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Discussione della mozione Giancarlo Giorgetti ed altri n. 1-00248 relativa ai negoziati sullo status del Kosovo.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione della mozione Giancarlo Giorgetti ed altri n. 1-00248 relativa ai negoziati sullo status del Kosovo (Vedi l'allegato A - Mozione sezione 1).
Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi riservati alla discussione della mozione è pubblicato in calce al resoconto della seduta del 20 novembre 2007.
(Discussione sulle linee generali)
PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali della mozione.
È iscritto a parlare l'onorevole Giancarlo Giorgetti, che illustrerà anche la sua mozione n. 1-00248. Ne ha facoltà.
GIANCARLO GIORGETTI. Signor Presidente, l'unico atto internazionale oggi in vigore che riguardi lo status del Kosovo è costituito dalla risoluzione del Consiglio di sicurezza n. 1244 del 10 giugno 1999. Tale atto, seppur non privo di ambiguità, rappresenta l'unico momento di accordo unanime della comunità internazionale e la sua violazione costituirebbe a tutti gli effetti un atto illegittimo.
La risoluzione sancisce alcuni principi molto chiari, seppur maturata all'indomani di un intervento internazionale molto controverso e, per la prima volta dal dopoguerra, non autorizzato dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Tra i contenuti inequivocabili della risoluzione n. 1244, il principio del rispetto dell'integrità territoriale della sovranità dello Stato serbo, erede della federazione jugoslava, unitamente all'impegno ad assicurare al Kosovo una sostanziale autonomia. Coerentemente a ciò, nell'aprile 2004 il Governo di Belgrado ha approvato autonomamente un assetto cantonale per il Kosovo che garantisce alla regione amplissima autonomia.
Constatata l'inefficacia dell'intervento internazionale nella regione, i Paesi coinvolti, attraverso l'ONU, hanno voluto imprimere una forte accelerazione al negoziato sullo status, inviando un negoziatore, Martti Ahtisaari, la cui proposta di una sostanziale indipendenza del Kosovo, sotto la transitoria tutela di una forza internazionale, non poteva che incontrare l'opposizionePag. 100del Governo serbo. Di fronte al fallimento del «piano Ahtisaari» e alle difficoltà di compromesso tra le parti, la comunità internazionale pare fortemente tentata dall'idea di imporre una soluzione che soddisfi almeno una parte e che possa avviare in qualche modo un disimpegno dall'area, ma sostenere un'opzione che violi il principio di sovranità degli Stati e il diritto internazionale vigente sconfessa il prestigio e le fondamenta della comunità stessa. È assolutamente improprio in questo caso un riferimento al diritto di autodeterminazione. Come ha scritto il generale Mini, il Kosovo non si è né liberato né autodeterminato: è stato solo miracolato da una guerra scatenata da potenze esterne che ha determinato un cambiamento di equilibrio nei poteri interni di uno Stato sovrano.
Se l'intervento umanitario era già discutibile per la mancanza di un via libera da parte del Consiglio di sicurezza, esso non può arrivare a determinare un cambiamento dello status giuridico del Paese, altrimenti sarebbe un intervento totalmente illecito alla luce del diritto internazionale. Alla vigilia del 10 dicembre 2007, data entro cui dovrebbero concludersi i negoziati, i leader kosovari e gli ex guerriglieri dell'UCK, che, dopo aver portato il vessillo della grande Albania, ora siedono in posizioni di governo, hanno ufficialmente dichiarato che se l'indipendenza non sarà l'esito naturale dei negoziati, la regione procederà immediatamente ad una dichiarazione di indipendenza unilaterale. L'indicazione del 10 dicembre 2007 come deadline per una soluzione definitiva, qualunque essa sia, sta pericolosamente emergendo anche in altre capitali.
Il Presidente francese Nicolas Sarkozy, al termine dell'incontro del 9 ottobre scorso a Mosca con Vladimir Putin, ha affermato di aver detto al Presidente russo che l'Europa - parla, dunque, anche per conto nostro - riconoscerà l'indipendenza della regione se non si arriverà ad un accordo nei tempi previsti.
L'eventuale indipendenza del Kosovo non potrà non avere un effetto destabilizzante a cascata su altre regioni balcaniche, che vivono al loro interno difficili rapporti tra diverse comunità etniche. È il caso della Macedonia, del Montenegro ma soprattutto della Bosnia Erzegovina.
Gli accordi di Dayton del 1995 hanno sancito l'integrità della Repubblica, ma divisa in due entità dotate ciascuna di Parlamento e Governo proprio. Di queste, la Repubblica a maggioranza serba Srpska rappresenta il 49 per cento del territorio. È ormai entrato nel comune sentire dei serbi della Bosnia un diretto collegamento tra un'eventuale indipendenza di Pristina e un eguale diritto alla secessione per la Repubblica Srpska. Se quest'ipotesi dovesse prendere piede, la catena delle rivendicazioni etniche potrebbe contagiare gli interi Balcani.
Un Kosovo indipendente non garantirebbe la sicurezza delle comunità serbe, quelle rimaste nella provincia e quelle costrette dagli estremisti albanesi a lasciarla, naturalmente senza copertura mediatica televisiva. Dopo i fatti del 2003, che hanno lasciato 19 morti sul terreno sotto gli occhi delle forze internazionali, è chiaro che l'intento dei kosovari albanesi è quello della pulizia etnica, naturalmente senza copertura mediatica.
Il Kosovo oggi è definito, nella letteratura geopolitica, lo Stato delle mafie. Si tratta di un territorio le cui istituzioni non hanno né la forza, né la capacità di governare un Paese, praticamente privo di un'economia legale, che non potrebbe, in ogni caso, essere indipendente da una presenza internazionale. Basta fotografare il clima politico in cui si sono svolte le recenti elezioni del 17 novembre: i diversi candidati non erano conosciuti per il loro programma politico, ma indicati dalla popolazione per il proprio predominio in questo o quel tipo di affare illecito.
La mozione presentata dal gruppo Lega Nord Padania ha prima di tutto l'intento di portare il Parlamento a discutere approfonditamente sulla questione dello status del Kosovo e di far sì che il Governo italiano assuma una posizione chiara in merito, su indirizzo di questa Assemblea. Lo abbiamo già fatto in Commissione conPag. 101una risoluzione, tuttavia ci sembra che poi gli atti concreti non rispondano esattamente a tale indirizzo.
L'Italia, come molti altri Paesi, a brevissimo termine si troverà ad esprimere le proprie posizioni e a cercare di costruire una posizione comune e condivisa a livello europeo. Le posizioni americane e russe sono note e stanno, ad oggi, pesando moltissimo sul processo negoziale. Non altrettanto chiaro è il pensiero del vecchio continente, dove alcuni Paesi stanno assumendo posizioni giustificabili solo con la volontà di creare propri assi strategici al di fuori dell'Europa o di ottenere un egoistico disimpegno dei propri uomini e delle proprie risorse.
Noi riteniamo, invece, che l'area balcanica sia principalmente una questione dell'Europa, che dovrebbe costituirne l'attore esterno determinante. L'Unione europea sta giocando la carta degli accordi preadesione con la Serbia in modo strumentale, come il bastone e la carota, al fine di ottenere un atteggiamento conciliante verso il Kosovo. Questo comportamento - inutile negarlo - è dettato anche dalla paura che, se non otterrà l'indipendenza, il Kosovo sarà disposto ad avviare una nuova guerra. La minacciosità dei kosovari albanesi è diventata la loro maggiore forza.
La volontà della Serbia di restare legata all'Europa sta diventando, invece, quasi un obbligo al cedimento della propria sovranità. La disponibilità serba al compromesso, tuttavia, incontra un limite invalicabile nel riconoscimento, da parte europea, di una dichiarazione d'indipendenza unilaterale da parte di Pristina.
Assecondare il Kosovo, nella sua violazione del diritto internazionale, significa per l'Europa perdere definitivamente la Serbia, che tornerà ad avere un asse privilegiato esclusivamente con Mosca; significa, altresì, che il futuro dell'Europa sarà quello di aprirsi alla Turchia musulmana e all'influsso mediterraneo, ma di chiudersi alle spalle le terre di origine dell'identità cristiano-ortodossa.
Per questo motivo, chiediamo al Governo di assumere un preciso mandato a non riconoscere un Kosovo indipendente, se tale sarà la dichiarazione unilaterale, nemmeno laddove Pristina tenti di trovare una giustificazione a posteriori nel consenso degli Stati Uniti o di altri Paesi (consenso che non può superare il principio della sovranità degli Stati).
I negoziati possono e debbono continuare anche dopo il 10 dicembre, se non si alimenta l'idea che questa sia una deadline invalicabile. Da parte sua, la Serbia sta offrendo modelli alternativi di autonomia sui quali, però, non viene nemmeno aperta una reale discussione. Non può esserci un negoziato del «prendere o lasciare», soprattutto se in ballo vi sono così tante variabili.
Chiediamo, quindi, un negoziato vero, che duri per tutto il tempo necessario, ed un maggiore ruolo dell'Europa, a favore del quale l'Italia deve battersi in ogni sede opportuna.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Leoluca Orlando. Ne ha facoltà.
LEOLUCA ORLANDO. Signor Presidente, la mozione Giancarlo Giorgetti ed altri n. 1-00248, presentata dal gruppo Lega Nord Padania, rappresenta sicuramente un importante contributo per affrontare la scadenza del 10 dicembre, in merito alla delicata posizione del Kosovo.
Il ragionamento svolto dall'onorevole Giancarlo Giorgetti, che sento di condividere, sostanzialmente fa riferimento alla risoluzione delle Nazioni Unite n. 1244 del 10 giugno 1999. Si tratta di una risoluzione che, per molti versi, è sicuramente chiara, per quanto riguarda l'integrità della Serbia, ma, al tempo stesso, ambigua, per quanto riguarda le forme di autonomia che devono essere sostanzialmente riconosciute al Kosovo.
E sta esattamente in questo il tema del negoziato, che non sembra abbia portato risultati definitivi, se è vero (come lo è) che, sostanzialmente, bisogna cercare da una parte uno spazio tra l'annunciata eventuale dichiarazione unilaterale d'indipendenza da parte del Kosovo, e dall'altraPag. 102parte la verificata, o verificabile, disponibilità di Belgrado ad accettare una sostanziale autonomia del Kosovo con esclusione della rappresentanza internazionale, e con la disponibilità, eventualmente, ad accettare una rappresentanza internazionale del Kosovo riferita ai temi economici e finanziari.
Credo che questo terreno vada ulteriormente esplorato; sicuramente, la prima delle considerazioni che mi sento di proporre è che bisogna fare in modo che il 10 dicembre 2007 non sia considerato né l'anno zero né l'anno mille, perché diversamente credo che contribuiremmo a complicare l'intera vicenda.
Mi sembra che si possa sostenere in questa fase la censura, la condanna (così come ha fatto l'onorevole Giancarlo Giorgetti, che condivido) dell'eventuale intenzione del Kosovo di procedere a una dichiarazione unilaterale di indipendenza. È evidente che questa dichiarazione trasformerebbe il 10 dicembre non tanto nell'anno zero (ossia quando comincia qualcosa), quanto nell'anno mille (quello nel quale si immagina che finisca il mondo): certamente ciò produrrebbe effetti devastanti, perché farebbe riassorbire al tempo stesso la Serbia nell'orbita russa e produrrebbe conseguenze non prevedibili nel nord del Kosovo, effetti destabilizzanti in Macedonia e Montenegro ed effetti sicuramente emulativi in altre realtà non tanto lontane da quelle di cui stiamo parlando: mi riferisco, in particolare, all'Abkazia e all'Ossezia nel sud della Georgia, che evidentemente si troverebbero incoraggiate da questa scelta del Kosovo. Credo, quindi, che sia assolutamente necessario verificare in qualche modo la possibilità di una posizione europea comune su questo punto e, nelle more che ciò accada, chiedere uno spostamento del termine.
La mozione presentata dall'onorevole Giancarlo Giorgetti, che - lo ripeto - nello spirito condivido pienamente, ha soltanto un aspetto che mi lascia perplesso nell'ultimo punto del dispositivo: l'impegno, lì espressamente indicato, a non riconoscere un'eventuale dichiarazione unilaterale di indipendenza da parte kosovara e a sollecitare un'analoga unitaria presa di posizione da parte di tutti i membri dell'Unione europea.
Atteso che condividiamo questa impostazione, probabilmente sarebbe preferibile che questa eventualità fosse inserita nelle premesse, piuttosto che nell'impegno al Governo, affinché non risulti, nella mozione in esame, una dichiarazione senza possibilità di ritorno su una presa di posizione tanto italiana quanto europea. Credo che probabilmente quest'ultimo punto, del quale condivido pienamente le finalità e lo spirito, sia più indicato come eventualità piuttosto che come impegno a provvedere.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Marcenaro. Ne ha facoltà.
PIETRO MARCENARO. Signor Presidente, come sapete, sono ripresi oggi i colloqui fra i rappresentanti della Serbia e quelli del Kosovo, alla presenza e con la partecipazione della trojka costituita dagli Stati Uniti, dalla Russia e dall'Unione europea. Per quanto grande e fondato sia il pessimismo che circonda questi colloqui, penso che il compito della Camera dei deputati sia oggi quello di ribadire l'auspicio che con le nostre prese di posizione nei mesi scorsi abbiamo sostenuto, cioè quello di chi vuole che questi colloqui portino a un risultato positivo e a una soluzione condivisa. Mi pare, infatti, che questo punto sia al centro della vicenda, che non riguarda solo quale sarà lo status definitivo ma, in larga misura, come ci si arriverà, con quale processo, con quali relazioni, con quali rapporti e, quindi, in quali condizioni politiche, sia dal punto di vista degli effetti sulle dinamiche interne a quella regione, sia con riguardo alle conseguenze sul piano internazionale e, specificamente, sulle dinamiche che riguardano, come anche l'onorevole Giancarlo Giorgetti ricordava, l'intera area balcanica.
Noi sappiamo che tutto ciò oggi avviene in una situazione fortemente compromessa, nella quale le posizioni che vengono espresse dalle parti alla vigilia diPag. 103questa tornata di colloqui appaiono inconciliabili: da un lato, infatti, i rappresentanti della Serbia dichiarano di non essere disposti in alcun modo a concedere neppure un centimetro sulla linea dell'indipendenza - pur se avanzano concessioni importanti sul piano dell'autonomia -, dall'altro, i rappresentanti dei kosovari albanesi dichiarano che l'indipendenza è l'unica soluzione che possa essere accettata.
Naturalmente, siamo in una situazione che fa maturare moltissime preoccupazioni e moltissimi dubbi, in primo luogo per quanto riguarda la situazione interna di quella regione nella quale noi, nonostante la grande mole di risorse che è stata investita dalla comunità internazionale, non abbiamo assistito in questi anni a un processo di sviluppo, ad una rimessa in moto dell'economia e alla costruzione di quella base obiettiva che permette di affrontare i problemi di una comunità, ma neppure allo sviluppo di una struttura politica e democratica che possa essere assimilata a quella che immaginiamo quando usiamo l'espressione «Stato di diritto».
Non vi è dubbio che in Kosovo rimane una situazione nella quale il potere politico è fortemente intrecciato con elementi di malavita e di corruzione, configurandosi, quindi, una situazione che, anche da questo punto di vista, costituisce una minaccia potenziale per l'Europa e - nell'Europa - in particolare per un Paese come il nostro.
D'altra parte, sappiamo che, per una serie di ragioni, oggi l'idea di una possibile continuazione della convivenza tra le popolazioni serbe e kosovare in quella zona si presenta come una posizione scarsamente fondata sulla volontà di quei popoli, sulla loro esperienza e sulle relazioni che oggi lì esistono.
Da questo punto di vista, esistono responsabilità molto pesanti, che non possono essere attribuite solo ai gruppi dirigenti kosovari che attualmente, come hanno dimostrato alle ultime elezioni, prevalgono nella situazione kosovara.
Se queste forze prevalgono è anche perché - ciò va ricordato - vi è stata per anni ed anni una politica serba che, invece di costruire gli elementi di dialogo con le forze dialoganti presenti in quella società, ha puntato ad una linea duramente repressiva, una linea che ha negato quella stessa autonomia che oggi viene messa in campo oltre i tempi realisticamente consentiti dalla politica e che ha determinato la situazione che oggi vediamo.
Aggiungo che tutto ciò avviene, peraltro, in una situazione internazionale nella quale - ed anche questo, forse, va ricordato - i rapporti in particolare tra gli Stati Uniti e la Russia non sono i rapporti tra due Paesi che concorrono insieme a costruire nuove condizioni di dialogo internazionale, ma sono rapporti tra due Paesi che giocano pesantemente, l'uno e l'altro, ad affermare proprie zone di influenza. Penso al senso della politica dell'amministrazione americana in quella regione, ma penso anche al ruolo che la Russia ha svolto, e non si può non vedere un legame tra la posizione di «aproblematica» difesa della posizione serba da parte della Russia e un'involuzione generale della politica russa e della direzione che Putin ha impresso a quel Paese che vede anch'esso messi in discussione pilastri essenziali dello Stato di diritto.
Naturalmente, in questa situazione, i rischi che il Kosovo diventi un focolaio dal quale si sviluppano conflitti più ampi sono realistici.
Come sappiamo, perché ne abbiamo discusso in Commissione solo pochi giorni fa con gli stessi colleghi di oggi, i pericoli provengono da molte direzioni. L'onorevole Giancarlo Giorgetti ricordava, in primo luogo, la questione che riguarda la Bosnia e le possibilità che da parte della componente serba di quello Stato (la Srpska), abbia luogo una spinta di autonomizzazione e una richiesta di separazione. Ma il primo problema riguarda addirittura l'interno del Kosovo. Cosa avverrà di fronte ad una dichiarazione di indipendenza? Le popolazioni serbe, che vivono a nord del fiume Ibar, come si comporteranno? Quali conflitti si apriranno? D'altroPag. 104lato, com'è stato ricordato, non è forse possibile che tutto ciò inneschi, anche a causa di operazioni politiche, processi simili a quelli che riguardano Paesi come l'Abkazia e l'Ossezia del Sud, di cui parlava l'onorevole Orlando, o addirittura il rapporto tra la Transnistria e la Moldavia?
È singolare discutere di tali argomenti perché mi rendo conto, allorché nomino tali Paesi, di riferirmi a luoghi che per la maggior parte dei cittadini italiani forse non hanno alcun significato e dei quali molti non conoscono neanche l'esistenza. Tali Paesi, però, costituiscono oggi, in questo mondo in cui la pace è tutt'altro che un bene consolidato, fonti potenziali di un conflitto che può allargarsi e provocare guai più profondi e che possono toccarci direttamente.
Pertanto, riteniamo utile l'appello che dalla Camera dei deputati e dal Parlamento italiano viene rivolto in favore di una gestione di tale vicenda ispirata non al mero schieramento a favore di una sola parte dei contendenti, ma ad un criterio di prudenza, alla ricerca di forme di dialogo e di soluzioni condivise che escludano una precipitazione implicita nella gestione unilaterale di vicende di simile delicatezza. Tali forme condivise sono ancora oggi (ma anche in futuro) il criterio principale al quale occorre attenersi, soprattutto in una situazione in cui sono ancora in corso i negoziati e le trattative.
La parola «prudenza» ha un senso se si congiunge con un'altra espressione altrettanto importante: responsabilità. Infatti, vi è una responsabilità dell'Europa che, come afferma giustamente l'onorevole Giancarlo Giorgetti, non sempre è stata svolta adeguatamente. Ma in ordine a tale punto, si apre un capitolo più ampio, concernente le difficoltà della costruzione di un ruolo attivo e di un vero soggetto europeo nel campo delle politiche estere di sicurezza. Tuttavia, in questo caso, vi è una responsabilità che riguarderà in primo luogo la fase della transizione, qualunque essa sia. Non sarà possibile garantire che la transizione avvenga in forme pacifiche, che i diritti delle varie popolazioni e delle minoranze siano rispettati, che non si assista di nuovo a forme di persecuzione come quelle che sono state così frequentemente perpetrate in quelle zone, anche con sbocchi sanguinosi, senza la presenza attiva dell'Europa, dei suoi militari e delle forze di interposizione, che possono garantire un tale tipo di soluzione.
Ovviamente non si tratta solo di questo aspetto. Infatti, vi è anche una responsabilità dell'Europa nella gestione e nella promozione dell'unico contesto nel quale oggi si può pensare che i processi di autonomizzazione e di indipendenza che hanno caratterizzato il Kosovo e l'insieme delle vicende riguardanti l'area balcanica possano essere ricondotti ad una logica unitaria. Oggi, naturalmente, neanche il più accanito dei reazionari può immaginare che l'unità delle nuove piccole identità balcaniche possa avvenire in un quadro strettamente regionale, riproducendo così situazioni simili a quelle già conosciute in passato e che andavano sotto il nome di Jugoslavia o altre forme del genere.
È solo nella dimensione europea che oggi tali realtà possono trovare una nuova identità. Ritengo che l'Europa debba avere una posizione sul punto (è questa la nostra opinione e non si tratta di un'opinione personale, ma di un'opinione largamente condivisa nell'odierno dibattito), nel senso che deve essere totalmente aperta a promuovere, in tempi e con modalità più rapide, la possibilità per tali Paesi di aderire all'Unione europea, anche con procedure accelerate, ma con una forte capacità di condizionamento politico di questo risultato rispetto ai processi che investono comunità che, nella dimensione europea, possono insieme trovare uno sbocco.
Tuttavia, affinché ciò avvenga, la prima condizione è che l'Europa non sia divisa, fra qualche settimana, al suo interno di fronte alla questione sulla quale dovrà prendere delle decisioni e che non si divida fra chi riconoscerà il nuovo Stato,Pag. 105in caso di proclamazione unilaterale di indipendenza, e chi invece negherà tale riconoscimento.
Non può essere questo l'unico terreno sul quale l'Europa si unisce o si divide: o l'Europa è capace di elaborare una linea complessiva di intervento nel rapporto fra Serbia e Kosovo, presentando una proposta che non sia solo quella di riconoscere o non riconoscere il nuovo Stato, ma che comprenda diverse strade politiche e istituzionali, oppure, in caso contrario, si rischierà fortemente che l'Europa non svolga il suo ruolo.
Onorevole Giancarlo Giorgetti, credo che dovremmo discutere insieme sulla base degli sviluppi della situazione, nonostante il pessimismo che circonda i colloqui attuali, affinché, a seguito dell'evolversi degli eventi, l'Italia svolga un ruolo in questa direzione e possa essere protagonista di una politica di pace più efficace di quella che fino ad oggi è stata condotta dall'Unione europea.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole D'Elia. Ne ha facoltà.
SERGIO D'ELIA. Signor Presidente, dichiaro subito di condividere il dispositivo della mozione presentata dal collega Giancarlo Giorgetti e dai colleghi della Lega, che ringrazio per aver posto all'attenzione della Camera una questione che, nelle prossime settimane, potrà assumere i connotati di una vera e propria emergenza dalle conseguenze drammatiche.
La mozione prevede che il nostro Paese non riconosca un'eventuale dichiarazione unilaterale di indipendenza da parte del Kosovo e che si impegni a promuovere un'analoga unitaria presa di posizione da parte di tutti i membri dell'Unione europea.
È questo l'atto di indirizzo che la Camera dei deputati con la mozione in esame esprime nei confronti del Governo. Ritenendo che lo scenario più realistico con il quale dovremo fare i conti nelle prossime settimane sarà una dichiarazione unilaterale di indipendenza, forse la mozione ha bisogno di essere integrata in merito alle azioni da intraprendere a fronte di un fatto ancora oggi non realizzatosi, ma che si potrà verificare nei prossimi giorni. Nelle prossime ore valuteremo le modalità di intervento al fine di integrare l'atto di indirizzo in esame.
In ogni caso, la personale contrarietà all'indipendenza del Kosovo, tanto più se dichiarata unilateralmente, risiede in due ragioni o, se volete, colleghi, in due ragionamenti. Il primo ragionamento è il seguente: occorre riconoscere nell'illusione nazionalista della sovranità nazionale assoluta delle aspirazioni indipendentiste una causa prioritaria di guerre e anche un'ipoteca pesante e distruttiva sullo sviluppo civile e democratico delle nostre società, che siano i Balcani, il Medio Oriente o la stessa Europa.
Il secondo aggiornamento è il seguente. La dichiarazione unilaterale di indipendenza del Kosovo è una vera e propria bomba collocata nel cuore dell'Europa, volta a far esplodere l'Unione europea e ad aggravare ulteriormente una realtà già grave, quella che Marco Pannella definisce «l'Europa delle patrie», che prende sempre più piede contro una patria europea. Stiamo cioè parlando di quella dimensione sovranazionale dell'Europa, che aveva costituito l'antidoto al proliferare di guerre e conflitti fratricidi nel continente europeo.
La dichiarazione unilaterale di indipendenza del Kosovo, che - lo sanno tutti - è fortemente sponsorizzata dagli Stati Uniti, pronti a riconoscere internazionalmente l'ex provincia serba, corrisponde ad un disegno molto preciso. Tale disegno consiste nell'indebolire l'Europa come attore economico e politico nello scacchiere mondiale, mandare in pezzi la posizione comune europea sul riconoscimento dello status del Kosovo, come fatto politico propedeutico al superamento della posizione comune dell'Europa sulla guerra all'Iran, che si annuncia. Alcuni Paesi europei sono assolutamente necessari per l'attacco all'Iran, come lo sono stati per l'intervento in Iraq, e, quindi, è necessario anche quest'altro precedente: che alcuni Paesi europei, riconoscendo oggi il Kosovo, a ruota degli Stati Uniti, e rompendo laPag. 106posizione comune europea, siano pronti domani a rompere il consenso europeo in occasione di una guerra all'Iran, che è molto probabile Bush stia preparando.
La questione dello status del Kosovo chiama in causa direttamente anche il nostro Paese. Voglio ricordare - anche rispetto alle posizioni contrarie, come la mia, all'indipendenza del Kosovo - che nel 1992 l'Italia, nella persona dell'allora Presidente del Consiglio Amato, ricevette il leader non violento kosovaro Rugova, con cui avevamo ottimi rapporti. Tale incontro avvenne proprio su iniziativa del partito radicale e di Marco Pannella, che da sempre avevano riconosciuto la piena legittimità politica dell'Assemblea parlamentare del Kosovo, il cui presidente di oggi, Fatmir Sejdiu, e la cui leadership democratica sono iscritti da anni al partito radicale transnazionale.
Lo dico proprio per le posizioni che oggi mi trovo ad esprimere in quest'Aula e per gli ottimi rapporti, anche di appartenenza politica e partitica, che abbiamo con i leader kosovari. Oggi la questione del Kosovo chiama in causa il nostro Paese non solo per questioni geografiche e di rapporti politici dell'Italia con l'Albania, ma soprattutto perché l'Italia è in prima linea in Libano ed in Afghanistan ad Herat ai confini dell'Iran. L'Iran, tramite gli hezbollah in un caso, direttamente nell'altro caso, può decidere, come e quando vuole, di coinvolgere il nostro Paese in caso di guerra americana all'Iran.
Quindi, quel che fanno l'Italia e l'Europa sul Kosovo sono strettamente legati a quanto può accadere, oppure essere scongiurato nei prossimi mesi in Medio Oriente. Quindi, sono d'accordo con il collega Marcenaro nel fare in modo che l'Unione europea oggi assuma la unanime posizione degli Stati membri, riconoscendo o meno la dichiarazione unilaterale di indipendenza del Kosovo. È l'unico tentativo possibile per scongiurare la catena di conseguenze e di eventi che si verificheranno o si vanno preparando.
Comunque, colleghi, è necessario essere consapevoli di un fatto sullo status del Kosovo. Dopo il fallimento del «piano Ahtisaari», le posizioni delle parti in causa sono talmente distanti che è realistico prevedere che il negoziato non arrivi ad una conclusione positiva e condivisa entro il 10 dicembre 2007. Quindi, in questo senso l'atto di indirizzo che oggi è sul tavolo e che stiamo discutendo probabilmente va integrato. Si tratta di discutere del dopo e di concordare con la comunità internazionale, in primis con l'Unione europea, i passaggi successivi, nei quali una posizione comune dell'Unione europea - lo ripeto - è fondamentale e vitale, se si vuole evitare la catena di effetti devastanti nei Balcani, in Europa e nel Medio Oriente.
Il ruolo dell'Europa, quindi, l'assunzione di responsabilità dell'Unione europea nei Balcani deve essere semmai più grande dopo la dichiarazione unilaterale di indipendenza del Kosovo che io vedo su due piani: sul piano militare, occorre rafforzare la missione europea volta ad impedire che la situazione post-indipendenza precipiti in un conflitto armato tra serbi e kosovari, oltre che a tutelare la minoranza serba ed il patrimonio storico e religioso ortodosso nel Kosovo; sul piano politico, l'altro ruolo dell'Europa, e anche del nostro Paese, deve consistere nel rafforzare la prospettiva europea della Serbia, accelerando il processo di adesione all'Unione europea; aggiungo non solo della Serbia, ma anche della Bosnia, della Macedonia e dell'Albania, per impedire una serie di effetti a catena.
Occorre un appoggio deciso all'interno dell'Unione europea e da parte del Parlamento italiano e del Parlamento di Strasburgo nel quale promuoveremo con i nostri parlamentari europei un atto di indirizzo; è necessario un appoggio deciso dei Parlamenti italiano ed europeo all'integrazione europea della Serbia. In tal senso, l'apertura immediata di negoziati può essere la risposta politica alla crisi in tutti i Balcani, come anche in Europa, che sarà innescata dalla dichiarazione unilaterale di indipendenza del Kosovo. La pur necessaria e rigorosa collaborazione con il Tribunale penale internazionale, che, come radicali, con l'associazione «Non c'èPag. 107pace senza giustizia» nello specifico del Kosovo abbiamo portato avanti nel 1998 e nel 1999 preparando l'atto di accusa contro Milosevic proprio per i crimini commessi in quella provincia, non può e non deve trasformarsi in un'ipoteca perpetua del passato sul presente e sul futuro della Serbia.
Io non riterrei uno scandalo se, a fronte di pericoli ben maggiori, si decidesse opportunamente di dare priorità al processo di integrazione europea della Serbia rispetto alla questione della consegna dei criminali di guerra serbi al Tribunale dell'Aja. Se l'Unione europea ha una missione, un ruolo ed un futuro, essi sono quelli di impedire che guerre fratricide, dittature fasciste o comuniste, come quelle che nel secolo scorso hanno insanguinato l'Europa, ritornino a manifestarsi nel continente europeo. Come è successo per i Paesi usciti dalla Seconda guerra mondiale, anche nei Balcani si tratta di unire domani in Europa quello che nella regione oggi divide così profondamente e irreparabilmente.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Alì Raschid Khalil. Ne ha facoltà.
ALÌ RASHID KHALIL. Signor Presidente, anche noi viviamo con timore e preoccupazione l'avvicinarsi della data del 10 dicembre 2007. Vorrei dire da subito che condividiamo le preoccupazioni dell'onorevole Giancarlo Giorgetti e condividiamo anche la parte della mozione che impegna il Governo; anche se accolgo l'osservazione dell'onorevole Leoluca Orlando.
Viviamo con preoccupazione questa data e pensiamo al tempo perso da parte della comunità internazionale, delle Nazioni Unite, della troika e in modo particolare dell'Europa, perché per essa la questione del Kosovo e dei Balcani rappresenta un argomento che ha a che fare con la sua sicurezza interna.
Quando sollecitiamo il nostro Governo ad un ruolo più attivo per favorire una soluzione politica basata sul dialogo e sul rispetto reciproco nell'ambito dello Stato di diritto, lo facciamo anche perché essa, in modo particolare per l'Italia, rappresenta una questione di sicurezza nazionale. Da Roma al Kosovo ci si impiega 50 minuti, è come andare a Milano o a Palermo.
Quindi, questioni di carattere politico, ma anche geografico, impongono al nostro Governo di assumere un ruolo ancora più attivo. Si è perso del tempo perché una situazione di questo tipo si poteva prevenire; purtroppo, tutte le volte in cui la comunità internazionale deve affrontare focolai di tensione o di guerra dimostra un pauroso ritardo che si è ripetuto anche questa volta.
Malgrado l'ingente sforzo in termini umani e finanziari, come sottolinea la mozione, si individuano ritardi su tutti i livelli. Sul piano economico tale sforzo non è riuscito a favorire uno sviluppo che aiutasse la società del Kosovo a radicare la popolazione sul suo territorio e a far crescere una cultura di convivenza, di pace, di cooperazione e di conciliazione nazionale. Al contrario, su questo aiuto economico hanno lucrato anche le famiglie mafiose che governano l'economia del Paese. Così come non è stato favorito un processo politico che mettesse le comunità in condizione di tessere nuovamente i rapporti che avevano resistito a lungo a qualsiasi forma di conflitto interno, su base etnica o religiosa.
Del tempo è stato perso e temo che sia tardi, anche se mi auguro che non sia così, anche per le conseguenze nefaste che si possono verificare su tutto il resto dell'ex Iugoslavia, ma anche sull'Europa stessa.
Non dobbiamo darci per vinti anche perché non possiamo permettercelo, in quanto ciò avrebbe delle conseguenze molto negative su noi stessi, sull'idea dello Stato di diritto e su ciò che rappresenta l'Europa, che è chiamata in primo luogo ad accelerare il raggiungimento di una soluzione.
Il nostro partito ha sempre guardato con favore all'idea di una concreta iniziativa europea e, insieme all'Osservatorio suiPag. 108Balcani, ha sostenuto la proposta di considerare il Kosovo come una prima regione europea, nel tentativo di quello che Michele Nardelli - uno degli esponenti di punta dell'Osservatorio sui Balcani e uno dei fautori della proposta a cui ho fatto riferimento - considera un modo per sparagliare le carte. Quando, infatti, la comunità internazionale non è in grado di favorire una soluzione, le istituzioni faticano a trovarne una e la gente si sente assediata da un conflitto interno, occorre pensare ad altro, ai metodi non tradizionali.
Credo che l'idea di includere il Kosovo, da subito, richieda un'iniziativa politica diplomatica importante e forte nei confronti degli altri Paesi europei. Ciò potrebbe disinnescare questa situazione.
Credo che l'intervento internazionale non abbia, fino ad oggi, favorito una soluzione. Al contrario, mi sembra che abbia approfondito le divergenze e il fossato che si para tra le due comunità, che hanno avuto, entrambe, responsabilità pesanti e gravi. È sbagliato attribuire la responsabilità ad una sola parte, come non aiuta l'uso di un linguaggio contrario al concetto di riconciliazione. Entrambe le comunità, a mio avviso, insieme all'Europa, sono vittime di questa situazione.
Oggi è tardi per cercare la responsabilità di chi è stato il primo a causare il conflitto. Oggi è necessario che tutti gli sforzi convergano per favorire una soluzione, anche attraverso l'uso del linguaggio. I conflitti, quando durano nel tempo, portano ad un imbarbarimento generale che colpisce tutti senza eccezione, e oltre all'elemento etnico spesso si aggiunge anche quello religioso, che sempre è utilizzato in modo demagogico.
Non potrei definire il conflitto né in Kosovo, né in altre parti, come conflitto religioso. Tuttavia, mi spaventa l'idea del Dio confessato in piazza, del Dio del gruppo, del Dio della separazione. Dobbiamo essere portatori di un linguaggio che aiuti entrambi - e tutti - a cercare l'altro che è in noi. Sicuramente, la storia comune delle due comunità ha lasciato molti elementi in comune tra di loro.
Dobbiamo ricorrere a un'azione parallela che aiuti le due etnie a riappropriarsi della memoria più vasta, che includa entrambe: se, nel nostro tentativo di favorire una soluzione, utilizziamo un linguaggio che aiuta la divisione, non possiamo avere il successo dalla nostra parte. Non rivendico nulla per il mio partito, ma abbiamo affermato sempre che la strada dello scontro e della guerra, dello scavalcare e del calpestare il diritto internazionale e il ruolo delle Nazioni Unite porta a tali conseguenze. Non ci sono, purtroppo, scorciatoie da percorrere, soprattutto in questi pochi giorni che ci separano dalla data del 10 dicembre.
Chiedo al nostro Governo un intervento straordinario, che corrisponda alla gravità della situazione. Ci rendiamo tutti conto di ciò: esprimo quindi la nostra condivisione sulla preoccupazione dell'onorevole Giancarlo Giorgetti - primo firmatario della mozione - e anche sul dispositivo della mozione stessa.
PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali della mozione presentata.
Prendo atto che il rappresentante del Governo si riserva di intervenire nel prosieguo del dibattito.
Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.