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Informativa urgente del Governo sulla vicenda del rapimento, avvenuto nelle Filippine, del sacerdote Don Giancarlo Bossi (ore 17).
(Intervento del Viceministro degli affari esteri)
PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il Viceministro degli affari esteri, Franco Danieli.
Prego i colleghi di prestare attenzione, questa informativa è stata richiesta dai gruppi ed è bene che vi sia la possibilità di ascoltare ciò che ha da dire il rappresentante del Governo.
FRANCO DANIELI, Viceministro degli affari esteri. Signor Presidente, voglio approfittare di questa occasione, prima di trattare l'informativa richiesta da questo ramo del Parlamento, per comunicare ai colleghi che hanno manifestato preoccupazione, il trasferimento dei quattro dei cinque cooperanti italiani bloccati nella «striscia» di Gaza, che è avvenuto oggi, con il passaggio dei nostri connazionali presso il valico di Herez. Sono in buone condizioni di salute e, naturalmente, stiamo lavorando anche per l'evacuazione del quinto cooperante italiano.
Passo ora all'informativa sul rapimento del nostro connazionale, il sacerdote Giancarlo Bossi. Padre Giancarlo Bossi, del Pontificio istituto missioni estere (PIME) è stato rapito a Zamboanga City domenica 10 giugno, mentre si recava a celebrare messa in un vicino villaggio. È il terzo missionario italiano rapito negli ultimi dieci anni a Mindanao, dopo padre Benedetti, rapito per tre mesi nel 1998 e padre Pierantoni, rapito per sei mesi nel 2001. Il sacerdote è stato rapito in una zona ad elevato rischio di rapimenti e da anni fortemente sconsigliata dalla Farnesina, anche sulla base di una missione in loco dell'unità di crisi del Ministero degli affari esteri per la predisposizione e verifica dei piani di emergenza. Tuttavia, i missionariPag. 60del PIME hanno sempre fatto prevalere lo spirito di servizio e non hanno mai abbandonato l'area.
Lo stesso giorno del rapimento, il 10 giugno, la Farnesina ha preso immediatamente contatto con le autorità dello Stato della Città del Vaticano e direttamente anche con il PIME, per assicurare piena collaborazione ed assistenza per la soluzione della vicenda, e ciò attraverso sia l'unità di crisi a Roma, sia la nostra ambasciata a Manila, che è in contatto regolare con il nunzio apostolico in loco. Anch'io ho avuto personalmente un colloquio con monsignor Fernando Filoni, nunzio apostolico a Manila, e con lui ho affrontato questa situazione. D'intesa con il PIME è stato preso contatto con le autorità filippine, sollecitando tutte le possibili iniziative per la soluzione pacifica del caso e - lo voglio sottolineare, anche in relazione a qualche articolo di stampa apparso in questi giorni - evitando azioni che possano compromettere l'incolumità dell'ostaggio. Questa è la priorità in tutte le iniziative di sequestri di persona variamente motivati che hanno sempre ispirato la linea di condotta del Ministero degli affari esteri: prioritariamente tutelare l'incolumità degli ostaggi.
Il Governo filippino, al massimo livello, ha confermato l'impegno e ha informato la nostra ambasciata sugli sviluppi del caso e sulle iniziative che vengono promosse, a livello sia centrale sia di autorità locali, per identificare i responsabili ed eventualmente conoscere le rivendicazioni per la liberazione di padre Bossi.
Nonostante quanto riferito da alcuni organi di stampa, al momento non si conosce la matrice del sequestro, né sono pervenute rivendicazioni o richieste di riscatto alle autorità filippine, al PIME o all'Italia. Sono comunque attentamente vagliate e verificate tutte le informazioni che provengono da diverse fonti. L'unità di crisi della Farnesina mantiene contatti costanti con il PIME ed i familiari del sacerdote sequestrato. Il nostro ambasciatore a Manila si recherà a Mindanao per verificare direttamente la situazione con le autorità in loco.
Su un piano generale si ricorda che Mindanao è teatro da circa 500 anni di un conflitto tra la componente musulmana, presente sull'isola ben prima della colonizzazione spagnola, e la maggioranza cristiana che fa riferimento al Governo di Manila. I musulmani sono attualmente una minoranza nella popolazione di Mindanao e sono concentrati soprattutto in una regione autonoma, che riunisce quattro province.
Nonostante gli accordi di pace con il Governo, la situazione non ha ancora trovato nei fatti una composizione definitiva.
L'opposizione musulmana è in prevalenza rappresentata dal Moro national liberation front (MNLF), fondato nei primi anni Settanta con l'obiettivo di realizzare una patria musulmana a Mindanao.
Alla fine degli anni Settanta, per problemi di leadership, si è separato dal MNLF il Moro islamic liberation front (MILF), che (con circa 12.000 militanti) riunisce l'élite intellettuale e la nobiltà tradizionale musulmana delle isole (i cosiddetti Datu), meno conciliante verso ipotesi di pace con il Governo e più attento alle tematiche religiose.
L'estremismo islamico ha trovato una sua espressione locale nel movimento Abu Sayyaf (testualmente «colui che porta la spada»), che si ritiene collegato ad Al Qaida e al movimento fondamentalista islamico indonesiano Jemaa islamiyya.
I moros filippini (così sono denominati i musulmani di Mindanao dai tempi della dominazione spagnola) sono tradizionalmente temibili guerrieri. Alcuni di loro hanno militato in Al Qaida fin dai tempi della guerra in Afghanistan degli anni Ottanta e hanno approfondito i legami con i vertici del jihadismo internazionale con periodi di comune formazione militare e religiosa in varie parti del mondo. Tali legami sono ancora oggi molto solidi.
I gruppi sopra citati non sono tuttavia nettamente distinti. Numerosi sono i legami trasversali, familiari e di interesse che rendono la composizione dei vari movimenti molto fluida e porosa. Le leadershipPag. 61provengono tutte dallo stesso ceppo originario e hanno familiarità l'una con l'altra.
Sono anche presenti frange semidissidenti, che si richiamano ai valori del MNLF e del MILF, ma che agiscono in realtà a scopo di lucro come vere e proprie bande criminali, spesso sconfessate dalla leadership dei maggiori movimenti (centinaia sono ogni anno i rapimenti di ricchi uomini d'affari cinesi presenti a Mindanao).
La situazione sul terreno è quindi, come si può facilmente desumere dal quadro che ho tratteggiato, complessa. Al momento non si può escludere nessuna pista, né la matrice criminale estorsiva, né quella fondamentalista «qaedista» ( il gruppo Abu Sayyaf è particolarmente efferato) né la possibilità di un passaggio di mano dell'ostaggio tra i gruppi attivi nell'isola.
Sono oggetto di esame anche le affermazioni di fonti militari filippine - riprese anche da qualche organo di informazione italiano - in base alle quali padre Bossi sarebbe nelle mani di quindici uomini e alcuni dei sequestratori avrebbero dei parenti che combattono nel Moro islamic liberation front.
Il Governo non mancherà di tenere costantemente informato il Parlamento sugli sviluppi della vicenda.