Nel corso
dell'ultimo decennio si sono imposti all'attenzione, prima della dottrina e
della giurisprudenza, poi anche delle istituzioni, alcuni fenomeni sociali, in
vario modo lesivi della dignità personale, che trovano nel luogo e nel rapporto
di lavoro occasione e campo di esplicazione.
In particolare, le
analisi sociologiche e l'elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale hanno
progressivamente enucleato due specifiche fattispecie:
§
le molestie
sessuali nei luoghi di lavoro, la tutela dalle quali ha trovato una prima
regolamentazione mediante l’emanazione del D.Lgs. 30 maggio 2005, n. 145 (v.
scheda Parità tra uomini e donne
nel lavoro);
§
la violenza e persecuzione psicologica nei rapporti
di lavoro (mobbing), fenomeno che il Parlamento, anche nel corso della XIV
legislatura, ha ritenuto opportuno affrontare avviando l'esame di alcune
proposte di legge, nessuna delle quali, purtroppo, è giunta all'approvazione
definitiva prima della fine della legislatura.
Tra i due fenomeni
esistono significative analogie, non solo quanto alla loro natura, ma anche per
le problematiche connesse a un intervento legislativo volto a reprimerli o
prevenirli, in considerazione della difficoltà di tipizzare condotte che si
possono esplicare in una grande varietà di atti e comportamenti e in cui
entrano in gioco elementi soggettivi di carattere psicologico difficilmente
riconducibili sul piano di una rigorosa analisi probatoria.
In particolare, il
mobbing, da tempo all'attenzione
degli addetti ai lavori e delle istituzioni in alcuni paesi occidentali, ha di
recente raccolto interesse anche in Italia, fino a ricevere riconoscimento
giudiziario come autonoma fattispecie di comportamento lesivo dei diritti
personali del lavoratore.
Sul piano
scientifico, il mobbing viene
individuato in una serie di episodi di aggressione, esclusione o emarginazione
di un lavoratore da parte dei suoi colleghi (mobbing orizzontale) o superiori (mobbing verticale), ripetuti e costanti nel tempo, volti ad
ottenerne l'estromissione dall'azienda o, più in generale, alla sua distruzione
psicologica, sociale e professionale. Le conseguenze patologiche ad esso
riconnesse possono comprendere uno stato di disagio psicologico e l'insorgere
di malattie psico-somatiche .
In concreto, il mobbing si esplica sia con l'adozione di
provvedimenti discriminatori da parte del datore di lavoro o del superiore
gerarchico (trasferimenti, rimozione da incarichi, inflizione di sanzioni
disciplinari) sia attraverso comportamenti e atteggiamenti lesivi,
difficilmente tipizzabili, adottati dal datore di lavoro o dai colleghi
(maltrattamenti verbali e psicologici, isolamento, delegittimazione di
immagine).
In generale, in
assenza di una specifica disciplina legale nell’ordinamento interno, la tutela
dal mobbing è assicurata sulla base
delle norme generali che tutelano il lavoratore dagli atti discriminatori e
sanciscono l'obbligo del datore di lavoro di assicurare la sicurezza e la
salute dei dipendenti, in relazione ad ogni aspetto che possa danneggiarne
l'integrità psico-fisica. Peraltro, secondo molti operatori, gli strumenti
tradizionali non risultano idonei a una piena tutela dal mobbing, soprattutto quando esso non si esplica in atti formali del
datore di lavoro.
A causa della
diffusione sempre crescente dei fenomeni di mobbing,
l’Unione Europea nel corso dell’ultimo decennio ha prodotto vari interventi
volti alla tutela dei lavoratori da tale fenomeno, interventi che si sono
concretizzati principalmente attraverso due importanti iniziative:
l’introduzione dell’articolo 26 della Carta Sociale Europea volto a promuovere
la dignità nel lavoro e l’approvazione da parte del Parlamento europeo della Risoluzione
(2001/2339(INI)) avente ad oggetto il mobbing
sul posto di lavoro (v. scheda Mobbing - Iniziative in ambito comunitario).
Per quanto
concerne, più specificamente, il nostro ordinamento, occorre precisare che non
risultano, allo stato attuale, in vigore provvedimenti disciplinanti
direttamente e in generale la tutela dei lavoratori dal fenomeno del mobbing. Ciò ha comportato un ponderoso
e approfondito esame del fenomeno in sede giurisprudenziale, in funzione di
“supplenza” del legislatore.
La giurisprudenza
in materia di mobbing, in
particolare, ha approfondito la relazione tra mobbing e mancato rispetto dell’obbligo del datore di lavoro di
lavoro di adibire il lavoratore alle mansioni per le quali è stato assunto o a
mansioni equivalenti, ai sensi dell’articolo 2103 del codice civile. Sulla base
di tale giurisprudenza, che ha stabilito il diritto per il lavoratore al
risarcimento del danno subito sia sul piano professionale che sul piano
esistenziale, si può affermare che “il demansionamento rappresenta una delle
tipiche forme attraverso le quali viene esercitata la condotta mobbizzante”[1].
I primi passi
volti a disciplinare normativamente il fenomeno sono stati compiuti, seppur
indirettamente, attraverso l’emanazione di due provvedimenti, entrambi datati 9
luglio 2003:
§ il D.Lgs. n. 215,
attuativo della direttiva 2000/43/CE[2], per
la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e
dall'origine etnica;
§ il D.Lgs. n. 216,
attuativo della direttiva 2000/78/CE[3], per
la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro a
prescindere dalla religione, dalle convinzioni personali, dagli handicap, dall'età
o dall'orientamento sessuale.
In particolare,
con il secondo provvedimento è stato stabilito un quadro generale per la lotta
alle discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli
handicap, l’età o le tendenze sessuali, per quanto concerne l’occupazione e le
condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo negli Stati membri il
principio della parità di trattamento. A tale scopo, il citato decreto, dopo
aver fornito una precisa definizione di discriminazione diretta ed indiretta,
ha assimilato a tali discriminazioni anche le molestie, ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere
per uno dei motivi su citati, aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità
di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante,
umiliante od offensivo, prevedendo tra l’altro l’accesso a idonee procedure
giurisdizionali al fine di tutelare i diritti e porre rimedio alle
discriminazioni. In tal modo è stata introdotta per la prima volta
nell’ordinamento interno una qualche definizione del mobbing e soprattutto una qualche forma di tutela contro di esso
(seppur con valenza limitata all’ambito del provvedimento).
Attinenze con il
fenomeno del mobbing presenta anche
la tutela normativa contro le “molestie
in ragione del sesso sui luoghi di lavoro”, come quei comportamenti
indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o
l'effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di
creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo,
introdotta dal D.Lgs. n. 145/2005 (nuovo comma 2-bis dell’articolo 2 della legge n. 125/1991).
Occorre, inoltre,
ricordare che nel corso della XIV legislatura sono state presentate una serie
di proposte di legge, sia alla Camera dei deputati sia al Senato, concernenti
la tutela dei lavoratori dagli atti di violenza o persecuzione morale e
psicologica (mobbing).
In particolare,
l’esame, presso la 11.a Commissione (Lavoro e previdenza sociale) del Senato,
di alcuni progetti di legge (A.S. 122
ed abbinati), ha condotto, nel giugno del 2005, alla redazione di un testo unificato[4], adottato
quale testo base, il quale, al fine di individuare la fattispecie del mobbing, ha previsto che “si intende per
violenza o persecuzione psicologica ogni atto o comportamento adottati dal
datore di lavoro, dal committente, dall'utilizzatore ai sensi dell'articolo 20
del D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, da superiori ovvero da
colleghi di pari grado o di grado inferiore, con carattere sistematico, intenso
e duraturo, finalizzati a danneggiare l’integrità psico-fisica della
lavoratrice o del lavoratore”. Inoltre “gli atti o comportamenti devono esseri
idonei a compromettere la salute o la professionalità o la dignità della
lavoratrice o del lavoratore”. Lo stesso testo unificato, dispone per i datori
di lavoro o i committenti, gli utilizzatori e le rappresentanze sindacali, obblighi di prevenzione e accertamento e iniziative di informazione periodica. Inoltre
si prevede
che i soggetti che stipulano i contratti collettivi nazionali di lavoro abbiano
la facoltà di adottare codici
antimolestie e, in particolare, codici volti alla prevenzione degli atti e
comportamenti di pressione psicologica in precedenza richiamati, anche mediante
procedure di carattere conciliativo e tecniche incentivanti. Al fine di predisporre uno strumento valido
anche sul piano “repressivo”, il testo unificato attribuisce al personale
ispettivo del Ministero del lavoro la possibilità di esercitare il potere di
disposizione di cui all’articolo 14 del D.Lgs.
n. 124/2004 nei confronti di coloro che pongono in essere condotte di mobbing, in modo da prescrivere la
cessazione delle stesse condotte; la mancata ottemperanza a tale prescrizione
obbligatoria comporta l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria.
Sul piano della tutela giurisdizionale, oltre ad attribuire al giudice
il potere di ordinare la cessazione dei comportamenti illegittimi e la
rimozione degli effetti di tali comportamenti, il testo unificato prevede il
risarcimento del danno, anche non patrimoniale.
Occorre ricordare,
inoltre, che la Regione Lazio, con la L.R. 11 luglio 2002, n. 16, constatando
la mancanza di una normativa a livello statale, ha provveduto a disciplinare il
mobbing al fine di prevenirne e
contrastarne l'insorgenza e la diffusione nei posti di lavoro.
In particolare, la
legge regionale ha definito il mobbing
come l’insieme di “atti e comportamenti discriminatori o vessatori protratti
nel tempo, posti in essere nei confronti di lavoratori dipendenti, pubblici o
privati, da parte del datore di lavoro o da soggetti posti in posizione
sovraordinata ovvero da altri colleghi, e che si caratterizzano come una vera e
propria forma di persecuzione psicologica o di violenza morale”.
Agli organi
paritetici previsti dal D.Lgs. n. 626/1994, nell'ambito delle attribuzioni ad
essi conferite in materia di formazione dei lavoratori, era stato conferito il
potere di assumere iniziative e programmare interventi “per sensibilizzare
tutte le componenti del mondo del lavoro sulle problematiche di cui alla
presente legge”.
Lo stesso
provvedimento, infine, ha previsto l’istituzione di un Osservatorio regionale
sul mobbing, con sede presso
l'assessorato competente in materia di lavoro, nonché che le ASL istituissero o
promuovessero “l'istituzione, anche mediante convenzioni con associazioni senza
fini di lucro, di appositi centri, opportunamente dislocati sul territorio in
relazione ai livelli occupazionali esistenti nell’ambito pubblico e privato,
che forniscano adeguata assistenza al lavoratore oggetto di discriminazioni”.
Interessata del
caso, la Corte costituzionale, con la sentenza 10-19 dicembre 2003, n. 359, ha
dichiarato l’illegittimità costituzionale di tale legge.
In particolare, la
Suprema Corte ha rilevato in premessa che l'intera legge si fonda sul
presupposto - da ritenere in contrasto con l'assetto costituzionale dei
rapporti Stato-Regioni - secondo cui queste ultime, in assenza di una specifica
disciplina di un determinato fenomeno emergente nella vita sociale, abbiano, in
via provvisoria, poteri illimitati di legiferare. La Suprema Corte, pur non escludendo
che le Regioni possano intervenire, con propri atti normativi, anche con misure
di sostegno idonee a studiare il fenomeno in tutti i suoi profili e a
prevenirlo o limitarlo nelle sue conseguenze, ha ritenuto però certamente
precluso alle Regioni stesse di intervenire, in ambiti di potestà normativa
concorrente, dettando norme che vanno ad incidere sul terreno dei principi
fondamentali.
[1]
Così N. Miranda, Gli orientamenti giurisprudenziali in tema di mobbing e demansionamento,
in D & L – Rivista critica di diritto del lavoro, n. 2-3/2005, pag. 339 ss.
[2] Direttiva 2000/43/CE del 26
settembre 2000, del Consiglio, che attua il principio della parità di
trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica.
[3] Direttiva 2000/78/CE del 27 novembre 2000, del Consiglio, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.
[4] Si consideri che il testo unificato in questione, proposto dal relatore nella seduta del 28 giugno 2005, contiene alcune modifiche ed integrazioni rispetto a quello precedentemente elaborato dal Comitato ristretto e pubblicato in allegato al resoconto sommario della seduta del 1° febbraio 2005 (già adottato quale testo base nella stessa seduta). Il medesimo testo unificato proposto dal relatore, allegato al resoconto della seduta n. 322 del 28 giugno 2005 della 11.a Commissione del Senato, è stato quindi adottato quale nuovo testo base per il prosieguo dell’esame. Si ricorda tuttavia che il provvedimento in questione ha esaurito il suo iter parlamentare fermandosi all’esame presso la 11.a Commissione del Senato; in particolare nell’ultima seduta sul provvedimento, la n. 357 del 14 dicembre 2005, la stessa Commissione ha deciso di rinviare la votazione degli emendamenti riferiti al testo unificato.