La
vasta giurisprudenza costituzionale in materia di radiotelediffusione è stata
mossa dalla costante e primaria preoccupazione di assicurare, in tale settore,
l'effettiva garanzia del valore fondamentale del pluralismo che trova il suo
fondamento nell’articolo 21 della
Costituzione sulla libertà di
manifestazione del pensiero.
La
giurisprudenza sviluppatasi in materia di pluralismo
e di imparzialità dell'informazione –
nell’ambito della quale un passaggio fondamentale è costituito dalla sentenza n.
826 del 1988[1] - ha trovato la
sua sintesi nella sentenza n.
420 del 1994, nella quale la Corte ha richiamato il vincolo, imposto
dalla Costituzione al legislatore, di assicurare il pluralismo delle voci, espressione
della libera manifestazione del pensiero, e di garantire, in tal modo, il
fondamentale diritto del cittadino all'informazione[2]. Con tale sentenza la
Corte ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale dell’articolo 15,
comma 4, della legge 223/1990[3]
(cd. legge Mammì), nella parte in cui prevedeva che le concessioni in ambito
nazionale riguardanti la radiodiffusione televisiva rilasciate (o
riconducibili) ad un medesimo soggetto non potessero superare il 25 per cento
del numero di reti nazionali previste dal piano di assegnazione e comunque il
numero di tre[4].
L’inadeguatezza di tale limite è stata valutata anche in considerazione del
fatto che la disposizione prevedeva un limite meno rigoroso rispetto a quello
del 20% stabilito dall’articolo 3, comma 1 della legge 67/1987[5] per l’editoria, nonché in
considerazione della non illimitatezza delle frequenze, e della particolare
forza di penetrazione dello strumento televisivo, che contribuisce a
differenziarlo dalla carta stampata. In tale occasione la Corte ha anche
precisato, nel rinviare al legislatore la scelta della definizione concreta dei
limiti anticoncentrazione, l’inammissibilità di un limite percentuale pari ad
1/4 delle reti complessivamente disponibili (ovvero ad 1/3 di tutte le reti
private in ambito nazionale).
Nella
stessa occasione la Corte ha precisato che la dichiarazione di
incostituzionalità non determinava un vuoto di disciplina, proprio per evitare
un arretramento verso la mancanza di alcun limite alla titolarità di plurime
concessioni, rimanendo pertanto efficace, “nel periodo di transizione - e
limitatamente a tale periodo – la provvisoria
legittimazione dei concessionari già assentiti …a proseguire nell’attività di
trasmissione con gli impianti censiti”[6].
I
principi enunciati dalla sentenza n. 420 del 1994 hanno avuto conferma nella sentenza n. 155 del
2002 della stessa Corte la quale, richiamando i punti essenziali delle
precedenti decisioni, ha ribadito l'imperativo costituzionale, secondo cui il
diritto di informazione, garantito dall'articolo 21 della Costituzione, deve
essere «qualificato e caratterizzato, tra l'altro, sia dal pluralismo delle
fonti cui attingere conoscenze e notizie - così da porre il cittadino in
condizione di compiere le proprie valutazioni avendo presenti punti di vista e
orientamenti culturali e politici differenti - sia dall'obiettività e
dall'imparzialità dei dati forniti, sia infine dalla completezza, dalla
correttezza e dalla continuità dell'attività di informazione erogata». Tale
sentenza pone in rilievo che la sola presenza dell'emittenza privata
(cosiddetto pluralismo «esterno»)
non è sufficiente a garantire la completezza e l'obiettività della
comunicazione politica, ove non concorrano ulteriori misure «sostanzialmente
ispirate al principio della parità di accesso delle forze politiche»
(cosiddetto pluralismo «interno»)[7].
Da ultimo, va segnalato che in relazione alle disposizioni della legge n. 249/1997 che stabilivano sostanzialmente le modalità per la determinazione della fine del periodo transitorio (v. art. 3 commi 6 e 7 della legge n. 249/97[8], che richiamano i limiti alla titolarità delle reti di cui all’art. 2, comma 6 della medesima legge) è stata sollevata questione di legittimità costituzionale - per supposta violazione degli artt. 3, 21, 41 e 136 della Costituzione[9] - decisa con la sentenza della Corte costituzionale n. 466 del 2002: con tale sentenza è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale – rispetto agli artt. 3 e 21 Cost. - dell’articolo 3, comma 7, della legge 249 nella parte in cui non prevede la fissazione di un termine finale certo, e non prorogabile, che comunque non oltrepassi il 31 dicembre 2003[10] entro il quale i programmi irradiati dalle emittenti eccedenti i limiti di cui al comma 6 dello stesso art. 3 devono essere trasmessi esclusivamente via satellite o via cavo[11]. In relazione a tale data, la Corte ha precisato che essa “offre margini temporali all’intervento del legislatore per determinare le modalità della definitiva cessazione del regime transitorio di cui all’art. 3, comma 7, della legge n. 249 del 1997”.
Peraltro, la stessa sentenza della
Corte – nella parte della motivazione – ha fatto presente che “la sorte del
censurato comma 7 si riflette evidentemente sulle collegate previsioni di
termine” di cui ai commi 9 e 11 del medesimo art. 3, riguardanti
rispettivamente la realizzazione da parte della RAI della terza rete senza
pubblicità e la disattivazione della rete eccedente che trasmette in forma
codificata, c.d. televisione a pagamento”.
[1] In tale sentenza la Corte, ribadendo il valore centrale del pluralismo in un ordinamento democratico, chiarisce che il pluralismo dell'informazione radiotelevisiva significa, innanzitutto, possibilità di ingresso, nell'ambito dell'emittenza pubblica e di quella privata, di quante più voci consentano i mezzi tecnici, con la concreta possibilità nell'emittenza privata - perchè il pluralismo esterno sia effettivo e non meramente fittizio - che i soggetti portatori di opinioni diverse possano esprimersi senza il pericolo di essere emarginati a causa dei processi di concentrazione delle risorse tecniche ed economiche nelle mani di uno o di pochi e senza essere menomati nella loro autonomia. Sotto altro profilo, il pluralismo si manifesta nella concreta possibilità di scelta, per tutti i cittadini, tra una molteplicità di fonti informative, scelta che non sarebbe effettiva se il pubblico al quale si rivolgono i mezzi di comunicazione audiovisiva non fosse in condizione di disporre, tanto nel quadro del settore pubblico che in quello privato, di programmi che garantiscono l'espressione di tendenze aventi caratteri eterogenei.
[2] In tale quadro, la Corte ha ribadito, riprendendo principi ampiamente illustrati nella sentenza n. 826 del 1988, come l’esistenza dell’emittenza pubblica non valga a bilanciare la posizione dominante di un soggetto nel settore privato.
[3] Legge 6 agosto 1990, n. 223 recante Disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato.
[4] In ottemperanza a quanto sancito da tale sentenza è stato individuato dalla legge n. 249/97 (cd. legge “Maccanico”) il limite del 20% al cumulo rispettivamente delle reti analogiche e dei programmi numerici in ambito nazionale, trasmessi su frequenze terrestri (v. art. 2, comma 6, richiamato dall’art. 3, comma 6 e, indirettamente, dall’art. 3, comma 7 della legge n. 249). Le disposizioni citate, così come l’articolo 15, commi 1-7 della legge 223/1990, sono stati abrogati dalla legge n. 112 del 2004 (v. capitolo Il riassetto del sistema radiotelevisivo).
[5]
L. 25 febbraio 1987, n. 67 recante Rinnovo della L. 5 agosto 1981, n. 416, recante disciplina delle imprese
editrici e provvidenze per l'editoria.
[6] Veniva fatta temporaneamente salva la disciplina di cui al decreto-legge n. 323 del 1993, nonchè il DM 13 agosto 1992.
[7] Si ricorda che i principi e i valori del pluralismo e dell'imparzialità dell'informazione nel settore delle comunicazioni elettroniche sono stati richiamati e hanno trovato sistemazione organica nel pacchetto di direttive sulle comunicazioni elettroniche (v. capitolo Le comunicazioni elettroniche).
[8] Legge 31 luglio 1997, n. 249 recante Istituzione dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e norme sui sistemi delle telecomunicazioni e radiotelevisivo.
[9] I principi in questione sono nell’ordine quelli di eguaglianza e ragionevolezza, di libertà di manifestazione del pensiero e di pluralismo, di libertà di iniziativa economica, di rispetto del giudicato costituzionale.
[10] Termine già fissato dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (suscettibile comunque di essere posticipato, in relazione alla verifica della quota di famiglie digitali effettivamente presenti alla data del 31 dicembre 2002) con la delibera n. 346/01/CONS e che la Corte ritiene congruo per gli adempimenti strettamente necessari al trasferimento su satellite delle reti eccedenti il limite antitrust.
[11] Le questioni di legittimità costituzionale riferite alle altre disposizioni poc’anzi citate sono state dichiarate infondate con la medesima sentenza.