La Convenzione internazionale per la repressione degli attentati
terroristici per mezzo di esplosivo rappresenta, insieme alla Convenzione
per la repressione del finanziamento del terrorismo, uno dei più importanti
strumenti multilaterali, elaborati in ambito ONU allo scopo di prevenire e
contrastare il grave fenomeno del terrorismo internazionale.
La Convenzione è stata adottata
dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 15 dicembre 1997 ed è entrata in vigore internazionale il 23 maggio
2001. L’Italia ne ha autorizzato la ratifica con la legge 14 febbraio 2003, n. 34.
Nel Preambolo alla Convenzione
sono citate due fondamentali Risoluzioni dell’Assemblea Generale in materia di
lotta al terrorismo. Con la Dichiarazione sulle misure volte ad eliminare il
terrorismo internazionale, contenuta nella Risoluzione n. 49/ il 9 dicembre
1994, gli Stati membri delle Nazioni Unite hanno espresso una condanna
categorica di tutti gli atti e metodi terroristici, in particolare di quelli
che danneggiano le relazioni internazionali e che minacciano l’integrità
territoriale e la sicurezza degli Stati. Con la successiva Risoluzione n. 51/210
del 17 dicembre 1996, l’Assemblea Generale ha sollecitato gli Stati a prendere
adeguati provvedimenti per prevenire e impedire il dilagare di atti di
terrorismo e ha istituito, nel contempo, un apposito Comitato speciale.
Partendo dalla considerazione
della sempre maggiore frequenza di attentati terroristici compiuti con mezzi esplosivi
e della mancanza di uno strumento internazionale avente per oggetto questo tipo
specifico di attentati, le Nazioni Unite hanno elaborato il testo della
Convenzione in esame, allo scopo di rafforzare e sviluppare la cooperazione
multilaterale quale mezzo maggiormente efficace per prevenire e reprimere il
terrorismo.
Oltre al preambolo, la
Convenzione in esame si compone di 24 articoli, riproducendo disposizioni in
parte simili a quelle contenute nella Convenzione relativa alla repressione del
finanziamento del terrorismo[1].
Vengono innanzitutto descritte
in modo dettagliato una serie di condotte finalizzate al compimento di atti
terroristici o eversivi mediante utilizzo di esplosivi, con l’intenzione di
provocare la morte o gravi danni fisici, oppure distruzioni massicce
all’interno o contro un luogo pubblico, un impianto governativo, un sistema di
trasporto pubblico o un’infrastruttura. Dal momento che il reato tentato è equiparato
a quello consumato, la disposizione indica anche le varie forme di concorso di
persone nel commettere violazioni della Convenzione.
La Convenzione non si applica
quando l’atto terroristico è compiuto nel territorio di un solo Stato e il
presunto autore si trova nel territorio dello Stato di cui è cittadino, a meno
che un altro Stato non abbia ragione di stabilire la propria competenza
giurisdizionale.
Ogni Stato Parte si impegna ad
adottare le eventuali e necessarie misure
per adeguare il proprio ordinamento penale ai fini dell’attuazione della
Convenzione, nonché misure di carattere legislativo, affinché i reati
contemplati dalla Convenzione, in particolare quelli concepiti per provocare il
terrore tra la popolazione, non trovino alcuna giustificazione di natura
politica, filosofica, ideologica, razziale, etnica, religiosa o in
considerazione di qualsiasi altro analogo motivo.
Vengono individuati i criteri in
base ai quali uno Stato Parte può stabilire la propria competenza giurisdizionale per punire i responsabili degli
attentati terroristici; tale disposizione si riferisce, in particolare, ai casi
in cui il reato è stato commesso sul suo territorio (o a bordo di una nave o di
un velivolo sottoposti alla sua sovranità) oppure se è compiuto da un suo cittadino.
Ai fini di un’eventuale incriminazione o estradizione, le persone che si presumono responsabili di violazioni ai sensi della Convenzione saranno oggetto di opportune indagini di ricostruzione dei fatti. Alla persona indagata vengono comunque garantiti alcuni diritti fondamentali, come quello di comunicare con un rappresentante qualificato dello Stato di appartenenza e di riceverne la visita.
Nell’ipotesi in cui uno Stato non conceda
l’estradizione nei confronti di un altro Stato che ne avanzi la legittima
richiesta, questi è tenuto ad affidare il responsabile del reato all’autorità
giudiziaria competente, perché provveda a giudicarlo in base alle norme
previste dall’ordinamento interno.
I reati rientranti nell’ambito
di applicazione della Convenzione in esame sono considerati a pieno titolo come
casi di estradizione in tutti i trattati di estradizione che le Parti abbiano
già concluso tra loro o che stipuleranno in futuro.
Gli Stati contraenti si
impegnano a concedersi reciprocamente
assistenza giudiziaria nella misura più ampia possibile, ai fini di
inchieste, procedure penali o di estradizione conseguenti alla commissione di
reati cui si applica la Convenzione.
Gli attentati
terroristici con esplosivi, poi, non possono in nessun caso essere qualificati
come reati politici e, quindi, essere invocati per rifiutare una richiesta di
estradizione o di assistenza giudiziaria.
Nessuna disposizione contenuta
nella Convenzione può tuttavia essere interpretata come un obbligo di
estradizione o di mutua assistenza giudiziaria, se uno Stato abbia motivi
validi per ritenere che queste richieste abbiano il solo scopo di perseguire
giudizialmente o di punire una persona per ragioni inerenti alla razza, alla
religione, alla nazionalità, all’etnia o alle sue opinioni politiche.
La Convenzione riconosce un trattamento equo a ciascuna persona
detenuta o oggetto di procedimenti intentati ai sensi della Convenzione stessa;
in particolare sono garantiti tutti i diritti e i benefici previsti dalla
legislazione dello Stato in cui si trova, nonché dalle norme vigenti di diritto
internazionale, ivi comprese quelle relative ai diritti umani.
Ai fini della prevenzione degli atti terroristici sanzionati dalla Convenzione, gli Stati contraenti attuano forme di cooperazione adottando ogni misura possibile per impedire e contrastare la preparazione o la commissione di tali reati all’interno o all’esterno dei loro rispettivi territori. Le Parti si impegnano inoltre a scambiarsi informazioni, a coordinare misure preventive di carattere amministrativo, a sviluppare metodi per la rilevazione di esplosivi e di sostanze pericolose e a consultarsi per definire norme finalizzate alla marcatura degli esplosivi.
La legge 14 febbraio 3003, n. 34, cit., oltre all’autorizzazione alla
ratifica della Convenzione e al relativo ordine di esecuzione, contiene norme
sostanziali innovative dell’ordinamento.
In particolare, l’articolo 3 introduce nel codice penale
una nuova specifica fattispecie relativa ad atti di terrorismo con ordigni micidiali o esplosivi (art. 280-bis), punendo con la
reclusione da due a cinque anni chi compie per finalità terroristiche atti
diretti a danneggiare cose mobili o immobili altrui mediante l’uso di
dispositivi esplosivi o comunque micidiali.
La norma è volta a dare attuazione alle previsioni dell’art. 4 della Convenzione che affida ai singoli Stati parte la qualificazione come reato delle diverse condotte illecite che si concretizzano in attentati dinamitardi a fini di terrorismo (di cui all’art. 2 della stessa Convenzione).
Il nostro ordinamento già prevede
una articolata disciplina di repressione dei diversi fenomeni di terrorismo e
dei reati collegati: dalla legislazione quadro in materia di armi ed esplosivi
dettata dalle leggi 2 ottobre 1967, n. 895 e 18 aprile 1975, n. 110; alle
disposizioni a tutela dell’ordine pubblico e per la difesa dell’ordinamento
costituzionale dettate in particolare dalle leggi 22 maggio 1975, n. 152, 6
febbraio 1980, n. 15[2]
e 29 maggio 1982, n. 304; a numerose disposizioni del codice penale. Tra queste
ultime, si ricordano le norme in materia di associazione sovversiva e
terroristica (artt. 270 e 270-bis), attentato con finalità di terrorismo ed
eversione (art. 280), insurrezione armata contro i poteri dello Stato (art.
284), devastazione, saccheggio e strage (art. 285), banda armata (art. 306 e
ss.), attentato a impianti di pubblica utilità e alla sicurezza dei trasporti
(artt. 420 e 432), fabbricazione o detenzione di materie esplodenti (art. 435)[3].
L’art. 280-bis c.p. prevede
delle aggravanti specifiche del reato:
§
la prima aggravante, con aumento della pena fino alla metà, ricorre quando
l’attentato è commesso contro la sede della Presidenza della Repubblica, delle
Assemblee legislative, di organi del Governo o di altri organi costituzionale; il testo licenziato dalla Camera faceva
invece riferimento genericamente ad altri organi istituzionali o ad altri enti
pubblici, raddoppiando la pena (art. 280-bis, comma 3);
§
la seconda quando dal fatto deriva un pericolo
per la pubblica incolumità o un grave danno per l’economia nazionale; in tale
ipotesi si applica la pena della reclusione da cinque a dieci anni (da sette a dodici anni nel testo approvato
dalla Camera) (art. 280-bis,
comma 4);
L’ultimo comma dell’art. 280-bis prevede che le circostanze attenuanti, diverse da quella della minore età di cui all’art. 98 c.p. e della minima partecipazione al fatto di cui all’art. 114 c.p., concorrenti con quelle previste dai commi 3 e 4 del nuovo art. 280-bis, non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a queste e le diminuzioni di pena si effettuano con riferimento alla quantità risultante per effetto delle predette aggravanti.
L’articolo 6 interviene sull’art. 3 del decreto-legge antiterrorismo,
n. 274/2001,[4]
al fine di prevedere la possibilità del ricorso alle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni anche per lo
svolgimento di indagini riguardanti la nuova fattispecie delittuosa prevista
dall’art. 280-bis (atti di terrorismo con ordigni micidiali o
esplosivi).
La Convenzione internazionale per la repressione del finanziamento del
terrorismo, del 1999 è, insieme alla Convenzione per la repressione degli
attentati terroristici mediante l’uso di esplosivo, uno dei più importanti
strumenti finalizzati alla lotta contro il grave fenomeno del terrorismo
internazionale. Con la Dichiarazione sulle misure volte ad eliminare il
terrorismo internazionale, contenuta nella Risoluzione n. 49/60 approvata
dall’Assemblea Generale dell’ONU il 9 dicembre 1994, gli Stati membri delle
Nazioni Unite hanno espresso una condanna categorica di tutti gli atti e metodi
terroristici, in particolare di quelli che danneggiano le relazioni
internazionali e che minacciano l’integrità territoriale e la sicurezza degli
Stati. Con la successiva Risoluzione n. 51/210 del 17 dicembre 1996,
l’Assemblea Generale ha sollecitato gli Stati a prendere adeguati provvedimenti
per prevenire e impedire il finanziamento di singoli terroristi o di
organizzazioni terroristiche. In seguito, al Comitato speciale istituito da
questa stessa Risoluzione è stato affidato l’incarico di elaborare un progetto
di convenzione internazionale sul tema specifico della repressione del
finanziamento del terrorismo, allo scopo di completare il quadro di accordi
multilaterali già esistenti nell’ambito della stessa materia.
Nell’intento quindi di
rafforzare la cooperazione internazionale tra Stati, mezzo necessario per
svolgere una efficace azione di prevenzione e repressione del terrorismo,
l’Assemblea Generale ha adottato il 9
dicembre 1999 la Convenzione, che è entrata in vigore internazionale il 10 aprile 2002 ed è stata ratificata
dall’Italia con la legge14 gennaio 2003,
n. 7.
Oltre al preambolo, che ricostruisce cronologicamente e dettagliatamente le
fasi che, a livello ONU, hanno portato all’adozione di questo nuovo strumento
internazionale di lotta al terrorismo, la Convenzione si compone di 28 articoli e di un allegato dove sono elencate nove
convenzioni in materia di repressione e prevenzione del terrorismo, che sono
state tutte ratificate dall’Italia.
Le disposizioni della
Convenzione si intendono violate allorquando un soggetto, servendosi di un
qualsiasi mezzo, raccoglie fondi
destinati ad essere utilizzati per commettere atti terroristici, cioè atti
considerati reati ai sensi delle altre Convenzioni elencate nell’allegato,
oppure azioni miranti ad uccidere o ferire gravemente civili che non
partecipano direttamente alle ostilità in caso di conflitto armato. Viene
inoltre specificato che, affinché si ravvisi la fattispecie di reato, non è
necessario che tali fondi vengano effettivamente utilizzati a fini
terroristici. Parimenti commette reato anche chiunque tenti di commettere un atto di terrorismo, oppure vi partecipi
in quanto complice, organizzi e contribuisca alla commissione del reato.
La Convenzione non si applica quando l’atto
terroristico è compiuto nel territorio di un solo Stato e il presunto autore si
trova nel territorio dello Stato di cui è cittadino, a meno che un altro Stato
non rivendichi la propria giurisdizione nei casi in cui siano responsabili o
risultino vittime dell’azione terroristica propri cittadini, sedi o interessi.
Le Parti si impegnano ad
adottare le eventuali misure necessarie ad adeguare
il proprio ordinamento penale ai fini dell’attuazione della Convenzione,
nonché a prevedere forme di responsabilità penale, civile o amministrativa in
capo a persone giuridiche che compiano, tramite i propri amministratori, azioni
in violazione della Convenzione. Dovranno essere inoltre predisposte efficaci
sanzioni penali, civili e amministrative, anche di natura pecuniaria, che
risultino proporzionate e dissuasive.
Le Parti adottano anche, se
necessario, misure di carattere legislativo, affinché i reati contemplati dalla
Convenzione non trovino alcuna giustificazione di natura politica, filosofica,
ideologica, razziale, etnica, religiosa o in considerazione di qualsiasi altro
analogo motivo.
Vengono definiti i casi in cui uno Stato Parte può stabilire la propria competenza giurisdizionale, in particolare quando l’atto criminale è stato commesso sul suo territorio o se è compiuto da un suo cittadino.
Sono individuate le misure per
la rilevazione, il blocco o il sequestro di fondi destinati ad essere utilizzati
in attività di sostegno al terrorismo. I fondi confiscati potranno essere
condivisi con altri Stati Parte sulla base di appositi accordi, oppure potranno
essere utilizzati per risarcire le vittime di atti terroristici.
Ai fini di un’eventuale incriminazione o estradizione, le persone che si presumono responsabili di violazioni ai sensi della Convenzione saranno oggetto, di opportune indagini di ricostruzione dei fatti. Alla persona indagata vengono comunque garantiti alcuni diritti fondamentali, come quello di comunicare con un rappresentante qualificato dello Stato di appartenenza e di riceverne la visita.
Nell’ipotesi in cui uno Stato non conceda l’estradizione nei confronti di un
altro Stato che ne avanzi la richiesta legittimamente, questi è tenuto a far sì
che l’autorità giudiziaria competente intenti un’azione penale secondo le
procedure previste dalla legislazione interna. I reati rientranti nell’ambito
di applicazione della Convenzione sono considerati a pieno titolo come casi di
estradizione in tutti i trattati di estradizione che le Parti abbiano già
concluso tra loro o che stipuleranno in futuro.
Gli Stati contraenti si impegnano a concedersi reciprocamente l’assistenza giudiziaria nella forma più ampia possibile, ai fini di inchieste, procedure penali o di estradizione conseguenti alla commissione di reati cui si applica la Convenzione.
È esplicitamente stabilito che
le Parti non possano invocare il segreto bancario per rifiutare la
collaborazione giudiziaria. Allo stesso modo, le violazioni della Convenzione
non possono essere considerate come reati fiscali, né come reati politici e, come tali, essere invocati per rifiutare
una richiesta di estradizione o di assistenza giudiziaria.
E’ riconosciuto un trattamento equo a ciascuna persona detenuta o oggetto di procedimenti intentati ai sensi della Convenzione e, in particolare, sono garantiti tutti i diritti e i benefici previsti dalla legislazione dello Stato in cui si trova, nonché dalle norme vigenti di diritto internazionale.
Gli Stati contraenti attuano forme di cooperazione al fine di prevenire atti terroristici, adottando ogni misura possibile per impedire e contrastare la preparazione o la commissione di tali reati all’interno o all’esterno dei loro rispettivi territori. Altre misure dovranno essere previste per vietare l’apertura di conti di cui non siano identificati o identificabili i beneficiari e per imporre agli enti finanziari l’obbligo di segnalare le operazioni di una certa entità, sprovviste di una apparente causa economica o lecita.
La legge 14 gennaio 2003, n. 7 cit. non si è limitata ad autorizzare
la ratifica della Convenzione per la repressione del finanziamento del
terrorismo, come più sopra ricordato, poiché ha contestualmente introdotto anche
norme specifiche di adeguamento dell’ordinamento interno.
Il Capo II (artt. 3-5) introduce, in attuazione di apposite previsioni della Convenzione, un apparato sanzionatorio volto a colpire coloro che - società, enti o professionisti - finanziano il terrorismo internazionale.
La responsabilità amministrativa delle persone giuridiche e delle società, associazioni ed enti privi di personalità giuridica che non svolgano funzioni di rilievo costituzionale è stata disciplinata dal decreto legislativo n. 231 del 2001 (di attuazione della delega contenuta nell'art. 11 della legge n. 300 del 2000).
Il sistema introdotto si caratterizza per una forte impronta penalistica che deriva dall'essere la responsabilità amministrativa dei soggetti collettivi innestata sulla commissione di un reato e convogliata, per quel che attiene al suo accertamento e alla applicazione delle relative sanzioni, nell'alveo del processo penale. L'illecito amministrativo che fonda la responsabilità amministrativa del soggetto collettivo (art. 5) dipende e scaturisce da un reato commesso da un singolo che riveste un ruolo apicale (rappresentanza, amministrazione, direzione, gestione o controllo) o subordinato all'interno della struttura nella quale si articola il soggetto collettivo medesimo. Gli elementi costitutivi dell'illecito si traducono in un duplice criterio di imputazione, operante sia sul piano oggettivo che su quello soggettivo: da un lato, l'aver il singolo commesso un reato nell'interesse o a vantaggio del soggetto collettivo e, dall'altro, l'essere il reato commesso dal singolo espressione della politica aziendale o, quanto meno, frutto di una colpa di organizzazione (art. 6).
La legge n. 7/2003 prevede, all'articolo 3, l'inserimento nel decreto legislativo n. 231 dell'articolo 25-quater, rubricato "Delitti con finalità di terrorismo o di eversione dell'ordine democratico".
Tale disposizione elenca le sanzioni cui è soggetto l'ente che commette uno dei delitti aventi finalità di terrorismo o di eversione dell'ordine democratico, tipizzati dal codice penale e dalle leggi speciali (comma 1), prevedendo una responsabilità della persona giuridica tutte le volte che un delitto di terrorismo, non solo internazionale ma anche interno, sia commesso nell'interesse della medesima e quindi anche se lo stesso non comporta un'attività di stretto finanziamento.
Le sanzioni amministrative pecuniarie si dividono in due categorie:
§ delitto punito con la pena della reclusione inferiore a 10 anni: sanzione pecuniaria da 200 a 700 quote;
§ delitto punito con la pena della reclusione non inferiore a 10 anni o ergastolo: sanzione pecuniaria da 400 a 1.000 quote.
Si ricorda che, ai sensi dell'art. 10 (Sanzione amministrativa pecuniaria) del d.lgs. n. 231 del 2001 per l'illecito amministrativo dipendente da reato si applica sempre la sanzione pecuniaria; che questa viene applicata per quote in un numero non inferiore a 100 né superiore a 1000 e che l'importo di una quota va da un minimo di 258,23 euro a un massimo di 1.549,37 euro. Non è inoltre ammesso il pagamento in misura ridotta.
Oltre alla sanzione amministrativa pecuniaria, l'ente che ha commesso uno dei delitti con finalità di terrorismo o di eversione, incorre nelle sanzioni interdittive disciplinate dall'articolo 9, comma 2, del d. lgs. n. 231/2001 per una durata non inferiore ad un anno (comma 2).
Il comma 2 dell'articolo 9 del decreto legislativo n. 231/2001 individua 5 diverse sanzioni interdittive:
a) l'interdizione dall'esercizio dell'attività;
b) la sospensione o la revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell'illecito;
c) il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio;
d) l'esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l'eventuale revoca di quelli già concessi;
e) il divieto di pubblicizzare beni o servizi.
Inoltre, se l'ente (o la sua unità organizzativa) viene stabilmente utilizzato allo scopo unico o prevalente di commettere reati con finalità di terrorismo o di eversione dell'ordine democratico, l'interdizione dall'esercizio dell'attività sarà definitiva, ai sensi dell'articolo 16, comma 3, del d. lgs. n. 231 (comma 3).
Infine, il quarto comma dell'articolo 3 prevede che le disposizioni sanzionatorie dell'ente, di cui ai commi da 1 a 3, si applichino anche quando - fuori dalle ipotesi di reati aventi finalità di terrorismo o di eversione dell'ordine democratico - l'ente abbia violato l'articolo 2 della Convenzione.
L'articolo 4 apporta modifiche all'articolo 2, comma 4, del decreto legge n. 369 del 2001 (convertito con modifiche dalla legge 14 dicembre 2001, n. 431), in tema di misure di carattere sanzionatorio per reprimere e contrastare il finanziamento del terrorismo internazionale.
L'articolo 2 del d.l. n. 369 del 2001 stabilisce le disposizioni di carattere sanzionatorio per il mancato rispetto dei divieti di trasferimento di beni, servizi o risorse finanziarie che comunque riguardino, direttamente o indirettamente, soggetti od organizzazioni legate al terrorismo; divieti contenuti in regolamenti adottati dal Consiglio dell’Unione europea, anche in attuazione di risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
I commi 1 e 2 prevedono, rispettivamente, la nullità degli atti compiuti in violazione delle disposizioni sopracitate, e l’applicabilità, ai soggetti che compiono le operazioni vietate ai sensi del comma 1, di una sanzione amministrativa pecuniaria consistente nel pagamento di una somma di denaro non inferiore alla metà del valore accertato dell’operazione e non superiore al doppio del valore medesimo.
Il comma 3 stabilisce che i soggetti indicati nei regolamenti di cui al comma 1 siano tenuti a comunicare al Dipartimento del tesoro del Ministero dell’economia e delle finanze, l’entità dei capitali e delle altre risorse finanziarie oggetto di congelamento entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore dei regolamenti medesimi ovvero, se successiva, dalla data di formazione dei capitali o delle risorse finanziarie. In caso di ritardo od omissione della comunicazione citata si applica la sanzione amministrativa pecuniaria del pagamento di una somma non inferiore ad un terzo e non superiore alla metà dell'importo della sanzione di cui al comma 2.
Infine (comma 4) viene stabilita l’applicabilità, per l’accertamento delle violazioni e l’applicazione delle relative sanzioni, delle disposizioni di cui al titolo II, Capi I e II, del testo unico delle norme in materia valutaria (D.P.R. 31 marzo 1988, n.148).
In particolare, l'articolo 4 aggiunge un inciso volto a sanzionare con la nullità non solo gli atti compiuti in violazione delle disposizioni recanti il divieto di esportazione di beni e servizi, ovvero recanti il congelamento di capitali e di altre risorse finanziarie, contenute in regolamenti adottati dal Consiglio dell'Unione europea, anche in attuazione di risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, ma anche gli atti compiuti in violazione del divieto di prestazione di servizi finanziari.
L'articolo 5 dispone l'applicazione delle sanzioni contenute nell'art. 26 della legge n. 55 del 1990, sulla prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale, anche al delitto di finanziamento del terrorismo di cui all'art. 270-bis c.p.
L'articolo 26 della legge 19 marzo 1990, n. 55 prevede che quando i delitti di ricettazione (art. 648 c.p.), riciclaggio (art. 648-bis c.p.) e impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita (art. 648-ter c.p.) sono commessi nell'esercizio di attività bancaria, professionale o di cambio-valuta ovvero di altra attività soggetta ad autorizzazione, licenza, iscrizione in appositi albi o registri o ad altro titolo abilitante, si applicano le misure disciplinari ovvero i provvedimenti di sospensione o di revoca del titolo abilitante previsti dai rispettivi ordinamenti.
L'articolo 270-bis c.p. è stato modificato dal decreto legge 18 ottobre 2001, n. 374, (convertito con modificazioni dalla legge n. 438/2001) per colpire il delitto di "associazione con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell'ordine democratico". Nell'attuale formulazione l'art. 270-bis c.p. prevede due distinti reati:
1) promozione, costituzione, organizzazione, direzione o finanziamento di associazioni che si propongono il compimento di atti di violenza con finalità di terrorismo o di eversione dell'ordine democratico. La reclusione è da 7 a 15 anni;
2) partecipazione ad associazioni che si propongono il compimento di atti di violenza con finalità di terrorismo o di eversione dell'ordine democratico. La reclusione è da 5 a 10 anni.
Inoltre, la disposizione precisa che ai fini della legge penale, la finalità di terrorismo ricorre anche quando gli atti di violenza sono rivolti contro uno Stato estero, un'istituzione o un organismo internazionale.
Con l'aggiunta del comma 1-bis all'articolo 26, viene prevista l'applicazione delle misure disciplinari ovvero dei provvedimenti di sospensione o revoca del titolo abilitante anche quando - nell'esercizio di attività bancaria, professionale o di cambio-valuta ovvero di altra attività soggetta ad autorizzazione, licenza, iscrizione in appositi albi o registri o ad altro titolo abilitante - siano realizzate condotte di finanziamento del terrorismo, anche internazionale ex art. 270-bis c.p.
Il Capo III (artt. 6-7) della legge n. 7/2007 è rubricato "Fondo per le vittime del terrorismo internazionale".
Si ricorda che un vero è proprio fondo per le vittime del terrorismo non è stato mai istituito: la legge in questione apporta limitate variazioni alla legislazione in materia di provvidenze a favore delle vittime del terrorismo e quindi finanzia il capitolo dello stato di previsione del Ministero dell'Interno già dedicato alla "speciale elargizione in favore delle vittime dei cittadini italiani, dei cittadini stranieri e degli apolidi che abbiano perduto la vita a causa di azioni terroristiche".
L'articolo 6 introduce il comma 1-bis nell'art. 1 della legge n. 302 del 1990.
L'art. 1, comma 1, della legge n. 302 del 1990 prevede che chiunque subisca un'invalidità permanente, per effetto di ferite o lesioni riportate in conseguenza dello svolgersi nel territorio dello Stato di atti di terrorismo o di eversione dell'ordine democratico, ha diritto a un'elargizione fino a lire 150 milioni, in proporzione alla percentuale di invalidità riscontrata, con riferimento alla capacità lavorativa, in ragione di 1,5 milioni per ogni punto percentuale[5].
Con tale comma aggiuntivo si intende precisare che l'elargizione non è dovuta allorquando sia stata già corrisposta o comunque richiesta ad un altro Stato.
L'articolo 7 prevede invece che le somme provenienti dalle confische operate per reati di terrorismo siano destinate ad un apposito capitolo dello stato di previsione del Ministero dell'interno (comma 1). Spetterà quindi al Ministro dell'Interno (ex art. 12-sexies, comma 4-ter, d.l. n. 306/92), di concerto con il Ministro della giustizia e sentiti gli altri ministri interessati, stabilire con propri decreti:
a) la quota dei beni sequestrati e confiscati da destinarsi per l'attuazione di speciali misure di protezione;
b) la quota dei beni sequestrati e confiscati da destinarsi alle elargizioni già previste dalla legge 20 ottobre 1990, n. 302.
La legge 16 marzo 2006, n. 146 ha autorizzato la ratifica della Convenzione delle
Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale e dei suoi tre Protocolli.
La Convenzione e i primi due Protocolli
riguardanti, rispettivamente, la tratta di persone, specialmente donne e
bambini, e il traffico illecito di migranti via terra, via aria e via mare,
sono stati adottati il 15 novembre 2000 nel corso del Meeting del Millennio dell’Assemblea
generale dell’ONU e sono stati aperti alla firma nella Conferenza
politica ad alto livello svoltasi a Palermo dal 12 al 15 dicembre 2000. Il terzo Protocollo, relativo alla
fabbricazione e al traffico illecito di armi da fuoco, è stato invece adottato
dall’Assemblea generale il 31 maggio 2001.
Sia la Convenzione che i Protocolli sono in vigore: la prima dal 29
settembre 2003; il Protocollo contro la tratta delle persone dal 25 dicembre
2003; il Protocollo contro il traffico illecito dei migranti dal 28 gennaio
2004; il Protocollo sulle armi da fuoco dal 3 luglio 2005.
Come previsto dalla stessa
Convenzione (articolo 37), gli Stati che non l’hanno ratificata non possono
divenire parte dei Protocolli: ne consegue che ogni Protocollo deve essere
interpretato e applicato in relazione alla Convenzione e che uno Stato può essere
parte solo della Convenzione ed è libero di ratificare uno o più Protocolli. La
strategia di dotarsi di una Convenzione contenente previsioni più generali e di
Protocolli più specifici è stata adottata per facilitare la negoziazione e per
garantire la massima flessibilità nella ratifica. Il rafforzamento della
cooperazione, cui le Parti sono obbligate dalla Convenzione e dai suoi Protocolli, infatti, sarà tanto più
possibile quanto più grande sarà il numero degli Stati che adotteranno,
quantomeno, le misure minime contro il crimine organizzato transnazionale.
Inoltre, molte disposizioni hanno lo scopo di coordinare le misure interne di
ciascuno Stato, al fine di rendere più efficace l’intervento a livello
internazionale. La Convenzione e i suoi Protocolli prescrivono standard minimi
che i singoli paesi possono naturalmente superare adottando, laddove possibile,
misure interne più restrittive o altri accordi su base bilaterale o regionale.
Dopo gli articoli 1 e 2 che,
rispettivamente, dichiarano lo scopo
della Convenzione (promuovere la cooperazione al fine di lottare contro la
criminalità transnazionale organizzata) e chiariscono il significato dei
termini utilizzati, l’articolo 3
definisce l’ambito di applicazione, che si estende alla prevenzione, all’investigazione e all’esercizio dell’azione penale
per taluni reati transnazionali commessi da gruppi organizzati: si tratta di
“reati gravi”, ossia quelli punibili con una pena privativa della libertà il
cui massimo sia non inferiore a quattro anni, o dei reati di partecipazione a
gruppi criminali organizzati, di riciclaggio di proventi di reato, della
corruzione e di intralcio alla giustizia. Come specificato nell’articolo 2, per
“gruppo criminale organizzato” si intende un gruppo composto da almeno tre
persone che insieme commettano un reato grave (o altri reati previsti dalla
Convenzione) per ottenerne vantaggi finanziari o di altro genere; requisiti del
gruppo, inoltre, sono la sua esistenza per un certo periodo di tempo e
l’essersi dato una organizzazione interna, ancorché molto elementare.
Con l’articolo 4 viene ribadito il principio
della tutela della sovranità di ciascuno Stato parte, che continua ad
essere l’unico titolare dell’esercizio della funzione giurisdizionale, anche
dopo l’adesione alla Convenzione.
L’articolo 5 impegna gli Stati parte – attraverso l’adozione di
misure legislative e non - ad attribuire
il carattere di reato ad alcuni comportamenti aventi a che fare con la
partecipazione a gruppi criminali organizzati. Sono dunque da considerarsi
reati: l’intesa fra due o più persone diretta a commettere un reato grave sia
per raggiungere vantaggi economici che di altro tipo; la partecipazione
consapevole ad un gruppo criminale organizzato, prendendo parte non solo
direttamente ad attività criminali, ma anche ad attività di organizzazione,
facilitazione, incoraggiamento alla commissione di crimini gravi. Analogamente
a quanto previsto dall’articolo precedente, l’articolo 6, in materia di riciclaggio dei proventi di reato,
impegna le Parti a riconoscere come reati: la conversione o il trasferimento
consapevoli di beni proventi di reato; il loro occultamento e la dissimulazione
della vera natura di tali beni; l’acquisizione o il possesso di beni nella
consapevolezza che sono il frutto di un reato; la partecipazione o
l’incoraggiamento a commettere i reati descritti nell’articolo.
Per contrastare il riciclaggio di denaro sporco, l’articolo 7 impegna le Parti a
predisporre un sistema di controllo delle proprie banche o istituti finanziari,
che consenta di registrare clienti ed
operazioni e di segnalare quelle sospette; le Parti si impegnano altresì a
mettere le proprie autorità in grado di collaborare, sia sul piano nazionale
che su quello internazionale, prendendo anche in considerazione l’ipotesi di
istituire un centro nazionale di coordinamento per l’analisi delle informazioni
riguardanti il riciclaggio di denaro.
L’articolo 8 impegna le Parti ad adottare le misure atte ad
attribuire la natura di reato alla corruzione
attiva o passiva di pubblici ufficiali. Parallelamente, le Parti
adotteranno misure volte a promuovere l’integrità dei pubblici ufficiali e a
prevenire e punire la corruzione (articolo
9).
L’articolo 10 prevede la responsabilità
(penale, civile o amministrativa) a carico delle persone giuridiche coinvolte nella commissione di reati da parte di
gruppi criminali organizzati o che commettono reati quali la partecipazione ad
un gruppo criminale organizzato, il riciclaggio di proventi di reato, la
corruzione o l’intralcio alla giustizia. Tali reati saranno puniti, secondo l’articolo 11, in materia di azione
penale, sentenza e sanzioni, in ragione della loro gravità. Sempre nel caso di
tali reati, le Parti si adoperano per assicurare che le decisioni riguardanti
la messa in libertà in attesa del giudizio, anche di appello, tengano conto dei
diritti dell’imputato ma anche della necessità di garantire la sua presenza nel
procedimento; del pari, è previsto l’impegno a valutare attentamente l’ipotesi di una scarcerazione anticipata, in
considerazione della gravità del reato. Le Parti sono inoltre invitate a
valutare la congruità del periodo di prescrizione in vigore secondo le proprie
legislazioni, relativamente ai reati previsti dalla Convenzione in esame.
Gli articoli da 12 a 14 contengono disposizioni specifiche volte ad assicurare la confisca e il sequestro dei proventi di reato.
I criteri per determinare la giurisdizione sono, a norma dell’articolo 15, la competenza territoriale
e la competenza – facoltativa – basata sulla nazionalità dell’autore o della
vittima del crimine. Uno Stato parte può determinare la propria giurisdizione
quando il presunto autore del crimine si trova sul suo territorio e non viene
estradato per il solo fatto che è un suo cittadino.
In base all’articolo 16, le norme in materia di estradizione in esso contenute, si applicano a tutti i reati
previsti dalla Convenzione o ad ogni reato grave nel quale sia coinvolto un
gruppo criminale organizzato, se la persona della quale si richiede
l’estradizione si trova nello Stato richiesto e il reato sia punibile dalle
leggi di tutti e due le Parti.
La Convenzione distingue gli
Stati parte in base al fatto che essi subordinino o meno la concessione
dell’estradizione all’esistenza di un
trattato bilaterale che la preveda. Nel primo caso, se uno Stato parte riceve
una richiesta da uno Stato parte con il quale non esiste nessun trattato in
materia, lo Stato richiesto può utilizzare la Convenzione quel base giuridica
per concedere l’estradizione stessa. Dal canto loro, gli Stati parte che non
subordinano l’estradizione a trattati vigenti, devono riconoscere come
estradabili i reati previsti dall’articolo in esame .
Limiti all’estradizione sono
costituiti dalle condizioni poste dalla legge interna dello Stato richiesto, o
dai trattati applicabili, che possono riguardare, ad esempio, i requisiti
minimi di pena previsti per l’estradizione (comma 7). L’estradizione può
inoltre essere rifiutata se ci sono fondate ragioni per ritenere che la
motivazione sottostante la richiesta sia in relazione al sesso, la razza, la
religione, la nazionalità, le idee politiche della persona per la quale essa è
stata richiesta (comma 14). Gli Stati Parte possono poi rifiutare
l’estradizione di propri cittadini, ma in tal caso debbono processarli essi stessi (comma 10).
Con l’articolo 17 le Parti si riservano la facoltà di stipulare
successivi accordi che consentano a persone condannate per reati contemplati
dalla Convenzione di scontare la pena sul proprio territorio.
La Convenzione prevede, all’articolo 18, la reciproca assistenza giudiziaria tra gli Stati parte per il
compimento delle indagini, dell’azione penale e dei procedimenti penali.
L’assistenza giudiziaria è estesa ai casi nei quali ci sono fondati motivi per
sospettare che i reati siano di natura transnazionale. L’assistenza giudiziaria
ha lo scopo, tra l’altro, di acquisire dichiarazioni o prove, di ottenere documenti, di eseguire
perquisizioni e sequestri, di identificare proventi di reato (comma 3). Vengono
poi prefigurati casi nei quali l’assistenza giudiziaria può venire rifiutata –
rifiuto che deve sempre essere motivato - e casi nei quali la richiesta non può
essere respinta (p.es. adducendo il segreto bancario o per il fatto che il reato
riguarda la materia fiscale).
La Convenzione fornisce anche la
disciplina di base per lo svolgimento di
indagini congiunte da parte delle autorità competenti delle Parti (articolo 19), per la cooperazione nell’utilizzo di tecniche speciali di
investigazione (articolo 20), nonché
per la cooperazione di polizia,
prevista dall’articolo 27 laddove le
Parti si impegnano ad adottare misure affinché venga potenziata l’azione delle
strutture preposte alla lotta ai reati previsti dalla Convenzione stessa.
Tali disposizioni, di carattere
volutamente generico, sono approfondite ed integrate da altre, più specifiche,
contenute nei Protocolli. Come già più sopra sottolineato, la Convenzione
traccia infatti un quadro normativo minimo, rinviando ai Protocolli le norme
più di dettaglio e invitando altresì gli Stati Parte ad andare oltre le
disposizioni di base, in conformità con
la propria legislazione interna.
L’articolo 23 impegna le Parti ad adottare le misure necessarie a considerare reato l’intralcio alla giustizia. In
particolare, la Convenzione ritiene reati l’uso della forza fisica, di minacce,
intimidazioni, concessione di vantaggi, al fine di ottenere falsa testimonianza
o per interferire con l’esercizio dei doveri di ufficio di magistrati o forze
di polizia (sempre, naturalmente, in relazione alla commissione di reati
previsti dalla Convenzione). Anche in questo caso viene specificato che la
disposizione può essere estesa, ad opera della normativa interna dei singoli
Stati parte, ad altre categorie di pubblici
ufficiali.
L’articolo 24 impegna le Parti ad adottare le misure appropriate per proteggere i testimoni, e i loro
familiari, da possibili ritorsioni o intimidazioni. Fra le misure in questione
sono comprese la protezione fisica, il trasferimento del domicilio,
l’occultamento dell’identità dei testimoni, l’utilizzo di mezzi tecnologici che
permettano di rendere la testimonianza in assenza della presenza fisica del testimone. La protezione è
prevista anche per le vittime dei crimini previsti dalla Convenzione, che nella
maggior parte dei casi sono anche testimoni, e rinvia ai singoli Stati
l’adozione del procedimento per consentire l’indennizzo (articolo 25). Gli Stati parte prendono inoltre misure al fine di
incoraggiare le persone coinvolte nella criminalità transnazionale organizzata
a collaborare con le autorità
competenti (articolo 26).
Con l’articolo 28 le Parti vengono invitate a raccogliere ed analizzare dati sulla natura della criminalità
organizzata, anche al fine di scambiarli con le altre Parti e sviluppare
standard e metodologie comuni.
Sono previsti (art. 29) programmi di formazione
per tutto il personale, investigativo e giudiziario, coinvolto nella lotta ai
reati oggetto della Convenzione, per la cui progettazione gli Stati si
assistono reciprocamente.
L’articolo 32 istituisce la Conferenza
delle Parti per migliorare la capacità degli Stati parte di combattere la
criminalità transnazionale organizzata e per promuovere e monitorare
l’applicazione della Convenzione. Il comma 2, inoltre, stabilisce che il
Segretario generale delle Nazioni Unite indirà la Conferenza delle Parti entro
un anno dall’entrata in vigore della Convenzione e che essa dovrà adottare le
norme che disciplinano le attività volte al raggiungimento dell’applicazione
della Convenzione.
La prima Conferenza delle Parti si
è svolta a Vienna dal 28 giugno al 9 luglio 2004 (la Convenzione era entrata in
vigore il 29 settembre dell’anno precedente); la seconda si è svolta, sempre a
Vienna, dal 10 al 21 ottobre 2005: le risposte fornite al questionario
distribuito alle Parti nel corso della prima Conferenza, hanno mostrato che
esiste ancora un certo numero di Stati parte che non si è del tutto uniformato
alle prescrizioni della Convenzione. Le aree nelle quali maggiormente si
verificano gli scarti riguardano l’attribuzione della natura di reato ad alcuni
comportamenti, così come richiesto dalla Convenzione, e quella riguardante la
confisca e il sequestro dei proventi di
reato.
In merito all’attuazione della
Convenzione, l’articolo 34 obbliga
le Parti ad adottare tutte le misure a tal fine necessarie e, in particolare,
ad inserire nelle rispettive
legislazioni nazionali i quattro reati oggetto della Convenzione
(partecipazione a gruppi di criminalità organizzata, riciclaggio, corruzione, intralcio
alla giustizia).
L’articolo 37 regola i rapporti
tra la Convenzione e i Protocolli aggiuntivi, che non costituiscono parte
integrante della Convenzione: gli Stati possono infatti decidere di essere
Parti della sola Convenzione e non dei Protocolli (o di alcuni Protocolli), ma
non viceversa.
Il Protocollo per prevenire,
reprimere e punire la tratta di persone elenca innanzitutto gli atti che le
Parti sono obbligate a rubricare, attraverso l’adozione di apposite misure,
come reati. Si tratta di una serie
di azioni (reclutamento, trasporto,
alloggiamento, ecc.) messe in atto con
l’uso della forza – effettivo o anche con la sola minaccia – o con altre forme di coercizione, fra le quali l’abuso
di una situazione di vulnerabilità, volte a sfruttare persone, costringendole
alla prostituzione o a lavori forzati o sottoponendole a situazioni di
schiavismo o al prelievo di organi. Nel caso di fanciulli (cioè di minori di 18
anni), il reclutamento, il trasporto o l’alloggiamento sono considerati tratta,
anche in assenza di minacce o violenza.
Oltre alle misure contro i trafficanti, il Protocollo obbliga gli Stati parte
ad adottare le misure necessarie alla protezione
delle vittime (articoli 6-8), in
tal modo integrando quanto già previsto dalla Convenzione, riconoscendo che le
vittime della tratta corrono spesso gravi pericoli e necessitano di assistenza
e sostegno, particolarmente se vengono rimpatriate nei loro paesi di origine.
Vengono riconosciuti alle vittime il diritto di tutela della privacy, il
diritto di essere informate riguardo il funzionamento dei procedimenti
giudiziari, il diritto di essere assistite durante i processi ai trafficanti.
Le Parti, inoltre, adottano misure per garantire alle vittime un alloggio
adeguato, assistenza medica e psicologica, in alcuni casi anche un lavoro,
nonché un risarcimento del danno subito.
Il Protocollo obbliga gli Stati
parte ad accettare e, anzi, a facilitare
il rientro in patria dei propri cittadini vittime della tratta, la cui
protezione è oggetto di una serie di misure di salvaguardia. Il rientro è,
nella misura del possibile, volontario, e deve tenere conto della sicurezza
della vittima e dello stato in cui si trova ogni procedura giudiziaria in corso
che abbia relazione con il traffico in cui la persona rimpatriata è stata
coinvolta: tale misura è intesa, fra
l’altro, a ridurre la probabilità che la vittima-testimone venga rimpatriata
prima che possa testimoniare.
Un’ulteriore clausola di salvaguardia è contenuta
nell’articolo 14 che fa salvi i
diritti e gli obblighi derivanti dal diritto internazionale, in particolare
quelli contenuti nella Convenzione del 1951 e nel Protocollo del 1967, relativi
allo status dei rifugiati e al principio di non allontanamento, applicabili
quindi alle vittime della tratta che siano al contempo in cerca di asilo
politico.
Gli articoli
da 9 a 12 contengono le disposizioni relative alla prevenzione e alla cooperazione.
I servizi di individuazione, di
repressione e di immigrazione degli Stati parte del Protocollo devono cooperare
scambiandosi informazioni per l’identificazione dei colpevoli e delle vittime e
sui metodi utilizzati dai trafficanti. Le Parti si impegnano inoltre sul versante
della formazione degli investigatori e a cooperare con organizzazioni non
governative a tutela dei diritti umani
delle vittime.
Gli Stati parte si adoperano
inoltre per rafforzare i controlli sulle proprie frontiere. Tra le altre
misure: l’obbligo per i trasportatori di controllare passaporti e visti dei
passeggeri; il rispetto di standard di sicurezza nella fattura dei documenti di
viaggio o di identità per renderne difficoltosa la falsificazione; la verifica,
in tempi brevi, della validità dei documenti rilasciati, su richiesta di un
altro Stato parte [6].
Sono previsti anche altri metodi
di prevenzione, quali ricerche, campagne di informazione e iniziative sociali
di vario genere.
La struttura del Protocollo contro
il traffico illecito di migranti ricalca in parte quella dell’analogo strumento
contro la tratta di persone: in particolare, gli articoli 1-5 ne definiscono lo scopo, chiariscono il significato di
una serie di termini impiegati nell’articolato, e ne specificano la portata,
precisando che il Protocollo si applica “alla prevenzione, alle attività
d’indagine ed al perseguimento dei reati previsti ai sensi” del successivo art.
6, qualora detti reati siano di natura transnazionale e siano perpetrati da
gruppi criminali organizzati. Il Protocollo si applica parimenti alla
protezione dei migranti oggetto dei traffici illegali, i quali non saranno
assoggettati all’azione penale per il fatto di essere stati coinvolti nelle
attività illecite di cui all’art. 6.
L’articolo 6 è di importanza centrale, in quanto stabilisce le figure di reato che devono essere oggetto delle
misure legislative, o di altro tipo nel diritto interno di ogni Stato Parte,
onde penalizzare atti intenzionali di traffico di migranti, commessi al fine di
ottenerne qualche tipo di vantaggio. Va segnalato che oltre al traffico
propriamente detto e ad ogni tipo di favoreggiamento dello stesso, anche la
fabbricazione, la fornitura o la detenzione di falsi documenti di viaggio o di
identità rientrano nelle fattispecie di reato, nonché le condotte volte a
consentire la prosecuzione del soggiorno in uno Stato laddove siano venuti meno
i requisiti richiesti dalla legge. Ciascuno Stato parte, inoltre, adotterà le
misure normative approriate al fine di poter considerare circostanze aggravanti, nell’ambito dei reati di cui in precedenza,
la messa in pericolo della vità o dell’incolumità di migranti coinvolti, come
anche i trattamenti inumani o degradanti loro inflitti.
Gli articoli 7-9 riguardano in modo specifico il contrasto al traffico di migranti via mare, che avviene in
conformità al diritto internazionale del mare. In particolare, se uno Stato
Parte del Protocollo in esame nutre il sospetto che una nave di altra
nazionalità sia coinvolta nel traffico di migranti, può interpellare lo Stato
di bandiera della nave in questione, il quale può autorizzare lo Stato
richiedente a fermare o perfino a ispezionare il natante. Nel caso poi che i
sospetti risultino confermati, l’autorizzazione può giungere fino all’adozione
di tutte le misure concernenti la nave stessa, le persone e il carico. Se uno
Stato Parte, poi, nutre lo stesso tipo di sospetti nei confronti di una nave
priva di nazionalità, può procedere all’abbordaggio e all’ispezione della medesima,
e in caso di sussistenza dei reati, adottare le misure conseguenti in base al
diritto interno e internazionale.
Vengono tuttavia salvaguardati, pur nella
necessità di poter condurre le azioni prima indicate: l’incolumità e la dignità
delle persone a bordo; la sicurezza della nave e del carico; gli interessi
giuridici o commerciali dello Stato di bandiera; la tutela ambientale; la
giurisdizione degli Stati costieri. E’ inoltre previsto un risarcimento in caso
perdite o danni subiti dalla nave oggetto di ispezione, qualora questa abbia
dato esito negativo.
Gli articoli da 10 a 18 contengono le disposizioni relative alla prevenzione e alla cooperazione.
I servizi competenti degli Stati
parte del Protocollo devono cooperare scambiandosi informazioni per l’identificazione
dei colpevoli e delle vittime e sui metodi utilizzati dai trafficanti. Le Parti
si impegnano inoltre sul versante della formazione degli investigatori e a
cooperare con organizzazioni non governative
a tutela dei diritti umani delle vittime.
Gli Stati parte si adoperano per
rafforzare i controlli sulle proprie frontiere. Tra le altre misure: l’obbligo
per i trasportatori di controllare i documenti di viaggio dei passeggeri; il
rispetto di standard di sicurezza nella fattura dei documenti di viaggio o di
identità per renderne difficoltosa la falsificazione; la verifica, in tempi
brevi, della validità dei documenti rilasciati, su richiesta di un altro Stato
parte.
Gli Stati Parte considerano la
possibilità, mediante accordi bilaterali o regionali, ovvero intese operative,
di rafforzare la loro cooperazione nell’applicazione del Protocollo; inoltre,
si impegnano a tutelare i diritti delle persone che sono state oggetto di
traffico illecito, nonché ad assisterle nei bisogni primari, con particolare
riguardo alle esigenze delle donne e dei bambini. Nel rispetto degli obblighi
internazionali di ciascuna Parte in materia di riammissione di immigrati
irregolari, si prevedono infine una serie di misure atte a facilitare il
rientro dei migranti oggetto di traffico illecito.
L’articolo 5 contempla le figure di reato, qualora siano di natura
transnazionale che devono essere oggetto delle misure legislative o di altro
tipo, nel diritto interno di ogni Stato Parte, onde rendere penalmente
perseguibili tanto la fabbricazione quanto i traffici illeciti di armi da
fuoco, loro parti e munizioni, nonché la contraffazione dei marchi che per
legge devono comparire su qualunque arma da fuoco. E’ invece rimessa alla
facoltà di ogni Stato Parte l’adozione di norme penali concernenti il mero
tentativo di commettere i reati di cui in precedenza, come anche
l’organizzazione o il favoreggiamento di essi e dei loro autori. Gli Stati
Parte, per quanto possibile, adeguano i loro ordinamenti nazionali sì da
consentire la confisca e la distruzione delle armi, componenti e munizioni
oggetto di illecita fabbricazione o commercio (articolo 6).
Gli articoli da 7 a 15 contengono le disposizioni relative alle misure
di prevenzione: anzitutto, gli Stati
parte esigono una marcatura di univoca decifrazione su ciascuna arma da fuoco
fabbricata o importata, che renda possibile la tracciabilità dell’arma in tutte
le fasi della sua vita operativa. Inoltre, ogni Stato parte dovrà creare (o
mantenere) un valido sistema autorizzatorio per l’esportazione, l’importazione
o il transito delle armi da fuoco o di loro parti e munizioni, coordinando la
propria azione con quella degli altri Stati parte.
Gli Stati parte del Protocollo
devono cooperare scambiandosi informazioni per l’identificazione dei colpevoli
e dei metodi utilizzati dai fabbricanti e trafficanti illegali di armi da
fuoco. Le Parti si impegnano inoltre sul versante della formazione degli
investigatori e a cooperare con le organizzazioni internazionali competenti,
nonché “per ottenere l’appoggio e la cooperazione di fabbricanti, negozianti,
importatori, esportatori, agenti venditori e trasportatori commerciali”. Oltre
a tutto ciò, “Gli Stati parte cooperano fra di loro per seguire le tracce delle
armi da fuoco…e rispondono con sollecitudine, nei limiti dei loro mezzi, alle
richieste di assistenza”. E’ anche prevista l’istituzione, se già non operante,
di un sistema che regolamenti l’attività degli intermediari commerciali nel
settore delle armi da fuoco, loro parti e munizioni.
La legge 16 marzo 2006, n. 146 relativa alla Convenzione ed ai Protocolli
delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale si compone di
16 articoli. I primi due articoli contengono l’autorizzazione alla ratifica e l’ordine di esecuzione, mentre le
norme contenute negli articoli seguenti modificano l’ordinamento interno
nell’intento di dare attuazione a tali strumenti, nonché di riordinare taluni
istituti già oggetto di disciplina nel campo della lotta al crimine organizzato
e al terrorismo. Per l’analisi degli interventi operati dalla legge in
questione v. scheda Criminalità organizzata
transnazionale.
[1] V. infra.
[2] La legge 15/1980 ha convertito in legge il D.L. 15 dicembre 1979, n. 625.
[3] Si segnala, per ragioni di completezza, la disciplina introdotta dai decreti-legge contro il terrorismo internazionale successivi ai gravi attentati negli USA dell’11 settembre 2001: si tratta del DL 353/2001 (conv. nella legge 415/2001) “Disposizioni sanzionatorie per le violazioni delle misure adottate nei confronti della fazione afghana dei Talibani”; del DL 369/2001 (conv. nella legge 431/2001) “Misure urgenti per reprimere e contrastare il finanziamento del terrorismo internazionale”; del citato DL 374/2001 (conv. nella legge 438/2001) “Disposizioni urgenti per contrastare il terrorismo internazionale”.
[4] D.L. 18 ottobre 2001, n. 374, Disposizioni urgenti per contrastare il terrorismo internazionale, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 dicembre 2001, n. 374.
[5] Il presupposto per accedere al beneficio è che il soggetto leso non abbia concorso alla commissione degli atti medesimi ovvero di reati a questi connessi ai sensi dell'articolo 12 del codice di procedura penale.
[6] Tali previsioni sono comuni sia alla tratta di persone che al traffico di migranti, ragione per la quale sono state inserite anche nel Protocollo relativo a tale materia.