Professioni: i principi fondamentali

L’oggetto della delega

Il decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 30, Ricognizione dei principi fondamentali in materia di professioni, costituisce il primo caso di attuazione, nel nostro ordinamento, della delega contenuta nell’articolo 1, comma 4, della L. 131/2003[1] (c.d. legge La Loggia), volta ad adeguare l’assetto ordinamentale all’ampia riforma del Titolo V della Costituzione operata dalla Legge cost. 3/2001[2] (v. scheda Titolo V e norme di attuazione, nel dossier relativo alla Commissione affari costituzionali).

 

Si ricorda, in proposito, che il citato comma 4 ha conferito al Governo una delega ad emanare uno o più decreti legislativi aventi ad oggetto la ricognizione dei princìpi fondamentali che si traggono dalle leggi vigenti nelle materie attribuite alla potestà legislativa concorrente di Stato e Regioni, come, nella fattispecie in esame, la materia delle "professioni”, intesa in senso ampio, ovvero comprensiva delle attività professionali, che l'articolo 117, terzo comma, della Costituzione, riserva alla potestà legislativa concorrente.

L’attribuzione al Governo di tale compito, per espressa disposizione della legge, avviene “in sede di prima applicazione”, e il suo scopo è quello di “orientare l’iniziativa legislativa dello Stato e delle Regioni fino all’entrata in vigore delle leggi con le quali il Parlamento definirà i nuovi princìpi fondamentali”.

La norma afferma, dunque, il principio secondo cui spetterà al Parlamento individuare con proprie leggi i nuovi princìpi fondamentali, avendo l’attività di ricognizione delegata al Governo carattere provvisorio e contingente: in ragione dell’asserita natura meramente ricognitiva della delega, il Governo non può, con i decreti legislativi di attuazione, modificare i princìpi fondamentali vigenti, dovendo limitarsi a farli emergere nella loro testuale formulazione attualmente vigente nell’ordinamento.

 

Il citato comma 4, formula, inoltre, i princìpi della delega (individuati nei principi di esclusività; adeguatezza; chiarezza; proporzionalità; omogeneità) e stabilisce la procedura di adozione dei decreti legislativi, che risulta aggravata rispetto a quella delineata, in via generale, dall’art. 14 della L. 400/1988[3].

Infatti, vi si prevede:

§         la proposta del Presidente del Consiglio dei ministri;

§         il concerto con i ministri interessati;

§         il parere della Conferenza Stato-Regioni;

§         il parere delle Camere, compreso quello della Commissione parlamentare per le questioni regionali, da rendersi entro 60 giorni dall’assegnazione alle competenti Commissioni parlamentari;

§         il riesame da parte del Governo;

§         il parere definitivo della Conferenza Stato-Regioni, da rendersi entro 30 giorni dalla nuova trasmissione del testo eventualmente modificato dal Governo (o corredato delle sue osservazioni);

§         il parere definitivo delle Camere, da rendersi entro 60 giorni dalla nuova trasmissione del testo eventualmente modificato dal Governo (o corredato delle sue osservazioni).

L’organo deputato a rendere il parere parlamentare definitivo è la Commissione parlamentare per le questioni regionali, che deve in particolare rilevare se le disposizioni normative contenute nello schema:

§         non indichino alcuni dei princìpi fondamentali (principi omessi e da inserire);

§         abbiano contenuto innovativo dei principi fondamentali e non siano, quindi, meramente ricognitive (principi inseriti e da omettere perché innovativi);

§         non rechino principi fondamentali, ma, ad esempio, norme di dettaglio (principi inseriti e da omettere perché “non principi”).

I rilievi della Commissione parlamentare per le questioni regionali producono uno specifico effetto procedurale sull’attività successiva del Governo nelle sue vesti di legislatore delegato, conducendolo a dover optare tra le seguenti alternative:

§         espungere dal testo definitivo le disposizioni costituenti nuovi princìpi o non costituenti principio;

§         modificarle secondo le indicazioni della Commissione;

§         conservare ugualmente le disposizioni oggetto del rilievo, trasmettendo ai Presidenti delle Camere e al Presidente della Commissione parlamentare per le questioni regionali una relazione che motivi la difformità rispetto al parere parlamentare.

 

Si segnala che sulla delega legislativa testé illustrata è intervenuta la sentenza della Corte costituzionale n. 280 del 13 luglio 2004.

Con tale sentenza la Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittimi i commi 5 e 6 dell’articolo 1 della L. 131/2003, le parti cioè che individuavano i criteri direttivi della delega (co. 6) e consentivano di estendere la ricognizione alle disposizioni che, nell’ambito delle materie di legislazione concorrente, fossero riconducibili alla competenza esclusiva dello Stato ex art. 117, secondo comma, Cost. (co. 5).

Nella sentenza, la Corte si è concentrata sulla peculiarità della delega in oggetto, in quanto “meramente ricognitiva” e finalizzata a un “primo orientamento” dell’attività legislativa di Stato e Regioni.

Risulta chiaro, secondo la Corte, che “oggetto della delega è esclusivamente l’espletamento di un’attività che non deve andare al di là della mera ricognizione di quei princìpi fondamentali vigenti, che siano oggettivamente deducibili”.

A proposito dell’infondatezza della questione di legittimità costituzionale avente a oggetto l’art. 1, comma 4, la Corte ha infatti sostenuto che i decreti legislativi ricognitivi dei principi fondamentali costituiscono “un quadro (...) di principi già esistenti, utilizzabile transitoriamente fino a quando il nuovo assetto delle competenze legislative regionali, determinato dal mutamento del titolo V della Costituzione, andrà a regime, e cioè (…) fino al momento della entrata in vigore delle apposite leggi con le quali il Parlamento definirà i nuovi principi fondamentali”.

 Inoltre, secondo la Corte, i decreti legislativi sopra citati costituiscono un “quadro di primo orientamento destinato ad agevolare, contribuendo al superamento di possibili dubbi interpretativi, il legislatore regionale nella fase di predisposizione delle proprie iniziative legislative, senza peraltro avere carattere vincolante e senza comunque costituire di per sé un parametro di validità delle leggi regionali, dal momento che il comma 3, dello stesso articolo 1 (della Legge 131/2003), ribadisce che le Regioni esercitano la potestà legislativa concorrente nell’ambito dei principi fondamentali espressamente determinati dallo Stato, o, in difetto, quali desumibili dalle leggi statali vigenti”.

Con questa “lettura minimale” – che assimila la delega in esame a quelle di compilazione dei testi unici – contrastavano quindi i co. 5 e 6 dello stesso art. 1, i quali imponevano al legislatore delegato “un’attività interpretativa, largamente discrezionale”: il co. 5, infatti, ampliava “notevolmente e in maniera del tutto indeterminata l’oggetto della delega stessa fino eventualmente a comprendere il ridisegno delle materie”; i criteri direttivi di cui al co. 6 non solo evocavano “nella terminologia impiegata l’improprio profilo della ridefinizione delle materie, ma” stabilivano, “anche una serie di ‘considerazioni prioritarie’ nella prevista identificazione dei princìpi fondamentali vigenti, tale da configurare una sorta di gerarchia tra di essi”.

Il contenuto del decreto legislativo

In considerazione di quanto sopra esposto in ordine alla portata “minimale” della disposizione di delega, e alla luce della richiamata giurisprudenza costituzionale, si segnala fin da ora che la ricognizione dei principi fondamentali operata dal decreto legislativo in commento non sembra assumere alcuna portata innovativa e non appare pertanto in grado di limitare la potestà legislativa concorrente delle regioni in materia di professioni.

Composto da 7 articoli, il decreto legislativo si articola in tre Capi.

 

Il Capo I, recante le Disposizioni generali, si compone del solo articolo 1, che definisce l’ambito d’applicazione del decreto.

Si tratta, come già illustrato, dell’individuazione dei princìpi fondamentali in materia di professioni, di cui all'articolo 117, terzo comma, della Costituzione, che si desumono dalla legislazione statale vigente ai sensi dell'articolo 1, comma 4, della Legge “La Loggia”.

Tali principi sono più compiutamente enunciati nel Capo II e al loro rispetto sono tenute le Regioni al momento dell’esercizio della loro potestà legislativa in materia di professioni.

Si specifica che la potestà legislativa regionale si esercita sulle professioni individuate e definite dalla normativa statale.

L’articolo esclude dall’ambito di applicazione del decreto alcune specifiche discipline che, pur riconducibili alla stessa materia, ineriscono a interessi unitari e afferiscono alla potestà esclusiva dello Stato:

§         la formazione professionale universitaria;

§         la disciplina dell'esame di Stato previsto per l'esercizio delle professioni intellettuali, nonché i titoli, compreso il tirocinio, e le abilitazioni richiesti per l'esercizio professionale;

§         l'ordinamento e l'organizzazione degli Ordini e dei collegi professionali;

§         gli albi, i registri, gli elenchi o i ruoli nazionali previsti a tutela dell'affidamento del pubblico;

§         la rilevanza civile e penale dei titoli professionali

§         il riconoscimento e l'equipollenza, ai fini dell'accesso alle professioni, di quelli conseguiti all'estero.

 

Il Capo II indica i seguenti principi fondamentali:

Tutela della libertà professionale (articolo 2): l'esercizio della professione, quale espressione del principio della libertà di iniziativa economica, è tutelato in tutte le sue forme e applicazioni, purché non contrarie a norme imperative, all'ordine pubblico e al buon costume. Le regioni non possono adottare provvedimenti che ostacolino l'esercizio della professione.

E’ sancito il divieto di ogni discriminazione derivante da ragioni razziali, sessuali, politiche, religiose e in genere da qualsiasi condizione personale o sociale, secondo quanto stabilito dalla disciplina statale e comunitaria in materia di occupazione e condizioni di lavoro (v. capitolo Parità di trattamento nel lavoro, nel capitolo relativo alla Commissione lavoro).

Anche l'attività professionale esercitata nelle forme del lavoro dipendente deve svolgersi secondo specifiche disposizioni normative che assicurino l'autonomia del professionista.

Si stabilisce che le associazioni rappresentative di professionisti che non esercitano attività regolamentate o tipiche di professioni disciplinate ai sensi dell'articolo 2229[4] del codice civile, se in possesso dei requisiti e nel rispetto delle condizioni prescritte dalla legge per il conseguimento della personalità giuridica, possono essere riconosciute dalla regione nel cui àmbito territoriale si esauriscono le relative finalità statutarie.

 

Tutela della concorrenza e del mercato (articolo 3). L'esercizio della professione si svolge nel rispetto della disciplina statale della tutela della concorrenza (ivi compresa quella delle deroghe consentite dal diritto comunitario a tutela di interessi pubblici costituzionalmente garantiti o per ragioni imperative di interesse generale), della riserva di attività professionale, delle tariffe e dei corrispettivi professionali, nonché della pubblicità professionale

La norma equipara l’attività professionale esercitata in forma di lavoro autonomo a quella d’impresa, ai fini della applicazione della disciplina in materia di concorrenza, di cui agli artt. 81, 82 e 86 del Trattato CE[5], salvo quanto previsto dalla normativa in materia di professioni intellettuali.

Sono ammessi gli interventi pubblici a sostegno dello sviluppo delle attività professionali, secondo le rispettive competenze di Stato e Regioni, nel rispetto della normativa comunitaria.

 

Princìpi relativi all’accesso alle professioni (articolo 4): l'accesso all'esercizio delle professioni è libero, nel rispetto delle specifiche disposizioni di legge.

Relativamente alle attività professionali per l’esercizio delle quali sia richiesta una specifica preparazione, a garanzia di finalità tutelate dallo Stato, debbono essere rispettati i requisiti tecnico-professionali e la definizione dei titoli stabiliti dalla legge statale.

I titoli professionali rilasciati dalla regione nel rispetto dei livelli minimi uniformi di preparazione stabiliti dalle leggi statali, consentono l'esercizio dell'attività professionale anche fuori dei limiti territoriali regionali.

 

Princìpi per la regolazione delle attività professionali (articolo 5): si individuano alcuni princìpi cui la regolazione delle attività professionali dovrà ispirarsi: tutela della buona fede, affidamento del pubblico e della clientela, correttezza, tutela degli interessi pubblici, ampliamento e specializzazione dell'offerta dei servizi, autonomia e responsabilità del professionista.

 

Il Capo III reca le disposizioni finali del decreto legislativo.

L’articolo 6 dispone l’applicazione a favore delle Regioni a statuto speciale e le Province autonome di Trento e di Bolzano di quanto previsto dall’articolo 11 della legge “La Loggia”.

 

Il citato art. 11 fa salvo quanto previsto dagli statuti speciali e dalle relative norme di attuazione, nonché dall’articolo 10 della legge costituzionale 3/2001, che estende alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome di Trento e di Bolzano l’applicazione di quelle parti della riforma del Titolo V che prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite (ciò sino all'adeguamento degli statuti).

L’art. 11 stabilisce inoltre che le Commissioni paritetiche previste dagli statuti speciali, in relazione alle ulteriori materie spettanti alla loro potestà legislativa ai sensi del sopra richiamato articolo 10 L.cost. 3/2001, possono proporre l’adozione delle norme di attuazione per il trasferimento dei beni e delle risorse strumentali, finanziarie, umane e organizzative, occorrenti all’esercizio delle ulteriori funzioni amministrative.

Tali Commissioni sono inoltre facoltizzate a proporre l’adeguamento degli Statuti anche in relazione alla disciplina delle attività regionali in materia di rapporti internazionali e comunitari.

 

L’articolo 7 reca, infine, una disposizione di rinvio ai sensi della quale i princìpi fondamentali individuati nel decreto legislativo in commento si applicano a tutte le professioni, restando comunque fermi quelli riguardanti specificamente le singole professioni.



[1]     Legge 5 giugno 2003, n. 131, Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla Legge Costituzionale 18 ottobre 2001, n.3.

[2]     Legge Costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, Modifiche al Titolo V della parte seconda della Costituzione.

[3]     Legge 23 agosto 1988, n. 400, Disciplina dell'attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri.

[4] L’articolo 2229 c.c. costituisce il fondamento normativo della disciplina prevista per le professioni intellettuali: esso, nel riservare alla legge la determinazione delle professioni intellettuali per il cui esercizio è richiesta l'iscrizione in albi o elenchi, demanda alle associazioni professionali, sotto la vigilanza dello Stato, l'accertamento dei requisiti per l'iscrizione, la tenuta degli albi e il potere disciplinare.

[5]     Si tratta delle disposizioni che stabiliscono l’incompatibilità con il mercato comune: a) degli accordi di imprese e associazioni di imprese che abbiano lo scopo di impedire, limitare o falsare le regole della concorrenza all’interno dell’Unione; tali accordi sono nulli di pieno diritto (art. 81); b) dello sfruttamento abusivo di posizione dominante (art. 82).  E’ poi sancita la sottoposizione delle imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale o aventi carattere di monopolio fiscale alle generali regole di concorrenza, nei limiti in cui l'applicazione di tali norme non osti all'adempimento, in linea di diritto e di fatto, della specifica missione loro affidata (art. 86).