Titolo V e giurisprudenza costituzionale

Premessa

Dall’entrata in vigore della L.Cost. 3/2001, che ha ampiamente riscritto il Titolo V della Parte II della Costituzione (sulle principali novità, v. la scheda Titolo V e norme di attuazione), la Corte costituzionale ha avuto modo di esprimersi su diverse questioni inerenti il riparto delle competenze tra Stato e regioni, dando un rilevante contributo all’interpretazione di non pochi aspetti problematici della riforma[1].

Un contributo significativo è derivato anche dall’attività consultiva delle Commissioni Affari costituzionali di Camera e Senato (in quanto “Commissioni filtro” per gli aspetti di costituzionalità), svolta sistematicamente sui provvedimenti all’esame delle Camere. È anzi da considerare che, specie in una prima fase, tali commissioni si sono trovate ad operare senza l’ausilio di una giurisprudenza costituzionale che offrisse spunti interpretativi per la soluzione dei nodi della riforma, e per qualche verso in taluni casi hanno anticipato interpretazioni poi confermate e sviluppate dalla Corte costituzionale[2]. Invero, alcuni orientamenti emersi dai pareri della I Commissione non sono stati confermati dalle interpretazioni poi espresse dalla giurisprudenza costituzionale; di fronte comunque al consolidarsi di tale giurisprudenza, la “giurisprudenza parlamentare” si è in larga parte avvicinata, se non uniformata agli orientamenti della giurisprudenza costituzionale.

Considerati dunque anche i tempi fisiologici per l’avvio e lo svolgimento dei giudizi di legittimità costituzionale relativi al riparto di competenze Stato-regioni, si può individuare – quale punto di partenza della fase che ha visto il contributo maggiormente significativo della Corte – la sentenza n. 303 del 2003[3]: quest’ultima ha dato l’avvio ad un filone giurisprudenziale ampio ed articolato, il quale da un lato ha consentito di estendere - sulla base del principio di sussidiarietà - l’ambito delle competenze statali rispetto alla “lettera” della Costituzione, dall’altro ha promosso forme di concertazione e di collaborazione con le regioni, a salvaguardia delle attribuzioni loro conferite.

Prima di passare ad una sintetica illustrazione di alcune questioni centrali, si ricorda come alcuni in dottrina[4] abbiano osservato che la giurisprudenza costituzionale più recente, diversamente da quanto prospettato all’indomani dell’entrata in vigore della L.Cost. 3/2001, sembra avere ridimensionato drasticamente alcune potenzialità (o, se si vuole, alcuni “auspici”) che la riforma pareva avere aperto rispetto all’assetto costituzionale precedente. La giurisprudenza costituzionale pare avere ormai infatti ridimensionato (se non  addirittura smentito) alcune prospettazioni, quali:

§         la netta separazione tra criteri di individuazione delle competenze normative di cui all’art. 117, tendenzialmente rigidi, e i criteri flessibili di allocazione delle funzioni amministrative;

§         l’interpretazione restrittiva delle “materie trasversali” di competenza dello Stato;

§         l’elevazione della legge regionale al rango di fonte avente una competenza sostanzialmente generale, a seguito del ribaltamento della competenza legislativa di cui al novellato art. 117 Cost.;

§         le potenzialità “autoapplicative” di molte disposizioni della riforma (v. in part. l’art. 119 Cost., relativo all’autonomia finanziaria delle Regioni e degli enti locali);

§         l’elevazione dell’autonomia di Comuni e Province al rango costituzionale ai sensi del novellato art. 114 Cost..

 

Di seguito si dà conto di alcuni dei principali orientamenti emersi dalla giurisprudenza costituzionale, che appaiono rivestire un significato di carattere generale, suscettibile di applicazione in vari settori normativi (per approfondimenti sulla giurisprudenza costituzionale intervenuta in singoli settori, si rinvia ai rispettivi capitoli e schede).

Le “materie trasversali”

Tra le materie riservate alla potestà legislativa esclusiva dello Stato, sono state individuate “materie trasversali” (definite anche dalla stessa giurisprudenza costituzionale “non materie”, o “materie-funzione”), quali in particolare la “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti sul territorio nazionale”, la “tutela della concorrenza”, la “tutela dell’ambiente”, l”ordinamento civile”.

Appare utile premettere che il richiamo alle c.d. “competenze trasversali” nella giurisprudenza costituzionale, se ha comportato in molti casi un’attrazione di competenze normative a favore dello Stato[5], ha assunto un significato in un certo senso più ampio, nella direzione del superamento di una visione rigida della separazione di competenze.

Venendo ad aspetti più specifici, la Corte afferma che le materie oggetto di tali competenze “trasversali” “non hanno un oggetto predeterminato, ma quest’ultimo si determina attraverso il loro concreto esercizio, così come il regime dei rapporti tra competenze dello Stato e delle Regioni in queste particolari “non materie” [6].

Peraltro, l’atteggiamento della Corte nell’interpretazione dei titoli competenziali in questione sembra avere subito una qualche evoluzione.

In effetti, nelle prime pronunce successive all’entrata in vigore della L.Cost. 3/2001, la giurisprudenza costituzionale ha mostrato di disattendere tesi estensive riguardo alla portata di tali ambiti, potenzialmente idonei a limitare trasversalmente l’autonomia legislativa regionale[7]. Viceversa, la giurisprudenza costituzionale più recente ha in parte corretto in senso estensivo alcuni di tali titoli competenziali trasversali.

Particolarmente significativo appare il caso della “tutela della concorrenza”, rispetto alla quale la sent. n. 14 del 2004 fornisce una ricostruzione di carattere “sistematico”, tale da essere interpretata in senso ampliativo[8]: infatti proprio l’aver accorpato, nel medesimo titolo di competenza, la moneta, la tutela del risparmio e dei mercati finanziari, il sistema valutario, i sistemi tributario e contabile dello Stato, la perequazione delle risorse finanziarie e la tutela della concorrenza “rende palese che quest’ultima costituisce una delle leve della politica economica statale e pertanto non può essere intesa soltanto in senso statico, ma anche in quell’accezione dinamica che giustifica misure pubbliche volte a ridurre squilibri, a favorire le condizioni di un sufficiente sviluppo del mercato o ad instaurare assetti concorrenziali”.

Sempre la stessa giurisprudenza ha precisato che una competenza statale quale quella in esame deve essere scrutinata, dal punto di vista del rispetto delle competenze regionali, avendo riguardo principalmente ai princìpi di proporzionalità e adeguatezza: “trattandosi infatti di una cosiddetta materia-funzione, riservata alla competenza esclusiva dello Stato, la quale non ha un’estensione rigorosamente circoscritta e determinata, ma, per così dire ‘trasversale’ […] poiché si intreccia inestricabilmente con una pluralità di altri interessi – alcuni dei quali rientranti nella sfera di competenza concorrente o residuale delle Regioni – connessi allo sviluppo economico-produttivo del Paese, è evidente la necessità di basarsi sul criterio di proporzionalità-adeguatezza al fine di valutare, nelle diverse ipotesi, se la tutela della concorrenza legittimi o meno determinati interventi legislativi dello Stato”[9].

Ulteriori conferme e sviluppi di tale orientamento si rinvengono nelle sentt. nn. 134 e 175 del 2005[10]: nella prima, la dimensione macroeconomica dell’intervento previsto dalla norma di legge statale risulta assicurata dallo strumento usato, e cioè dal ricorso ai contratti di programma, ricompresi nella più ampia nozione della “programmazione negoziata”[11]; con la seconda pronuncia, è stato ulteriormente precisato che le supposte ridotte dimensioni finanziarie dell’intervento statale non determinano di per sé l’estraneità alla materia della “tutela della concorrenza”, costituendo semmai un sintomo della manifesta irrazionalità della pretesa dello Stato di porre in essere, attraverso quell’intervento, uno strumento di politica economica idoneo ad incidere sul mercato; le scelte del legislatore sono in questa materia, censurabili solo quando “i loro presupposti siano manifestamente irrazionali e gli strumenti di intervento non siano disposti in una relazione ragionevole e proporzionata rispetto agli obiettivi attesi” (sent. 14 del 2004). Pertanto, “il criterio della proporzionalità e dell’adeguatezza appare essenziale per definire l’ambito di operatività della competenza legislativa statale attinente alla ‘tutela della concorrenza’ e conseguentemente la legittimità dei relativi interventi statali” (sent. n. 272 del 2004)[12].

 

Anche per la materia dell’“ordinamento civile” sono stati evidenziati profili di trasversalità, in quanto la giurisprudenza (sent. 282/2004) sembra ricondurre tale materia sostanzialmente a quella del “diritto privato”, già affermata nella vigenza del vecchio art. 117 Cost.: il limite che ne deriva, per la legislazione regionale, consiste essenzialmente “nel divieto di alterare le regole fondamentali che disciplinano i rapporti privati”.

A titolo esemplificativo, si ricorda che sono state ricondotte all’ordinamento civile la materia del mobbing, valutata nella sua complessità e sotto il profilo della regolazione degli effetti sul rapporto di lavoro[13], nonchè la disciplina delle fondazioni bancarie[14] (attraverso una complessa ricostruzione della legislazione che le ha istituite e successivamente trasformate) e la disciplina degli enti di bonifica privati. Più recentemente, anche la disciplina della conciliazione delle controversie di lavoro e quella dell’emersione progressiva del lavoro irregolare sono state espressamente ricomprese nell’ambito dell’ordinamento civile[15], come pure la disciplina della protezione dei dati personali[16].   

Nello stesso senso, riguardo all’“ordinamento penale”, la Corte ha chiarito  che tale nozione “intesa come l’insieme dei beni e valori ai quali viene accordata la tutela più intensa, non è di regola determinabile a priori; essa nasce nel momento in cui il legislatore nazionale pone norme incriminatrici e ciò può avvenire in qualsiasi settore, a prescindere dal riparto di attribuzioni legislative tra lo Stato e le Regioni. Si tratta per definizione di una competenza dello Stato strumentale, potenzialmente incidente nei più diversi ambiti materiali ed anche in quelli compresi nelle potestà legislative esclusive, concorrenti o residuali delle Regioni, le cui scelte potranno risultarne talvolta rafforzate e munite di una garanzia ulteriore, talaltra semplicemente inibite”[17].

 

In parte diverso appare l’orientamento della giurisprudenza in materia di “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali” (art. 117, secondo comma, lett. m) Cost.), nei confronti della quale la Corte ha manifestato in più occasioni un atteggiamento tutto sommato cauto, rifiutandone con ciò un’interpretazione estensiva[18]. In particolare, è stato ripetutamente affermato che tale titolo di legittimazione legislativa può essere invocato solo in relazione a specifiche prestazioni delle quali la normativa statale definisca il livello essenziale di erogazione, risultando invece improprio il riferimento a tale “materia” per attrarre alla competenza legislativa statale interi settori materiali[19].

Peraltro, in taluni casi sembra aver assunto particolare rilievo, ai fini del giudizio costituzionale, il rapporto tra una specifica disciplina e l’attuazione di principi e diritti fondamentali (quali ad es. il pluralismo informativo): la finalità (più o meno diretta), dell’attuazione di tale principio è stata assunta come elemento idoneo a giustificare – sia pure in collegamento con altri parametri, quale quello della sussidiarietà - l’assunzione in capo allo Stato di funzioni amministrative e della stessa potestà regolamentare (v. sentenza n. 151 del 2005)[20].

Con riguardo ai rapporti tra legislazione statale e legislazione regionale in materia di “tutela dell’ambiente e dell’ecosistema”, la giurisprudenza costituzionale appare piuttosto articolata[21]. Rifacendosi alla propria giurisprudenza precedente, la Corte, a partire dalla sent. 407/2002, definisce l’ambiente come un “valore” costituzionalmente protetto che “delinea una sorta di materia ‘trasversale’, in ordine alla quale si manifestano competenze diverse, che ben possono essere regionali, spettando allo Stato le determinazioni che rispondono alle esigenze meritevoli di disciplina uniforme sull’intero territorio nazionale[22]”. In sostanza la “tutela dell’ambiente” è ricondotta, anche attraverso un espresso richiamo alla sent. 282/2002, a quei titoli competenziali dello Stato, che non si configurano come “materie” in senso stretto “poiché in alcuni casi, si tratta più esattamente di competenze del legislatore statale idonee ad investire una pluralità di materie”.

Se la sentenza in questione ricostruisce comunque una competenza legislativa regionale in un ambito nel quale un’interpretazione testuale sembrava averla esclusa[23], la giurisprudenza più recente mostra una qualche limitazione delle competenze regionali: così, ad esempio, la sent. 307/2003 ha affermato, con ciò correggendo in parte quanto affermato nella sent. 407/2002, che gli standards minimi di protezione fissati dallo Stato in materia di elettrosmog non sono derogabili dalle Regioni in senso più restrittivo, trattandosi dell’esplicitazione di un punto di equilibrio tra diverse istanze tra cui esigenze di rilevante interesse nazionale

Principio di sussidiarietà

Un ulteriore rilevante filone giurisprudenziale attiene all’applicazione del principio di sussidiarietà al riparto delle competenze legislative, oltre che amministrative, tra Stato e regioni, filone che, come si è già accennato, può dirsi chiaramente avviato con la sentenza n. 303 del 2003.

Con tale sentenza è stata innanzitutto esplicitata la necessità di una lettura sistematica del testo costituzionale, tale da saldare il riparto di competenze legislative definito dall’art. 117 Cost. con il principio di sussidiarietà di cui all’art. 118 Cost.  

Sulla base del principio di appena citato la giurisprudenza ha giustificato interventi statali, anche penetranti, in casi in cui non si versava in ambiti di competenza legislativa esclusiva (o in casi in cui quanto meno ricorreva un concorso di competenze di diversa natura), subordinando comunque l’intervento statale all’individuazione di sedi e procedure di cooperazione e concertazione con le Regioni, per l’assunzione di decisioni che investono le loro competenze.

È stato dunque affermato che il riparto di competenze, amministrative ma anche legislative[24], può essere derogato sulla base del principio di sussidiarietà (enunciato dal primo comma dell’art. 118): quando l’istanza di esercizio unitario  trascende l’ambito regionale, anche in materie di competenza regionale “la legge può attribuire allo Stato funzioni amministrative e […], in ossequio ai canoni fondanti dello Stato di diritto, essa è anche abilitata a organizzarle e regolarle, […]. Tale possibilità è temperata dall’affermazione che i principi di sussidiarietà e di adeguatezza convivono con il normale riparto di competenze legislative contenuto nel Titolo V e “possono giustificarne una deroga solo se la valutazione dell’interesse pubblico sottostante all’assunzione di funzioni regionali da parte dello Stato sia proporzionata, non risulti affetta da irragionevolezza alla stregua di uno scrutinio stretto di costituzionalità, e sia oggetto di un accordo stipulato con la Regione interessata” (sentenza n. 303 del 2003)[25].

La Corte precisa che non è comunque sufficiente una semplice evocazione dei principi di sussidiarietà e adeguatezza per “modificare a vantaggio della legge nazionale il riparto costituzionalmente stabilito, perché ciò equivarrebbe a negare la stessa rigidità della Costituzione”.

Inoltre, i principi appena richiamati non possono assumere “la funzione che aveva un tempo l’interesse nazionale, la cui sola allegazione non è ora sufficiente a giustificare l’esercizio da parte dello Stato di una funzione di cui non sia titolare in base all’art. 117 Cost. Nel nuovo Titolo V l’interesse nazionale non costituisce più un limite, né di legittimità, né di merito, alla competenza legislativa regionale, il che “impone di annettere ai principî di sussidiarietà e adeguatezza una valenza squisitamente procedimentale, poiché l’esigenza di esercizio unitario che consente di attrarre, insieme alla funzione amministrativa, anche quella legislativa, può aspirare a superare il vaglio di legittimità costituzionale solo in presenza di una disciplina che prefiguri un iter in cui assumano il dovuto risalto le attività concertative e di coordinamento orizzontale, ovverosia le intese, che devono essere condotte in base al principio di lealtà”[26].

 

In varie occasioni successive la Corte, alla luce di quanto affermato con la sent. n. 303, è giunta ad individuare, con riguardo alla singola disposizione sottoposta a giudizio, la forma di coinvolgimento della Conferenza Stato-Regioni o della singola regione interessata più idonea a garantire il rispetto del quadro costituzionale delle competenze[27].

Una giurisprudenza più recente, che pare in certa misura riconnettersi alla richiamata sentenza n. 303[28], ha ammesso la possibilità – in relazione all’individuazione di “un’esigenza unitaria” - di un’attrazione di competenze allo Stato anche con riguardo alla potestà regolamentare (in presenza di determinati presupposti)[29].

Per questo particolare profilo, sembra emergere una significativa attenuazione dei limiti desumibili dalla formulazione del sesto comma dell’art. 117 vigente, che riserva allo Stato la potestà regolamentare nelle sole materie rimesse alla sua potestà legislativa esclusiva[30].

Analogamente, un ridimensionamento dell’interpretazione puramente testuale dell’art. 117, sesto comma sembra da ricondurre ad alcune sentenze che, considerando le esigenze di unitarietà della gestione di una rete di trasmissione nazionale (finalizzata allo svolgimento di un servizio), tutelate dal legislatore nazionale, hanno affermato che la legge regionale è comunque soggetta al rispetto delle regole tecniche adottate dal gestore nazionale della rete[31].

La “concorrenza di competenze”

Un ulteriore filone giurisprudenziale è rappresentato da quelle sentenze che evidenziano una “concorrenza di competenze” (sentenza n. 50 del 2005)[32] - a seconda dei casi, esclusive, concorrenti, residuali di Stato e regioni -  riscontrabile in varie discipline, le quali non risultano agevolmente riconducibili a titoli competenziali unici: in tali casi le molteplici interferenze non consentono la soluzione delle questioni sulla base di criteri rigidi, e la sussistenza di una competenza legislativa regionale (anche residuale) non può escludere l’esercizio da parte dello Stato della potestà legislativa, per i profili inerenti a materie di sua competenza.

Constatata la “concorrenza di competenze”, la Corte prende atto che la Costituzione non prevede espressamente un criterio di composizione delle interferenze, e risolve la questione ricorrendo al criterio della “prevalenza” quando si rende evidente, all’interno dell’intreccio delle materie, un “nocciolo duro” che appartiene ad una di esse, giungendo in taluni casi ad individuare la “sicura prevalenza di un complesso normativo rispetto ad altri, che renda dominante la relativa competenza legislativa” [33].

Ove non possa ravvisarsi tale sicura prevalenza, si rende necessario il ricorso al “canone della "leale collaborazione", che impone alla legge statale di predisporre adeguati strumenti di coinvolgimento delle Regioni, a salvaguardia delle loro competenze” [34].

Sia in applicazione del principio di leale collaborazione, sia in applicazione del principio di sussidiarietà (v. supra), la presenza di procedure di “coinvolgimento” delle Regioni e/o delle autonomie locali appare essere elemento determinante per il vaglio di costituzionalità, tanto più in quanto vi sia un fumus di deroga al riparto formale di competenze[35]. Peraltro, la Corte si è spinta in più occasioni a valutare la congruità tra strumento di raccordo Stato-regioni individuato dal legislatore e tutela degli interessi coinvolti, censurando la disposizione statale allorché è emersa la “debolezza” dello strumento previsto[36]. In altri casi la Corte ha invece evidenziato l’impossibilità di emendare il vizio di costituzionalità attraverso una pronuncia manipolativa, in quanto “il principio di leale collaborazione può essere diversamente modulato, poiché nella materia in oggetto non si riscontra l’esigenza di specifici strumenti costituzionalmente vincolati di concretizzazione del principio stesso”[37].       

Si fa presente infine che, nell’ambito della giurisprudenza che fa capo alla sent. 303 del 2003, nonché alla sent. 50 del 2005, viene altresì chiarito che non tutte le “materie” non citate nei commi 2 e 3 dell’art. 117 (rispettivamente afferenti la potestà legislativa esclusiva dello Stato e quella concorrente Stato-regioni) sono automaticamente di competenza residuale regionale: “in via generale occorre affermare l’impossibilità di ricondurre un determinato oggetto di disciplina normativa all’ambito di applicazione affidato alla legislazione residuale delle Regioni ai sensi del comma quarto del medesimo art. 117, per il solo fatto che tale oggetto non sia immediatamente riferibile ad una delle materie elencate nei commi secondo e terzo dell’art. 117 della Costituzione” (sent. n. 370 del 2003); alcune materie come i “lavori pubblici” sono configurabili come “ambiti di legislazione che non integrano una vera e propria materia, ma si qualificano a seconda dell’oggetto al quale afferiscono e pertanto possono essere ascritti di volta in volta a potestà legislative esclusive dello Stato ovvero a potestà legislative concorrenti” (sent. n. 303 del 2003).

Autonomia finanziaria delle regioni

Interventi rilevanti della giurisprudenza costituzionale hanno poi riguardato anche l’applicazione del principio di autonomia finanziaria delle regioni di cui all’art. 119 Cost., sotto il duplice profilo dell’autonomia di entrata e di spesa.

In proposito è stata in varie occasioni sottolineata dalla Corte l’inattuazione del disegno di cui all’art. 119, il quale richiede il fondamentale intervento del legislatore statale: peraltro, fino all’attuazione dell’articolo 119 della Costituzione, il legislatore statale, nel disciplinare i tributi regionali e degli enti locali, incontra comunque “il limite discendente dal divieto di procedere in senso inverso a quanto oggi prescritto dall’articolo 119 della Costituzione” e non può, pertanto, “sopprimere semplicemente, senza sostituirli, gli spazi di autonomia già riconosciuti dalle leggi statali in vigore alle Regioni e agli enti locali” o “procedere a configurare un sistema finanziario complessivo che contraddica i principi del medesimo articolo 119” [38].

La Corte desume dal sistema complessivo l’inammissibilità di due tipologie di interventi finanziari statali in materie spettanti alla competenza legislativa, esclusiva o concorrente, delle regioni, che vengono di seguito sinteticamente illustrati.

Per quanto concerne il primo, relativo agli interventi finanziari a destinazione vincolata per Regioni e a enti locali, la Corte costituzionale ha precisato che tali interventi sono da ritenere legittimi solo se incidenti in un ambito materiale rimesso alla competenza legislativa esclusiva dello Stato o nell’ambito della disciplina degli speciali interventi finanziari in favore di determinati comuni, province, città metropolitane e regioni ai sensi dell’articolo 119, quinto comma, della Costituzione.

Con la sentenza n. 423 del 2004, che fa, per così dire, il punto in tema di federalismo fiscale[39], ribadendo che l’articolo 119 della Costituzione pone sin da ora “precisi limiti al legislatore statale nella disciplina delle modalità di finanziamento delle funzioni spettanti al sistema delle autonomie”, è stato tra l’altro specificato che “non sono consentiti finanziamenti a destinazione vincolata, in materie e funzioni la cui disciplina spetti alla legge regionale, siano esse rientranti nella competenza esclusiva delle Regioni ovvero in quella concorrente, pur nel rispetto, per quest’ultima, dei principi fondamentali fissati con legge statale”; in proposito la Corte ha infatti rilevato, a partire dalla sentenza n. 16 del 2004, che “d’altronde….ove non fossero osservati tali limiti e criteri, il ricorso a finanziamenti ad hoc rischierebbe di divenire uno strumento indiretto, ma pervasivo, di ingerenza dello Stato nell’esercizio delle funzioni delle Regioni e degli enti locali, nonché di sovrapposizione di politiche e di indirizzi governati centralmente a quelli legittimamente decisi dalle Regioni negli ambiti materiali di propria competenza”.

In applicazione dei principi indicati, la Corte costituzionale, con svariate sentenze, ha dichiarato la illegittimità costituzionale delle norme con le quali, successivamente all’entrata in vigore della legge costituzionale n. 3 del 2001, sono stati istituiti nuovi Fondi vincolati[40].

Con la più recente sentenza n. 222 del 2005 la Corte costituzionale[41], nel ribadire che non sono consentiti “finanziamenti di scopo per finalità non riconducibili a funzioni di spettanza statale”, enuclea le eccezioni a tale divieto, possibili solo nell’ambito e negli stretti limiti di quanto previsto dagli artt. 118, primo comma [attrazione di competenze per via del principio di sussidiarietà], 119, quinto comma [interventi “speciali” v. supra], 117 secondo comma, lettera e) Cost. [“tutela della concorrenza”, intesa “in senso dinamico”[42]][43].

Circa, poi, le misure finanziare destinate a soggetti privati, la Corte costituzionale[44] ha chiarito che esse, qualora vertenti su materie di competenza legislativa concorrente o residuale delle Regioni, sono da ritenersi costituzionalmente illegittime, in quanto comporterebbero il riconoscimento in capo allo Stato di potestà sganciate dal sistema costituzionale di riparto delle competenze.

Una giurisprudenza più recente (nella quale particolare rilievo assume la sentenza n. 417 del 2005[45]), è intervenuta sulla questione, distinta ma correlata, della ammissibilità di vincoli puntuali relativi a singole voci di spesa dei bilanci delle regioni e degli enti locali[46].

Secondo tale giurisprudenza il legislatore statale può legittimamente imporre agli enti autonomi vincoli alle politiche di bilancio, ancorché si traducano, inevitabilmente, in limitazioni indirette all’autonomia di spesa dei suddetti enti, solo con “disciplina di principio” e “per ragioni di coordinamento finanziario connesse ad obiettivi nazionali, condizionati anche dagli obblighi comunitari”.

Sempre secondo la Corte “la previsione da parte della legge statale di limiti all’entità di una singola voce di spesa non può essere considerata un principio fondamentale in materia di armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica, perché pone un precetto specifico e puntuale sull’entità della spesa e si risolve perciò ‘in una indebita invasione, da parte della legge statale, dell’area [...] riservata alle autonomie regionali e degli enti locali, alle quali la legge statale può prescrivere criteri [...] ed obiettivi (ad esempio, contenimento della spesa pubblica) ma non imporre nel dettaglio gli strumenti concreti da utilizzare per raggiungere quegli obiettivi”.

Potestà legislativa concorrente e princìpi fondamentali

Da ultimo, per quanto riguarda la potestà legislativa concorrente, si fa presente che, a parte la giurisprudenza che precisa i reciproci confini dell’intervento legislativo dello Stato e della regione in specifiche materie, alcune pronunce offrono spunti di rilievo generale.

In primo luogo, la Corte costituzionale sembra limitare la possibilità per lo Stato di adottare nelle materie concorrenti anche la disciplina di dettaglio derogabile da parte del legislatore regionale. Una prassi che, già di dubbia legittimità alla luce del dettato originario dell’art. 117, aveva suscitato dubbi ancora maggiori in gran parte della dottrina alla luce del nuovo testo, che sembra marcare in modo assai più netto che in passato i ruoli dei due legislatori e riservare a quello nazionale la sola determinazione dei princìpi. A tale proposito, la sent. 303/2003 riconosce peraltro l’ammissibilità di una legislazione di dettaglio nazionale, ma solo in quanto strettamente ancorata al principio di sussidiarietà (e dunque in nome della tutela di precise esigenze unitarie[47]).

Nel caso in cui la legislazione statale di riferimento sia anteriore alla riforma costituzionale del 2001, e comprenda disposizioni di dettaglio, queste ultime sono state spesso ritenute ammissibili, in quanto considerate suppletive e  “cedevoli” rispetto alla legislazione regionale successiva; peraltro, maggiori perplessità può suscitare l’applicazione del criterio della “cedevolezza” alla legislazione nazionale di dettaglio (facendola “salva”) adottata successivamente alla medesima riforma costituzionale[48].  

La Corte ha poi confermato la propria giurisprudenza precedente alla riforma del Titolo V ribadendo che, in assenza di leggi cornice, i princìpi fondamentali sono desumibili dal complesso della legislazione statale vigente in materia[49]. In questi casi, i princìpi non debbono corrispondere senz’altro alla lettera delle disposizioni legislative statali, dovendo viceversa esserne dedotta la loro consistenza sostanziale[50].

Con la sent. 280/2004[51], la Corte ha tra l’altro chiarito che nelle materie di legislazione concorrente è generalmente possibile che la determinazione dei princìpi fondamentali sia rimessa ad un decreto legislativo, senza con ciò che siano lese le attribuzioni regionali[52]; sempre in materia di fonti idonee a individuare i princìpi fondamentali, la sent. 6/2004 ha ricompreso tra queste anche i decreti-legge[53].

Con riguardo agli elementi caratterizzanti dei principi fondamentali, un’indicazione di carattere generale è poi rintracciabile in particolare nella sentenza n. 50 del 2005, dove si afferma che la nozione di “principio fondamentale” non può avere carattere di rigidità e di universalità, poiché le “materie” hanno diversi livelli di definizione che possono mutare nel tempo. Spetta quindi al legislatore operare le scelte che ritiene opportune, regolando ciascuna materia sulla base di criteri normativi essenziali che l’interprete deve valutare nella loro obiettività, senza essere condizionato in modo decisivo da eventuali autoqualificazioni[54].



[1]     Il contenzioso costituzionale tra Stato e Regioni è progressivamente cresciuto fino a toccare livelli preoccupanti, come emerge anche  dalle relazioni annuali del Presidente della Corte costituzionale; in particolare, nella relazione su “La giustizia costituzionale nel 2004”, si precisa altresì che “la crescita di questo tipo di contenzioso ha enfatizzato il ruolo arbitrale che la Corte costituzionale è chiamata a svolgere tra gli enti territoriali, alla stessa stregua dei suoi omologhi di altri Stati a struttura composta”.

[2]     Si ricorda, tra gli altri, la “giurisprudenza parlamentare” che, già in numerosi casi precedenti alla sentenza n. 303 del 2003 (su cui v. infra), ha affermato la necessità di prevedere strumenti di concerto o di intesa tra Stato e Regioni da raggiungersi in seno alla Conferenza Stato-Regioni, secondo una logica che si riconnette a quella, ben esplicitata nella successiva sentenza n. 6 del 2004, in ordine alla necessità “di una disciplina che prefiguri un iter in cui assumano il dovuto risalto le attività concertative e di coordinamento orizzontale, ovverosia le intese, che debbono essere condotte in base al principio di lealtà”.

[3]     la prima pronuncia organica successiva alla riforma è la sentenza n. 282 del 2002.

[4]     Cfr. in particolare P.Caretti, Titolo V: pareri parlamentari e giurisprudenza costituzionale (a cura dell’Osservatorio sulle fonti dell’Università degli studi di Firenze), 12 aprile 2005, 48.

[5]     In dottrina è stato rilevato che tale tendenza risulterebbe assai più evidente nella “giurisprudenza parlamentare”  (Cfr. in particolare P.Caretti, cit.)

[6]     Come si legge già nella sent. 282/2002, “le norme che contemplano non prefigurano rigidamente i termini del rapporto tra legislazione centrale e quella regionale, ma ne affidano il governo alla prima”.

[7]     Si veda ad esempio, le precisazioni contenute già nella sent. 282/2002 a proposito dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che debbono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. Ancora, la sent. 162/2004, richiamando pronunce precedenti (sent. 407/2002; 6/2004), ha chiarito che la competenza legislativa statale in materia di “ordine pubblico e sicurezza” si riferisce alle sole misure inerenti alla prevenzione dei reati o al mantenimento dell’ordine pubblico. Peraltro, nella sentenza 428/2004 la Corte ha riconosciuto la rilevanza della materia anche con riguardo alla disciplina della circolazione stradale, per quanto attinente all’incolumità delle persone.

[8]     In proposito si segnala in particolare la sent. 272/2004, nella quale la disciplina dei servizi pubblici locali viene ricondotta alla materia della “tutela della concorrenza” (con l’esclusione espressa dei servizi pubblici locali “privi di rilevanza economica”, di cui all’art. 113-bis del D.Lgs. 267/2000). Si vedano anche le sentt. 307, 312/2003; 6/2004, nonché la sent. 77/2005 (ove, in applicazione dell’accezione “dinamica” della materia “tutela della concorrenza”,  si esclude sostanzialmente la riconducibilità ad essa di incentivi per le imprese marittime, individuate come misure di carattere straordinario e transitorio, e pertanto prive di portata macroeconomica) .

[9]     In questo senso, la Corte ha dichiarato incostituzionale l’art. 113, comma 7, del D.Lgs. 267/2000, avendo ritenuto la disposizione (criteri di aggiudicazione della gara) eccessivamente dettagliata e tale da comportare una ingiustificata e sproporzionata compressione dell’autonomia regionale.

[10] A parte la sent. 345/2004, con la quale la Corte ha ricondotto alla sfera della concorrenza anche la disciplina dell’acquisto di beni e servizi secondo procedure di evidenza pubblica, che limitano quindi il ricorso alla trattativa privata.

[11]    Quest’ultima figura a sua volta tra gli strumenti di politica economica previsti dal DPEF 2004-2007. Oggetto del giudizio, nel caso di specie, erano disposizioni contenute nella legge finanziaria per il 2004 relative al finanziamento di contratti di programma nei settori dell’agricoltura e della pesca. 

[12]    Nel caso di specie, la norma censurata è stata ritenuta dalla Corte come «ragionevole e proporzionato» intervento statale nell’economia volto a promuovere lo sviluppo del mercato attraverso una campagna che diffonda, con il marchio made in Italy, un’immagine dei prodotti italiani associata all’idea di una loro particolare qualità (evidenziando che lo strumento impiegato, per sua natura, suppone che sia predisposto e disciplinato dallo Stato perché solo lo Stato può porre in essere strumenti di politica economica tendenti a svolgere sull’intero mercato nazionale un’azione di promozione e sviluppo).

[13]    Cfr. la sent. 359/2003

[14]    V. sentt. 300 e 301/2003

[15]    V. rispettivamente le sentt. 50, nonché 201 e 234 del 2005. In particolare, quest’ultima esprime una valutazione di “prevalenza” della materia “ordinamento civile”, con riferimento alle norme sottoposte a giudizio (v. infra, il paragrafo relativo alla concorrenza di competenze) e sottolinea la finalità più ampia del rilancio dell’economia che il legislatore intende favorire tramite l’emersione dell’economia sommersa , prevedendo una disciplina transitoria che lasci inalterata la funzionalità economica delle imprese emergenti.

[16] V. la sent. 271/2005, che riconosce comunque un ruolo normativo, sia pure meramente integrativo (e nella misura in cui sia previsto dalla legislazione statale) per i soggetti pubblici chiamati a trattare i dati personali.

[17]    V. sent. 185/2004.

[18]    Negano, nelle diverse fattispecie sottoposte all’esame della Corte, la sussistenza di tale competenza statale le sentt. 312 e 370/2003; 6/2004; 285 e 383/2005. La riconducibilità della disciplina oggetto del giudizio alla lett. m) del secondo comma dell’art. 117 è invece affermata, tra le più recenti,  dalla sent. 467/2005. 

[19]    In questo senso v., tra le altre, le sentt. 285 e 383 del 2005.

[20]    La motivazione della sent. 151 del 2005 richiama infatti (oltre al principio del pluralismo informativo) l’attinenza della disciplina ad una pluralità di materie, “senza che alcuna di esse possa dirsi prevalente”; il principio di sussidiarietà e l”evidente esigenza di esercizio unitario della funzione”, nonché il carattere dell’intervento normativo “ragionevole e proporzionato” (v. infra ulteriori elementi, in rapporto alla rilevanza assunta dal principio di sussidiarietà ed alla sent. 303/2003). Si ricorda inoltre che tale sentenza si riconnette ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo il quale l’informazione esprime non tanto una materia, quanto una “condizione preliminare” per l’attuazione dei principi propri dello Stato democratico (per un’applicazione al sistema dei rapporti Stato-regioni, v. la precedente sent. 312 del 2003, che richiama la 29 del 1996).

[21]    I pareri parlamentari sul punto sembrano più immediatamente privilegiare la potestà legislativa dello Stato, interpretata come tendenzialmente esclusiva.

[22]    Ciò, in sostanziale continuità con la disciplina dei rapporti tra legislazione statale e legislazione regionale ereditata dal vecchio Titolo V . Si veda, nello stesso senso, la sent. 259/2004.

[23]    In particolare, non si esclude che le regioni possano adottare – nell’ambito delle proprie competenze - interventi diretti a soddisfare ulteriori esigenze rispetto a quelle di carattere unitario considerate dallo Stato, nonché diretti ad assicurare un più elevato livello di garanzie per la popolazione ed il territorio interessati. Svolgimenti ulteriori in questo senso possono essere rinvenuti nelle sentt. 259 e 429/2005.

[24]    La sentenza 303 del 2003 – come rivela anche il passo riportato infra nel testo – esplicita infatti che l’attrazione allo Stato di competenze amministrative “non può restare senza conseguenze sull’esercizio della funzione legislativa, giacché il principio di legalità, il quale impone che anche le funzioni assunte per sussidiarietà siano organizzate e regolate dalla legge, conduce logicamente ad escludere che le singole Regioni, con discipline differenziate, possano organizzare e regolare funzioni amministrative attratte a livello nazionale e ad affermare che solo la legge statale possa attendere a un compito siffatto”.   

[25]    Tra le molteplici sentenze successive, che hanno anche sviluppato alcuni aspetti della sent. n. 303, si possono ricordare le sentt. 6, 12, 423 e 233 del 2004, nonché 50 e 151 del 2005 (queste ultime, come si vedrà oltre, rilevano anche per altri profili).

[26]    V. sempre sent. 303 (nonché la sent. 370 del 2003)

[27]    V. in particolare la sent. 423 del 2004, nonché la 285 del 2005.

[28]    V. sent. 151 del 2005. Da un lato la sent. 151 del 2005 sembra infatti inserirsi nel solco tracciato dalla sent. 303 in quanto sviluppa le potenzialità dell’applicazione del principio di sussidiarietà al riparto di competenze normative; dall’altro, si deve ricordare che l’attrazione in sussidiarietà a livello statale della funzione amministrativa (e della conseguente funzione legislativa) operato dalla sent. 303 non prescinde dalla riconducibilità ad uno specifico titolo d’intervento ex art. 117, commi 2° e 3° Cost., mentre nella sent. 151 appare slegata dalla individuazione di tale specifico titolo di intervento. La sent. 151 spinge poi l’argomentazione, come s’è detto, fino all’attrazione allo Stato della stessa potestà regolamentare, mentre la sent. 303 esplicitamente escludeva la possibilità per lo Stato di disciplinare con regolamento materie di competenza regionale. Per l’attrazione a livello statale di funzioni amministrative esclusivamente in base all’art. 118, primo comma, v. anche le sentt. 242 del 2005 e 285 del 2005.

[29]    Nel caso della citata sent. 151 del 2005, la Corte ha giustificato  “l’assunzione diretta di una funzione amministrativa da parte dello Stato, nella forma dell’erogazione di un contributo economico in favore degli utenti [finalizzato alla diffusione dei decoder], previa adozione di un regolamento che stabilisca criteri e modalità di attribuzione di tale contributo”, anche in considerazione dell’eccezionalità della situazione caratterizzata dal passaggio alla tecnica digitale terrestre, nonché di “una evidente esigenza di esercizio unitario della funzione stessa (alla stregua del principio di sussidiarietà sancito dall’art. 118, primo comma, della Costituzione), “non potendo un siffatto intervento a sostegno del pluralismo informativo non essere uniforme sull’intero territorio nazionale”. L’intervento è stato poi valutato “ragionevole e proporzionato”, in relazione al fine perseguito.    

[30]    Resta comunque il fatto che numerose pronunce hanno censurato l’esercizio della potestà regolamentare dello Stato in violazione dell’art. 117, sesto comma Cost. (tra le altre, v. le sentt. 12 /2004 e 145/2005).

[31]    V. in part. la sent. 7/2004, relativa alla rete di distribuzione nazionale dell’energia elettrica (per tale sentenza, nonché per approfondimenti sulla rilevante giurisprudenza in materia di energia, v. il capitolo Energia: giurisprudenza costituzionale. Peraltro, nell’ambito di tale ultima giurisprudenza, sembra assumere particolare rilievo la natura tecnica della regolamentazione in questione, il che potrebbe far emergere  l’eccezionalità della deroga rispetto alla regola che nega flessibilità al riparto della potestà regolamentare.

[32]    Di particolare rilievo anche la sent. 219 del 2005 (la sent. 50 è intervenuta in materia di apprendistato, la 219 in materia di lavori socialmente utili). Il criterio della “prevalenza” compare peraltro già nella sent. 370 del 2003.

[33]    Nella sent. n. 50 del 2005 la Corte ha ritenuto prevalenti, in tema di disciplina delle prestazioni di lavoro accessorio, i profili privatistici e previdenziali (di competenza statale), rispetto a quelli della tutela e sicurezza del lavoro (di competenza concorrente). Nella sent. 135 del 2005 ha assunto rilievo prevalente la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema nello specifico settore dei rischi industriali. In altri casi la Corte ha individuato una concorrenza di competenze, senza pervenire ad una valutazione di prevalenza (sentt. 175 e 151 del 2005).

[34]    V. la sent. 219 del 2005, che richiama la sent. 50. Nel caso di specie, ricorrendo la seconda ipotesi, è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale “nella parte in cui [le disposizioni] non prevedono alcuno strumento idoneo a garantire una leale collaborazione fra Stato e Regioni”. 

[35]    Anche a questo proposito, particolare rilievo assume la già richiamata sent,. 303 del 2003.

[36]    Frequenti sono stati i casi di sentenze che hanno dichiarato l’illegittimità costituzionale di disposizioni statali che prevedevano il parere della Conferenza Stato-regioni, anziché l’intesa (v. ad es. sentt. 222 del 2005, 285 del 2005), ovvero in cui la Corte ha richiesto il coinvolgimento della regione direttamente interessata nella forma dell’intesa ”forte”, il cui mancato raggiungimento costituisce ostacolo insuperabile alla conclusione del procedimento (v. ad es. sent. 6 del 2004).  

[37]    In questo senso v. la sent. 231 del 2005 (che peraltro conclude con un dispositivo caducatorio tout court della norma di legge statale impugnata, “in quanto non prevede alcuno strumento volto a garantire la leale collaborazione tra Stato e Regioni”).

[38]    V. in particolare la sent. n. 37 del 2004, cui si ricollegano varie altre pronunce (tra cui particolare rilievo assumono le sentt. 16 del 2004 e 423 del 2004, citate infra nel testo). La sentenza 37 ha precisato tra l’altro che “l’intervento del legislatore statale […] al fine di coordinare l’insieme della finanza pubblica, dovrà non solo fissare i princìpi cui i legislatori regionali dovranno attenersi, ma anche determinare le grandi linee dell’intero sistema tributario, e definire gli spazi e i limiti entro i quali potrà esplicarsi la potestà impositiva, rispettivamente di Stato, Regioni ed enti locali”.

[39]    Con tale sentenza, che ribadisce i principali passaggi della precedente giurisprudenza in materia, è stata esaminata in particolare la disciplina relativa al Fondo nazionale per le politiche sociali.

[40]    In particolare si ricordano: il Fondo nazionale per il sostegno alla progettazione delle opere pubbliche delle Regioni e degli enti locali, nonché il Fondo nazionale per la realizzazione di infrastrutture di interesse locale (sentenza n. 49 del 2004); il Fondo per la riqualificazione urbana dei comuni (sentenza n. 16 del 2004); il Fondo per gli asili nido (sentenza n. 370 del 2003). In taluni casi  la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del Fondo per violazione del riparto delle competenze legislative, ex art. 117 della Costituzione (Fondo di rotazione per il finanziamento dei datori di lavoro che realizzano servizi di asilo nido o micro-nidi - sentenza n. 320 del 2004, Fondo finalizzato alla costituzione di garanzie sul rimborso di prestiti fiduciari in favore degli studenti capaci e meritevoli - sentenza n. 308 del 2004).

[41]    Nel caso di specie la Corte ha fatto salva una disposizione recante l’istituzione di un fondo per il conseguimento dei risultati di maggiore efficienza e produttività nel settore del trasporto pubblico locale, richiedendo peraltro, ai fini del riparto del fondo, la necessità della previa intesa con la Conferenza unificata Stato-regioni. L’intervento finanziario dello Stato è stato peraltro “salvato”  anche in ragione “della perdurante situazione di mancata attuazione delle prescrizioni costituzionali in tema di garanzia dell’autonomia finanziaria di entrata e di spesa delle Regioni e degli enti locali, e del vigente finanziamento statale nel settore del trasporto pubblico locale” (la cui disciplina di riferimento è stata individuata nel D.Lgs. n. 422 del 1997, anteriore alla riforma cost. del 2001), nonché dell’esigenza di salvaguardare comunque le attribuzioni costituzionalmente riconosciute alle regioni.

[42]    V. supra quanto esplicitato in particolare sulla trasversalità della materia “tutela della concorrenza”

[43]    Per ulteriori elementi v. scheda Trasporto pubblico locale – Il nuovo titolo V.

[44]    V. in part.  sentenza n. 320/2004.

[45]    Qualche anticipazione può leggersi nella sent. 36/2004.

[46]    Con la citata sentenza la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di alcune disposizioni del decreto-legge n. 168 del 2004, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 191 del 2004 nella parte in cui prevedono appunto tali vincoli.

[47]    Si veda però quanto affermato nella sent. 196/2004.

[48]    V. sul punto la disciplina prevista dalla legge n. 131 del 2003 (c.d. legge “La Loggia” – v. in part. art. 1), per la quale si rinvia alla scheda Titolo V e norme di attuazione. 

[49]    Cfr. sent. 282/2002. Nello stesso senso, con riferimento alla materia elettorale si veda, in particolare, la sent. 196/2003.

[50]    Cfr. sent. 162/2004.

[51]    Con tale sentenza sono state dichiarate costituzionalmente illegittime alcune disposizioni della delega contenuta nell’art. 1 della legge 131/2003 (in materia di ricognizione dei princìpi fondamentali in tutte le materie di legislazione concorrente). In tale occasione la Corte ha sottolineato il carattere meramente ricognitivo della delega. Anche per tale aspetto si rinvia alla scheda Titolo V e norme di attuazione.

[52]    D’altra parte, la legge di delega può essere impugnata se i principi ed i criteri direttivi fissati sono invasivi della sfera di competenza regionale (come si evince sempre dalla sentenza 280 del 2004, nonché da altre sentenze precedenti, tra cui la 125 del 2003)

[53]    Si ricorda che, ad avviso della dottrina maggioritaria, il presupposto costituzionale della necessità ed urgenza dovrebbe limitare i contenuti degli stessi alle sole misure di immediata applicazione (si veda nello stesso senso anche la sent. 196/2004).

[54]    Ne consegue che il rapporto tra la nozione di principi e criteri direttivi, che concerne il procedimento legislativo di delega, e quella di principi fondamentali della materia, che costituisce il limite oggettivo della potestà statuale nelle materie di competenza concorrente, non può essere stabilito una volta per tutte.