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L’attività parlamentare di Giovanni Goria a cura di Anton Paolo Tanda


Seguire il lavoro parlamentare di Giovanni Goria, almeno quello che appare negli Atti parlamentari, equivale ad un viaggio dentro la storia della condizione economica, e sociale, dell'Italia negli anni dal 1976 al 1993, i più difficili della nostra storia nella seconda metà del XX secolo.
È eletto deputato nella lista della Democrazia cristiana per la VII legislatura, quella che segna un crinale nella vita politica italiana: lo storico tentativo di collaborazione di governo dei due maggiori partiti italiani, la DC e il PCI, che non si spinge fino alla eliminazione della conventio ad excludendum, attraversa la crisi conseguente al rapimento e all'uccisione di Aldo Moro, e finisce proprio quando il PCI pone la questione del superamento effettivo di quella esclusione. Il suo impegno come deputato comincia subito nelle commissioni ed il primo intervento ha luogo nella Commissione finanze e tesoro, di cui è componente fino alle dimissioni da deputato, all'inizio della XI legislatura, presentate in ossequio alla deliberazione degli organi direttivi della DC sulla incompatibilità del mandato parlamentare con la carica di ministro.
È un intervento che dà una chiave interpretativa di quello che sarà un suo impegno costante: la razionalizzazione, in funzione dell'efficienza, del sistema impositivo e più in generale del sistema economico finanziario italiano, con un occhio ai problemi concreti, quelli delle comunità e delle persone e in particolare quelli della famiglia, che assumerà a parametro della equità del prelievo fiscale e nella prestazione dei servizi alla cittadinanza, principale elemento giustificativo della finanza pubblica, sia come entrata sia come spesa. Uno dei tratti fondamentali della sua personalità nell'attività parlamentare, e soprattutto nell'attività di governo, è senz'altro l'afflato umano, che può cogliere il lettore degli Atti parlamentari anche solo un poco attento a tutti gli aspetti dell'attività che vi viene raffigurata.
La sua partecipazione al lavoro parlamentare è intensa, il rigore e la competenza non solo tecnica, assolutamente eccellenti nell'ambito parlamentare, certamente ricco di personalità di grande spessore, ed anche fuori da tale ambito.
Dal suo modo di esporre e di argomentare, al di là delle enunciazioni verbali ripetute spesso, si evince il rispetto per tutte le posizioni.
È un rispetto non acritico, tanto è vero che in certi casi il carattere del giovane piemontese consapevole del proprio valore prende il sopravvento, reagendo in modo anche vivace e perfino rude, ad affermazioni estemporanee, azzardate o poco pensate, e in caso di interruzioni polemiche o strumentali.
In varie occasioni afferma di voler ragionare insieme, più che esporre posizioni predefinite, poiché quello è il miglior metodo per raggiungere buoni risultati, tra persone tutte desiderose di compiere lealmente il proprio dovere.
Ciò che lo distingue, e per cui riceve alcuni ampi riconoscimenti, è la signorilità nel tratto e la consapevolezza della dignità del ruolo; accetta le critiche, argomenta su di esse sia nel respingerle sia nell'accettarle, accenna alle interpretazioni malevole sul suo conto, per lo più con tono distaccato ma talvolta non riesce, o non vuole, nascondere l'amarezza che gliene proviene.
Tecnico di alto livello della materia economico-finanziaria, pur apprezzando altamente la funzione dell'immaginazione e della fantasia creativa è convinto che in materia esse debbano essere esercitate nel disegnare progetti e scenari di sviluppo e di buon governo; è rispettoso delle procedure, senza le quali, è un suo leit motiv, non può esserci altro che il caos.
Questo trova riscontro anche in numerosi richiami alla procedura parlamentare, spesso molto pertinenti ed acuti, sempre in connessione con la materia del bilancio e della legge finanziaria.
Vale per tutti l'esempio della sua battaglia, alla fine coronata da successo, sul momento dell'approvazione dell'articolo 1 dei disegni di legge finanziaria, contenenti l'indicazione del fabbisogno finanziario e il limite del ricorso al mercato, ed il corrispondente articolo 2 dei disegni di legge di bilancio.
Saluta con favore la prima applicazione del nuovo regime di formazione e approvazione dei bilanci contenuto nella legge n. 468 del 1978, ma segnala per tempo la necessità di un aggiornamento delle norme della legge e della procedura e della prassi parlamentari, ciò che troverà poi sbocco normativo nella legge n. 362 del 1988 - non è trascorso molto tempo dalla sua uscita dalla Presidenza del Consiglio dei ministri -, nonché nella riforma delle norme regolamentari in materia, in entrambe le Camere.
Una costante nelle sue enunciazioni di principio è la trasparenza, che trova poi riscontro in concreto nella ricerca di semplificare i procedimenti, di ottenere l'efficacia negli interventi amministrativi, anche su materie non molto importanti ma, secondo il suo lessico, «significative». Il principio di responsabilità è alla base dei rapporti politico-finanziari: a funzioni di decisione e di governo devono far capo corrispondenti responsabilità. In particolare, riferendosi agli enti locali osserva che l'assetto in vigore normativo e di prassi della finanza locale, facendo perdere di significato ai bilanci favorisce obiettivamente l'irresponsabilità.
Un disegno di riforma non potrà non giungere «progressivamente a definire un assetto finanziario che, compatibilmente con le esigenze del governo unitario della finanza pubblica, separi l'area di responsabilità finanziaria degli enti locali da quella del Governo centrale». Si definisce «incorreggibile ottimista», ma si tratta in effetti di ottimismo del cuore temperato sempre dal pessimismo della ragione, ovvero da quella venatura di realismo proprio della scuola politica piemontese nelle sue più rilevanti eminenze.
Fin dai primissimi tempi ricopre spesso l'ufficio di relatore, sia nelle commissioni in sede referente e quindi in Aula, sia nelle commissioni in sede legislativa, di cui questa raccolta riporta esempi significativi. Svolge l'ufficio con competenza e passione, dando però prova del suo spirito critico: non rifugge dal criticare i provvedimenti di cui è relatore o sui quali interviene, anche se sostenuti dal Governo e dalla maggioranza, proprio in ragione della loro reale efficacia e applicabilità concreta. Tuttavia, ponendosi l'interrogativo: «Si poteva fare di meglio?», «si poteva ottenere di più?»; spesso si risponde di sì, ma, inquadrando la questione nel suo contesto, osserva che aspettando a far di meglio si elude proprio il dovere della politica di effettuare scelte, ed effettuarle nel momento «dato»; il non scegliere, il non fare è comunque il peggio. La sua riflessione sulla politica e sulla politica economico-finanziaria in particolare si basa sulla libertà: libertà all'interno del sistema nazionale per chi deve governare; libertà, e quindi recupero della piena sovranità nazionale, nei rapporti internazionali e non solo di governo.
Il primo e più importante dei limiti alla sovranità è in tal senso il deficit di bilancio a sua volta naturale produttore di indebitamento, ma l'altro metodo per finanziare il deficit, cioè stampare moneta, è ancor più dannoso, poiché produce inflazione e l'inflazione, oltre ai suoi caratteri di assoluta iniquità è una remora ad un ordinato sviluppo economico e sociale.
Ha un'idea dello sviluppo fortemente solidaristica: nella sua visione lo sviluppo non è soltanto creazione di risorse, indispensabile per una politica sociale, ma è anche - e in certi casi soprattutto - una loro equa distribuzione.
Solidarietà tra le persone, i ceti e le varie regioni del paese, i vari luoghi del mondo, ma non assistenzialismo, come appare dalla sua relazione sul problema dell'indebitamento dei paesi svantaggiati.
In questo senso occupa un posto importante la stabilità, non soltanto monetaria ma del sistema economico in generale: la stabilità monetaria non può essere acquistata al prezzo di una importante disoccupazione, da cui derivano squilibri sociali oltre che economici.
E questo è uno dei punti più ricorrenti nelle sue esposizioni.
È difficile eliminare o contenere in misura significativa l'inflazione senza creare disoccupazione, ma le difficoltà non possono essere una accettabile giustificazione per non agire.
Compito della politica è fare delle scelte e tra esse sono sempre da privilegiare quelle a favore delle persone.
La situazione economico-sociale del paese è gravissima, occorre pertanto non una politica monetaria restrittiva quale quella adottata in altri paesi ma una politica atta ad eliminare gli sprechi, le inefficienze amministrative ed imprenditoriali, dare elasticità al mondo del lavoro in modo che i benefici dei provvedimenti monetari riescano ad influenzare più velocemente il mondo del lavoro, recuperando così competitività all'intero sistema produttivo.
E come Ministro del tesoro non esiterà ad assumere provvedimenti molto coraggiosi, per affrontare situazioni difficili e pericolose. La sua attività parlamentare inizia proprio nel mezzo della crisi proveniente dallo shock petrolifero degli anni '70.
La sua presenza in Parlamento come deputato o a nome del Governo, sia come sottosegretario che come ministro, è esemplare, e questo è uno dei non molti riconoscimenti che gli vengono dati nel corso di quell'attività.
In qualche caso si potrebbe pensare che il suo presenzialismo possa addirittura dar fastidio, e comunque gli tocca di incassare i rimproveri al Governo da parte dei deputati e dei senatori, come avviene sempre ai presenti, che subiscono le conseguenze delle assenze altrui. Nel rendere alle Camere il parere sugli emendamenti, specie se negativi, si sforza sempre di argomentare, anche a costo di essere tacciato di pignoleria: il «no» non può essere «un no e basta»; sugli ordini del giorno dà ampie spiegazioni soprattutto se non li accetta o li accetta come raccomandazione.
Suggerisce modifiche al testo quando la formulazione porterebbe all'assunzione di impegni che sa impossibili da mantenere.
Nelle sue espressioni di cortesia nei rapporti col Parlamento, al di là della correttezza formale, si coglie un profondo rispetto per le istituzioni parlamentari, ma anche per il Governo, per il quale esige dalle controparti adeguato rispetto; e tale rispetto postula, a suo avviso, l'assunzione di responsabilità proprio nel rispetto dei ruoli ricoperti da ciascuno.
Esordisce come Ministro del tesoro nel V Governo Fanfani, governo istituzionale per il passaggio di legislatura, e quindi, evidentemente a termine, ma si comporta ed agisce come se si trattasse di un Governo di legislatura, nella convinzione, come ripete spesso, che chi governa deve farlo tutti i giorni, e non una volta per tutte.
Imposta così un lavoro di largo respiro, che poi ha modo di sviluppare nell'intera VIII legislatura e come Presidente del Consiglio, all'inizio della IX. Nei suoi interventi in qualità di Ministro del tesoro ha costante la preoccupazione del coordinamento, se non di riduzione all'unità, dell'intera finanza pubblica.
È convinto assertore delle autonomie locali che sono gli enti più vicini ai cittadini, fonte della sovranità dello Stato (in senso più sturziano che localista), ed è altrettanto convinto assertore del principio di responsabilità.
Per questo indica due principali elementi: la restituzione del proprio ruolo agli strumenti della contabilità di Stato e la predisposizione di strumenti adeguati a far valere ad ogni livello il principio di responsabilità dei provvedimenti adottati.
Gli strumenti della politica finanziaria devono recuperare in pieno la loro funzione di governo ma devono essere arricchiti anche di funzioni programmatorie: il bilancio triennale ha proprio questa specifica funzione.
Occorre che tutti gli organi della amministrazione, le regioni e gli enti locali non si comportino unicamente come centri di spesa ma portino direttamente la responsabilità delle scelte che operano.
Al Governo centrale devono essere imputate le responsabilità che gli spettano, mentre a tutti gli altri devono essere imputate quelle che loro competono.
Con questa visione contrasta il sistema vigente della finanza locale: i trasferimenti dallo Stato incoraggiano gli amministratori meno prudenti ed avveduti a scapito di quelli che si preoccupano della quantità e della qualità della spesa.
Per questo pone più volte la questione - diventata poi argomento comune -: l'autonomia impositiva, non solo delle regioni ma anche degli enti locali.
È positivo l'obbligo, contenuto in un provvedimento in materia, «sancito per i consigli degli enti locali di deliberare un piano di riorganizzazione delle loro strutture amministrative e aziendali in base ai criteri di economicità di gestione, professionalità e soprattutto mobilità di personale».
Deve però constatare amaramente che non sono state date sufficienti indicazioni sui compiti a venire.
Come ben si vede questi sono temi ancora di grande attualità.
Oltre a quello sulla responsabilità di ciascuno è frequente il richiamo al «buon governo» come orientamento nell'esercizio del potere.
Non rinuncia a cuor leggero ad esporre il proprio punto di vista; propone il ragionamento: il modo di considerare la realtà e di pensare a governarla, che è alla base di tutto e viene prima di talune scelte strumentali, in cui le opzioni, l'opinabilità e la discrezionalità via via aumentano.
Il «ragionare insieme» è il metodo da seguire piuttosto che la polemica in cui ciascuno conserva immutata la propria posizione.
Tuttavia alla fine non manca di sottolineare la sua scelta tra le posizioni in campo.
Tutto deve essere attuato con metodo: prima occorre stabilire dove si vuole andare, con quali mezzi si vuol raggiungere la meta e poi adottare le decisioni necessarie.
«Troppe volte nel passato ci siamo sbizzarriti su quale strada scegliere, senza prima precisare il luogo da raggiungere, né il mezzo di trasporto a disposizione e senza nemmeno preoccuparci di conoscere le condizioni di viabilità della strada».
Osserva che nella prassi parlamentare si verifica che, ad onta della funzione specifica del Parlamento di essere custode severo della spesa (e questo sì è molto «piemontese»), si delibera la maggior parte delle spese non collocate in un quadro economico-politico ben definito, o almeno plausibile e talvolta senza un effettivo rispetto della norma dell'articolo 81 della Costituzione sull'obbligo della copertura.
Su quel punto di principio ingaggia una vivace dialettica con i colleghi parlamentari e, pur nel rispetto delle forme e dei ruoli, anche con gli organi parlamentari. Invece, ed in questo appare la sua modernità, non è imbrigliato dalla quantità del disavanzo - che deve essere ovviamente combattuto - ma ritiene che debba essere valutato alla luce della qualità della spesa. Non è paragonabile un disavanzo dovuto prevalentemente a spese di investimento ad uno derivante, prevalentemente o unicamente, da spesa corrente.
Per questo si spende nello sforzo di riqualificazione della spesa oltre che della sua razionalizzazione.
La sua visione della politica non è limitata all'orticello nazionale ma si innesta solidamente nel teatro europeo ed internazionale, come è attestato dai suoi frequenti riferimenti alla situazione internazionale in generale e in particolare alla politica economico-finanziaria attuata da altri paesi, comunitari e non, comparabili o incomparabili con l'Italia. «Occorre avere una grande capacità di conquistarsi spazi nell'ambito della comunità che deve poi concertare, avendo in qualche modo capacità di crescere in autorevolezza, in originalità di esposizione ed in qualche modo facendosi largo a titolo di credito nella comunità internazionale». In taluni casi si deve «agire come europei e non soltanto come italiani, vincere gli egoismi, prima di promuovere i princìpi».
Ha un alto senso della dignità nazionale e grande apprezzamento per la complessità e varietà del tessuto sociale, economico e culturale dell'Italia. Tuttavia non manca di sottolineare la necessità di cambiamento, non solo e non tanto nelle strutture - produttive, dei servizi, della amministrazione - quanto nella mentalità. Il mondo della produzione deve uscire dalle abitudini sostanzialmente protezionistiche fino ad allora dominanti, per entrare nella mentalità più moderna ed adeguata ai tempi - allora non si parlava ancora di globalizzazione -, di interconnessione ed interdipendenza delle economie, nella mentalità della competizione. Il recupero di competitività non è più rinviabile; le prospettive generali non possono essere affrontate utilmente «senza un disegno complessivo che investa in primo luogo il contenimento e l'efficacia della spesa pubblica».
Su questo terreno si preoccupa di quei vincoli alla competitività che non derivano dalla mentalità imprenditoriale in quanto si tratta di condizioni obiettive, in particolare il costo del lavoro; segnala gli effetti negativi su di esso dei meccanismi di indicizzazione dei salari, ciò che poi col Governo Craxi, in cui Goria è Ministro del tesoro e Gianni De Michelis del lavoro, sarà oggetto di una durissima battaglia parlamentare ed anche referendaria.
Come è ben noto il referendum risulterà poi favorevole alla legge voluta dal Governo, che aveva introdotto un meccanismo di predeterminazione degli scatti di scala mobile secondo il metodo della inflazione programmata e della concertazione tra Governo e le parti sociali.
Al fine di evitare crisi ancora maggiori si potrebbero considerare sufficienti la politica di bilancio e quella monetaria ma non sono sufficienti se non sono accompagnate da un rigoroso controllo dei redditi nominali, al quale «si oppone a tutt'oggi soprattutto il complesso e articolato sistema delle indicizzazioni.
Le relazioni di fronte alle quali tutti dobbiamo assumerci le proprie responsabilità sono quindi quelle tra il controllo della finanza pubblica e la crisi e poi ancora tra il sistema delle indicizzazioni e lo sviluppo». Inoltre si preoccupa, ed aveva lo sguardo lungo, della crisi dello Stato sociale, divenuto incomprensibile e per certi versi anche insopportabile ai cittadini, che non comprendono più l'intermediazione sulla maggior parte delle prestazioni: «La questione vera è che quando non si riesce a creare una relazione diretta tra contribuzione e prestazione, la contribuzione sembra sempre troppo elevata».
Da Ministro del tesoro si misura su una spinosa questione di carattere internazionale, riferendo alle Camere sulle conclusioni della Commissione mista Italia - Santa Sede sui rapporti intercorsi tra lo IOR (Istituto per le Opere di Religione) ed il Banco Ambrosiano, in cui dà prova non solo di competenza tecnica ma soprattutto di senso dello Stato e di consapevolezza della funzione che svolge. Sempre in materia di rapporti tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica espone alle Camere la posizione del Governo sulla discussa materia dell'applicazione del Concordato in materia di insegnamenti alternativi all'insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche. Per gli alunni che non abbiano scelto l'insegnamento della religione cattolica sono previsti insegnamenti alternativi, che devono essere, appunto, alternativi, quindi devono esistere: per questo come Ministro del tesoro è suo dovere predisporre in bilancio le appostazioni necessarie proprio a farli esistere.
Vi è in lui molto di senso della laicità dello Stato, sia nell'accezione generale sia per come la intende un cattolico democratico nell'esercizio della funzione di governo, oltre al senso dello Stato puramente e semplicemente, come è testimoniato dai suoi interventi da Presidente del Consiglio dei ministri sempre nella stessa materia.
Viene nominato Presidente del Consiglio dei ministri - forse in modo per molti inaspettato - a seguito di una crisi lunga e difficile, che si può dire già aperta al termine della IX legislatura ed è, più che una crisi di governo, una profonda crisi politica che investirà il paese e da cui forse non si è ancora usciti.
Sotto il profilo economico il paese conosce condizioni nettamente positive ma i rapporti politici si sono deteriorati profondamente. La rottura tra la DC di De Mita e il PSI di Craxi non accenna a ricomporsi; d'altro canto entrambi i partiti non intendono accettare la partecipazione diretta del PCI al Governo nazionale.
Pertanto in prospettiva esiste unicamente la strada della collaborazione al centro - di pentapartito o di centro-sinistra -, e nonostante tutto di questo sono persuasi i partiti che hanno formato la maggioranza nella legislatura precedente. In tale situazione il Capo dello Stato Cossiga incarica Goria di formare il Governo, senza porgli limiti di tempo ma col preciso scopo di lavorare affinché si possa ricostituire una solida alleanza politica di Governo.
La nomina è del 28 luglio 1987; il 30 Goria presenta alle Camere il suo Governo, composto da ministri democristiani, socialisti, socialdemocratici, repubblicani e liberali, affermando che esso non deriva dalla convergenza dei cinque partiti da cui è scaturito un programma, bensì dalla convergenza dei partiti su un programma di governo.
Non è un governo a termine né ad iniziativa limitata bensì un governo di programma; non è di respiro corto, tenuto conto che ha come compito, specificamente assegnatogli dal Capo dello Stato, di governare in modo da favorire con la sua azione la ricomposizione del quadro politico, che consenta la costituzione di un'alleanza politica più forte, sempre nell'ambito dei cinque partiti che hanno governato il paese nella legislatura precedente. Nonostante il modo atipico della sua formazione: il convergere su un programma piuttosto che la formazione di una coalizione, deve governare con piena autorevolezza, e intende farlo, proprio in dipendenza dall'incarico ricevuto dal Capo dello Stato di affrontare una situazione particolarmente difficile, ed anche preoccupante, e creare le condizioni per una ricostituzione dell'alleanza politica; inoltre, e non è questione trascurabile, - osserva -, della compagine hanno accettato di far parte personalità eminenti per esperienza ed autorevolezza.
La sua attenzione alle questioni di procedura è evidente se si bada alla intenzione esposta nelle dichiarazioni programmatiche, di contribuire alla riforma del regime del voto segreto, che durante la legislatura precedente aveva creato gravi problemi alla stabilità del Governo, in particolare alla Camera dei deputati e di cui Goria, soprattutto da Presidente del Consiglio, sperimenta, come si vedrà, la perfida efficacia; la proposta sarà poi ripresa, ed attuata, col Governo De Mita.
Si è riservato anche la carica di Ministro per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno, come segno di grande attenzione al problema meridionale, che costituisce in effetti una grande questione nazionale. Per risolverlo, più che interventi straordinari è necessario un efficace coordinamento degli interventi ordinari, e nessuno più del Presidente del Consiglio è in grado di attuarlo.
Inquadrando l'azione che intende svolgere, in rapporto alla natura del suo Governo afferma: «Un Governo serio deve provare gusto ai problemi antichi, non gli è consentito di fuggire in avanti»; ciò rende chiara la sua consapevolezza dei problemi del momento politico in cui si accinge a governare.
Fin dai primi giorni di settembre il Governo deve affrontare la crisi internazionale seguita all'attacco al mercantile italiano Jolly Rubino nelle acque del Golfo Persico, quando l'Iraq rompe la tregua di fatto seguita alla risoluzione dell'ONU del luglio precedente, per la quale l'Italia si era efficacemente adoperata; il Governo, su sua proposta - come da lui rivendicato - decide l'invio di navi da guerra nel Golfo come scorta alle nostre navi mercantili ed anche per contribuire ad assicurare la libertà di navigazione in quelle acque internazionali.
Le maggiori difficoltà si presentano però nel corso dell'esame delle leggi finanziaria e di bilancio per il 1988, quando il fenomeno dei «franchi tiratori», nei cui confronti ha evocato la riforma del regolamento, assume dimensioni abnormi: vengono respinti articoli e tabelle della legge finanziaria e del bilancio, in particolare, e significativamente anche quella relativa alla Presidenza del Consiglio. Per due volte presenta al Capo dello Stato le dimissioni sue e del Governo e sempre è da lui invitato a ripresentarsi alle Camere; riesce a ricomporre il quadro politico e per due volte ottiene nuovamente la fiducia.
Sono possibili varie interpretazioni di questo suo atteggiamento, e ve ne sono state anche molto malevole; quella più plausibile, e chi scrive la ritiene l'unica, è che sia la sua convinzione sul grande senso di responsabilità che chi è al Governo deve avere nei confronti del paese e da parte sua anche dal punto di vista istituzionale nei confronti del Capo dello Stato, il quale, ripetutamente proprio a quel senso di responsabilità fa appello, perché il paese deve avere un Governo.
Lascia poi la carica aprendo la crisi da cui deriverà la formazione del Governo De Mita, fondato appunto su un'alleanza politica di pentapartito.
Rientra al Governo come Ministro delle finanze nel VI Governo Andreotti ed è Ministro dell'agricoltura nel VII Governo Andreotti. In quel periodo si aggrava ulteriormente la crisi della Federconsorzi e Goria con coraggio si prende la responsabilità di nominare i commissari governativi per la liquidazione.
Illustra ripetutamente alle Camere le ragioni di tale decisione e prefigura quella che dovrebbe essere, a suo avviso, la soluzione, con la salvaguardia di un patrimonio di conoscenze tecniche ed organizzative oltre che di beni immobili. La realtà poi contraddirà queste sue intenzioni.
Durante la X legislatura si verificano alcuni tra gli avvenimenti più importanti del XX secolo, tra cui la caduta del muro di Berlino che apre la strada allo scioglimento dell'URSS e alla caduta della cortina di ferro. In particolare in Italia si apre la stagione conosciuta come «Tangentopoli», che mette in crisi i partiti tradizionali; si affacciano sulla scena politica i movimenti localistici, che si affermeranno nelle legislature successive.
Nella XI legislatura, quando è Ministro delle finanze nel I Governo Amato, Goria viene fatto oggetto di una mozione di sfiducia individuale, basata, come spiega il Presidente del Consiglio nel suo intervento in risposta agli interventi svolti in Aula, su due ordini di considerazioni: uno relativo ad alcune disfunzioni verificatesi nel precedente agosto, l'altro collegato con la «questione morale» allora agitata nei confronti dei partiti attraverso le personalità più in vista o comunque investite di effetti simbolici.
Dall'esame della questione, esposta in modo particolareggiato dal Presidente Amato, è ravvisabile la sua strumentalità e soprattutto l'infondatezza non solo dell'accusa di reato che gli viene mossa ma soprattutto dell'accusa di aver indotto il Presidente Amato a mentire al Parlamento sulla sua estraneità ad esso.
Forse una traccia per ricostruire la genesi della questione può essere ritrovata in un dibattito riportato in questa raccolta.
Prende la parola alla Camera non per pronunciare un'autodifesa bensì per rispetto del Parlamento e respingere proprio quell'accusa: «Ho pensato che non intervenire potesse essere considerato una mancanza di rispetto nei confronti di quest'Assemblea che ho avuto l'onore di frequentare per sedici anni, ma altrettanta mancanza di rispetto sarebbe sottrarle troppo tempo, quindi dirò poche cose. Sono uscito da quest'aula come ex deputato, se lo vorrete ne uscirò come ex ministro; non accetto però di uscirne come bugiardo».
La fiducia gli viene votata, tuttavia l'episodio lascia nel suo animo una traccia di amarezza, di cui, però, soltanto i più intimi conoscono l'esistenza.
Prosegue l'attività ministeriale col consueto impegno, fino al 21 febbraio 1993, data in cui si dimette da ministro, probabilmente già attaccato dal male che lo conduce, ancora giovanissimo, alla morte. In queste note, chi scrive non ha la pretesa di dare una interpretazione della figura e ancor meno del pensiero politico ed economico di Giovanni Goria, ma intende soltanto offrire al lettore dei suoi discorsi parlamentari alcuni segnali di direzione, rifuggendo, come è costume del funzionario parlamentare, sia pure ormai solo onorario, di non sovrapporre il proprio al pensiero del parlamentare di cui riporta gli interventi.
Solo un'annotazione: se fosse ancora tra noi Goria avrebbe ora un'età vigorosa e che in questi tempi è considerata ancora giovanile e certamente spenderebbe le sue doti in favore della comunità nazionale, là dove il suo senso del dovere gli suggerisse di poter essere più utile al paese. Si tratta infatti di una personalità che, accanto ad un solido ancoraggio nel patrimonio umano, culturale e politico del cattolicesimo democratico, è ricca di tante specialità e sfumature che ne fanno un patrimonio di molti.

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