Riforma dell’ordinamento della Repubblica

Dal nuovo Titolo V al progetto di “devoluzione”

Il tema delle riforme istituzionali ha attraversato e caratterizzato l’intero corso della XIV legislatura.

Sin dall’indomani dello svolgimento del referendum sulla legge di riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione (L.Cost. 3/2001[1]), e dalla conseguente entrata in vigore di questa nel novembre 2001, il dibattito politico si concentrò, da un lato, sulle misure da adottare per assicurare l’attuazione della riforma e risolvere alcuni nodi interpretativi (sul punto, v. capitolo Rapporti Stato-autonomie territoriali); dall’altro, sugli interventi di rango costituzionale atti a correggere o integrare le linee della riforma in senso “federalista”, ovvero ad inserirla in un più ampio disegno di revisione dell’ordinamento istituzionale.

 

La prima, rilevante iniziativa al riguardo si è concretizzata nella proposta di riforma all’epoca indicata, nel dibattito politico, con il termine “devoluzione” (o, in inglese, devolution).

Il disegno di legge governativo presentato al Senato il 26 febbraio 2002 (A.S. 1187) inseriva un nuovo quinto comma nell’articolo 117 della Costituzione, ai sensi del quale le Regioni “attivano la competenza legislativa esclusiva” nelle materie sanitaria (con riguardo all’assistenza e all’organizzazione), scolastica (quanto ai profili organizzativi, di gestione degli istituti e di definizione della parte dei programmi di interesse della Regione) e della polizia locale.

Nei mesi successivi il progetto di riforma formava oggetto di accesa e approfondita discussione presso i due rami del Parlamento e nel Paese, giungendo sino ad essere approvato in prima deliberazione, con poche modifiche, sia dal Senato (5 dicembre 2002) sia dalla Camera (14 aprile 2003).

L’iter del progetto di riforma, tuttavia, non proseguiva ulteriormente, poiché gli orientamenti politici sul tema, anche all’interno delle forze di maggioranza, erano nel frattempo evoluti in direzione di riforme di più ampio respiro.

 

Interveniva in quel periodo un’ulteriore ipotesi di revisione costituzionale, elaborata in ambito governativo e quasi interamente concentrata su una integrale riscrittura dell’art. 117 Cost., al dichiarato fine di correggere alcuni aspetti problematici della riforma varata alla fine della precedente legislatura.

Il nuovo art. 117 proposto ridisegnava il sistema delle competenze legislative rivedendo la collocazione di varie materie nell’ambito della potestà esclusiva dello Stato o della Regione (tra le materie di competenza esclusiva regionale erano ad ogni modo incluse quelle elencate nel precedente progetto di “devoluzione”) e contestualmente sopprimendo la competenza legislativa “concorrente”, ritenuta responsabile di avere innescato un pesante contenzioso costituzionale.

La potestà esclusiva delle Regioni era comunque subordinata al principio dell’“interesse nazionale”, esplicitamente reintrodotto nel testo costituzionale.

Lo schema del disegno di legge costituzionale, approvato dal Consiglio dei ministri nella riunione dell’11 aprile 2003, non è stato tuttavia mai trasmesso alle Camere, risultando ben presto superato da un terzo, ben più ampio e definitivo progetto di revisione dell’intera Parte II della Costituzione, concernente l’ordinamento della Repubblica.

La riforma dell’ordinamento della Repubblica

Tale progetto, che ingloba la “devolution” e rinuncia ad alcuni degli aspetti più innovativi del secondo testo sopra indicato (come la scomparsa della competenza concorrente), va per altro verso ben al di là della ridefinizione dei rapporti tra Stato ed autonomie territoriali, affrontando temi quali il bicameralismo, la forma di Governo, le attribuzioni del Capo dello Stato, la composizione della Corte costituzionale etc..

Il Governo ha presentato al Senato il relativo disegno di legge costituzionale il 17 ottobre 2003 (A.S. 2544). Sia il Senato sia, successivamente, la Camera (A.C. 4862) hanno apportato numerose modifiche, approvandolo quindi nel medesimo testo in prima deliberazione, rispettivamente, il 25 marzo e il 15 ottobre 2004, ed in seconda deliberazione, ai sensi dell’art. 138 Cost., il 20 ottobre (Camera) ed il 16 novembre 2005 (Senato).

La legge costituzionale, pubblicata nella Gazzetta ufficiale n. 269 del 18 novembre 2005, non è tuttavia entrata in vigore, essendo stata richiesta la sottoposizione a referendum popolare, ai sensi del citato art. 138 Cost., che si svolgerà i prossimi 25 e 26 giugno 2006[2].

Nella formulazione finale risultante dall’esame parlamentare, la legge costituzionale risulta composta da 57 articoli (a fronte dei 35 dell’originario progetto governativo), che sostituiscono o modificano 50 degli 80 articoli che compongono la Parte II della Costituzione, vi inseriscono 3 nuovi articoli e novellano altresì 4 articoli appartenenti ad altre leggi costituzionali.

Questi alcuni tra i principali elementi di novità introdotti dal progetto di revisione costituzionale (per approfondimenti, v. scheda Ordinamento della Repubblica – Il testo approvato dalle Camere).

La riforma del bicameralismo

Tra le principali linee direttrici del testo di riforma costituzionale figura in primo luogo la riforma del bicameralismo la quale, abbandonando il sistema del c.d. bicameralismo “perfetto”, introduce significative differenze tra le due Camere con riguardo a composizione e funzioni.

Quanto alla composizione, si prevede il ridimensionamento del numero dei parlamentari: i senatori passano da 315 a 252 e i deputati da 630 a 500 (oltre a 18 deputati eletti all’estero e a tre deputati a vita nominati dal Presidente della Repubblica).

La Camera, eletta per cinque anni[3], può essere sciolta anticipatamente su richiesta del Primo ministro (non così il Senato). Tale differenza appare correlata a quella che vede intercorrere il rapporto fiduciario solo con la Camera (v. infra).

Trasformazioni più profonde interessano il Senato, che muta la sua denominazione in “Senato federale della Repubblica”: in tale organo si intende realizzare il raccordo, a livello nazionale, tra le potestà normative delle autonomie territoriali e quelle dello Stato (v. infra). i senatori vengono eletti in ciascuna Regione contestualmente al rispettivo consiglio regionale (pertanto il Senato nel suo complesso non ha più una durata predefinita, ma è soggetto a rinnovi parziali). Se il consiglio regionale si scioglie decadono anche i senatori eletti in quella Regione. Il Senato federale non può essere sciolto anticipatamente.

Partecipano ai lavori del Senato federale, ma senza diritto di voto, rappresentanti delle Regioni e degli enti locali.

Il Senato federale è, per altro verso, integrato dai Presidenti delle Giunte delle Regioni e delle province autonome in occasione dell’elezione di quattro giudici della Corte costituzionale.

I rapporti tra Senato federale ed autonomie territoriali sono definiti anche attraverso un apposito nuovo articolo (il 127-ter), dedicato al coordinamento interistituzionale da parte del Senato, ed emergono in varie altre disposizioni. In particolare si ricorda che il quorum di validità per le deliberazioni del Senato federale è modificato rispetto all’attuale, in quanto occorre che siano presenti i senatori espressi da almeno un terzo delle Regioni (per ulteriori differenze tra le due Camere, v. infra il paragrafo relativo ai rapporti Governo-Parlamento).

Il procedimento legislativo

La riforma del bicameralismo ed il superamento dell’attuale “bicameralismo perfetto” – in virtù del quale ciascun progetto di legge deve essere approvato, in eguale testo, da entrambi i rami del Parlamento – si esprime anche in rilevanti modifiche del procedimento legislativo.

Essenzialmente, viene introdotto un criterio generale in base al quale il procedimento legislativo è, di norma e in prevalenza, “monocamerale.

La Camera dei deputati esamina i progetti di legge nelle materie (espressamente elencate nella Costituzione) sulle quali lo Stato ha competenza legislativa esclusiva, mentre il Senato federale quelli concernenti la determinazione dei princìpi fondamentali nelle materie (anche queste indicate dalla Costituzione) di competenza legislativa concorrente tra Stato e Regioni. L’altro ramo del Parlamento può proporre modifiche al progetto di legge, ma la decisione definitiva spetta alla Camera competente in via principale.

Per alcune materie di particolare rilievo resta fermo il procedimento bicamerale, ma in caso di disaccordo l’elaborazione del testo può essere affidata dai Presidenti delle Camere a una commissione composta da 30 deputati e 30 senatori, ferma restando la votazione finale da parte di entrambe le Camere.

Per eventuali questioni di competenza che possano sorgere tra le due Camere, si prevede che la soluzione sia rimessa ai rispettivi Presidenti, i quali, d’intesa tra loro, possono deferire la questione ad un Comitato paritetico: si precisa al riguardo che la decisione adottata “non è sindacabile in alcuna sede”.

Il Primo ministro e il rapporto Governo-Parlamento

Il potere del Presidente del Consiglio dei ministri, denominato “Primo ministro”, si accresce fortemente nei confronti sia dei ministri, che può nominare e revocare, sia della Camera, della quale può chiedere lo scioglimento: il relativo decreto presidenziale è adottato “su richiesta del Primo Ministro, che ne assume l’esclusiva responsabilità[4]. Non così invece per il Senato federale, al quale, come accennato, non è più legato dal rapporto di fiducia[5].

Il Primo ministro è nominato dal Presidente della Repubblica in base ai risultati elettorali della Camera. Il candidato premier è infatti collegato ai candidati alla Camera, e viene in tal modo indirettamente designato dagli elettori unitamente alla sua maggioranza.

Non si prevede più, come attualmente, che ciascuna Camera si esprima con un voto di fiducia su ogni nuovo Governo; in luogo di ciò, il Primo ministro illustra il programma di legislatura e la composizione del Governo: il programma è sottoposto al voto della sola Camera dei deputati (gli effetti del voto non sono precisati).

La Camera può votare la sfiducia al Governo, ma ciò comporta il suo scioglimento. Essa può sostituire il Primo ministro ricorrendo a una mozione di “sfiducia costruttiva”, che può essere tuttavia presentata e approvata solo dai deputati appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni.

Il rigido collegamento tra Primo ministro e maggioranza espressa dalle elezioni emerge anche dalla disposizione che obbliga il Primo ministro alle dimissioni non solo nel caso in cui la mozione di sfiducia sia approvata, ma anche quando la sua reiezione si debba al voto determinante di deputati non appartenenti a tale maggioranza.

È prevista e disciplinata sia la “questione di fiducia” sia la possibilità per il Governo di chiedere, alla Camera dei deputati, il “voto bloccato” (sugli articoli e finale) su un provvedimento nel testo da esso proposto o fatto proprio (qualora sia decorso il termine fissato per il relativo esame).

Si segnala infine l’introduzione di varie disposizioni a garanzia delle minoranze che, con specifico riguardo alla Camera dei deputati (in correlazione con le modifiche sulla forma di governo), possono configurarsi come una forma di “statuto dell’opposizione”. Peraltro, maggioranze qualificate per l’elezione dei Presidenti delle Camere  e per l’adozione dei regolamenti parlamentari vengono introdotte in Costituzione per entrambi i rami del Parlamento.

Il Presidente della Repubblica

In primo luogo, sono sostanzialmente modificate sia le modalità di elezione, sia le funzioni del Capo dello Stato.

All’elezione provvede, in luogo del Parlamento in seduta comune integrato da tre delegati per ciascuna Regione, un nuovo organo, denominato Assemblea della Repubblica e composto dai membri delle due Camere e da un’ampia rappresentanza delle autonomie regionali. La maggioranza qualificata richiesta per l’elezione è rafforzata e l’età minima per essere eletti si abbassa da cinquanta a quaranta anni.

Tra i poteri attribuiti al Capo dello Stato, alcuni vengono meno (ad es., nomina dei ministri; autorizzazione alla presentazione dei disegni di legge governativi) o si affievoliscono (la nomina del Primo ministro è espressamente condizionata al risultato elettorale, ed è sostanzialmente trasferito al Primo ministro il potere di scioglimento della Camera); altri si aggiungono a quelli esistenti (ad es., nomina dei presidenti delle Autorità indipendenti, del presidente del CNEL e del vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, etc.).

Le Regioni e le autonomie locali

I princìpi di “leale collaborazione” e di “sussidiarietà” sono espressamente posti alla base dell’esercizio di tutte le funzioni attribuite agli enti locali, alle Regioni e allo Stato. In quest’ottica, sono espressamente menzionati in Costituzione la Conferenza Stato-Regioni ed il sistema delle Conferenze Stato-autonomie, quali strumenti per realizzare i principi richiamati e per promuovere accordi e intese.

È recepita nel testo, come si è detto, la così detta “devoluzione”, cioè l’attribuzione alle Regioni della potestà legislativa esclusiva in alcune materie (organizzazione sanitaria, polizia amministrativa locale e, per taluni aspetti, istruzione) in aggiunta a quella su tutte le materie non espressamente riservate allo Stato o alla competenza concorrente Stato-Regioni. Sono altresì ridefinite e “riallocate”, spesso a favore dello Stato, alcune tra le materie previste dal vigente art. 117 Cost..

È reintrodotto, e attribuito al Parlamento in seduta comune, il potere di annullare le leggi regionali contrarie all’interesse nazionale, ed è prevista una “clausola di salvaguardia” che consente allo Stato di sostituirsi, in casi particolari, a Regioni ed enti locali nell’attività legislativa o amministrativa.

A Roma, capitale della Repubblica, sono attribuite forme e condizioni particolari di autonomia anche normativa, nelle materie di competenza regionale: queste ultime sono demandate allo statuto della Regione Lazio.

Gli enti locali potranno ricorrere alla Corte costituzionale avverso leggi, statali o regionali, lesive delle proprie competenze (come già ora possono fare le Regioni), nei casi e modi da definire con legge costituzionale.

Altre disposizioni riguardano alcuni profili della forma di governo regionale, il procedimento per l’istituzione di Città metropolitane e il procedimento di approvazione degli statuti delle Regioni ad autonomia speciale (da adottare, con legge costituzionale, previa intesa con la Regione interessata). Va inoltre ricordata, tra le disposizioni transitorie, la possibilità di formare, entro cinque anni dall’entrata in vigore della riforma, nuove Regioni con almeno un milione di abitanti, con legge costituzionale (è soppresso il parere dei Consigli regionali) e con la sola condizione di sentire le popolazioni interessate.

Viene infine introdotto nel testo costituzionale il riconoscimento, nell’ambito del principio di sussidiarietà orizzontale, degli enti di autonomia funzionale, che devono essere favoriti “anche attraverso misure fiscali”; l’ordinamento generale di tali enti è rimesso a una legge dello Stato (di competenza della Camera).

Altre disposizioni

Tra le altre novità introdotte, le più rilevanti concernono la composizione della Corte costituzionale e le modalità di elezione del CSM, il riconoscimento costituzionale del ruolo delle Autorità amministrative indipendenti[6], il procedimento di revisione costituzionale (risultando sempre possibile il ricorso al referendum, indipendentemente dall’ampiezza della maggioranza parlamentare che abbia approvato la legge in seconda deliberazione).

Con specifico riferimento alla composizione della Corte costituzionale, se è confermato il numero complessivo dei giudici (quindici), essi sono eletti non più dal Parlamento in seduta comune, ma separatamente dal Senato federale (integrato dai presidenti delle Giunte delle Regioni e delle province autonome) – cui spetta la nomina di quattro giudici – e dalla Camera – cui spetta la nomina di tre giudici. Il numero della componente di nomina parlamentare è dunque portato a sette, mentre viene ridotto il numero dei membri nominati dal Presidente della Repubblica e dalle supreme magistrature (quattro ciascuno).

Il testo della legge di revisione costituzionale reca infine un’articolata disciplina transitoria, differenziata in relazione alle diverse parti della riforma. In particolare, solo una parte delle disposizioni introdotte sono immediatamente applicabili a decorrere dalla data di entrata in vigore della legge costituzionale, (tra le quali pressoché tutte quelle modificative del titolo V), mentre la maggior parte della restante disciplina troverà applicazione con riferimento alla prima legislatura successiva all’entrata in vigore della riforma.

Ancora successiva è l’applicazione della parte concernente la riduzione del numero dei deputati e dei senatori e la “contestualità piena” tra elezioni dei senatori e dei Consigli regionali (a partire dalla legislatura che interverrà dopo il quinto anno successivo alla prima formazione della Camera e del Senato federale secondo il nuovo ordinamento).



[1]     L.Cost. 18 ottobre 2001, n. 3, Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione.

[2]     Tale data è stata individuata con l’emanazione del D.P.R. 28 aprile 2006 (pubblicato in G.U. n. 100 del 2 maggio 2006).

[3]     L’età minima per il conseguimento dell’elettorato passivo alla Camera si abbassa da 25 a 21 anni.

[4]     Cfr. il “nuovo” art. 88 Cost..

[5]     Va peraltro tenuto presente che nelle materie di competenza del Senato, il Governo può dichiarare che talune modifiche, proposte dalla Camera su sua iniziativa, sono essenziali per l’attuazione del suo programma o per la tutela delle istanze unitarie della Repubblica. La dichiarazione è sottoposta ad autorizzazione da parte del Capo dello Stato: qualora, entro 30 giorni, il Senato non accolga le modifiche proposte, il disegno di legge è trasferito alla Camera che decide in via definitiva a maggioranza assoluta.

[6]     Con l’introduzione di un apposito articolo, il 98-bis, e l’attribuzione del potere di nomina dei presidenti di autorità al Capo dello Stato, sentiti i Presidenti delle Camere (“nuovo” art. 87 Cost.).