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Svolgimento di interpellanze urgenti.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca lo svolgimento di interpellanze urgenti.
(Iniziative per l'abrogazione dell'esproprio del teatro Petruzzelli di Bari - n. 2-00591)
PRESIDENTE. L'onorevole Di Cagno Abbrescia ha facoltà di illustrare la sua interpellanza n. 2-00591 (Vedi l'allegato A - Interpellanze urgenti sezione 1).
SIMEONE DI CAGNO ABBRESCIA. Signor Presidente, vorrei preventivamente fare una precisazione. L'interpellanza da me presentata insieme ad altri colleghi parlamentari non vuole in alcun modo essere un ostacolo alla ricostruzione del teatro Petruzzelli, come è stato oggi scritto sulla stampa locale da alcuni parlamentari della maggioranza, che vi hanno visto un possibile ostacolo. Anzi, con questa interpellanza intendo agevolare la ricostruzione ed evitare che ci possano essere delle conseguenze a seguito dell'esproprio per quello che dirò nel corso del mio intervento.
Infatti, in data 21 novembre 2002, fu sottoscritto a Roma, presso il Ministero per i beni e le attività culturali, un solenne e formale protocollo di intesa tra enti pubblici territoriali (la regione Puglia, la provincia e il comune di Bari) e la famiglia proprietaria del teatro Petruzzelli, distrutto da un incendio doloso il 27 ottobre 1991.
In forza di detto protocollo, gli enti pubblici territoriali suddetti si obbligavano, tramite apposita fondazione, a ricostruire e consegnare entro quattro anni il teatro funzionante, per poi acquisirlo in uso quarantennale verso la corresponsione alla famiglia proprietaria di un canone di 500 milioni di lire, oltre agli aggiornamenti.Pag. 66
La famiglia proprietaria, poco tempo dopo, in esecuzione del protocollo di intesa, consegnò quanto stabilito alla sovrintendenza e gli organi competenti degli enti territoriali - regione Puglia, provincia e comune, come è stato detto - emisero le ratifiche e le approvazioni previste, sempre in conformità agli accordi.
Tutto, in altri termini, filava liscio in base agli accordi sanciti nel protocollo di intesa già menzionato, che aveva consentito il pacifico avvio del primo appalto dei lavori parziari, destinato alla bonifica e al consolidamento del sottosuolo, nonché al restauro del foyer e alla predisposizione dell'impiantistica. Nel frattempo, la fondazione deputata a gestire la ricostruzione e la successiva gestione del teatro veniva istituita con la legge n. 310 del 2003 ed entrava a far parte, quale quattordicesima unità, del ristretto novero delle fondazioni lirico-sinfoniche nazionali, già enti lirici. Ricostruito il foyer, gli enti pubblici territoriali, e segnatamente il comune di Bari, omettevano di attivarsi e di attivare la fondazione per la rapida prosecuzione e il rapido completamento dei lavori, con la motivazione che occorreva sottoporre a verifica il progetto redatto dalla sovrintendenza, pur contrattualmente approvato, e che per il completamento occorrevano più fondi di quelli previsti.
Passavano quasi due anni di totale fermo dei lavori e in alcuni casi gli enti pubblici si astenevano perfino dal riversare alla fondazione i contributi cui erano obbligati e che avevano già deliberato. Il tutto perché una sorta di pleonastica commissione ispettiva stabilisse, come difatti stabiliva, che il progetto andava bene, salvo piccoli ritocchi, del resto possibilissimi anche in corso d'opera, senza necessità di fermare i lavori.
In data 7 agosto 2006 la sovrintendenza pubblicava l'ulteriore bando di gara per il secondo appalto dei lavori. Quindi, oltre un mese prima della pubblicazione del decreto-legge era stato pubblicato dalla sovrintendenza detto bando di appalto dei lavori.
Il bando prevedeva quindi la ripresa, che era stata riattivata senza alcun bisogno di esproprio, con il protocollo di intesa del 2002, proprio in forza delle rispettive obbligazioni assunte dagli enti locali: la possibilità dell'esproprio era stata definitivamente accantonata transattivamente tra le parti pubbliche e private. Cosicché il disegno di legge di conversione del decreto-legge sembrava espropriare non per interessi generali, ma per mascherare le inadempienze dei pubblici poteri, in quanto detto bando di gara successivamente viene annullato con ordinanza, presupposto della quale è una nota del comune di Bari che definisce l'immobile fra altro non sicuro ai fini della pubblica incolumità: cosa abbastanza strana perché nel foyer, già inaugurato, si svolgevano delle mostre, non ultima quella di opere fotografiche dell'allora prefetto di Bari, e in concomitanza degli eventi del teatro nel cantiere si svolgevano veri e propri concerti.
Un mese e mezzo prima dello scoccare della scadenza quadriennale di ultimazione dei lavori, sanzionata con apposita indennità, il Governo emanava, mentre la ricostruzione del teatro era ben lontana dall'essere completata, un decreto-legge di urgenza, ex articolo 77 della Costituzione, con cui disponeva il trasferimento coattivo del Teatro Petruzzelli al comune di Bari, senza che il comune ne sapesse assolutamente nulla, verso un indennizzo da versarsi con una determinazione del prefetto di Bari, da parte del comune stesso, in favore dei proprietari espropriati. L'esproprio era motivato dall'enunciazione della celere ripresa delle attività culturali del Petruzzelli, glissando sulla circostanza che detta ripresa era stata impedita proprio dall'inadempimento degli enti pubblici territoriali e dalla fondazione rispetto al proprio programma di ricostruzione.
Il decreto-legge di esproprio n. 262 del 2006 veniva convertito nella legge 24 novembre 2006, n. 286. La parte maggioritaria della famiglia proprietaria presentava un ricorso per decreto ingiuntivo, in cui chiedeva emettersi ingiunzione del pagamento relativo all'indennità dovuta nell'ipotesi prevista dal protocollo di intesa, e in via subordinata richiedeva al giudicePag. 67monitorio di rimettere gli atti alla Corte costituzionale per il relativo sindacato sulla legge di esproprio, ove l'applicazione di detta legge, ritenuta incostituzionale, ostacolasse la concessione dell'invocato decreto ingiuntivo.
Le ricorrenti proprietarie sollevavano nel ricorso varie censure di incostituzionalità, tra cui quella secondo cui il Governo aveva emanato il decreto-legge di esproprio in assenza dei requisiti della decretazione d'urgenza, cioè il caso di straordinaria necessità ed urgenza.
In data 23 maggio 2007, il presidente della seconda sezione civile del tribunale di Bari, dottor Di Lalla, cui era affidato l'esame del ricorso, ha ordinato la rimessione degli atti alla Corte costituzionale disponendo la notificazione del provvedimento ai soggetti interessati. Le parti sono il Presidente del Consiglio dei Ministri, i Presidenti della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica: ecco perché, anche in questo senso, il Parlamento viene coinvolto.
Nello specifico, come può leggersi testualmente, il giudice rimettente in sede monitoria, ai sensi dell'articolo 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli articoli 18, commi 2 e 3, del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262, concernente l'esproprio del Petruzzelli di Bari, e gli articoli 2, commi 105 e 106, della legge di conversione 24 novembre 2006 n. 286, recanti disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria - sottolineo: disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria - in relazione all'articolo 77, comma secondo, della Costituzione, ricorrendo su tutti i profili formali e sostanziali quella situazione di assoluta evidenza della mancanza dei requisiti di straordinaria necessità ed urgenza che giustifica il sindacato della Corte costituzionale in ordine al difetto di legittimità costituzionale del decreto, ai sensi dell'articolo 77 della Costituzione italiana.
La Corte costituzionale, infatti, a cominciare dalla sentenza n. 29 del 1995, fino alla recente sentenza n. 171 del 2007, in merito alla questione logicamente prioritaria dell'eventuale efficacia sanante della legge di conversione del decreto-legge, ha affermato e ribadito il principio secondo il quale «il difetto dei requisiti del caso di straordinaria necessità ed urgenza, una volta intervenuta la conversione, si traduce in un vizio in procedendo della relativa legge». Infatti, il sindacato della Consulta non è precluso dalla legge di conversione del decreto-legge, atteso che l'eventuale vizio di quest'ultimo si risolve in un vizio della stessa legge di conversione, per avere quest'ultima erroneamente valutato l'esistenza di requisiti di validità in effetti non sussistenti ed aver quindi convertito in legge un atto che non poteva essere convertito.
Ciò posto, la Corte, attraverso dette sentenze, in merito all'individuazione dei limiti della decretazione d'urgenza posti dall'articolo 77, secondo comma, della Costituzione, ha ritenuto ammissibile il sindacato di legittimità relativamente all'esistenza o meno dei presupposti straordinari di necessità e di urgenza del decreto-legge, salvo ritenere, a tutela della discrezionalità politica, che la mancanza di tali requisiti deve risultare evidente. In particolare, come si legge nella recentissima sentenza n. 171 del 2007, «l'utilizzazione del decreto-legge - e l'assunzione di responsabilità che ne consegue per il Governo secondo l'articolo 77 della Costituzione - non può essere sostenuta dall'apodittica enunciazione dell'esistenza delle ragioni di necessità e di urgenza, né può esaurirsi nella constatazione della ragionevolezza della disciplina che è stata introdotta».
L'ordinanza del 23 maggio 2007, emessa dal tribunale di Bari, evidenzia poi che, sebbene la norma impugnata sia inserita in un decreto-legge, poi convertito in legge dalla legge n. 286 del 2006, recante disposizioni urgenti in materia tributaria, la previsione dell'esproprio del teatro Petruzzelli in favore del comune di Bari non ha alcuna finalità né di natura finanziaria, riferita alla disciplina del bilancio dello Stato e degli enti locali, né di natura tributaria, riferita alla modifica del regimePag. 68delle entrate pubbliche, tale non potendo considerarsi lo scopo di attribuire direttamente all'ente locale (il comune di Bari) la proprietà del bene, come soluzione, in ipotesi più utile, della gestione del servizio rispetto a quella della concessione in uso da parte dei privati proprietari. Il collegamento formale dell'esproprio alle tematiche della finanza pubblica non solo non è individuabile, ma neppure è, in un modo o nell'altro, indicato.
In ordine al profilo sostanziale, con riferimento alla finalità enunciata nel decreto di garantire la celere ripresa delle attività culturali di pubblico interesse presso il teatro Petruzzelli di Bari, la citata ordinanza afferma che lo scopo di riorganizzare l'attività di una fondazione lirica non presenta di per sé il carattere della straordinaria necessità ed urgenza, risolvendosi invece in ordinaria modificazione degli assetti stabiliti con la gestione delle attività culturali in ambito locale.
Come risulta dagli stessi lavori preparatori della legge di conversione, la norma stabilente l'esproprio del teatro è stata introdotta per risolvere un'annosa vicenda e tutelare l'interesse ad una migliore fruizione del bene da parte della collettività, così ammettendo non solo il difetto di collegamento con la manovra di bilancio, ma anche l'assenza di ogni carattere di indispensabilità ed urgenza con riguardo alla finalità dichiarata.
Anche l'ex Presidente della Corte costituzionale, Valerio Onida, in un recentissimo articolo su Il Sole 24 Ore, ha affermato: «La Corte costituzionale censura la prassi di introdurre nei decreti-legge disposizioni che non sono necessarie e urgenti. Secondo la Corte, inoltre, l'avvenuta conversione del decreto in legge non vale a sanare la mancanza dei presupposti. Uno dei vizi della politica nel nostro Paese è l'uso improprio o strumentale delle regole istituzionali: e la funzione di garanzia della giustizia costituzionale serve anche a sanzionare e quindi a impedire tale uso. Come è avvenuto con una sentenza depositata due giorni fa. Ciò ha consentito alla Corte di riconoscere e dichiarare la violazione [...] realizzata attraverso l'inserimento in un decreto-legge di una disposizione estranea al suo oggetto e diretta a raggiungere un risultato [...] per il quale non si rinveniva alcuna ragione di straordinaria urgenza e necessità».
Signor Presidente, se possibile vorrei utilizzare anche il tempo della replica, che sarà breve.
PRESIDENTE. Ciò non è possibile, onorevole Di Cagno Abbrescia.
SIMEONE DI CAGNO ABBRESCIA. Sta bene. Riportato tale discorso, intendo ribadire che l'intervallo tra la remissione alla Corte della decisione del giudice e la pronuncia è stato pari ad un anno.
Nel frattempo, alla città di Bari verrà imposto il pagamento di oneri relativi all'esproprio decretato da una legge dello Stato e, nello stesso tempo, il Governo avrà stanziato ulteriori finanziamenti.
Quindi, chiediamo al Governo - e, per esso, al Ministro, che in molti casi si reca a Bari ad inaugurare la ripresa di lavori quando ancora non possono iniziare - se non ritenga opportuno intervenire in tempi rapidi e in forma di autotutela, attraverso un intervento legislativo che stabilisca l'abrogazione dell'esproprio del teatro Petruzzelli nei confronti della famiglia, ripristinando conseguentemente l'operatività del protocollo di intesa sottoscritto in data 21 novembre 2002, al fine di evitare aggravi di spesa pur consentendo i lavori per la ricostruzione del teatro.
PRESIDENTE. Il sottosegretario di Stato per i beni e le attività culturali, Elena Montecchi, ha facoltà di rispondere.
ELENA MONTECCHI, Sottosegretario di Stato per i beni e le attività culturali. Signor Presidente, sarò un po' più breve dell'onorevole Di Cagno Abbrescia, ma anche io cercherò di ricordare alcuni passaggi significativi che riguardano la vicenda relativa al teatro Petruzzelli di Bari, distrutto quasi integralmente, come si ricorderà, il 27 ottobre 1991 da un incendio doloso.Pag. 69
Il primo intervento legislativo in favore del teatro fu quello della legge n. 444 del 1998. Si trattava di una destinazione finanziaria di 16 miliardi di lire preordinati alla ricostruzione del teatro. I fondi - anche in questa sede sono state ricordate alcune questioni - furono spesi dalla soprintendenza per i beni architettonici della Puglia, con procedure ad evidenza pubblica, per effettuare urgenti lavori di consolidamento e copertura delle parti più esposte dell'immobile.
Ulteriori somme, circa 4 miliardi di vecchie lire, furono messe a disposizione dalla soprintendenza medesima per ulteriori spese connesse ai primi interventi e alle spese di progettazione dell'intervento di restauro e consolidamento complessivo.
Nel novembre 2002, la regione Puglia, la provincia e il comune di Bari e la famiglia proprietaria sottoscrissero un protocollo d'intesa che prevedeva l'esecuzione, tramite apposita fondazione da costituire tra regione, provincia e comune, dei lavori di ricostruzione definitiva e la concessione in uso esclusivo a tale fondazione - dopo quattro anni - del teatro, dietro la corresponsione alla famiglia proprietaria di un canone di locazione dell'immobile di 500 mila euro annui per i successivi quarant'anni.
Gli interventi finanziari dei suddetti enti territoriali erano previsti in 16,5 milioni di euro, da aggiungersi ad ulteriori 5 milioni di euro, a valere sui fondi del gioco del lotto del Ministero per i beni e le attività culturali per l'anno 2003.
Si tratta, evidentemente, di notevolissimi esborsi della pubblica amministrazione.
A fronte di tali notevolissimi esborsi della pubblica amministrazione, la famiglia proprietaria, che - come emerge dagli atti giudiziari - non aveva previsto neppure una congrua copertura assicurativa del teatro incendiato, sarebbe rimasta proprietaria dell'immobile completamente restaurato con le risorse della collettività.
Occorre anche qui ricordare che la famiglia era titolare del solo diritto di superficie al momento della prima costruzione dell'immobile e che il comune di Bari avrebbe potuto, al trascorrere di tre anni di inattività conseguenti alla distruzione, riappropriarsi dell'area ai sensi della convenzione a suo tempo stipulata.
Successivamente, con la legge n. 310 del 2003, il Parlamento dotò la città di Bari di una fondazione lirico-sinfonica adatta a sostenere le attività musicali interrotte da molto tempo.
Non posso nemmeno qui sottacere un altro importantissimo elemento a suffragio dell'intervento governativo, che viene contestato dagli onorevoli interroganti, dello scorso dicembre: l'Avvocatura dello Stato si era espressa nel 2002 (con il parere n. 325), prima del protocollo di intesa, a favore di una procedura espropriativa proprio per il grande interesse culturale dell'immobile e soprattutto per i notevoli esborsi economici già sopportati dalla collettività fino a quel momento su un immobile privato, ma tale procedura espropriativa non ebbe luogo.
Nel 2006, all'insediamento del Governo attualmente in carica, nessuna operazione era stata intrapresa ai sensi del protocollo di intesa stipulato nel 2002 per iniziare i lavori di restauro e, d'altronde, le risorse pubbliche suindicate non sarebbero state neppure sufficienti. Con il decreto-legge contestato dagli interpellanti sono state invece individuate le risorse necessarie a completare i lavori (ulteriori otto milioni di euro) e si è successivamente provveduto - mi si consenta di dirlo - a tempo di record alle necessarie procedure di appalto, a bandire la gara, ad assegnare i lavori e ad iniziarli il 14 maggio scorso.
È notizia di oggi, peraltro, la conclusione, al termine di una rapida quanto approfondita istruttoria da parte del prefetto di Bari, della procedura di liquidazione dell'indennizzo a favore dei proprietari, determinato in 16.419.166 euro.
Dunque questo Governo ha, nei fatti, concretamente e rapidamente determinato tutte le condizioni affinché il teatro possa esser messo in condizioni di riaprire per la fine del 2008 e riprendere le sue attività culturali attraverso la fondazione lirico-sinfonica istituita nel 2003.Pag. 70
I cittadini di Bari potranno valutare i fatti e a loro spetta il giudizio su chi vuole o meno ostacolare i lavori. Ciò dimostra, inequivocabilmente, l'urgenza e la necessità dell'esproprio e del relativo intervento legislativo, che ha consentito la rapida acquisizione del teatro Petruzzelli alla mano pubblica e il suo restauro volto a restituire alla collettività pugliese (e, più in generale, a quella italiana) la fruizione di un servizio culturale necessario e di elevato livello.
Quanto ai rilievi che sono stati proposti nell'interpellanza sulla procedura seguita e sul rispetto dei vincoli costituzionali, non possiamo che richiamare l'iter legislativo di conversione del decreto legge, durante il quale (in particolare mi riferisco alla fase della prima lettura presso la Camera dei deputati) nessun rilievo è stato sollevato sulla norma relativa al Petruzzelli, né in sede di Comitato per la legislazione, né ai sensi del Regolamento della Camera, dai competenti uffici e dall'Assemblea, la quale, peraltro, respinse le pregiudiziali di costituzionalità, che pure erano state presentate sull'intero provvedimento.
Quanto all'omogeneità della disposizione rispetto al corpus del provvedimento, non può sfuggire che essa è collocata in un insieme più ampio di norme in materia di beni e attività culturali, che comprendono non solo il riordino del Ministero e del Dipartimento per il turismo, con la previsione di un nuovo concorso per quaranta dirigenti ministeriali, ma anche la ridisciplina dell'allocazione degli interventi finanziari in favore dei beni culturali e dello spettacolo attraverso la società Arcus e l'intervento a favore del teatro Petruzzelli.
Non vi è quindi nessuna eterogeneità o intrusività della norma sul Petruzzelli, che si colloca in una complessiva manovra di interventi urgenti, anche in materia di sostegno delle attività culturali.
Si fa riferimento, poi, nell'interpellanza ad una recente ordinanza del giudice civile di Bari di rimessione della norma al vaglio della Corte per la ritenuta carenza dei presupposti della decretazione d'urgenza.
Al riguardo, non posso che ribadire, anche alla luce degli spunti argomentativi che ho sviluppato, che il Governo attende con rispetto e fiducia la decisione della Consulta. Il rispetto istituzionale e la fiducia sono tali che ci impediscono di addentrarci in un'aula parlamentare nel raffronto e nell'esegesi delle sentenze della Corte in materia di decretazione d'urgenza.
L'ordinanza non ha comunque effetti sospensivi dei procedimenti di esproprio e di realizzazione dei lavori di restauro, né l'eventuale annullamento della norma provocherebbe i danni erariali paventati nell'interpellanza, atteso che, qualsiasi dovesse essere la sorte finale della proprietà del bene, il restauro del teatro e la sua restituzione alla fruibilità della città costituiranno comunque per questo Governo un importante risultato positivo e una vittoria per l'interesse pubblico.
Non vi è quindi alcuna ragione per la quale il Governo intenda procedere all'abrogazione della norma sul teatro Petruzzelli. Anzi, il Governo intende rispettare gli impegni normativi e finanziari assunti per riconsegnare il teatro alla città.
PRESIDENTE. L'onorevole Di Cagno Abbrescia facoltà di replicare.
SIMEONE DI CAGNO ABBRESCIA. Signor Presidente, non posso essere soddisfatto, dal momento che un atto tipico del parlamentare viene addirittura visto polemicamente, anche alla luce di alcune situazioni che sono maturate e che dal tribunale sono state notificate sia al Governo che alle due Camere.
Nello stesso tempo, non si può sostenere che anche la massima autorità dello Stato non si sia interessata del problema che abbiamo sollevato. Lo stesso Presidente Napolitano, infatti, ha «bacchettato» in questi giorni Governo e Parlamento sull'abuso dello strumento della decretazione d'urgenza e ha ritenuto necessario il sindacato della Corte costituzionale, proprio per l'assoluta evidenza della mancanza di alcuni requisiti (in questo caso dei requisiti di necessità e urgenza del decreto di esproprio).Pag. 71
Signor sottosegretario, anche noi a Bari volevamo e vogliamo tutti che il teatro sia ricostruito e apra nuovamente. Tuttavia, da liberali e liberisti quali vogliamo essere non a parole, ma realmente, in relazione alla vicenda in esame, sembra strano che in alcune commissioni nell'ambito del consiglio comunale di Bari, proprio gli esponenti dell'attuale maggioranza politica governativa erano coloro che alzavano il dito chiedendo di stare lontani dalla paventata possibilità di esproprio, che, come lei ha richiamato, era stata anche sottolineata dalla stessa Avvocatura dello Stato.
Siamo convinti che i lavori possano andare avanti e il Governo ha fatto bene anche a mettere a disposizione l'ulteriore tranche (che ci auguriamo che possa essere definitiva e che possa consentire il completamento dei lavori).
La richiesta di noi interpellanti, tuttavia, era un'altra: sapere che cosa succederà. Non è inevitabile che il comune di Bari (che, tra l'altro, non ha stanziato nessuna somma e non ha mai parlato nell'ambito del consiglio comunale, quindi di un consesso democratico, di ciò che avverrà) dovrà accendere dei mutui per poter sopperire alla messa a disposizione, in attesa della decisione della Corte.
Se la Consulta dovesse sancire l'illegittimità dell'esproprio, inevitabilmente esporrebbe l'ente locale ad aver acceso dei mutui, pagato interessi, attivato procedure economiche e amministrative, che inevitabilmente si ritorcerebbero su esso stesso e, quindi, sui cittadini baresi, che avranno il teatro, ma lo dovranno pagare, forse amaramente.
Alla luce di questo discorso, prendiamo atto di quanto ci ha detto, che il Governo intende andare avanti: tra l'altro lo aveva già dichiarato nei giorni precedenti. Saremo sulla riva del fiume per vedere come andrà a finire; passerà un anno, quando la Corte emetterà la sua sentenza - che noi rispetteremo, convinti come siamo che essa rappresenti la massima istituzione di questo Paese - e certamente sarà una decisione lineare e approfondita.
Tuttavia, ci sono delle premesse che mi sono proposto di sottolineare: non solo la sollecitazione del Presidente Napolitano, ma anche quella che un ex Presidente della Corte ha ritenuto di formulare. Pertanto, non sono soddisfatto della risposta. Dovremmo aspettare e aspetteremo.
(Modalità di attuazione dei lavori previsti dal consorzio industriale del Sulcis Iglesiente per il dragaggio del porto di Portovesme - n. 2-00578)
PRESIDENTE. L'onorevole Mereu ha facoltà di illustrare la sua interpellanza n. 2-00578 (Vedi l'allegato A - Interpellanze urgenti sezione 2).
ANTONIO MEREU. Signor Presidente, onorevole sottosegretario, come lei sa il Ministro dell'ambiente ha posto il divieto ai lavori previsti dal consorzio industriale del Sulcis Iglesiente per il dragaggio del porto di Portovesme. Questi lavori, che tra l'altro erano già stati concordati con la regione Sardegna e con il Ministero dello sviluppo economico, prevedono l'asportazione di un milione di tonnellate di sabbia per consentire l'attracco di navi di maggiore stazza all'interno dell'area portuale, nonché il ripascimento del litorale prospiciente il bacino dei fanghi rossi.
Il Ministero dell'ambiente prevede prioritariamente a qualsiasi intervento, quindi comprese le bonifiche, la realizzazione di un muro a cinquanta metri di profondità, con l'obiettivo di frenare il flusso di liquidi inquinanti verso il mare. È chiaro che questa presa di posizione ha creato fortissime rimostranze da parte dei lavoratori, degli industriali e degli stessi sindacati, perché tutti sanno che sono previsti interventi strutturali per far fronte ad una crisi produttiva persistente in quest'area. Pertanto, non può non esserci una forte preoccupazione per la possibilità di cambiamento di strategie industriali che le multinazionali operanti nel territorio, in particolare quelle del settore della metallurgia dei metalli non ferrosi, possano successivamente intraprendere.
Quindi, l'anteporre la costruzione del muro in fondo al mare ad ogni altroPag. 72intervento è sicuramente di ostacolo allo sviluppo, non solo del porto, ma anche dell'intera area industriale.
Onorevole sottosegretario, vorrei che lei si rendesse conto di cosa crei nel territorio del Sulcis Iglesiente questo provvedimento del Ministero dell'ambiente. Infatti, è paradossale il comportamento del Governo e anche del governo regionale del presidente Soru, che è comunque corresponsabile, in quanto anch'egli è d'accordo con questa situazione. È paradossale perché il Governo con una mano dà un aiuto al nostro territorio del Sulcis Iglesiente e con l'altra vi si contrappone.
Infatti, la crisi industriale del nostro territorio si unisce alle difficoltà che ci sono nella messa in esercizio della miniera di carbone, che dovrebbe risolvere quei problemi che stanno a cuore non solo al nostro territorio e al Governo regionale, ma anche al ministro Bersani. Egli più volte in quest'Assemblea ha sostenuto la necessità che quelle aziende ottenessero delle agevolazioni in termini di tariffe elettriche, per le quali si aspetta una soluzione da parte dell'Unione europea. È necessario stabilire un patto di intesa tra gli stessi Ministeri, la regione e le aziende interessate in cui si preveda la costruzione in Sardegna di una centrale a carbone, dato che ivi persiste l'unica miniera di carbone che abbiamo in Italia e che dovrebbe produrre energia elettrica a bassi costi utile alle industrie lì ubicate, che producono metalli non ferrosi.
Tale problema è stato già affrontato dal Governo Berlusconi, che vi ha trovato soluzione con la legge n. 80 del 2005, ed il Governo attuale sta sostenendo in Europa questa tesi.
Noi siamo preoccupati e ci chiediamo come sia possibile che la Sardegna possa prepararsi a risolvere da sola i suoi problemi, com'è giusto che sia e come l'Unione europea richiede, visto che queste tariffe saranno concesse solo se, nel frattempo, la Sardegna si sarà organizzata per far sì che il problema di cui stiamo discutendo venga superato.
Ebbene, per superare tale problema, se vogliamo che nel nostro territorio nasca una centrale che produca energia elettrica a bassi costi, che necessita non solo di carbone nostrano, ma anche di importazione, ci interroghiamo sul modo in cui il carbone possa giungere nel nostro porto, se quest'ultimo non è attrezzato per far arrivare le navi a tale scopo destinate.
Ci troviamo di fronte ad un impasse che dobbiamo necessariamente superare; non si può sostenere che non si può realizzare quest'opera se prima non si costruisce il muro che serve per bloccare eventuali sostanze provenienti dal retroterra e inquinanti il mare. Le stesse aziende, attraverso uno studio elaborato con l'università di Cagliari, hanno proposto soluzioni alternative.
Noi non discutiamo in questa sede su quale sia la soluzione migliore, perché lasciamo prendere la decisione a chi ne ha le competenze. Ciò che contestiamo è che non si può, in modo assoluto, predisporre una soluzione di questo tipo. Infatti, realizzare un muro vuol dire investire somme di denaro ingenti e impiegare del tempo, ma nel frattempo si blocca tutto quello che, invece, serve per superare questa crisi.
Noi chiediamo al Governo che rifletta su tale posizione e si renda conto che essa non risponde neanche all'interesse di un'azione unitaria dell'Esecutivo. Come ho detto prima, lo stesso Ministro Bersani sta affrontando tale situazione e si sta battendo per superare il problema. Sarebbe opportuno che l'attuale Governo - il quale troppo spesso e da troppo tempo ci ha abituato a capire che non è unito, poiché spesso e volentieri i ministeri operano ognuno per proprio conto - si rendesse conto che sarebbe molto utile un dialogo fra i due Ministri al fine di trovare una soluzione che permetta finalmente di superare questa fase devastante sul fronte occupazionale. La situazione critica alla quale mi riferisco investe, infatti, un territorio vasto, che soffre da diversi anni e che ora vede aprirsi - anche attraverso soluzioni interne, e con il conseguente sviluppo del territorio - una possibilità diPag. 73sviluppo e di occupazione per i disoccupati, che nel nostro territorio superano anche il tasso del 30-35 per cento.
Non vediamo come tale obiettivo possa essere raggiunto se il Ministro dell'ambiente persiste ancora in una soluzione così drastica, che impedisce qualunque movimentazione. Ci sembra veramente assurdo e riteniamo giusto metterlo in evidenza. Speriamo e chiediamo che venga presa in considerazione la nostra proposta.
PRESIDENTE. Il sottosegretario di Stato per l'ambiente e della tutela del territorio e del mare, Laura Marchetti, ha facoltà di rispondere.
LAURA MARCHETTI, Sottosegretario di Stato per l'ambiente e la tutela del territorio e del mare. Signor Presidente, in risposta all'interpellanza dell'onorevole Mereu, riguardante il piano di disinquinamento del Sulcis Iglesiente, si ricorda innanzitutto che l'area predetta è stata inserita tra i siti da bonificare d'interesse nazionale con il decreto ministeriale n. 468 del 18 settembre 2001 ed è stata perimetrata con decreto del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio del 12 marzo 2003.
Il sito, ubicato nella parte sud-occidentale della Sardegna, comprendente 3 province e 34 comuni, ha nel proprio perimetro le seguenti aree industriali: le vaste aree minerarie, nelle quali si rinvengono notevoli centri di pericolo costituiti da scavi di grande dimensione, discariche, bacini di decantazione per fanghi di processo e cumuli di scarti di lavorazione; gli agglomerati industriali di Portovesme, di Sarroch, di Assemini e quello di San Gavino Monreale. Nell'attuale perimetro è inoltre ricompresa una vasta fascia marina, prospiciente l'area a terra, che si estende fino ad una distanza dalla costa di tre chilometri, da Cagliari a Capo della Frasca.
Ad oggi si sono tenute sul sito undici conferenze di servizi istruttorie e nove conferenze di servizi decisorie. Le maggiori aziende operanti nell'agglomerato industriale di Portovesme hanno attivato le procedure di caratterizzazione ai sensi della vigente normativa in materia di bonifica.
I risultati della caratterizzazione, unitamente alle analisi pregresse effettuate sull'area, hanno fatto emergere un quadro dello stato di qualità di suolo ed acque, che evidenzia una contaminazione pesante e diffusa relativamente a metalli pesanti, idrocarburi policiclici aromatici, composti alifatici clorurati cancerogeni c alifatici alogenati.
Atteso quindi il grave stato della contaminazione, nel corso delle conferenze di servizi è emersa la convenienza tecnico-economica di dar luogo ad un intervento di messa in sicurezza d'emergenza della falda di tipo unitario e coordinato, basato sulla realizzazione di un barrieramento fisico.
Le aziende operanti nell'agglomerato industriale di Portovesme hanno comunicato, quindi, che intendevano procedere congiuntamente allo studio e alla progettazione per la messa in sicurezza d'emergenza della falda, affidando il coordinamento al Consorzio Nucleo di Industrializzazione del Sulcis Iglesiente e la redazione del progetto all'Università di Cagliari.
La conferenza di servizi decisoria dell'11 luglio 2006 ha richiesto alle società la trasmissione del progetto consortile di bonifica della falda basato sulla realizzazione di un marginamento fisico fronte mare e lato laguna. Detta soluzione progettuale consentirebbe la successiva adozione di interventi di bonifica in situ dei suoli mediante tecnologie biologiche e chimiche, che, garantito l'isolamento delle fonti inquinanti, potranno essere progettate e programmate su tempistiche di più ampio respiro, quindi, con minore impatto ambientale e anche con minore costo specifico. Tale risparmio sarà altresì incrementato dalla minor quantità di acqua emunta contaminata da sottoporre a trattamento in impianto dedicato, dovendo garantire esclusivamente l'equilibrio piezometrico.
La conferenza ha, altresì, sottolineato che, qualora il termine stabilito per laPag. 74presentazione di detto progetto non fosse stato rispettato, ciascuna azienda avrebbe dovuto provvedere per le aree di propria competenza.
Infine, considerata la pesante e diffusa contaminazione delle acque di falda e l'inadeguatezza dei sistemi di messa in sicurezza d'emergenza attualmente attivi sulle aree di competenza di ciascuna azienda, i partecipanti alla medesima conferenza di servizi hanno richiesto, nelle more dell'attivazione del progetto congiunto, l'immediato potenziamento delle predette misure di messa in sicurezza d'emergenza della falda.
Con nota del 15 novembre 2006, il Consorzio per il Nucleo di Industrializzazione del Sulcis Iglesiente, per conto delle citate aziende, in luogo del progetto di barrieramento fisico richiesto ha trasmesso un progetto preliminare basato sulla realizzazione di un barrieramento idraulico, discusso nel corso della conferenza di servizi istruttoria del 20 dicembre 2006 e, poi, in quella decisoria del 20 marzo 2007.
In quest'ultima conferenza è stata ribadita la necessità della realizzazione di un marginamento fisico integrale, che risulterebbe la migliore soluzione in termini di protezione dei bersagli sensibili costituiti dal mare e dalla laguna.
Con riferimento poi all'area portuale di Portovesme, oggetto dell'interpellanza, il citato consorzio industriale ha avviato la procedura di bonifica, sottoponendo a caratterizzazione l'intero bacino portuale, dei cui risultati si è preso atto con prescrizioni nella citata conferenza di servizi decisoria del 27 marzo 2007.
Detti risultati evidenziano una contaminazione diffusa da metalli, principalmente piombo, zinco, cadmio, mercurio, nichel e rame.
Con riferimento, quindi, a quanto prospettato in merito alla possibile incidenza della realizzazione del barrieramento fisico, quale misura di messa in sicurezza d'emergenza della falda, sul piano di sviluppo economico della zona industriale, si fanno presenti alcune considerazioni.
In primo luogo, contrariamente a quanto sostenuto dall'onorevole interpellante, secondo quanto previsto dall'articolo 1, comma 996, della legge n. 296 del 27 dicembre 2006 (la legge finanziaria per il 2007), «nei siti oggetto di intervento di bonifica di interesse nazionale (...) le operazioni di dragaggio possono essere svolte anche contestualmente alla predisposizione del progetto relativo alle attività di bonifica».
In secondo luogo, il muro di confinamento costituisce parte integrante delle opere complesse di bonifica, in quanto la costruzione di esso consentirà di impedire il deflusso di acque sotterranee contaminate verso il mare e le aree lagunari e quindi, in conformità con la normativa vigente, l'isolamento delle sorgenti primarie di contaminazione.
In terzo luogo, la soluzione del barrieramento fisico individuata consentirà - come, del resto, è già stato rilevato - la possibilità di adottare gli interventi di bonifica in situ dei suoli, mediante tecnologie biologiche e chimiche che, garantito l'isolamento delle fonti inquinanti, potranno essere progettate e programmate su tempistiche di più ampio respiro, quindi, compatibili con la realtà industriale, con minore impatto ambientale e, soprattutto, a minor costo specifico.
In quarto luogo, ferme restando le esigenze di messa in sicurezza di emergenza e bonifica, è necessario garantire alle aziende presenti nel sito la possibilità di effettuare investimenti, che permettano di mantenere la competitività del sistema produttivo, nonché di effettuare i necessari aggiornamenti impiantistici, idonei a ridurre ogni forma di inquinamento in atto rispetto ad aria, acqua, suolo e sottosuolo.
In conclusione, nel caso specifico si ritiene che le operazioni di bonifica non costituiscano alcuno ostacolo alle attività portuali. Infatti, le attività svolte dal Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare sui siti di interesse nazionale, per i quali sono stati sottoscritti appositi accordi di programma, non solo sono volte alla realizzazione di interventiPag. 75di ripristino ambientale, ma sono anche funzionali allo sviluppo economico e industriale del sito.
Riguardo al secondo quesito, relativo allo stato di attuazione degli interventi previsti dal piano di disinquinamento per il risanamento del territorio del Sulcis, la regione Sardegna ha fatto presente di avere impegnato le somme disponibili che l'amministrazione statale ha trasferito nel 1995, nel 1998 e nel 1999, per complessivi 65 milioni di euro, rispetto ad un fabbisogno finanziario pari a 100 milioni di euro.
Gli interventi previsti dal piano sono in gran parte in corso di realizzazione; alcuni sono in via di completamento e riguardano, in particolare, la caratterizzazione, il risanamento, la riqualificazione ambientale e la valorizzazione del territorio del comune di Portoscuso, la bonifica dello stagno di Sa Masa, nonché gli interventi di bonifica dei suoli e dell'acquifero sotterraneo nelle aree del polo industriale di Portovesme e i relativi interventi di riqualificazione.
Ad ogni buon fine, si rappresenta che il Governo è sensibile alle problematiche prospettate: si auspica, perciò, che si giunga a una reale riconversione dell'uso del territorio in questione, con attività compatibili con il piano industriale, e che le attività siano condotte nel rispetto dei principi dello sviluppo sostenibile, limitando i rischi per la salute umana e per l'ambiente.
PRESIDENTE. L'onorevole Mereu ha facoltà di replicare.
ANTONIO MEREU. Signor Presidente, non sono soddisfatto del risultato dell'interpellanza. Non me ne voglia, onorevole sottosegretario, ma qualche località che ha nominato non fa parte del Sulcis Iglesiente. Non è un problema: evidentemente c'è stato un disguido.
Il problema vero è come mai tale provvedimento del Ministero dell'ambiente abbia generato reazioni da parte di tutte le istituzioni nel nostro territorio, se, come afferma il sottosegretario, non vi è nessun ostacolo affinché i lavori da effettuare si svolgano serenamente.
Il presidente del consorzio industriale, che tra l'altro è un uomo di centrosinistra, infatti protesta continuamente e ha anche scritto al Ministero per avere risposte positive. Quindi, vi è una protesta. Anche un sindacato sta chiedendo incontri con la regione Sardegna, perché si rende conto del pasticcio in atto.
Quando si afferma, infatti, che bisogna erigere un muro nel fondo nel mare, non si tratta di un'opera che si può fare immediatamente. Vorrei poi capire, quando si usa il termine «contemporanea», che cosa si intenda.
L'inquinamento esiste e nessuno lo può negare. Tutti siamo consapevoli che si debba bonificare, ma nel frattempo non possiamo dire che, siccome non si riesce a portare a compimento la realizzazione del muro, non si eseguono neanche lavori che servano a bonificare il territorio. Siamo in una situazione di stallo che produce esclusivamente danni. Non stiamo cercando una soluzione diversa. Non sto dicendo, da deputato di centrodestra, che qualcosa oggi va male, ma soltanto che in questo momento il Ministero dell'ambiente non ha un comportamento che favorisca lo sviluppo del territorio. Tutto ciò che il sottosegretario afferma, in effetti, è presente anche qui da noi.
Le aziende rispondono, intanto, che, anziché costruire il muro, sulla base di uno studio condotto con l'università di Cagliari - quindi, con una struttura indipendente - si possono erigere barriere idrauliche, installando pozzi o facendo funzionare quelli già esistenti. Si parla di ottantuno pozzi. Potrebbe essere una soluzione ideale, ma quello che a noi interessa soprattutto è di dare attuazione alla volontà di migliorare la situazione e a questo fine bisogna che si inizi a fare tutto ciò che è possibile. Non possiamo condizionare. Ecco la parola giusta: noi non vogliamo il condizionamento, perché il condizionamento impedisce di perseguire quegli obiettivi che tutti diciamo di voler raggiungere.
Si auspica che il territorio abbia il suo sviluppo, che i nostri giovani trovino occupazione, che le aziende trovino in quelPag. 76territorio gli interessi che consentano alle stesse di continuare a produrre, però tutto di fatto si ferma, perché ancora una volta si parla sempre di azioni prioritarie o contemporanee.
Mi permetto di portare all'Assemblea un'esperienza che ho avuto recentemente a Berlino, dove rappresentavo la Camera dei deputati insieme alla collega Francescato, in materia di cambiamenti climatici, un problema di interesse mondiale. Vi partecipavano i maggiori rappresentanti dei Governi degli altri Paesi e posso dire che spesso e volentieri l'Italia, sotto il profilo ambientale, si presenta come uno Stato che deve fare sempre il meglio, il tutto.
Ciò è anche giusto, ma quando lavoravo mi hanno sempre insegnato che, quando qualcuno sostiene di fare l'ottimo, in genere non vuole fare niente e che la scusa per fare bene è utilizzata in realtà per non fare nulla.
Questo è più o meno anche l'atteggiamento dei Verdi e degli ambientalisti italiani, che non voglio coinvolgere perché non sono presenti. Mi piacerebbe, però, che chi ascolta potesse meditare su questo punto. Gli altri Stati partono da un presupposto diverso. Ad esempio, quando parliamo con la Cina, con il Sudafrica o con l'India, che sono gli Stati oggi più interessati dalle emissioni di CO2, che tutti vogliamo diminuire, tutti sostengono di condividere le preoccupazioni al riguardo, ma affermano, nel contempo, che è necessario coniugare lo sviluppo con la tutela dell'ambiente.
Quando sono intervenuto in quel momento ho affermato che anche noi in Italia abbiamo, a macchia di leopardo, qualche situazione che può essere se non uguale alla Cina, a volte molto vicina. Non bisogna essere netti nelle nostre affermazioni, ma dobbiamo trovare dei compromessi perché il ruolo della politica è quello di pensare anche alle persone, alle famiglie. Non possiamo delegare tutto ai tecnici che devono solo dire quale provvedimento tecnico, quale soluzione tecnica è migliore. Non sempre le due cose si sposano e non è vergogna dirlo chiaramente.
Dobbiamo trovare sì una soluzione ambientale, perché gli abitanti di tali luoghi vogliono una soluzione di questo tipo, ma dobbiamo parlare di qualità della vita quando c'è; se la qualità della vita non è stata raggiunta è difficile far capire la situazione alle persone. Noi abbiamo l'obbligo e il dovere di difendere queste posizioni e di affermare che certamente va operata una bonifica, va trovata una soluzione, ma mai impedendo lo sviluppo di quel territorio come di fatto il Ministro dell'Ambiente sta facendo.
Affermiamo tutto ciò non perché sia una mia convinzione ma perché tutti giornali locali, la Api sarda, i rappresentanti degli industriali sono contrari al provvedimento in esame. Allora qualcosa ci sarà che non va! Non vogliamo dire di avere ragione, ma qualcosa che non va ci sarà! Ci aspettiamo da parte del Ministero che si possa raggiungere l'obiettivo ambientalista, ma sempre tenendo conto - come detto da me precedentemente - delle esigenze fondamentali delle persone e della società. Le forze sindacali si stanno mobilitando e la mia interpellanza vuole essere di aiuto al loro impegno.
Spero che quando il sottosegretario usa il termine «contestualmente» - che rappresenta già un miglioramento - non intenda dire di non voler far fare niente o che debba partire la costruzione di questo muro, rispetto al quale però non siamo a conoscenza di chi si debba addossare i costi. Non conosciamo neanchè i tempi e la progettazione, non essendoci ancora un pieno accordo.
Speriamo che questa interpellanza serva a far riflettere ulteriormente e a permettere di trovare una soluzione diversa a chi, in Sardegna, opera nel territorio, di cui lo ripeto, non possiamo per qualunque motivo condizionare lo sviluppo.
(Vicenda dei migranti eritrei recentemente naufragati presso l'isola di Malta - n. 2-00577)
PRESIDENTE. L'onorevole De Zulueta ha facoltà di illustrare la sua interpellanza n. 2-00577 (Vedi l'allegato A - Interpellanze urgenti sezione 3).
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TANA DE ZULUETA. Signor Presidente, le vicende che ci hanno spinto a presentare l'interpellanza in esame risalgono al mese scorso e hanno attirato l'attenzione dell'opinione pubblica non solo in Italia, ma anche a livello mondiale. Mi richiamo infatti ad una fotografia apparsa in prima pagina su qualche giornale italiano, che ritraeva una barca stipata, piena di persone (tra le persone molte donne e bambini) che venne avvistata da una aereo dell'autorità maltese il 21 maggio.
Pare che l'aereo abbia lanciato l'allarme, ma purtroppo la risposta fu molto lenta, tanto che ci vollero nove ore perché una nave maltese arrivasse sul luogo, a circa 80 miglia a sud di Malta, ma in quel momento ormai l'imbarcazione era scomparsa.
L'allarme fu lanciato anche dagli stessi naufraghi - dalle fotografie la barca appariva evidentemente in avaria - i quali allertarono i propri parenti, pare, in Europa, in particolare in Gran Bretagna e forse anche in Italia.
L'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati ha lanciato un appello accolto dal Governo italiano - ricordo che i cittadini dell'Eritrea, secondo le linee guida delle Nazioni Unite, hanno titolo a chiedere l'asilo politico in quanto sono esposti a gravi rischi di ritorsione su se stessi e sui propri familiari, nel caso vengano identificati pubblicamente e soprattutto qualora vengano respinti verso il loro Paese - con il quale si chiedeva di tentare di rintracciare questa barca.
Le operazioni italiane iniziarono il 24 maggio, con la mobilitazione sia della Marina italiana, sia della Guardia costiera, svolte in un primo momento solo nelle acque di competenza italiana e successivamente, a seguito dell'autorizzazione del Governo libico, anche nelle acque libiche.
La ricerca non portò alla scoperta dell'imbarcazione scomparsa ma a quella di un altro fatto, forse altrettanto scioccante. Infatti fu fotografato dal cielo - da un aereo italiano - un gruppo di uomini aggrappati a delle gabbie da pesca, gabbie per l'allevamento di tonni, ed in seguito abbiamo scoperto che tali uomini erano rimasti su quelle gabbie per ben tre giorni, perché il pescatore maltese che trainava quel recinto si era rifiutato di accoglierli a bordo.
La Marina italiana ha portato in salvo ventisette persone, ma non si trattava dei naufraghi della barca scomparsa, perché erano di altra nazionalità.
Dopo tale episodio, accolto con sollievo e soddisfazione dalle Nazioni Unite - e voglio sperare anche dall'opinione pubblica, perché lo spettacolo di quegli uomini aggrappati alle reti dei tonni ha rappresentato la vergogna d'Europa - anche un peschereccio spagnolo ha portato in salvo un altro gruppo di naufraghi.
Tuttavia non abbiamo più notizie dei cinquantatre uomini, presenti nella fotografia iniziale del 21 maggio, tranne che per una chiamata, pervenuta in Gran Bretagna da uno dei detti naufraghi, il quale ha riferito di essere approdato in Libia e di essere stato nuovamente posto in stato di detenzione.
Sorge da tale situazione la necessità di presentare l'interpellanza urgente al Governo - poiché non sono riuscita ad avere conferma di tale notizia - e rivolgo allo stesso un'urgente sollecitazione, affinché ottenga informazioni dalle autorità libiche: in primo luogo occorre chiedere alle dette autorità se siano a conoscenza del fatto che tali persone siano state trattenute in Libia; in secondo luogo occorre chiedere alle stesse di consentire l'accesso ai centri di detenzione ai rappresentanti dell'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, in quanto queste persone, ed anche altre, avrebbero diritto - almeno in molti casi - allo status di rifugiati.
Infine chiedo all'Esecutivo di raccomandare al Governo libico di non rimpatriare queste persone in Eritrea, in quanto, come ho già detto, correrebbero gravi pericoli, nonché di ricordare all'autorità libica le proprie responsabilità, in adempimento ad una Convenzione sottoscritta nel 1969 nell'ambito dell'Organizzazione dell'unità africana, con la quale sono state delineate le linee guida per la protezione dei rifugiati.
PRESIDENTE. Il sottosegretario di Stato per gli affari esteri, Vittorio Craxi, ha facoltà di rispondere.
VITTORIO CRAXI, Sottosegretario di Stato per gli affari esteri. Signor Presidente, il Governo è ben consapevole di quanto sia delicato il caso sollevato dall'onorevole De Zulueta, e si tratta di una delicatezza che deriva in primo luogo dalla drammaticità del contesto e dalla frequenza con cui questi fenomeni migratori avvengono.
Per quanto riguarda la ricostruzione dei fatti il Governo non può che confermare quanto segnalato dall'onorevole De Zulueta, cioè che il 24 maggio la Marina militare italiana ha tratto in salvo ventiquattro emigranti rimasti aggrappati per tre giorni, come lei ha descritto, alla gabbia per tonni di un rimorchiatore maltese. Quanto accaduto ha destato, come abbiamo ricordato, vive emozioni in Italia e in altri Paesi europei, tanto più che il recupero dei ventisette naufraghi veniva seguito a distanza di una settimana dal ripescaggio dei cadaveri di altri naufraghi, da parte della nave, la Motte Picquet, della Marina militare francese.
Proprio per riflettere sulle modalità e per far fronte a episodi di questa natura è stata avviata una discussione in ambito europeo sulla possibilità di migliorare l'assistenza umanitaria in mare in un quadro di partenariato con gli Stati terzi e di solidarietà europea.
Non disponiamo di notizie certe sui cinquantasette eritrei citati nel comunicato dell'agenzia ANSA del 31 maggio. Abbiamo interpellato l'ufficio dell'UNCHR di Roma, l'Alto commissariato per i rifugiati, e raccolto informazioni attraverso la nostra ambasciata a Tripoli, ma allo stato attuale non vi è alcuna conferma che i cittadini eritrei, cui l'interpellanza ha fatto riferimento, siano effettivamente trattenuti in Libia.
Sul piano più generale va, d'altra parte, osservato che la Libia non è parte della Convenzione del 1951 sui rifugiati e, quindi, non è giuridicamente tenuta a garantire l'accesso ai centri dove vengono trattenuti i rifugiati. Inoltre, va tenuto presente che, sebbene l'Alto commissariato sia già oggi in grado di comunicare con le autorità libiche per chiedere informazioni e svolgere la sua attività di istituto, non sono tuttavia ancora stati finalizzati i negoziati per l'accordo di sede del Commissariato sui rifugiati, che regolerà l'attività del suo ufficio a Tripoli.
In ogni caso voglio assicurare all'onorevole De Zulueta che il Governo è perfettamente consapevole della drammatica situazione interna all'Eritrea che è all'origine del fenomeno di immigrazione sistematica verso altri Paesi, da parte soprattutto di giovani che intendono ad ogni costo cercare all'estero condizioni di vita meno precarie.
L'Eritrea vive, infatti, una fase di crescente militarizzazione del Paese, che viene giustificata sul piano interno invocando l'esigenza di una mobilitazione nazionale per fronteggiare il pericolo di un eventuale conflitto con l'Etiopia. La coscrizione obbligatoria con ferma minima di tre anni, in vigore dopo il conflitto con l'Etiopia, nonché il razionamento dei beni di prima necessità come gli alimentari, il carburante, la stessa energia elettrica, provocano un esilio sempre più accentuato in particolare dei giovani sia via terra, attraverso il Sudan, appunto la Libia, in direzione della costa nord del Mediterraneo, sia via mare.
A fronte di questa situazione il Governo continua a svolgere ogni passo utile sia sul piano bilaterale sia in concertazione con i nostri principale partner e alleati, per richiamare il regime eritreo alle sue responsabilità in materia di diritti umani e delle libertà fondamentali. Allo stesso modo il Governo italiano non mancherà di adoperarsi nel caso in oggetto come negli altri, affinché i rifugiati, da qualsiasi Paese provengano, vengano messi al riparo da rischi di tortura e da altri trattamenti crudeli, inumani e degradanti.
PRESIDENTE. L'onorevole De Zulueta ha facoltà di replicare.
TANA DE ZULUETA. Signor Presidente, mi ritengo soddisfatta. Non c'èPag. 79dubbio che il Governo abbia tentato in tutte le sedi di avere le notizie che cercavamo.
Volevo, però, più in generale fare un'osservazione per quanto riguarda i nostri rapporti con la Libia. L'Italia ha spesso sottolineato di avere una buona collaborazione con la Libia nella lotta all'immigrazione irregolare. Purtroppo, non conosciamo i termini di questi accordi in quanto non sono mai stati illustrati in sede parlamentare e questa opacità, in questo caso, è di intralcio a una migliore collaborazione, ad esempio alla possibilità di rintracciare persone scomparse.
Vorrei cogliere questa occasione per sottolineare che, l'Italia, in sede europea, ha siglato un accordo per partecipare all'operazione Frontex, che è un'operazione di collaborazione per la lotta all'immigrazione irregolare in mare. Tale accordo, fino ad oggi, è stato operativo solo sulla costa africana occidentale (da cui erano partiti i migranti verso le Canarie). Chiedo per questo con urgenza - anche il sottosegretario Craxi ha ricordato che è urgente migliorare la risposta, per quanto riguarda il soccorso mare dei migranti - che tale accordo sia esteso.
È importante che la lotta all'immigrazione irregolare dia tutte le garanzie, per quanto riguarda la tutela dei diritti e dell'incolumità delle persone che potrebbero essere intercettate; se fossero di fatto respinte verso la Libia, si creerebbe un grosso problema.
So che l'Italia vuole coinvolgere la Libia nell'operazione Frontex, però ritengo che sia molto importante che tale coinvolgimento avvenga secondo le norme stabilite dalle Convenzioni internazionali, per quanto riguarda la tutela dei diritti umani e, soprattutto, per quanto riguarda la protezione dei rifugiati.
Credo che, su questo fronte, non solo sia necessario richiamare l'Eritrea - come ha detto il sottosegretario Craxi - al pieno rispetto dei diritti umani; tale richiamo vale anche per la Libia, Paese nel quale - come sappiamo - sono state condannate a morte sei infermiere bulgare; esse non hanno potuto accedere ad un giusto processo, insieme a un medico palestinese e avrebbero subito anche delle torture. Il quadro, quindi, non è affatto rassicurante, se si vuole trasformare la Libia in un partner nella gestione dell'immigrazione.
Chiedo al Governo se possa continuare a tenere viva l'attenzione per quanto riguarda queste persone - nella speranza che si riesca a rintracciarle - e, soprattutto, se sia possibile tener fermo il punto, per quanto riguarda le garanzie per i diritti umani, anche nei confronti della Libia.
(Processo di privatizzazione della Fincantieri - n. 2-00579)
PRESIDENTE. L'onorevole Burgio ha facoltà di illustrare la sua interpellanza n. 2-00579 (Vedi l'allegato A - Interpellanze urgenti sezione 4).
ALBERTO BURGIO. Signor Presidente, la mia sarà una breve illustrazione, poiché la vicenda è ben nota anche al Sottosegretario Tononi, che saluto. Si tratta di una vicenda industriale, che mi permetterei di definire sorprendente e, forse, temo anche paradigmatica di questa fase della storia del nostro Paese.
In breve, si tratta di una grande impresa industriale, di proprietà pubblica, sana, leader mondiale nel settore della cantieristica, che occupa poco meno di trentamila persone - se consideriamo anche l'indotto - in tutto il Paese (dal nord, comprendendo la Liguria, il Friuli, fino alla Sicilia).
Si tratta, dunque, di un «non problema», che rischia invece di tramutarsi in un problema drammatico, in primo luogo per l'occupazione di queste persone. Ciò è davvero stupefacente se si considera che, invece, la nostra economia di problemi ne presenta molti, e seri. Perché tale questione rischia di trasformarsi in un problema? Perché la Fincantieri rischia di essere privatizzata attraverso la quotazione in borsa di un pacchetto azionario sostanzialmente eguale a quello che rimarrebbe nella mano pubblica, cioè il 48 perPag. 80cento. Abbiamo già visto cosa può succedere: la vicenda di Alitalia lo ha insegnato.
La Fincantieri rischia di essere esposta alla speculazione finanziaria e immobiliare, con le conseguenze che deriverebbero, da queste premesse - lo lascio immaginare a lei, Presidente, e ai colleghi -, non solo sul terreno dell'occupazione, ma anche sul terreno della dispersione di saperi e di capacità produttive della nostra industria.
Entro nel dettaglio soltanto su quelli che, a mio avviso, sono gli elementi di fondo, essenziali, di tale quadro: lo stato dell'impresa.
Leader mondiale, Fincantieri detiene quasi il 60 per cento degli ordinativi mondiali della cantieristica e ha segnato un incremento degli ordinativi, dal 2005 al 2006, di poco meno del 40 per cento, per un totale di dieci miliardi di euro. Per farvi un'idea: oggi Fincantieri ha quattordici navi in ordinativo - anzi quindici perché se n'è aggiunta una ieri - a fronte di nove dell'immediata concorrente (l'azienda finlandese Aker); detiene il 43 per cento del mercato delle navi da crociera; è in continua espansione, ultimamente ha comprato un cantiere di riparazione e trasformazione navi in Germania; non ha alcuna esposizione debitoria verso le banche; detiene un ottima accumulazione delle riserve. Sul terreno industriale del cosiddetto know-how, della proprietà dei brevetti e prototipi, ci è invidiata nel mondo; tra l'altro, si tratta di prototipi e brevetti che interessano anche settori sensibili per la sicurezza del Paese. Il numero degli occupati totali (elemento, peraltro, socialmente rilevante) è di poco inferiore ai trentamila, distribuiti in maniera omogenea lungo tutto lo stivale, da Trieste (sede della direzione generale) a Monfalcone, Sestri Ponente, Genova, La Spezia e Marghera, ma anche a Palermo e Castellammare di Stabia, passando per Ancona, e ne ho citati soltanto alcuni!
In tali luoghi, signor Presidente, questi operai lavorano - con paghe tra le più basse d'Europa! - e chiedono soltanto di poter continuare a fare il loro lavoro in sicurezza, come stanno facendo e come si sono guadagnati sul campo il diritto di fare. Fincantieri, infatti, ha attraversato anche periodi difficili, ma ha riconquistato la propria funzione di leader con il lavoro e con la capacità imprenditoriale e, soprattutto, produttiva.
A fronte di questo quadro, cosa succede? Succede - per tale motivo abbiamo presentato la nostra interpellanza urgente - che il Governo, anzi i Governi (perché questa è una storia che dura da quindici anni, fin dall'inizio degli anni Novanta) reiteratamente, anzi - per usare un'espressione del sottosegretario Letta - testardamente, perseguono la finalità di dismettere per fare cassa, perché si tratta di un'operazione in larga misura di cartolarizzazione, e di privatizzare, secondo la teologia per la quale lo Stato non si deve interessare di produzione, anche quando la produzione va bene e le industrie pubbliche funzionano e stanno sul mercato senza essere assistite: tutto ciò con il rischio (riconosciuto esplicitamente Governo perché anche questo è stato detto, dal sottosegretario, nell'incontro di lunedì scorso con le organizzazioni sindacali) e la prospettiva di una finanziarizzazione.
Infatti, poiché si tratta di un settore a scarsa redditività nell'immediato, rischia di essere interessato soltanto il sistema creditizio e, sullo sfondo, si profila anche il rischio della totale dismissione e di una speculazione edilizia immobiliare sulle aree eventualmente dismesse.
Non voglio soffermarmi ulteriormente sui numeri, né sul fatto che, per ammissione dell'amministratore delegato, l'eventuale ricavato di tale collocazione in Borsa - che noi chiediamo non avvenga! - sarebbe destinato solo per il 10 per cento ad una ricapitalizzazione, perché il restante 90 per cento andrebbe all'azionista (cioè al Ministero dell'economia e delle finanze) e, dunque, si tratterebbe - come dicevo - di una cartolarizzazione! Non voglio, altresì, soffermarmi ulteriormente sui rischi di speculazione.
Osservo ciò: ci lamentiamo continuamente, quando parliamo all'opinione pubblica, del fatto che abbiamo un'economiaPag. 81che stenta e fa fatica. Parliamo, addirittura, del problema che il nostro apparato produttivo «perde colpi»! Qualcuno, addirittura, parla del declino industriale di questo Paese! Quando, però, abbiamo a che fare con veri e propri gioielli del nostro apparato industriale, cosa facciamo? Dismettiamo!
Conosco la vicenda, signor sottosegretario, perché la seguo da anni e da vicino, conosco la motivazione, e cioè il fatto che questo nuovo piano industriale richiederebbe ottocento milioni.
So anche che lei ha personalmente dichiarato che - se non ho letto male o se le fonti di cui dispongo non sono male informate - il Governo stanzierebbe 400 di tali milioni per la ricapitalizzazione, ove si realizzasse l'ipotesi di andare in borsa.
Però - me lo consenta - ho qualche dubbio su tali cifre, perché qualche mese fa tali importi indicati dal management, e non dai sindacati, erano inferiori e di molto: si parlava di 200, 250, massimo 300 milioni di euro per la ricapitalizzazione a fronte del medesimo piano industriale e il management affermava che tali cifre potevano essere autofinanziate.
All'improvviso si parla di ottocento milioni e, allora, si comprende che si tratta di una cifra funzionale a giustificare la necessità di quotarsi in borsa; insomma, una situazione che davvero lascia qualche perplessità.
Dunque, chiediamo a lei, signor sottosegretario, e per il suo tramite al Governo, quali siano le vostre valutazioni al riguardo e se quella testardaggine qualche volta non sia forse mal investita.
Chiediamo come giudicate il rischio di una delocalizzazione delle attività come prodromo ad una eventuale dismissione. Chiediamo, insomma, se non riteniate che sia il caso di rivedere la strategia adombrata, che tra l'altro nel piano industriale che conosciamo, non sarebbe neanche all'altezza di un turn over dei pensionamenti (si parla di 1.500 nuove assunzioni in cinque anni, cioè largamente sotto il turn over), e ciò a fronte di numerosi accordi disattesi dall'attuale management.
Mi riferisco soprattutto all'adeguamento degli organici e al turn-over: reiteratamente l'amministratore delegato attuale non ha mantenuto gli impegni assunti.
Chiediamo, infine, se non sia il caso che il Governo ci ripensi per conservare un pezzo importante del nostro apparato industriale e garantire la possibilità di continuare nella sua attività produttiva.
PRESIDENTE. Il Sottosegretario di Stato per l'economia e le finanze, Massimo Tononi, ha facoltà di rispondere.
MASSIMO TONONI, Sottosegretario di Stato per l'economia e le finanze. Signor Presidente, credo di dover capire fino in fondo le ragioni sottostanti tale processo di privatizzazione che il Governo ha già, peraltro, espresso e che oggi ribadirò.
Se necessario farò una premessa che riguarderà non soltanto quello che Fincantieri è oggi - come vedrà su molti punti siamo in assoluto accordo - ma anche sulle prospettive di Fincantieri, alla luce del mercato in cui opera.
Innanzitutto, partiamo da ciò che Fincantieri è oggi. Si tratta di un'azienda sana, l'ha detto anche lei e lo condivido pienamente, è un leader di mercato, ma non ha purtroppo, come lei ha ricordato, il 60 per cento del mercato della cantieristica: ha quote tra il 30 il 40 per cento di alcune nicchie di mercato quali le navi da crociera e le navi da trasporto. È però, un'azienda che esporta molto, è un campione nazionale, per usare un termine un po' controverso ma che non mi dispiace, capace di realizzare importanti sinergie tra il settore civile e militare, i suoi segmenti principali di attività, con il civile che, come sappiamo, è preponderante.
Si tratta di un'azienda che ha conseguito un posizionamento così apprezzabile nel corso degli anni, progressivamente conquistando nuovi clienti, nuovi ordini. Lei ha citato un dato che ribadisco: 10 miliardi di portafoglio ordini alla fine del 2006, che vale quasi quattro anni di fatturato, quindi un importo molto significativo.Pag. 82
Tutto ciò l'ha ottenuto facendo leva sulle sue prerogative in termini di competenza sul design, sulla tecnologia, sulle capacità di assemblaggio. È, insomma, un'azienda che in questi anni ha ben operato e che oggi rappresenta una realtà molto sana. Ha dovuto anche fronteggiare delle variabili obiettivamente negative negli anni, quali, ad esempio, il venir meno degli aiuti pubblici alla cantieristica, piuttosto che il deprezzamento del dollaro o, ancora, il forte aumento dei prezzi delle materie prime e dell'energia elettrica.
Quindi, sono stati anni positivi per una realtà che oggi indubbiamente possiamo ritenere tra le più brillanti nel panorama manifatturiero italiano.
Quali sono, però, le prospettive per questa azienda nei mercati in cui essa opera? Sono prospettive incoraggianti perché, per la maggior parte, i settori di attività di Fincantieri sono caratterizzati da tassi di crescita significativi.
Mi riferisco, in particolare, alla crocieristica, ma anche alle navi da trasporto, i ferry. Meno promettenti sono le prospettive del settore militare, come sappiamo, perché i budget della difesa sono in calo un po' dovunque, anche in Italia, e tale settore rappresenta di gran lunga il principale mercato di sbocco per questa azienda.
Poi, vi sono interessanti potenzialità in nicchie di mercato contigue al core business come il cosiddetto refitting cioè l'ammodernamento delle navi esistenti o il business dei mega yacht che, per motivi che sarebbe interessante esplorare, è in grandissima espansione a livello mondiale.
L'azienda, a fronte di queste prospettive così incoraggianti e promettenti del mercato, di grande crescita, per consolidare e mantenere la propria posizione di leadership, ha ritenuto di formulare un piano industriale di forte sviluppo delle proprie aree di attività, che segue varie direttrici, a cominciare dall'acquisizione di nuovi clienti nel core business della cantieristica.
Come lei sa, il rapporto privilegiato con il gruppo Carnival, che è il principale operatore mondiale del settore, è un punto di forza di Fincantieri, ma è anche un limite, per certi versi. Quindi, acquisire nuovi ordini e nuovi clienti è importante, e in questo senso l'azienda si è mossa bene. Anche recentemente, ha conseguito nuovi ordinativi da parte di altri operatori del settore.
Un'altra direttrice importante è certamente quella di occupare nicchie di mercato ad oggi inesplorate o quasi, come i mega yacht, sul quale segmento Fincantieri si è affacciata da poco, oppure di costruire una rete globale di servizio al cliente.
Parlavo prima di refitting: la Fincantieri è presente nel mediterraneo, a Palermo; è presente, con una quota di minoranza, in un cantiere tedesco per il nord Europa; non è presente nei Caraibi, che è il terzo grande mercato, che va sviluppato. Naturalmente, Fincantieri ambisce a consolidare queste presenze.
Nel campo militare, l'obiettivo prioritario di Fincantieri è di diversificare il livello geografico, entrando sul mercato americano e acquisendo ordini anche da altri Paesi, che magari non possono sfruttare una capacità produttiva locale. Noi crediamo che questo piano industriale, che abbiamo discusso per mesi con l'azienda, sia un buon piano, basato su un'analisi realistica del contesto di mercato e impostato su linee di azione convincenti e credibili, che conduce a risultati importanti e positivi da un punto di vista finanziario, ma anche e soprattutto strategico.
Del resto, riteniamo - e lo riteniamo davvero - che se Fincantieri rimane ferma, se non investe nel suo futuro, che deve necessariamente essere di sviluppo, data la dinamica di mercato, corre il serio rischio di perdere la sfida del mercato globale, dove sempre più la massa critica, la capacità di innovare costantemente il prodotto e la capacità di fornire ai propri clienti servizi globali sono fattori critici di successo.
Questo è il percorso di sviluppo che noi condividiamo; naturalmente, tale percorso presenta un'altra faccia della medaglia: quella delle risorse finanziarie necessarie per poterlo intraprendere ed attuare.Pag. 83
Lei, onorevole Burgio, ha citato alcuni numeri, che io in buona misura confermo, ma vorrei menzionare alcuni altri aspetti. Innanzitutto, gli investimenti: sono stati ipotizzati per investimenti sui cantieri circa 600 milioni di euro nell'arco di piano, quindi fino al 2011. Di questi, 525 in Italia. Si tratta di una cifra molto considerevole.
A ciò si aggiungono gli investimenti che la società ha ipotizzato per le acquisizioni di cui parlavo prima, che consentiranno di rafforzare quel business e di espandersi in segmenti contigui al core business. Si aggiungono gli investimenti in ricerca e sviluppo, che sono circa 50 milioni annui. Si aggiungono le esigenze finanziarie che derivano dal forte aumento del circolante in questa azienda, sia dall'incremento del fatturato, com'è fisiologico, ma anche e soprattutto da un trend di mercato inarrestabile, volto all'aumento delle dimensioni delle navi, con il conseguente allungamento dei tempi di realizzazione e la necessità di finanziare un capitale circolante crescente.
Vi è, poi, un forte impegno - lei lo ha menzionato, ma io vorrei dare una luce un po' diversa - sul fronte occupazionale, per valorizzare le risorse esistenti in azienda, e anche per assumere nell'arco di piano 1.500 persone, che, in base ai numeri a mia disposizione, sono più del turn over fisiologico, che è pari a 250 unità all'anno. Si tratta di 1.250 persone all'orizzonte di piano per un saldo netto positivo di 250 persone.
I risultati attesi a fine piano sono molto positivi e incoraggianti: forte aumento dei ricavi e dei profitti. Si tratta di un grande rafforzamento per quest'azienda, che le consentirà di mantenere la leadership di mercato che ha conseguito in questi anni.
Quello di Fincantieri è un piano che condividiamo, perché salvaguarda l'unitarietà dell'impresa, evitando smembramenti, anzi, investendo nel business in cui Fincantieri è attiva oggi, e rafforzandolo. È un piano che non contempla alcuna delocalizzazione delle attività svolte nei cantieri italiani, per i quali, anzi, come dicevo prima, si prevede di investire in modo significativo per l'ammodernamento nei medesimi.
In conclusione, si tratta di un piano industriale convincente e credibile da parte di un'azienda sana e dinamica, che vuole crescere e svilupparsi, perché è chiamata ad affrontare e vincere la sfida di un mercato in crescita.
È un piano industriale però che presuppone risorse finanziarie importanti, che Fincantieri da sola non è in grado di garantire con il suo autofinanziamento. Riteniamo, quindi, che per non pregiudicare l'equilibrio economico, patrimoniale e finanziario soprattutto dell'impresa, siano necessari nuovi capitali, che abbiamo quantificato (e tale numero è noto perché l'ho già menzionato in altre circostanze) in circa 400 milioni di euro. Lo Stato non intende e non può provvedere, anche perché esistono norme sugli aiuti di Stato che ben conosciamo a livello comunitario.
Crediamo quindi che la soluzione più logica sia il collocamento in borsa di Fincantieri, destinato prevalentemente a reperire risorse finanziarie per l'azienda. Lei ha menzionato una citazione, se ho ben capito, dell'amministratore delegato Bono che certamente, se l'ha fatta, è sbagliata. Dubito che l'abbia fatta: non può aver detto che il 90 per cento del capitale reperito in Borsa sia destinato all'azionista, perché non è così. Semmai è più probabile il contrario. Non voglio fare numeri perché è difficile, ma certamente la maggior parte di quanto reperito attraverso il collocamento in borsa è destinato a Fincantieri per i suoi investimenti, per il suo futuro, non per l'azionista venditore.
Un altro punto fondamentale è che lo Stato conserverà una quota non inferiore al 51 per cento. Ciò anche in considerazione del fatto che questa azienda ha una valenza strategica molto importante per il Paese, data la sua presenza nel settore militare. Quindi è il collocamento di una quota di minoranza, non una privatizzazione, volto ad ottenere i capitali necessari all'azienda per crescere, per creare occupazione, per rimanere leader di mercato.Pag. 84
Siamo consapevoli che su queste ipotesi non c'è convergenza di vedute, che forti sono state e sono tuttora le perplessità , come lei ha espresso. Devo dire che il processo che abbiamo seguito credo sia stato un processo apprezzabile per molti versi; è un confronto che dura da mesi con le organizzazioni sindacali e con i sindaci delle città dove Fincantieri è presente.
Avremo un'ulteriore riunione e un ulteriore confronto la prossima settimana, a Palazzo Chigi, su questo tema. Spero davvero che ne possa scaturire la condivisione di un percorso. Il percorso in cui noi, come Governo, intendiamo attivarci è quello che ha come suoi capisaldi innanzitutto il collocamento in borsa di una quota minoritaria di Fincantieri, finalizzata al reperimento di risorse finanziarie, consentendo a Fincantieri di attuare un piano industriale di crescita e di sviluppo, per il bene dell'azienda, per il bene del Paese, che così non perderà una dei suoi grandi campioni nazionali.
Del resto, se mi consente, onorevole, devo anche dire che il mancato reperimento delle risorse finanziarie che riteniamo necessarie per poter fare quanto ho menzionato prima ridimensionerebbe in maniera significativa le prospettive di sviluppo dell'azienda, mettendo a rischio la leadership di mercato che si è conseguita in questi anni e, quindi, mettendo a rischio anche ciò che Fincantieri è oggi.
PRESIDENTE. L'onorevole Burgio ha facoltà di replicare.
ALBERTO BURGIO. Signor Presidente, il sottosegretario, che ringrazio naturalmente, sa che da questa parte dell'Assemblea il Governo riceve comportamenti leali e costruttivi, ma nessun cedimento alla semplificazione di problemi complessi. In ragione di ciò gli chiedo quindi, e per suo tramite lo chiedo a tutto il Governo, a cominciare dai Ministri interessati, di ascoltare le nostre preoccupazioni, che devo dire rimangono, ahimé, intatte dopo la sua risposta, e gli chiedo altresì di valutare con particolare attenzione le nostre richieste, che poi non sono nostre.
Egli ha detto che il Governo giudica «buono» il piano industriale. Sì, lo giudica buono, però contemporaneamente riconosce che il piano industriale, nella misura in cui implica la quotazione in Borsa del 48 per cento del pacchetto azionario, porterà in Fincantieri le banche. E sappiamo che le banche sono un sistema di vasi comunicanti, che ragionano in termini di redditività finanziaria, e che questo settore non garantisce fisiologicamente una redditività comparabile ai tassi d'interesse, non voglio neanche dire alla speculazione finanziaria. Garantisce sul piano dell'occupazione.
Questo è un classico delle privatizzazioni: ex ante appaiono tutti scenari radiosi; il problema è che storicamente, però, si verifica sempre come minimo una precarizzazione di larghe fette dell'occupazione. Spero naturalmente di essere smentito, ed anzi, in prima battuta, spero che non procederete nella direzione evocata.
Il sottosegretario assicura che non vi saranno delocalizzazioni delle attività produttive; è però un fatto che lo scorso gennaio il management della società ha proceduto all'acquisto di un cantiere low cost in Ucraina: questa notizia non è stata smentita dalla stampa. Occorrerebbe allora chiedere al management di essere più attento nell'interlocuzione con i mass media, poiché la democrazia vive di informazione.
Il sottosegretario afferma, inoltre, che sarebbe pregiudizievole per lo sviluppo dell'impresa il fatto che essa rimanga ferma. Ciò è naturale: ma perché dovrebbe restare ferma? Perché, se in Europa molte aziende pubbliche funzionano e crescono (penso alla Renault in Francia), dobbiamo considerare la dismissione o la privatizzazione come condizioni per il dinamismo del nostro apparato industriale pubblico? È questo che non si riesce a comprendere. Perché dobbiamo lesinare fiducia nei confronti della nostra capacità produttiva quando è in mano pubblica?Pag. 85
La verità è che, in questa storia, vi sono carenze del management che, come dicevo in premessa, non ha onorato precisi impegni e ciò dovrebbe essere un elemento da tenere presente, nell'ambito del rapporto di affidamento che lo Stato mantiene nei confronti dei propri alti dirigenti. Va detto poi che da parte della politica - negli anni ma, ahimè, anche in questi ultimi tempi - è stata adottata una condotta non sempre lineare né sufficientemente esplicita: ricordo, lo ho riportato anche nel testo dell'interpellanza, che lo scorso novembre il Vicepresidente del Consiglio D'Alema, se non ricordo male nel corso di un question time, garantì che non vi erano orientamenti di apertura al mercato del capitale Fincantieri. Oggi, invece, ci troviamo a fare i conti con una prospettiva ben diversa. È una modalità che non ci appare consona alla rilevanza dei temi che stiamo trattando.
Vi è poi il tema del rapporto con i lavoratori, signor sottosegretario: è questo il punto che ci preme mettere in evidenza. Sapete che vi è una raccolta di firme che ha coinvolto oltre il 70 per cento delle maestranze della società - operai, impiegati, tecnici, ingegneri, dirigenti - e che vi richiede di fermarvi. È curioso che persino la dirigenza, non il vertice del management, ma la dirigenza, gli ingegneri, cioè coloro che progettano e costruiscono le navi, vi dicano che ce la possono fare e vi chiedono di non procedere in tale direzione, ed invece si continua a risponder loro che ciò non è vero. Bisognerebbe essere più cauti.
E vi sono poi i sindaci e gli amministratori locali che sono preoccupati: non vogliamo prendere in carico le loro preoccupazioni? Non avranno una qualche ragion d'essere? State attenti, perché non si può governare contro o senza un contatto diretto e un ascolto attento in primo luogo delle persone che lavorano.
Signor sottosegretario, lei sa che domani, qui a Roma, vi sarà uno sciopero ed una manifestazione: naturalmente, una risposta positiva alle nostre istanze e preoccupazioni avrebbe contribuito ad una facilitazione, ma giocoforza le cose faranno il loro corso.
Su una questione, però, vorrei richiamare la sua attenzione nel concludere il mio intervento: lei diceva che sarebbe interessante soffermarsi sul fenomeno dei megayacht. È vero, sarebbe molto interessante, perché si tratta di un settore trainante: si vendono e si costruiscono sempre più di questi megayacht. Ebbene, io avrei una piccola chiave di lettura, certamente estemporanea e improvvisata, di questo fenomeno: questo è un settore in espansione perché il modello di sviluppo che chiamiamo «globalizzazione neoliberista» genera diseguaglianza e radicalizzazione della polarizzazione. D'altra parte, è sufficiente leggere i rapporti che l'Istat compila rispetto al nostro Paese.
Temo che la scelta di andare in Borsa, di ricapitalizzarsi attraverso il coinvolgimento del sistema creditizio, di spingere verso una finanziarizzazione vada precisamente in quella stessa direzione. Naturalmente speriamo di no, per quanto riguarda la specifica attività oggetto della nostra interpellanza, ma ho il timore, invece, che le nostre preoccupazioni siano fondate.
Ad ogni modo, signor sottosegretario - e torno a ringraziarla -, lei ha in questa sede proferito impegni molto solenni e si è impegnato a nome del Governo. L'aula parlamentare è una sede che, benché oggi sotto attacco, rimane essenziale per la nostra vita civile e per la nostra democrazia, e gli impegni proferiti in questa sede sono come scritti nella pietra: noi vi chiediamo di assumerli e di considerarli come precisi ed inderogabili obblighi.
(Rinvio dell'interpellanza urgente Leone n. 2-00570)
PRESIDENTE. Avverto che, su richiesta dei presentatori e con il consenso del Governo, lo svolgimento dell'interpellanza urgente Leone n. 2-00570 è rinviato ad altra seduta.
Pag. 86(Presunte disparità nel sistema dei crediti formativi e scolastici derivanti dall'ordinanza ministeriale n. 26 del 2007 - n. 2-00597)
PRESIDENTE. L'onorevole Dato ha facoltà di illustrare l'interpellanza urgente Fiano n. 2-00597 (Vedi l'allegato A - Interpellanze urgenti sezione 5), di cui è cofirmataria.
CINZIA DATO. Signor sottosegretario, come lei sa, con la nostra interpellanza ci riferiamo all'ordinanza ministeriale n. 26 che, all'articolo 8, commi 13 e 14, introduce una palese discriminazione tra chi si avvale dell'insegnamento della religione cattolica e chi no, in relazione all'attribuzione del credito scolastico negli scrutini di ammissione alla maturità.
Si dirà che ormai gli scrutini sono conclusi e che i commi incriminati dall'ordinanza hanno esaurito i loro effetti. Tuttavia, lei si renderà conto che stiamo parlando di principi - in particolare dei principi di una istituzione fondamentale di un Paese qual è la scuola - e sui principi non si può transigere.
La formulazione dell'ordinanza ministeriale appare ambigua, perché, pur riprendendo il contenuto di ordinanze precedenti, non contiene nelle disposizioni generali - come invece quelle facevano - il richiamo esplicito dell'articolo 309, comma 4, del Testo unico delle disposizioni legislative in materia di istruzione e del decreto del Presidente della Repubblica 23 giugno 1990, n. 202, nel quale è ben chiarito che il voto dell'insegnante di religione cattolica in sede di deliberazioni del consiglio di classe non può essere determinante.
Inoltre, l'ordinanza ministeriale introduce una nuova discriminazione, con l'idea che coloro che non scelgono né insegnamento di religione cattolica né materie alternative che, come lei sa, spesso non vengono di fatto rese disponibili per gli studenti dagli istituti scolastici per tutta una serie di ragioni - ma noi genitori sappiamo bene che non esistono, nella maggior parte dei casi, reali alternative all'insegnamento di religione -, coloro, ripeto, che, appunto, non scelgono di fatto l'unico insegnamento disponibile nella maggior parte delle scuole, quello della religione cattolica, avrebbero dovuto, per conseguire analoghi benefici, cercare a posteriori improbabili certificazioni di attività utili per i crediti formativi.
Ciò, nonostante il fatto che la Costituzione, il nuovo Concordato, le intese con le altre religioni e il decreto legislativo n. 297 del 1994 ripetano costantemente, sebbene inutilmente, che la scelta di avvalersi o meno dell'insegnamento della religione cattolica non possa dar luogo ad alcuna forma di discriminazione. In questo modo, nonostante il fatto che la Corte costituzionale abbia stabilito, una volta per tutte, che chi non si avvale dell'insegnamento della religione cattolica non ha alcun obbligo a farlo, e quindi non è penalizzato in alcun modo - altrimenti ciò equivarrebbe ad imporre in qualche misura l'obbligatorietà della scelta -, di nuovo si introduce una differenza tra chi ha seguito l'insegnamento della religione cattolica e chi non lo ha seguito, aggiungendo la discriminazione tra i pochi fortunati che abbiano a disposizione materie alternative interessanti e credibili e coloro che in quell'ora abbiano legittimamente scelto di uscire dalla scuola.
Nell'ordinanza ministeriale n. 26 del 2007, sei confessioni religiose non cattoliche e numerose associazioni hanno percepito la grave discriminazione e hanno promosso un ricorso al TAR ottenendo la sospensiva dei due commi dell'articolo 8.
Il Ministro, invece di comprendere le ragioni di chi si è sentito discriminato e di correggere rapidamente l'ordinanza ministeriale che, lo ripeto, mancava dell'accenno sopra riportato, è ricorso al Consiglio di Stato con una motivazione poco convincente perché, pur ammettendo che l'insegnamento della religione non può essere valutato ai fini dell'attribuzione del credito scolastico, insiste nel dire che chi segue l'insegnamento della religione cattolica con profitto (o di una materia alternativa che, però, come abbiamo detto, inPag. 87pratica non esiste nella gran parte gli istituti) deve in qualche modo essere premiato.
Apprendiamo, dopo aver depositato l'interpellanza, che il Consiglio di Stato ha accolto il ricorso del Ministro, tra l'altro perché non si rinvengono i profili di pregiudizio grave e irreparabile in capo agli originali ricorrenti, mentre significativi pregiudizi possono patire i destinatari delle norme impugnate.
Ora, è veramente imbarazzante che la sentenza del Consiglio di Stato arrivi due giorni dopo gli scrutini, a guaio già combinato, che seppur probabilmente minimo nei suoi effetti, attiene a dei principi, alla cittadinanza e alla coesione di un Paese.
Si ammette, quindi, che l'ordinanza ministeriale n. 26 del 2007 avrebbe potuto dare diritto ad un sospirato punto in più di credito scolastico solo a chi si fosse avvalso dell'insegnamento della religione cattolica e di materie alternative (nel frattempo non disponibili) e non agli altri.
Si ricorda, peraltro, che parliamo di un punto in più nel giudizio di ammissione consapevoli del fatto che esso possa influire sul giudizio finale e lei sa, signor sottosegretario, che tale giudizio ha un valore determinante per i concorsi e per l'ammissione all'università. Ciò crea davvero imbarazzo, in un Paese come il nostro, da parte di un Governo che io sostengo, appassionatamente, ma del quale non capisco alcune posizioni come questa.
Non posso non farmi voce dell'accorato desiderio di riconoscersi nelle decisioni del Governo da parte dei rappresentanti di molte delle associazioni citate che si trovano in un momento di difficile comprensione del senso di alcune scelte.
A questo punto i danni sono fatti, ma probabilmente ammettere l'errore - credo - sarebbe un atto doveroso e indispensabile per ricreare un clima di serena collaborazione tra credenti e non credenti, tra cattolici ed appartenenti ad altre religioni, tanto più che il clima che si è creato spingerà gli interessati a proseguire per le vie giurisdizionali.
Tali argomenti non dovrebbero, invece, essere oggetto di contese giudiziarie, ma costituiscono una importante domanda di appartenenza, di cittadinanza, di diritti civili e fondamentali, lo ripeto, per la coesione sociale.
Il Governo dovrebbe, pertanto, prendere l'iniziativa per chiarire cosa sia successo e quali provvedimenti intenda assumere, in quanto la scelta di avvalersi o meno dell'insegnamento della religione cattolica non dia più luogo ad alcuna forma di discriminazione, che, peraltro, non è coerente con i principi che ispirano la religione cattolica stessa.
PRESIDENTE. Il sottosegretario di Stato per la pubblica istruzione, Maria Letizia De Torre, ha facoltà di rispondere.
MARIA LETIZIA DE TORRE, Sottosegretario di Stato per la pubblica istruzione. Signor Presidente, prima di rispondere ai diversi quesiti posti nell'interpellanza in discussione, ricordo che, sulla questione, è già stato riferito in quest'aula il 31 maggio scorso. In quell'occasione, ho già affermato che questi temi non possono dividere il Paese e vorrei anche aggiungere che, forse, è necessario ritornare allo spirito del concordato, per cui l'ora di religione cattolica non doveva vertere sul catechismo della religione cattolica stessa, ma rappresentare un momento dedicato a una cultura che appartiene ad una parte della cultura di questo Paese.
In merito al primo punto dell'interpellanza, ricordo che l'insegnamento della religione cattolica trova la sua disciplina nella legge 25 maggio 1985 n. 121, che ha ratificato e reso esecutivo l'accordo addizionale del 18 febbraio 1984 - con il quale è stato modificato il Concordato lateranense - e nelle successive specifiche Intese stipulate tra lo Stato e la CEI, rese esecutive con i decreti del Presidente della Repubblica del 16 dicembre 1985, n. 751 e del 13 giugno 1990, n. 202.
In particolare, l'articolo 9 della suddetta legge prevede che debba essere assicurato, nel quadro delle finalità della scuola, l'insegnamento della religione cattolica agli allievi che ne facciano richiesta, che debba essere garantito a ciascuno ilPag. 88diritto di scegliere se avvalersi o meno di detto insegnamento e che l'esercizio di tale diritto non debba dare luogo ad alcuna forma di discriminazione.
In forza delle norme dell'Accordo e delle successive Intese, l'insegnamento della religione cattolica si colloca nel quadro delle finalità della scuola ed ha dignità formativa e culturale pari a quelle delle altre discipline.
Quanto alla partecipazione dei docenti di religione all'attività degli organi collegiali della scuola, la stessa è prevista al punto 2.7 dell'Intesa - resa esecutiva con il decreto del Presidente della Repubblica n. 202 del 1990 - la quale stabilisce che gli insegnanti di religione cattolica fanno parte della componente docente degli organi scolastici con gli stessi diritti e gli stessi doveri degli altri insegnanti. Tuttavia, essi partecipano alle valutazioni periodiche finali soltanto per gli allievi che si sono avvalsi di tale insegnamento, fermo restando quanto previsto dalla normativa statale in ordine al profitto e alla valutazione di tale insegnamento.
Il medesimo disposto precisa anche che nello scrutinio finale, nel caso in cui la normativa statale richieda una delibera da adottarsi a maggioranza, il voto espresso dall'insegnante di religione cattolica, se determinante, diviene un giudizio motivato iscritto a verbale. Infatti, a norma dell'articolo 309, comma 4, del testo unico in materia di istruzione - decreto legislativo n. 297 del 1994 - l'insegnante di religione per la valutazione del profitto della sua disciplina non dà un voto, ma esprime un giudizio. La circostanza che, per gli alunni che se ne avvalgano, la comunicazione del profitto avvenga mediante una speciale nota, anziché nel contesto delle altre discipline, assume un rilievo ininfluente, in quanto attiene esclusivamente alle modalità di comunicazione e non a quelle di svolgimento dell'insegnamento della religione cattolica.
Riguardo al secondo punto che richiama le sentenze della Corte costituzionale n. 203 del 1989 e n. 13 del 1991, faccio presente che la normativa vigente è conforme alle richiamate sentenze della Corte costituzionale in quanto assicura parità di trattamento agli alunni che non intendano avvalersi della regione cattolica, sia attraverso l'offerta da parte delle scuole di attività alternative (certamente c'è da augurarsi che tali attività ci siano, e comunque, per quanto ne sono a conoscenza, so che ci sono tante offerte formative all'interno degli istituti scolastici), sia attraverso la possibilità concessa allo studente di svolgere studi individuali, sia anche - come a suo tempo chiarito con circolare n. 122 del 1991, a seguito della richiamata sentenza della Corte costituzionale n. 13 del 1991 - di optare di allontanarsi dalla scuola durante l'ora dell'insegnamento della religione.
Relativamente al terzo punto, circa la presunta violazione da parte dell'ordinanza in questione delle norme dell'articolo 309, quarto comma, del decreto legislativo n. 297 del 1994, valgono le considerazioni già espresse con riguardo al primo punto dell'interpellanza.
In ordine alla risposta fornita alla interpellanza urgente numero 2-00561 dell'onorevole Poretti in data 31 maggio 2007, confermo che l'insegnamento della religione non può non essere valutato ai fini dell'attribuzione del credito scolastico, dal momento che il regolamento (decreto del Presidente della Repubblica n. 323 del 1998) formalmente riconosce, ai fini della valutazione del credito, il grado di preparazione complessiva raggiunta da ciascun alunno nell'anno scolastico in corso, con riguardo al profitto e tenendo in considerazione anche l'assiduità della frequenza scolastica, ivi compresa, per gli istituti dov'è prevista, la frequenza alle aree di progetto, l'interesse e l'impegno nella partecipazione al dialogo educativo, alle attività complementari e integrative, ed eventuali crediti formativi.
Preciso, al riguardo, che nella prima stesura del resoconto stenografico della seduta del 31 maggio scorso, relativa alla discussione della succitata interpellanza urgente, per mero errore materiale nella trascrizione della frase è stato omesso un «non». Tuttavia, dal contesto del discorso, si rileva che il significato è quello chePag. 89l'insegnamento della religione cattolica viene valutato ai fini dell'attribuzione del credito scolastico. L'errore è già stato corretto nella versione Internet, per la versione cartacea seguirà l'errata corrige.
Per quanto riguarda il quinto punto dell'interpellanza faccio presente che l'istituto del credito scolastico è stato introdotto dalla legge n. 425 del 10 dicembre 1997, recante disposizioni per la riforma degli esami di Stato conclusivi dei corsi di studio di istruzione secondaria superiore, e disciplinato nel successivo regolamento emanato con decreto del Presidente della Repubblica 23 luglio 1998, n. 323 e che le disposizioni contenute nell'ordinanza ministeriale n. 26 del 15 marzo 2007 nulla innovano, in quanto richiamano espressamente il citato regolamento n. 323.
Ai sensi della normativa succitata è credito scolastico: il giudizio espresso dal docente di religione per gli allievi che si avvalgono dell'insegnamento della religione e dai docenti delle attività alternative per quelli che si avvalgono di tale attività, la certificazione della scuola per altre attività, ivi compreso lo studio individuale. Per gli allievi che hanno scelto di assentarsi dalla scuola, l'arricchimento conseguito attraverso l'eventuale partecipazione ad iniziative formative rese note alla scuola stessa viene valutato come credito formativo.
Nell'ipotesi in cui non fosse riconosciuta la partecipazione del singolo discente all'attività didattica svolta dal docente di religione, si finirebbe per alterare il sistema attuale che impone all'amministrazione scolastica di valutare e riconoscere come credito l'impegno in ciascuna delle attività svolte di cui si compone la complessiva offerta dell'istituto e i risultati conseguiti sul piano formativo; in tal caso la religione cattolica non verrebbe valutata né come credito scolastico né come credito formativo.
Infine, con riguardo all'ordinanza del tribunale amministrativo del Lazio che ha sospeso l'efficacia dell'ordinanza ministeriale n. 26 del 15 marzo 2007, contenente istruzioni e modalità organizzative ed operative per lo svolgimento degli esami di Stato conclusivi dei corsi di studio della scuola secondaria superiore, nella parte in cui, all'articolo 8, punti 13-14, prevede l'attribuzione del credito scolastico agli alunni che si sono avvalsi dell'insegnamento della religione cattolica, il Consiglio di Stato, a seguito dell'appello proposto dal Ministero, ne ha sospeso l'esecutività, ripristinando l'efficacia dell'ordinanza ministeriale.
Evidentemente, il Consiglio di Stato, nel concedere la sospensione dell'esecutività dell'ordinanza del TAR, non ha ravvisato alcuna lesione attuale e concreta degli interessi delle organizzazioni che hanno avanzato ricorso, né dei discenti - ed in particolare dei due appellanti - che non hanno optato per l'insegnamento della religione cattolica, ovvero per le attività alternative, tenuto conto che nulla viene tolto ai fini della loro personale valutazione, sicché restano per i medesimi integre le possibilità di conseguire il massimo del credito, tanto più che non si versa in ambito concorsuale, con la conseguenza che, in definitiva, i risultati raggiunti dagli altri non assumono rilievo alcuno. Diversamente, si sarebbe corso il rischio di pregiudicare la maggioranza dei discenti destinatari delle norme impugnate, che avevano optato per l'insegnamento della religione cattolica o per le attività alternative, e che, dunque, vantavano una legittima aspettativa affinché tali attività fossero riconosciute in sede di attribuzione del credito scolastico. L'amministrazione ha avuto ora notizia che l'appello al Consiglio di Stato è stato accolto nella camera di consiglio del 12 giugno - come ricordato - e che, pertanto, la sospensiva del TAR Lazio è stata definitivamente annullata, con conseguente conferma dell'ordinanza ministeriale n. 26 del 15 marzo 2007, oggetto di contestazione nella parte riguardante l'articolo 8, punti 13 e 14.
PRESIDENTE. L'onorevole Dato ha facoltà di replicare.
CINZIA DATO. Signor Presidente, ringrazio il sottosegretario per la risposta maPag. 90non posso dichiararmi soddisfatta perché sono certa che questa risposta del Governo non sia sufficiente a soddisfare le richieste, i sentimenti e i diritti di coloro che si ritengono penalizzati da simili criteri. Peraltro, io ricordo, sottosegretario, che lei stessa ha affermato che l'insegnamento della religione non può essere valutato ai fini dell'attribuzione del credito scolastico; e, mi perdoni se semplifico, quella tra credito scolastico e credito formativo è una differenza che corre tra un criterio quantitativo e un criterio qualitativo.
Che il giovane che riesce ad impegnarsi in più opportunità di crescita e di maturazione, venga considerato positivamente, alla luce di questo suo impegno, è un dato comprensivo e giusto, ma lei capisce che se noi mettessimo a parità di condizioni i giovani che svolgono attività extrascolastiche, di volontariato, sportive e di apprendimento delle lingue (a parte il fatto che spesso le attività extrascolastiche che si svolgono dipendono anche dalle possibilità complessivamente considerate della famiglia di appartenenza, e, quindi, tali attività andrebbero valutate a prescindere dal reddito della famiglia di appartenenza), troveremmo comunque una diversità di valutazione tra i giovani che, o perché sono fortunati e usufruiscono di un insegnamento molto interessante della religione cattolica che, dunque, diviene per loro naturale seguire, o perché sono credenti, verrebbero di fatto privilegiati rispetto a coloro che, in ipotesi, appartenessero ad altre religioni o che, viceversa, non ne avessero alcuna.
MARIA LETIZIA DE TORRE, Sottosegretario di Stato per la pubblica istruzione. Ma non è così! Possono fare anche lo studio individuale.
CINZIA DATO. Non si può ammettere in alcun caso che vi sia una diversità, nel senso che l'appartenere o meno ad una religione non ha alcuna relazione con i valori in cui ci si riconosce, né con il percorso di maturazione filosofica, concettuale ed etica che ciascuno di noi ha, perché possiamo avere tutti quanti gli stessi valori e, peraltro, nella vita, sotto questo profilo, le nostre condizioni cambiano e si evolvono. L'appartenere ad una religione o meno cambia soltanto il titolo di legittimazione che si dà: gli uni possono credere a dei valori per la rivelazione, gli altri possono credere perché li attribuiscono all'umanità; e, sottosegretario, non credo che introdurre diversità di questo genere aiuti il dialogo che bisogna costruire nel nostro Paese, nonché il senso di coesione e di identità, al di là delle forme specifiche in cui questo si concretizza.
La scuola italiana offre la possibilità dell'insegnamento di religione, e questa è una buona opportunità, ma che ciò si traduca in un fattore percepito come possibile discriminazione per i giovani, ritengo non sia davvero un bene per il nostro Paese. Perché non si ascoltano almeno le religione che hanno firmato intese con lo Stato, prima di fare ordinanze simili? E perché non si ascoltano anche le associazioni, per esempio, dei non credenti, che portano contributi importanti al nostro Paese e alla riflessione sulla difesa dei diritti di tutti e di ciascuno?
Che ci si consideri cattolici o meno, è importante pensare che non sia vero che la libertà di ciascuno di noi comincia dove finisce la libertà dell'altro o finisce dove comincia la libertà dell'altro: sarebbe bello che la libertà di ciascuno di noi cominciasse dove comincia la libertà di ciascuno degli altri.
MARIA LETIZIA DE TORRE, Sottosegretario di Stato per la pubblica istruzione. Ma stiamo confondendo i piani!
CINZIA DATO. Mi auguro, sottosegretario, che il Governo possa davvero intavolare un dialogo aperto con tutti coloro che, a seguito di decisioni simili, hanno difficoltà a identificarsi nell'azione di un Governo, che tutti giudichiamo positiva e che sosteniamo.
Le chiedo di aprire un dialogo diretto con i portatori di sentimenti profondi e di grande dignità perché non mi sembra un buon mezzo affidare a querelle giuridiche un dialogo costitutivo della nostra coesionePag. 91sociale, come quello che pongono i rappresentanti delle associazioni che hanno promosso il ricorso e sensibilizzato il nostro impegno.
(Determinazione dell'importo del deficit sanitario della Puglia - n. 2-00482)
PRESIDENTE. L'onorevole Mazzaracchio ha facoltà di illustrare l'interpellanza Leone n. 2-00482 (Vedi l'allegato A - Interpellanze urgenti sezione 6), di cui è cofirmatario.
SALVATORE MAZZARACCHIO. Signor Presidente, sul deficit sanitario accumulato dalla regione Puglia nell'anno 2006 - giunta presieduta dall'onorevole Vendola - il Governo ha assunto due posizioni letteralmente opposte. La prima, quella del Ministero dell'economia e della Corte dei conti e riferita al tavolo Governo-regioni, è espressa nei dati pubblicati il 14 aprile 2007 da Il Sole 24 Ore, che ne riportava la fonte autorevole e dai quali risultava che la Puglia, nel 2006, aveva accumulato un deficit di 290 milioni di euro nei conti sanitari per il 2006, classificandosi al secondo posto, dopo la regione Sicilia, tra le cosiddette «regioni canaglia».
La seconda posizione, quella del Ministero della sanità, espressa solo tre giorni dopo, in data 17 aprile 2006, in una dichiarazione del Ministro Livia Turco all'agenzia di stampa Dire recitava testualmente: «290 milioni di extradeficit per la Puglia? Solo indiscrezioni di stampa. La Puglia si dimostrerà virtuosa». L'assessore al bilancio della regione, Francesco Saponaro, aggiungeva: «Al tavolo tecnico stiamo portando i nostri calcoli. La stima è che il deficit su base annua del 2006 sia più basso degli anni precedenti, e assommi a 167 milioni di euro».
Come preannunciato dal Governo, a fine aprile il Presidente del Consiglio Prodi ha inviato alla regione Puglia una lettera di diffida ed ha, in seguito, nominato il presidente della regione Commissario per il ripiano del deficit del 2006, imponendo alla regione la presentazione al Governo di un piano di rientro dal deficit che, nel frattempo, è stato presentato dalla regione Puglia al Ministero dell'economia e delle finanze e ammonta a 211 milioni di euro, a fronte di un deficit che, secondo il Ministero, ammonta a 290 milioni. Quindi, prima si è detto 167, poi 190, poi 211, poi 290 milioni di euro.
Vorremmo sapere se il Governo sia riuscito a farsi un'idea unica e condivisa sulla cifra del deficit sanitario della Puglia nel 2006 e vorremmo conoscere i motivi per i quali due Ministri del Governo avessero due visioni opposte e numeri completamente diversi sui conti sanitari della Puglia nel 2006.
Vorremmo anche sapere se il deficit accertato dal Ministro dell'economia e delle finanze e dalla Corte dei conti fosse di 290 milioni di euro e se il piano di rientro presentato dalla regione Puglia ammontasse a 211 milioni di euro. Ciò vorrebbe dire che il piano di rientro è insufficiente o che il Ministro dell'economia e delle finanze e la Corte dei conti avevano dati sbagliati.
Il Governo è in grado di comunicare la cifra esatta - accertata non dalla regione Puglia, ma dal Ministero della salute e dal Ministero dell'economia e delle finanze - del deficit della Puglia nel 2006? Perché il Ministro dell'economia e delle finanze non si è ancora espresso sul piano di rientro presentato dalla regione Puglia?
PRESIDENTE. Il sottosegretario di Stato per la salute, Gian Paolo Patta, ha facoltà di rispondere.
GIAN PAOLO PATTA, Sottosegretario di Stato per la salute. Signor Presidente, le dichiarazioni del Ministro Livia Turco riportate nell'interpellanza sono state rilasciate ad alcuni organi di stampa in occasione della firma, lo scorso 17 aprile, del protocollo d'intesa da parte dei Ministri della salute e dello sviluppo economico e dei presidenti delle otto regioni del sud e delle isole, con il quale viene inserito per la prima volta, negli obiettivi del quadro strategico nazionale 2007-2013, lo sviluppo dei servizi sanitari nel Mezzogiorno, utilizzandoPag. 92fondi europei per 3 miliardi di euro.
Le regioni Abruzzo, Molise, Campania, Basilicata, Puglia, Calabria, Sicilia e Sardegna potranno destinare tali risorse economiche all'ampliamento e all'ammodernamento della propria rete sanitaria, in aggiunta a quelle previste dal Servizio sanitario nazionale. Tali regioni hanno così la possibilità di trasformare quello che è stato definito un «ritardo storico» in un'opportunità straordinaria di innovazione dell'assistenza sanitaria e di crescita economica e sociale.
In tale occasione, il Ministro Turco ha espresso una valutazione complessivamente positiva sulla tenuta del sistema gestionale della sanità in Puglia, in relazione al carattere non strutturale che sembra avere il disavanzo registrato per la regione nel 2006 e all'impegno dell'amministrazione regionale nell'individuazione dei necessari provvedimenti di correzione.
Il disavanzo 2006, certificato dal tavolo di verifica degli adempimenti, istituito ai sensi dell'articolo 12 dell'intesa Stato-regioni del 23 marzo 2005, è pari a 291,890 milioni di euro.
La valutazione è basata sui dati di preconsuntivo che le regioni trasmettono al nuovo sistema informativo sanitario del Ministero della salute. Del tavolo fanno parte rappresentanti del Ministero dell'economia e delle finanze, del Ministero della salute, dei coordinamenti sanità e affari finanziari delle regioni, dell'Agenzia per i servizi sanitari regionali, del Dipartimento per gli affari regionali, della segreteria della Conferenza Stato-Regioni, della segreteria della Conferenza delle regioni e province autonome.
Il disavanzo 2006 costituisce un campanello di allarme che il Governo ha immediatamente registrato, attivando di conseguenza la procedura prevista dall'articolo 1, comma 174, della legge n. 311 del 2004 (legge finanziaria 2005), come modificato e integrato dall'articolo 1, comma 796, lettera c) della legge n. 296 del 2006 (legge finanziaria 2007), e diffidando la regione ad adottare i necessari provvedimenti di copertura.
La valutazione espressa dal Ministro Turco, senza nulla togliere alla cogenza della procedura attivata, inquadra peraltro il disavanzo 2006 nel contesto specifico della sanità pugliese. In passato la regione ha fatto registrare disavanzi molto contenuti che è stata in grado di coprire con risorse proprie e, inoltre, sono in fase di accertamento da parte della regione possibili fattori correttivi.
Soprattutto l'amministrazione regionale ha dichiarato il proprio impegno ad individuare le misure per la copertura del disavanzo e a realizzare i necessari interventi. Al riguardo, va sottolineato che proprio in base alla procedura avviata ai sensi dell'articolo 1, comma 174, della legge n. 311 del 2004 e successive modificazioni, il Presidente della giunta in qualità di Commissario straordinario procede ad individuare i fattori correttivi e le misure di copertura necessarie, la cui congruità sarà poi valutata dal tavolo di verifica.
L'azione del Governo è volta a realizzare un rapporto di cooperazione con tutte le regioni che, nel rispetto della loro autonomia e della loro completa responsabilità di bilancio, consenta di conseguire più avanzati obiettivi di efficacia e di efficienza del Servizio sanitario nazionale.
Va infine rilevato che un segnale positivo che il Governo ritiene di poter cogliere nella realtà sanitaria pugliese è costituito anche dal fatto che nel corso dell'ultimo anno questa regione ha recuperato fortemente sul piano della propria capacità programmatoria.
Infatti, nel corso delle ultime settimane si è concluso favorevolmente l'iter istruttorio per la sottoscrizione di un nuovo accordo di programma per l'utilizzo di fondi ex articolo 20 della legge 11 marzo 1988, n. 67, per l'edilizia sanitaria e l'ammodernamento tecnologico.
Si tratta di un accordo per circa 400 milioni di euro, che sarà portato all'approvazione della Conferenza Stato-regioni in una delle prossime sedute.
PRESIDENTE. L'onorevole Mazzaracchio ha facoltà di replicare.
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SALVATORE MAZZARACCHIO. Signor Presidente, sono soddisfatto per la parte concreta. Per quanto riguarda, invece, la «parte fantasiosa» relativa alle dichiarazioni del Ministro della salute, che il sottosegretario Patta sostiene siano state rese casualmente, posso ritenere che si tratti di un fatto secondario.
La mia soddisfazione però resta, perché finalmente il sottosegretario rivela la reale entità del debito nella sanità della regione Puglia, cioè 291 milioni 800 mila euro. Ciò significa che sia le stime dell'assessore alla sanità, che aveva fornito una prima valutazione di 168 milioni di euro, sia i dati forniti dalla regione al Ministero, che ammontavano a 211 milioni di euro, si sono rivelati non veritieri.
Finalmente il Governo ci dice la verità. Speriamo che adesso il Governo possa seguire la situazione, perché la regione Puglia deve dire attraverso quali strumenti, quali mezzi riuscirà a coprire la differenza tra i 211 milioni di euro comunicati al Ministero dell'economia e delle finanze e i 291,800 milioni di euro che rappresentano il debito effettivo.
Tale risposta la fornirà con calma il Governo, perché nel frattempo debbo ritenere che il debito continuerà ad aumentare, ma teniamo comunque a sapere, anche entro tempi relativamente brevi, come coprirà questa differenza. La ringrazio comunque per aver finalmente rivelato la verità.
PRESIDENTE. È così esaurito lo svolgimento delle interpellanze urgenti all'ordine del giorno.