finanziaria, che recepisce una statuizione del massimo organo di giustizia comunitario e che registra l'impatto sull'indebitamento dello Stato, peggiorato non certo per responsabilità di questo Governo e di questa maggioranza che, anzi, si sono immediatamente attivati anche con la finanziaria e il decreto-legge in materia fiscale ad essa collegato per porre rimedio a tale pesante eredità.
L'influenza potenziale, quindi, di questa sentenza sulla finanza pubblica italiana, come è scritto precisamente nella Nota di aggiornamento al DPEF, sarebbe stata di oltre un punto percentuale di PIL, cioè gran parte della manovra finanziaria, se non fosse intervenuto questo decreto per cercare di identificare un modo per risolvere anzitutto i problemi del passato e poi naturalmente gettare le basi per affrontare il tema del futuro.
Non c'è dubbio che c'è stata una debolezza nell'affrontare con provvedimenti adeguati i problemi che questa sentenza avrebbe probabilmente posto, né è bastato portare dal 10 al 15 per cento nell'anno vigente la possibilità di detrazione, perché la sentenza della Corte è una sentenza «rap»; in sostanza, dice ad ogni piè sospinto che il problema di fondo è la mancata consultazione, prevista dalla direttiva, del comitato che deve autorizzare le legislazioni nazionali in materia. Il fatto di non avere innovato dal punto di vista legislativo, limitandosi a dei ritocchi percentuali sulle detrazioni, ha creato il problema che noi oggi dobbiamo affrontare. Il decreto ha bloccato non solo la possibilità di compensare fino al 15 dicembre, ma ha anche evitato che il contribuente potesse compensare, nell'incertezza di dovere poi restituire, cioè ha cercato di fare chiarezza.
Come si evince dal paragrafo 66 delle motivazioni della sentenza e come altri hanno già richiamato, la pronuncia della Corte discende dal mancato raggiungimento di un accordo tra il Governo italiano e l'apposito comitato consultivo, previsto dalla direttiva della CEE, al quale avrebbe dovuto essere comunicata l'intenzione, da parte dell'Esecutivo che era in carica a quella data, di adottare misure nazionali in deroga al regime generale delle detrazioni dell'imposta sul valore aggiunto, in linea con quanto avvenuto, senza particolari inconvenienti, dal 1980 al 2000.
Con questo decreto si porta a soluzione una questione antica che si trascina da 27 anni ed è particolarmente grave che nei 5 anni trascorsi il Governo precedente non abbia fatto nulla per risolvere questo problema. Che si tratti di negligenza, di imperizia o di irresponsabilità poco importa. Quello che è innegabile è che siamo di fronte ad un'altra coda avvelenata del Governo Berlusconi. Tanto più che il ricorso ePag. 91la causa relativa, come già spiegato, sono stati innescati nel 2004 e dunque il problema si poteva tentare di risolvere.
Nel nostro paese la detraibilità dell'auto aziendale era impedita al 100 per cento, mentre nell'Unione Europea è ammessa una detrazione parziale anche per una questione di equità con chi non ha una partita Iva e dunque non può detrarre alcunché. L'Italia era chiamata a rientrare progressivamente dal 100 per cento di indetraibilità al 50 per cento. Il percorso lo aveva iniziato il Governo Amato già del 2001 scendendo al 90 per cento, e poi si sarebbe progressivamente scesi sino ad andare a regime.
Ancora una volta emergono le differenti visioni delle due coalizioni. Da un lato, il centrodestra che con sotterfugi, condoni, promesse mancate di risanamento ha tentato inutilmente di rammendare i buchi di una fallimentare politica economica e sociale; a danno dei cittadini e soprattutto di quel popolo della partita Iva che il centrodestra ha contribuito a creare per nascondere il precariato.
Dall'altro, il centrosinistra che si è posto l'obiettivo di dare stabilità e certezze ai cittadini assumendosi la responsabilità, come in questo caso, di interventi gravosi e pesanti per la finanza pubblica. Interventi comunque necessari per un paese moderno in linea con le regole dell'Unione Europea.
Nel concludere voglio quindi riaffermare la coerenza con la quale questo Governo ha affrontato il problema, dopo appena 24 ore dal momento in cui esso si è manifestato, incardinandolo all'interno dei tre principi basilari della sua politica economica che sono: risanamento, crescita, equità. Risanamento perché come nel bilancio di ogni famiglia anche lo Stato deve sapere con esattezza il debito che deve pagare, ed oggi dopo i trucchi dell'ex ministro Tremonti tutto ci è noto e trasparente, crescita perché senza di essa non esiste alcun presupposto per la redistribuzione del reddito e per l'estensione delle tutele, equità perché le ingiustizie oltre che intollerabili sul piano dei convincimenti etici, sono anche esse fonte di vincoli alla crescita economica, ma anche civile e sociale di un grande paese, come l'Italia.
Tutto questo troverà piena attuazione quando il decreto fiscale, ora all'esame del Senato, ed il disegno di legge finanziaria, all'attenzione di questa Aula, saranno diventati legge e dispiegheranno i loro effetti accompagnando un necessario, per quanto doloroso, risanamento con le misure per lo sviluppo e la giustizia sociale.
Con il decreto n. 258 del 2006 da oggi all'esame dell'Aula facciamo un piccolo passo in avanti in questa direzione restituendo certezza del diritto, facendo fronte agli impegni di fronte all'Unione Europea e trovando una appropriata copertura finanziaria. Quello che deve fare un Governo che abbia a cuore, come il nostro ha a cuore, le sorti del paese.
ERMANNO VICHI. Il decreto è stato illustrato con grande competenza dal relatore e non avrebbe bisogno di ulteriori precisazioni. Ma, poiché talvolta si potrebbe essere tentati di uscire da situazioni non facili per il bilancio in modo non lineare, generando altri contenziosi e altri ricorsi, intervengo anch'io con alcune raccomandazioni.
Con la sentenza del 14 settembre 2006, la terza sezione della Corte di giustizia europea affronta e risolve (definitivamente?) una questione annosa. Il Giudice comunitario censura, infatti, come ingiustificate le limitazioni vigenti, da circa 27 anni, nel nostro ordinamento, in materia di detraibilità sul valore aggiunto sugli autoveicoli di proprietà dell'impresa o del professionista che non siano esclusivamente destinati all'esercizio dell'attività.
La sentenza trae origine dal ricorso di un privato che ha chiesto la condanna dell'Agenzia delle entrate a rimborsare le imposte corrisposte (indebitamente) negli anni 2001-2004, ed ha eccepito la legittimità della normativa nazionale per contrasto con la specifica direttiva comunitaria (633/1972). Si tratta di una direttiva finalizzata a favorire l'armonizzazione della legislazione degli Stati membri ed a creare un sistema comune di imposta sul valore aggiunto. Quella direttiva dice che, nella misura in cui beni e servizi sono impiegati ai fini di sue operazioni soggette a imposta, il soggetto passivo è autorizzato a dedurrePag. 92dall'imposta di cui è debitore. E si dice anche che nel termine di quattro anni il Consiglio avrebbe determinato le spese che non danno diritto a deduzione sul valore aggiunto, escludendo comunque le spese non aventi un carattere strettamente professionale. Fino all'entrata in vigore di quelle norme, ogni Stato membro avrebbe mantenuto tutte le esclusioni previste dalla sua legislazione nazionale.
Ho ricordato, per sintesi estrema, i dati della questione per notare, intanto, che la direttiva europea non introduce una generica ed immotivata deduzione dell'IVA, ma una scelta ragionata, che è stata interpretata al peggio.
La direttiva è stata in parte recepita in Italia (decreto del Presidente della Repubblica 24/79), introducendo nel decreto istitutivo dell'IVA (decreto del Presidente della Repubblica 633/72) la disciplina dell'imposta sul valore aggiunto per tutta una serie di fattispecie in ordine alle quali è prevista una deroga totale o parziale al regime di detrazione disciplinato. Nel particolare, si è disposto che l'imposta relativa all'acquisto di autoveicoli che non formano oggetto dell'attività propria dell'impresa non è ammessa in detrazione, salvo che per gli agenti e rappresentanti di commercio. Si è fatta, cioè, la scelta non di applicare, ma di aggirare; non la scelta ragionata, ma della deroga totale al regime di detrazione. Una scelta rimasta in vigore fino al 2000, per essere poi prorogata, ripetutamente, fino ad oggi (388/2000), seppure attenuata, prima con una limitazione al 90 per cento, poi all'85 per cento.
Tutto ciò per dire che, anche per i tributi, non ci si può mettere solo dalla parte delle esigenze della cassa; prima ancora, occorre mettersi dalla parte del cittadino, tanto più in presenza di una direttiva europea.
Un'ultima annotazione. Il Governo ha immediatamente provveduto a regolamentare le conseguenze con un occhio alla cassa (non poteva fare altrimenti!) e considerata la prevedibile corsa al rimborso da parte di un numero elevato di contribuenti, ha escluso, in prima battuta, la possibilità di recuperare l'imposta nei modi consueti, e prevedendo una procedura apposita, nello specifico un'istanza in via telematica entro il 15 aprile 2007.
Ora, poiché la sentenza in oggetto non riconosce comunque una detrazione dell'IVA correlata all'autovettura, quanto, piuttosto, vuole eliminare un divieto di detrazione imposto in sfregio alla direttiva europea, l'Agenzia delle entrate dovrà stabilire quanto si potrà percentualmente mettere in capo all'utilizzo professionale ed imprenditoriale dei mezzi: da una lato, perseguendo abusi e frodi, ma tenendo conto, dall'altro, con misura e serenità, della situazione, non penalizzando sussidi importanti per la professione e l'impresa. Ma, soprattutto, adottando percorsi lineari, senza predisporre percorsi ad ostacoli per riconoscere il diritto del contribuente; un diritto che ora è sancito anche da una sentenza (largamente prevista e prevedibile). Un percorso ad ostacoli che potrebbe rappresentare un'ulteriore violazione delle disposizioni comunitarie.
Una raccomandazione, la mia, che non è connessa a questo decreto ma, ovviamente, agli atti successivi dell'amministrazione.