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Discussione del disegno di legge: Disposizioni per la partecipazione italiana alle missioni internazionali (A.C. 1288) (ore 9,03).
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione del disegno di legge: Disposizioni per la partecipazione italiana alle missioni internazionali.
Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi è pubblicato in calce al resoconto stenografico della seduta del 6 luglio 2006.
(Discussione sulle linee generali - A.C. 1288)
PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.
Avverto che i presidenti dei gruppi parlamentari di Alleanza Nazionale e Forza Italia ne hanno chiesto l'ampliamento senza limitazioni nelle iscrizioni a parlare, ai sensi dell'articolo 83, comma 2, del regolamento.
Avverto, altresì, che le Commissioni III (Affari esteri) e IV (Difesa) si intendono autorizzate a riferire oralmente.
Il relatore per la III Commissione, deputato Ranieri, presidente della Commissione affari esteri, ha facoltà di svolgere la relazione.
UMBERTO RANIERI, Relatore per la III Commissione. Signor Presidente, la Commissione affari esteri e la Commissione difesa della Camera hanno esaminato in modo approfondito il disegno di legge che disciplina la prosecuzione degli interventi di natura civile e militare, che impegnano l'Italia in diverse aree di crisi nel mondo.
Nel corso dell'esame si sono svolte interessanti audizioni con i vertici militari italiani operanti in Afghanistan e con numerosi rappresentanti di associazioni e organizzazioni non governative. Audizioni che hanno fornito un complesso di elementi conoscitivi essenziali per arricchire la discussione e l'esame del disegno di legge da parte delle Commissioni.Pag. 2
La partecipazione delle Forze armate italiane ad operazioni multinazionali avviene in conformità ad un complesso di norme, talune dettate direttamente dalla nostra Costituzione, altre di origine internazionale, che sono presenti nel nostro ordinamento in virtù dei principi di adattamento sia alle consuetudini internazionali sia ai trattati di cui l'Italia è parte.
Norme costituzionali e norme di origine internazionale dettano una serie di principi che non possono essere infranti. Le missioni militari italiane all'estero operano nel quadro del principio costituzionale sancito dall'articolo 11 della Carta, principio cardine del nostro ordinamento, che prescrive il ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli, e insieme del principio codificato dalla Carta delle Nazioni Unite, che vieta l'uso della forza contro l'integrità di qualsiasi Stato e lo considera ammissibile solo se intrapreso per legittima difesa o su autorizzazione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
A questi principi si ispira l'azione del Governo italiano per quanto riguarda l'impegno dei nostri militari all'estero.
L'azione concreta svolta dalle missioni militari italiane nel corso degli anni è stata rivolta, come noto, a favorire interventi di tipo umanitario, tesi al sostegno della ricostruzione civile ed istituzionale delle aree di crisi, a garantire il rispetto di accordi ed intese stipulati per porre fine a conflitti. Ovunque siano stati impegnati nel corso di questi anni i militari italiani operanti nelle missioni di pace all'estero hanno lavorato duramente per il raggiungimento di obiettivi di pacificazione e ricostruzione e si sono fatti apprezzare per dedizione e professionalità. C'è da augurarsi che il confronto sul disegno di legge oggi in esame consenta una valutazione scrupolosa ed obiettiva dei risultati ottenuti grazie alla presenza militare e civile italiana nella stabilizzazione di varie regioni investite dai conflitti, dai Balcani all'Afghanistan.
In questo quadro ed alla luce di tali premesse vorrei svolgere rapidamente alcune considerazioni di politica estera connesse con la partecipazione dell'Italia a missioni internazionali. A cinque anni dallo shock dell'11 settembre del 2001 ed a tre anni dal crollo del regime di Saddam Hussein in Iraq, il bilancio della cosiddetta guerra globale contro il terrorismo, malgrado la lotta al terrorismo sia diventata una priorità per la comunità internazionale, appare un bilancio incerto. Già nel 2001 apparve subito chiaro che la sfida al terrorismo non poteva essere affrontata dai singoli paesi, che la dimensione sovranazionale del fenomeno imponeva risposte globali da fondare, in ogni caso, sulla legittimazione della comunità internazionale. Appariva chiaro che il ruolo delle istituzioni e delle organizzazioni internazionali, delle Nazioni Unite prima di tutto, diventava fondamentale.
Tuttavia, di fronte alla complessità della sfida è emersa l'insufficiente capacità da parte della comunità internazionale di assumere iniziative in grado di prevenire l'insorgere di crisi e di conflitti, nonché di individuare i terreni di confronto politico e diplomatico che anticipassero l'esplosione dei conflitti armati. Credo che la stessa Unione europea sia chiamata a riflettere sulle ragioni dei ritardi che hanno caratterizzato la sua iniziativa in questa direzione.
La consapevolezza dell'insufficiente capacità di iniziativa politica preventiva da parte delle organizzazioni internazionali, non deve tuttavia impedire di riconoscere che, ad esempio, le sanzioni adottate dal Consiglio di sicurezza dell'ONU nello scorso decennio contro alcuni Stati riconosciuti responsabili del sostegno a gruppi terroristici hanno avuto effetti non trascurabili e, anche se non hanno fermato le attività terroristiche, hanno reso per questi Stati più oneroso sostenerle. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, con tutti i suoi problemi, ha elaborato, a partire dal 2001, misure volte a conferire una dimensione globale alla lotta al terrorismo internazionale. Anche i paesi dell'Unione europea hanno applicato misure che hanno consentito lo smantellamento di cellule fondamentaliste, hanno bloccato reti di finanziamento delle attività terroristiche. Pag. 3Tuttavia, pensiamo sia necessario interrogarsi sull'efficacia dell'azione e delle iniziative delle istituzioni internazionali nel fronteggiare e nel prevenire il fenomeno del terrorismo.
In ogni caso, sembra giunto il momento - questo è il punto centrale della mia riflessione - di avviare una ricerca critica sulla strategia di contrasto al terrorismo seguita in questi anni dalla comunità internazionale. Si tratta di una riflessione che già impegna gran parte della pubblicistica più attenta negli Stati Uniti ed in Europa, una riflessione che si interroga intorno ai limiti, alle contraddizioni, agli aspetti non sostenibili né accettabili emersi, spesso drammaticamente, nel corso della lotta al terrorismo condotta sulla base della strategia adottata in questi anni.
Tale strategia è sembrata esaurirsi ed è questa la prima osservazione critica di fondo nell'uso della forza militare. Del resto, a ben vedere, fu questo il punto di discussione con gli Stati Uniti: la convinzione, che fu in particolare degli europei, che nella lotta al terrorismo le iniziative militari non avrebbero potuto sostituire azioni di natura diplomatica, politica, economica e di sviluppo. Riflettendo su questi anni recenti, giunti al bilancio degli avvenimenti, due considerazioni appaiono purtroppo indiscutibili.
In primo luogo, la capacità di iniziativa delle organizzazioni terroristiche non ha dato segnali significativi di declino, malgrado la lotta al terrorismo sia stata assunta come priorità. I fatti lo evidenziano.
In secondo luogo, l'area che rappresenta l'epicentro dell'instabilità nel mondo globale, l'area che avrebbe dovuto costituire il centro di irradiamento della strategia di stabilizzazione, cioè il grande Medio Oriente, vede crescere drammaticamente conflitti e tensioni. In realtà, se guardiamo a come si sono sviluppati gli avvenimenti in questi anni, notiamo che, allo sforzo compiuto immediatamente dopo l'11 settembre di un positivo coinvolgimento di un ampio arco di soggetti e istituzioni mondiali nel contrasto del terrorismo, da parte degli Stati Uniti è seguita una scelta di segno unilateralistico.
Gli Stati Uniti si sono orientati sempre più nettamente, a partire dal 2002, verso una strategia autonoma dalle valutazioni delle Nazioni Unite e di molti dei propri alleati, fino alla decisione del ricorso unilaterale alla forza in Iraq. Scelta che fu all'origine di una seria difficoltà nel rapporto tra i paesi fondamentali dell'Unione europea e gli Stati Uniti d'America. Sono trascorsi tre anni da quella scelta. Nessuno sottovaluta gli sforzi compiuti per avviare la costruzione di un assetto democratico in quel tormentato paese, ma dovrebbe far riflettere che, a tre anni dalla deposizione di Saddam Hussein, il territorio iracheno è oggi più che mai teatro di azioni di gruppi terroristici che quotidianamente colpiscono obiettivi militari e civili: una guerra iniziata all'insegna della distruzione del terrorismo, ha finito per offrirgli ampie possibilità di sviluppo politico, militare, di radicamento nell'Iraq occupato.
Non voglio riproporre un'analisi retrospettiva, ma è inevitabile guardare a come sono andate le cose per non commettere nuovi errori. La verità è che aveva un fondamento la tesi secondo la quale sarebbe stato un errore decidere di aprire il fronte di guerra in Iraq piuttosto che concentrare lo sforzo della comunità internazionale nella stabilizzazione dell'Afghanistan, che, esso sì, aveva rappresentato con il regime moralmente indifendibile dei talebani un luogo di irradiamento della minaccia terroristica. Ma la riflessione critica riguarda un altro cardine della strategia di lotta al terrorismo condotta in questi anni: mi riferisco a quella visione che ha ritenuto che i processi di democratizzazione nel Medio Oriente potessero essere promossi con il cambio di regimi forzato dall'esterno.
Sia chiaro: non è in discussione l'obiettivo della democratizzazione e del contrasto a regimi dispotici. Il problema di fondo è tradurre una tale aspirazione in una strategia politica efficace, che riscuota il consenso delle popolazioni. La democratizzazione resta un obiettivo da perseguire, Pag. 4ma la realtà ci testimonia che essa è il risultato di un processo complesso e che è velleitario pensare che alla medesima si possa giungere ricorrendo essenzialmente alla forza militare, dall'esterno, incuranti della complessità di società segnate da storie politiche e civili complesse, spesso antiche.
Inoltre il processo di democratizzazione non può sottovalutare fattori di fondo strutturali, che vanno affrontati, perché esso possa procedere. Occorre rendersi conto che malcontento e disperazione possono condurre ad una interpretazione estremistica della religione, che le sofferenze per la miseria e le preoccupazioni per il futuro possono spingere a rifugiarsi in una visione radicale dei precetti religiosi. Ecco perché, affinché proceda l'obiettivo della democratizzazione, la comunità internazionale e l'Occidente devono concentrare i propri sforzi nella creazione dei presupposti per il miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni. In verità, alla dottrina teorizzata, a partire dal 2002, dall'amministrazione statunitense le critiche sono giunte sia dal mondo liberal, sia da quello conservatore. Il caso Iraq, hanno sostenuto in molti, dimostra come problemi globali richiedano soluzioni multilaterali e che il militarismo unilaterale non è la strada giusta per combattere il terrorismo internazionale o per trattare problemi quali le armi di distruzione di massa. Esso appare, piuttosto, la strada verso un'epoca di guerre continue, nelle quali democrazia e libertà sono in pericolo. Del resto, che la strategia di lotta al terrorismo di questi anni non abbia sortito risultati auspicati, adeguati alla sfida, alle forze mobilitate ed alle risorse impegnate lo dimostra, purtroppo, quanto avviene nel Medio Oriente. La crescita di Hamas, l'emergere di Ahmadinejad in Iran ed il rafforzarsi del potere di ricatto delle milizie armate Hezbollah nel sud del Libano ci testimoniano, in modo crudo, che - come ha scritto Fukuyama - l'ingenuo idealismo alla Wilson, abbracciato dall'amministrazione Bush, ha portato drammaticamente al suo contrario, ai successi del radicalismo islamico in Egitto, Iran e Palestina. Occorre, quindi, lavorare ad una diversa strategia di lotta al terrorismo, apprendendo la lezione di questi anni. Una strategia in cui il ricorso legittimo alla forza avvenga nel quadro di un sostegno più ampio, che riconosca il valore dell'iniziativa politico-diplomatica di sostegno allo sviluppo, alla formazione ed alla crescita civile. Questa mi pare, del resto, una necessità che si fa strada nella stessa amministrazione statunitense, a partire da un Presidente, Bush, che - come ha scritto Philip Gordon - sembra stia tornando, faticosamente, alla politica più umile che proclamò nel corso della campagna elettorale del 2000.
Infine, una considerazione ulteriore sul tema oggetto del provvedimento in discussione, che prevede il rifinanziamento della partecipazione italiana alle missioni internazionali.
Vorrei sottolineare che, tra queste, particolare rilievo assumono: la prosecuzione dell'intervento in Sudan, nella regione del Darfur, dove l'azione italiana è finalizzata al miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni, in particolare nei campi profughi; la missione nell'area dei Balcani, dove va segnalato il finanziamento per la partecipazione ad un intervento deliberato dal Consiglio europeo in Kosovo; il finanziamento di due nuove missioni, una in Congo, a sostegno delle attività degli osservatori dell'ONU, l'altra, in Palestina, in funzione di assistenza alla polizia civile palestinese.
Infine, per quanto riguarda la missione in Afghanistan, con la sconfitta del regime talebano si è aperta in quel paese una fase tormentata e difficile di ricostruzione delle istituzioni e del tessuto sociale. Sbaglieremmo a non riconoscerlo così come sbaglieremmo se tacessimo e difficoltà che si frappongono al processo di stabilizzazione. Vi sono zone del paese ancora controllate da gruppi fedeli al precedente regime e permane una situazione di gravi difficoltà per la popolazione civile, soprattutto nelle regioni del sud-est dell'Afghanistan. Preoccupa che l'economia del paese dipenda ancora, per più del 50 per cento del prodotto nazionale, dalla produzione Pag. 5e dal traffico dell'oppio, con ripercussioni che condizionano tutti gli aspetti della vita civile.
PRESIDENTE. Onorevole...
UMBERTO RANIERI, Relatore per la III Commissione. Si impone, quindi, una riflessione nelle sedi multilaterali sulle ragioni delle difficoltà che incontra il processo di stabilizzazione del paese. Sarebbe impensabile non procedere a tale riflessione; già oggi è possibile sostenere che occorre un diverso equilibrio tra presenza militare e interventi civili e che è necessaria una riconversione dell'economia da attività illecite ad attività legali in grado di fornire un reddito. L'Occidente non deve essere avaro e deve invece impegnare risorse in questa direzione; è indispensabile, infine, che le operazioni militari si svolgano ponendo maggiore attenzione alle conseguenze sulla popolazione civile. È poi necessario bandire la pratica di trattamenti disumani nei confronti dei prigionieri, fossero anche talebani o terroristi.
L'intervento italiano all'interno della missione ISAF si è articolato su diversi versanti; particolarmente significativo è stato il lavoro teso al consolidamento delle nuove istituzioni afghane, nell'ambito delle quali va ricordato il ruolo primario assunto dall'Italia nella riforma del sistema giudiziario.
PRESIDENTE. La prego di concludere, presidente.
UMBERTO RANIERI, Relatore per la III Commissione. Ho concluso, signor Presidente.
Per quanto riguarda l'impegno militare italiano in Iraq, le decisioni assunte dal Governo vanno nella direzione di un rientro della nostra missione; le ragioni di questa scelta le ho ampiamente ricordate nelle considerazioni precedenti. Il rientro di questa missione non significa la rinuncia a garantire, da parte del nostro paese, nelle forme che non comportano una presenza di contingenti militari, un sostegno significativo al processo di ricostruzione e riorganizzazione istituzionale e civile dell'Iraq.
Vorrei ringraziare tutti i colleghi che hanno alimentato nelle Commissioni riunite una discussione che, al di là delle diversità di opinione e di convincimenti, è stata molto proficua.
PRESIDENTE. La relatrice per la IV Commissione, deputata Pinotti, presidente della Commissione difesa, ha facoltà di svolgere la relazione.
ROBERTA PINOTTI, Relatore per la IV Commissione. Signor Presidente, come già ha avuto modo di illustrare ampiamente il relatore per la III Commissione, onorevole Ranieri, il provvedimento che giunge oggi all'esame dell'Assemblea è stato discusso in sede congiunta dalle Commissioni affari esteri e difesa a partire dal 6 luglio. È stato posto alla nostra attenzione all'inizio di una nuova legislatura e ciò ha comportato anche l'opportunità di una riflessione complessiva sugli indirizzi di sicurezza e difesa del nostro paese e sull'insieme degli impegni militari che l'Italia ha nel tempo contratto sullo scenario internazionale.
Colgo in questa sede l'occasione per inviare, a nome di tutti i parlamentari delle Commissioni riunite, un saluto affettuoso e riconoscente a tutti i nostri militari impegnati nelle missioni all'estero per la generosità e la professionalità con cui svolgono il loro dovere.
Nella mutata realtà internazionale i concetti di sicurezza interna e internazionale, così come le iniziative politiche estere militari, sono sempre più interdipendenti. Ecco quindi l'opportunità di affrontare contestualmente all'esame di questo provvedimento, la discussione e la votazione di atti di indirizzo come quelli presentati ieri in aula, che formalizzino la volontà del Parlamento e diano allo stesso Governo le direttrici strategiche su cui condurre la propria iniziativa, sulla base della necessaria legittimazione internazionale nelle sedi e nelle organizzazioni di cui l'Italia fa parte: l'ONU, l'Europa e la NATO.Pag. 6
È questo un obbligo che il nostro paese deve sentire vincolante per due fondamentali motivi: il primo trova la sua ragione d'essere nel nostro dettato costituzionale; l'altro, nella spinta che, in questa direzione, prepotentemente esercitano l'interdipendenza e la globalizzazione dei fattori, che condizionano ormai le relazioni tra gli Stati e la politica internazionale. A ricordarcelo ancora una volta - ammesso che ce ne fosse bisogno - è la drammaticità delle immagini che entrano nelle nostre case da Beirut, da Haifa, dalla striscia di Gaza. La stessa Agenda del G8, convocata sui temi cruciali per le comunità internazionali - quali sono appunto quelli della sicurezza, della lotta al terrorismo, dell'energia, della non proliferazione nucleare - è diventata altra cosa di fronte al rischio concreto di una nuova guerra in Medio Oriente. Per tali motivi vanno quindi sostenuti con forza l'appello del G8 e le iniziative avviate dal Governo italiano nella stessa direzione. Le disposizioni per la partecipazione italiana alle missioni internazionali, contenute nell'atto camera n. 1288 che stiamo esaminando, sono state discusse con larga serietà e partecipazione nei lavori delle Commissioni. È stato un impegno serio, segnato anche da uno sforzo organizzativo che tenesse in conto le diverse emergenze del lavoro parlamentare. Proprio per questo occorre dare atto della buona volontà di tutti i componenti e Commissioni che ha consentito di superare difficoltà procedurali e organizzative, per garantire comunque tempi adeguati per la discussione: lo dimostra il fatto che sono state svolte, nei limiti della disponibilità degli auditi, tutte le audizioni richieste ed stato realizzato in videoconferenza un collegamento con i comandi militari a Kabul e ad Herat. Durante la discussione nelle Commissioni riunite sono apparse le linee di guida di politica estera seguite dal Governo italiano. I rappresentanti del Governo hanno ampiamente illustrato tali linee e sono sotto gli occhi di tutti sia gli elementi di continuità, sia quelli di discontinuità con il recente passato. L'Italia sceglie di muoversi nell'ambito degli organismi multilaterali di cui fa parte, facendosi carico delle responsabilità derivanti da un mondo ormai globalizzato, al contempo rifiutando però impegni di tipo unilaterale, nel pieno rispetto - come già detto - del dettato costituzionale.
Va precisato che le norme in discussione hanno un duplice contenuto: da un lato, definiscono lo stato giuridico e il trattamento economico e la giurisdizione da applicare al personale inviato nelle missioni internazionali; dall'altro, autorizzano la partecipazione delle nostre Forze armate alla missione, definendone lo status internazionale e i compiti principali. Così è per prassi normativa in uso da tempo; una prassi legittima che può, però, essere migliorata, ove le due tematiche venissero dal punto di vista normativo separate. Non vi è infatti alcuna necessità, dal punto di vista legislativo, di ridefinire periodicamente le norme che regolano gli aspetti del personale e il trattamento giuridico ed economico che - sia detto per inciso - vengono con la stessa periodicità riconfermate nei contenuti: questa materia potrebbe quindi essere definita da una legge quadro. Resta intatta, invece, l'assoluta necessità di lasciare nelle mani del Parlamento la decisione sulla partecipazione a missioni internazionali per tutto ciò che riguarda non solo la durata e i compiti - come si è fatto sinora - ma anche gli obiettivi, la valutazione dei risultati, le regole, la legittimazione internazionale entro i quali può essere consentito l'uso della forza militare.
Desta preoccupazione, infine, nella coscienza giuridica cui è ispirato il nostro Stato di diritto, il permanere di norme tratte dal codice penale militare di guerra: risultano presentati emendamenti intesi a sopprimerne l'applicazione nelle missioni Antica Babilonia, Enduring Freedom e ISAF. Mi auguro che l'aula approvi questa soppressione. Rivolgo, quindi, una precisa sollecitazione al Governo affinché predisponga un provvedimento che, facendo propri i principi e gli istituti del diritto umanitario e i profili di responsabilità dei militari impiegati in missione armate - senza ricorrere al codice militare di guerra - garantisca tutti i soggetti (militari, Pag. 7civili e le popolazioni) disciplinando organicamente, mediante un apposito codice, i profili penali concernenti le particolari situazioni di impiego dei contingenti militari armati all'estero.
Ricordo che i codici in vigore risalgono al 1941. Nel contenuto, il disegno di legge che stiamo esaminando, autorizza la prosecuzione di tutte le missioni internazionali, delle Forze armate e delle forze polizia, che, per semplicità, possono essere ricomprese in tre grandi gruppi: l'area dei Balcani, l'Iraq e l'Afghanistan. Poi, vi sono missioni in altre parti del mondo; in particolare, vi sono tre nuove missioni, due in Congo e una in Darfur.
L'articolo 2 del provvedimento stabilisce, invece, la conclusione della nostra partecipazione militare in Iraq con la missione Antica Babilonia.
Dall'espressione del Presidente, mi sembra di comprendere l'esigenza di concludere il mio intervento...
PRESIDENTE. In base al contingentamento previsto, il tempo a disposizione dei relatori è esaurito.
ROBERTA PINOTTI, Relatore per la IV Commissione. Chiedo, allora, alla Presidenza di autorizzare la pubblicazione del testo integrale del mio intervento in calce al resoconto della seduta odierna.
PRESIDENTE. La Presidenza lo consente, sulla base dei criteri costantemente seguiti.
ROBERTA PINOTTI, Relatore per la IV Commissione. In conclusione, a proposito delle diverse missioni che oggi stiamo per discutere, desidero sottolineare che molto a lungo ci siamo soffermati su quella in Afghanistan e molto meno su altre missioni, tra cui quella nei Balcani - una missione per noi molto importante, nella quale sono impegnati quasi 3.500 soldati - e quella altrettanto significativa sul valico di Rafah, che era stata inviata immaginando che il problema circa la situazione israelo-palestinese fosse costituito da quel confine. Purtroppo, il problema è esploso con molta virulenza da un'altra parte e questo ci pone, oggi, nuove domande. Credo che sia necessaria una attenzione da parte del Parlamento - come anche è richiesto dalla mozione - per un monitoraggio costante di tutte le missioni, non solo di quelle che costituiscono, per così dire, l'attualità del momento politico e della discussione politica. Purtroppo, il mondo si muove, a volte, secondo direttrici diverse da quelle del nostro dibattito politico. Credo sia molto importante che i soldati che noi decidiamo di inviare oggi sentano davvero vicino il Parlamento e le sue decisioni.
PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il rappresentante del Governo.
UGO INTINI, Viceministro degli affari esteri. Mi riservo di intervenire in sede di replica.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Gregorio Fontana. Ne ha facoltà.
GREGORIO FONTANA. Signor Presidente, mi permetto, innanzitutto, di spezzare una lancia a favore dei relatori visto che, in virtù del contingentamento, si toglie la parola persino a loro. Comunque, tant'è.
Signor Presidente il nostro «sì» al rifinanziamento delle missioni di pace, che vedono le nostre truppe impegnate nelle aree di crisi in tutto il mondo, è sempre stato fuori discussione. Non saranno certo i contorcimenti della maggioranza, impegnata a tenere insieme quello che insieme non può essere tenuto, a far venire meno il dovere di una assunzione di responsabilità nei confronti dei nostri militari, ma anche del nostro paese e della sua collocazione nello scenario internazionale. Il disegno di legge al nostro esame ricalca, del resto, quelli approvati nel corso della precedente legislatura. Si costituisce, così, una continuità riconosciuta anche dal ministro Parisi nel corso della sua audizione in sede di Commissione difesa.
Come ha anticipato il presidente Berlusconi, esprimeremo un voto favorevole Pag. 8senza porre particolari condizioni. Poi, se la vedrà la maggioranza e, se la sinistra cosiddetta antagonista insisterà nel porre pregiudiziali anacronistiche o a far mancare i suoi voti, si aprirà un problema politico, come ha affermato il Presidente della Repubblica. Un problema politico, peraltro, esiste ed è già ben visibile, dato che importanti esponenti della maggioranza sono costretti ad augurarsi un suo allargamento a forze moderate.
Questo Governo non ha una politica estera coerente e non può averla: c'è una parte della maggioranza il cui cuore non pulsa in Occidente. Il Presidente della Camera ha avuto l'onestà di ammetterlo, nel corso di una intervista recentemente rilasciata al Corriere della Sera. Il cuore di Bertinotti e quello dei suoi compagni, di Diliberto, dei Verdi e dei cosiddetti antagonisti, batte lontano dai valori e dalla cultura dell'Occidente e del mondo liberale, batte lontano dalla nostra concezione della democrazia e delle relazioni tra i popoli e dalle responsabilità che ci siamo assunti, insieme ai nostri alleati, per reagire alla sfida del terrorismo e del fondamentalismo. Qui sta il punto del nostro dissenso dalla cornice politica che è riassunta nella mozione presentata dall'Unione in parallelo al provvedimento al nostro esame, finalizzato al rifinanziamento delle missioni. Questo dissenso si delinea in maniera più netta anche dopo avere ascoltato il dibattito in sede di Commissione e le relazioni ed interventi dei colleghi della maggioranza.
Lo ripeto, siamo di fronte ad un disegno di legge che non potremmo non votare e che voteremo con motivazioni però opposte a quelle contenute nella mozione del centrosinistra. Quelle della sinistra sono ragioni che contraddicono lo spirito con il quale l'Italia si è impegnata in particolare in Afghanistan e vogliamo che, proprio in questo paese, continui ad essere impegnata fino a quando sarà considerato necessario dalle istituzioni internazionali. Altro che avvio di una strategia di uscita, della quale parlano quanti a sinistra condizionano il loro appoggio al Governo Prodi allo stravolgimento della nostra politica estera!
Il problema è che nella maggioranza sono sempre più determinanti - per ora sulla politica internazionale, ma domani anche su quella economica - le forze cosiddette antagoniste, condizionate da professionisti del pacifismo e dai nostalgici di una anacronistica lotta di classe antimperialista, che tanti guasti e tanti lutti ha già prodotto anche nel nostro paese. Si tratta di forze che strizzano l'occhio a quanti contrastano i nostri valori; con il loro comportamento esse ostacolano proprio il tentativo di chi, in quello che Bertinotti definisce il sud del mondo - in Iraq come in Afghanistan -, vuole affrancarsi dal fondamentalismo, isolare il terrorismo, creare condizioni per una convivenza pacifica e per la costituzione di istituzioni democratiche nei diversi paesi.
Aiutare questi popoli è stato ed è il senso delle nostre missioni internazionali, sempre condotte sotto l'egida dell'ONU - in Afghanistan e in Iraq - e sempre con il consenso delle popolazioni locali e dei Governi legittimi che ora le guidano. Dovrebbe davvero vergognarsi chi ha messo in dubbio tutto ciò e che continua a farlo sapendo di mentire, al solo fine di compiacere i dissidenti della maggioranza e i cosiddetti pacifisti. Altro che pacifisti, stanno mettendo in discussione la sicurezza di milioni di esseri umani, dei popoli verso i quali si dichiarano solidali e anche dei nostri militari! Stanno mettendo in crisi anche il ruolo che l'Italia è chiamata a svolgere nel mondo e che, fino a questo momento, ha assolto guadagnandosi rispetto, consenso e prestigio. Un prestigio - sia chiaro - che non è motivo di compiacimento nazionalistico, ma che ci rende orgogliosi per essere stati all'altezza dei nostri doveri di paese sviluppato dell'Occidente, che non può chiudere gli occhi di fronte ai problemi; un paese capace di una netta assunzione di responsabilità, senza «se» e senza «ma».
Presidente Prodi, Presidente Bertinotti, abbiamo fatto e faremo di tutto affinché l'Italia continui a svolgere il proprio ruolo per la pace, nella sicurezza e nella democrazia. Lo faremo con un pensiero deferente anche ai nostri connazionali caduti Pag. 9per questi ideali; lo faremo con il cuore e la mente in Occidente, rafforzando i rapporti transatlantici tra Europa e Stati Uniti, come ha chiesto - lanciando un monito severo - anche il Presidente Napolitano, che è il garante di tutti e anche della collocazione internazionale del paese, che una certa sinistra vorrebbe mettere in discussione.
Ebbene, questo tentativo non riuscirà. Lo conferma, del resto, la rettifica di tiro, alla quale il premier Prodi è stato costretto, sulla crisi tra Israele e Libano. Altro che condanna ad Israele, altro che equivicinanza o equidistanza! Anche Prodi - dopo le dichiarazioni di Putin - ha evidenziato la necessità di disarmare gli Hezbollah a sud del Libano.
Rassegnatevi, non c'è alternativa alla politica lungimirante tracciata dal Governo Berlusconi, che ha restituito centralità, dignità e ruolo ad un'Italia che, per troppo tempo, è stata considerata marginale nella definizione degli equilibri internazionali!
Siamo convinti di rappresentare in questo modo le aspettative della grande maggioranza degli italiani, non soltanto di quanti - il 50 per cento - ci hanno rinnovato la loro fiducia alle ultime elezioni politiche.
In ogni caso, per noi non si tratta di una scelta senza alternative. Non consentiremo che venga messa a repentaglio la credibilità del nostro paese. Tocca a noi garantire gli alleati, il Governo afgano e quello iracheno, il Governo ed il popolo di Israele. Tocca a noi garantire che i sentimenti del nostro paese non sono cambiati, che non è cambiato l'impegno della stragrande maggioranza degli italiani a lottare contro il terrorismo ed il fondamentalismo e che non è cambiato l'obiettivo di garantire il massimo della solidarietà ai popoli che ne sono vittime.
Quindi, anche questa volta, faremo la nostra parte in Parlamento; faremo anche quello che voi, colleghi della maggioranza, non sareste in grado di fare: difendere la dignità del paese, il diritto dei popoli, la sicurezza e la libertà dei più deboli. Questo è il grande e nobile compito di un grande e nobile paese: un compito, un dovere di fronte al quale voi vorreste disertare (Applausi dei deputati del gruppo di Forza Italia).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Folena. Ne ha facoltà.
PIETRO FOLENA. Signor Presidente, il disegno di legge che stiamo esaminando in questi giorni, congiuntamente alla mozione sulla politica estera e sulle missioni militari, rappresenta, a nostro avviso, a mio avviso, un passaggio molto importante per mettere le basi di una nuova politica estera del nostro paese.
Già nella precedente legislatura l'esame di analoghi provvedimenti rappresentò un'occasione importante per un'iniziativa comune di diversi parlamentari dell'opposizione (sedevo, allora, nelle file del gruppo dei Democratici di sinistra), i quali, sulla base di un sentire comune, arrivarono a votare, spesso e quasi sempre insieme, congiuntamente, contro alcune missioni di guerra in cui il nostro paese era impegnato. Oggi, la Sinistra Europea, il gruppo di Rifondazione, soggetto politico più largo nel quale siamo impegnati, nasce, in qualche modo, anche da quell'esperienza comune.
I deputati Mantovani e Deiana hanno avuto ed avranno modo - il primo ieri, la seconda stamani, nel prosieguo della discussione - di illustrare le posizioni del nostro gruppo. Io desidero porre l'accento soltanto su un aspetto di cui si è occupato il relatore Ranieri.
Il cuore della nostra discussione verte sul ritiro delle truppe italiane dall'Iraq. Non si tratta di un atto di fuga, non si tratta soltanto di una dissociazione dalla violazione aperta dell'articolo 11 della Costituzione, compiuta dal Governo Berlusconi in passato, e da una scelta che ha portato l'Italia in una collocazione subalterna alle politiche di guerra promosse dall'Amministrazione Bush. Colgo l'occasione per sottolineare che quell'atto è stato pagato con un prezzo di sangue troppo alto anche in termini di vite umane italiane e, a tale proposito, ricordo i ragazzi, Pag. 10i militari, ed i civili che sono morti, nel corso di questi anni, a causa di quelle scelte.
Il ritiro dall'Iraq è un atto di dialogo, un atto di pace, un atto che nasce dalla volontà di individuare altri mezzi rispetto a quelli militari, altri mezzi per impegnarsi nella lotta contro il terrorismo, per la libertà, per la democrazia e per la giustizia sociale. Molti di noi hanno sempre sostenuto che non si esporta la democrazia. Sicuramente, la guerra è incompatibile con la democrazia: guerra e democrazia sono incompatibili. La logica della guerra mina lo Stato di diritto, produce fatti sistemici come i fatti di tortura che abbiamo visto in Iraq o quelle forme concentrazionarie che abbiamo visto riprodursi nel carcere di Guantanamo (del quale il nostro ministro degli esteri, e questo ci riempie di forza, ha giustamente chiesto la chiusura all'Amministrazione Bush).
Sento riecheggiare nelle parole del deputato Gregorio Fontana (quando si riferisce a quello che Bertinotti definisce il sud del mondo) l'ideologia del «bianco buono» che parla in nome della superiorità del nord: sono parole riempite di quella stessa retorica per la pace e per lo sviluppo che animava i dibattiti che precedettero le grandi avventure coloniali nelle quali l'Italia si impegnò in un altro secolo; sono parole sulla base delle quali, come ha scritto in uno straordinario libro lo storico Angelo Del Boca, il paese si macchiò di crimini infami.
Voglio limitarmi, in questa sede, a due considerazioni. In primo luogo - ne ha parlato Ranieri - è fallita la strategia militare contro il terrorismo.
Questo è un problema che investe anche altre culture rispetto a quella che io rappresento, non solo la cultura della sinistra moderata o del nuovo partito democratico, di cui Ranieri è, in qualche modo, una delle espressioni più significative, ma anche le culture di destra (penso ai dubbi che sorgono nell'ambito dell'amministrazione americana proprio in questa settimana a proposito dell'efficacia di quelle politiche).
Tutto questo però fa il paio con l'impotenza sostanziale del G8 - diciamoci la verità, uno spettacolo abbastanza preoccupante -, delle Nazione Unite e della comunità internazionale. Nel 2001, si svolse un vero e proprio atto di guerra senza precedenti sul suolo degli Stati Uniti con l'abbattimento delle Torri gemelle e, in quel momento tragico, ci fu un'enorme occasione per gli Stati Uniti e per l'umanità di fondare una strategia democratica che portasse a combattere il terrorismo, ma anche a rimuovere le cause su cui il terrorismo cerca di costruire una propria legittimazione.
Prima, si è imboccata la strada della guerra in Afghanistan, ed i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Non sostengo la sciocchezza che con i talebani si stesse meglio che oggi, tuttavia voglio dire con chiarezza che oggi, nel 2006, questo paese è dominato dai signori della guerra, è dominato dalla produzione dell'oppio! E una nuova credibilità la stanno assumendo nei territori meridionali dell'Afghanistan, non i vecchi talebani, che furono cacciati, ma una nuova offensiva integralista e fondamentalista, una qualche forma di «irachizzazione» della situazione afghana che dovremo affrontare - temo - nei prossimi mesi.
E poi l'Iraq, fuori di ogni pregiudizio politico; basta leggere la stampa internazionale, spesso più obiettiva rispetto a tanta parte del dibattito nostrano che ci narra di una Baghdad, di una zona verde nella quale stanno i potenti al riparo degli attentati, e di una Baghdad controllata territorialmente da veri e propri signori della guerra, con metodologie che minano la sicurezza delle persone, di condizionamento grave; cercano di mantenere quel minimo di ordine rispetto all'anarchia che è stata provocata dall'intervento internazionale.
La guerra ha aumentato l'insicurezza. L'involuzione autoritaria in Iran, la vittoria di Ahmadinejad - l'ha detto Ranieri - sono il frutto malato della politica che abbiamo portato avanti nel corso di questi anni e la chiusura ulteriore degli spazi democratici che c'è stata in Iran è il frutto Pag. 11malato di quella strategia! Non vogliamo parlare della Somalia, dell'Indonesia, della Malesia, della eco delle tensioni che arrivano dalle zone periferiche della Cina: anche lì sta ribollendo qualche cosa.
O vogliamo dirci, colleghi, a proposito del relativismo etico, dell'indifferenza con cui tanti benpensanti pronti ad organizzare fiaccolate a senso unico hanno manifestato, quando in India le bombe hanno sterminato 200 indiani? La vita di un povero operaio indiano che va nella metropolitana di Mumbai conta di meno agli occhi di quella presunzione del «bianco buono» che vuole aiutare il sud del mondo, della vita di altri che vengono colpiti nelle metropolitane di Londra o altrove!
Ma è il Medio Oriente la fotografia di questo fallimento. E la situazione della Palestina e di Israele è sotto gli occhi di tutti, come ha scritto, l'altro giorno il poeta Adonis nello straordinario componimento «Vivere e morire per niente». Esso recita: «Quel che accade in queste ore in Palestina e in Libano, non è che l'esplosione di una condizione che si perpetua da oltre mezzo secolo [...]. Ebrei, Cristiani, e Musulmani stanno riscrivendo la storia delle loro origini, con lo stesso sangue: quello di Abele. In quanto tale, questa storia non è, soltanto, palestinese, è universale».
Otto ferrovieri israeliani sono morti a Haifa, erano operai! E quelle decine di famiglie con i bambini albanesi morti negli autobus, fuggendo dalle città bombardate dagli israeliani, erano lavoratori! E a Gaza, dopo il rapimento inaccettabile di un soldato, ci sono stati 150 morti nel corso delle ultime settimane! Si sta chiudendo un cerchio!
La strategia militare sbagliata che gli Stati Uniti hanno imposto all'Occidente nel corso di questi anni ha determinato un quadro di chiusura rispetto all'Iran di Ahmadinejad, a Hezbollah, a Hamas, mettendo in difficoltà perfino le componenti moderate esistenti all'interno di Hamas o di Hezbollah. Vorrei ricordare che Hezbollah ha un ministro nel Governo siriano e che Le Monde - che non è un giornale comunista - oggi titola «Parigi manifesta la sua solidarietà con il Libano». Questa è la stampa internazionale in questi giorni! Altro che il provincialismo con cui in Italia si discute della politica estera!
Ora, dobbiamo cambiare strada e vi è un problema che coinvolge anche il campo pacifista. Lo voglio dire con onestà: nonostante le bandiere della pace e la grande manifestazione del 14 febbraio 2003, che portò 100 milioni di persone in tutte le piazze del mondo a dire «no» alla guerra, tuttavia, nel corso di questi tre o quattro anni, la logica della guerra sta vincendo. Dobbiamo, purtroppo, guardare in faccia questa realtà e domandarci con quale strategia possiamo uscire da tale logica che, oramai, appare fuori controllo.
Non sono a favore di quello che viene definito, spesso con disprezzo, una specie di atteggiamento imbelle. Bisogna porsi il problema di un'ingerenza umanitaria non violenta e democratica, e chiedersi quali politiche il nostro paese e l'Europa debbano portare avanti, ad esempio, sul terreno delle relazioni economiche con molti paesi. Bisogna chiedersi quali politiche mettere in campo in rapporto ai contingenti civili e anche ai necessari contingenti di polizia militare presenti in alcune zone. Oggi, intendiamo farlo rispetto al Darfur e ad altre aree. Vorremmo si facesse lo stesso anche rispetto al Medio Oriente, non tardivamente, quando ormai tutto è saltato, ma in tempo per garantire la sicurezza e la pace di tutti, di Israele, della Palestina, dei lavoratori di una parte e dell'altra, del Libano.
Credo che le decisioni che si assumeranno oggi, anche in rapporto all'Afghanistan, non risponderanno a quanto molti di noi avrebbero voluto. Vi è un diverso punto di riflessione su questo nodo. Tuttavia, salutiamo come una mediazione ed un compromesso significativo il fatto di avere raggiunto l'obiettivo di un mancato potenziamento della nostra presenza militare, dando al Parlamento, attraverso il monitoraggio di cui ha parlato la presidente Pinotti, la possibilità nel corso dei prossimi mesi di svolgere un dibattito senza pregiudiziali e senza paraocchi in Pag. 12ordine a quanto sta accadendo oggi in Afghanistan. Mi rivolgo ai colleghi della maggioranza, ma anche a quelli dell'opposizione, considerato anche che tanti, al di fuori di qui, ci dicono che in Afghanistan la situazione sta precipitando.
Signor Presidente, concludo il mio intervento dicendo che la guerra e la logica dello sterminio terroristico sono l'altra faccia delle ideologie di antisemitismo, delle rinnovate ideologie di antisionismo, che negano l'esistenza dello stato di Israele, e che noi respingiamo nel modo più netto. Ma per far ciò, cari colleghi, occorre affrontare di petto la grande colpa che l'Occidente ha maturato nel corso di questi anni. E questa grande colpa è stata l'aver trascurato, per quanto riguarda la situazione palestinese, la necessità di offrire una soluzione politica quando ve ne era la possibilità. Tutto ciò non è accaduto. E diviene attuale la domanda che il Pontefice ha rivolto a se stesso, uscendo dai campi di sterminio, allorquando si è chiesto: ma Dio dov'era di fronte a tutto questo? La nostra domanda non riguarda Dio, bensì noi stessi: ci possiamo chiedere dove sono gli uomini e cosa possano fare. E ciò che possono fare è uscire dalla guerra e imboccare una strada di iniziative democratiche, civili e pacifiche (Applausi dei deputati dei gruppi di Rifondazione Comunista-Sinistra Europea e de L'Ulivo).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Briguglio. Ne ha facoltà.
CARMELO BRIGUGLIO. Signor Presidente, onorevoli colleghi, signor rappresentante del Governo, noi esprimeremo un voto favorevole sul provvedimento in esame, in nome di un valore per noi fondamentale: l'interesse nazionale.
Si tratta di un valore che ci ha ispirato non solo oggi, ma anche negli anni scorsi, in particolare nel corso della XIII legislatura, quando, proprio in nome dell'interesse nazionale, abbiamo supportato anche la politica estera condotta dai Governi di centrosinistra. In quell'occasione, infatti, abbiamo dato prova, assieme a tutte le forze del centrodestra, di mantenere fermo tale valore, dimostrando il senso di responsabilità di un grande partito politico, il cui interesse coincide con quello della nazione.
Credo che, nell'esame del presente provvedimento - vorrei segnalare, peraltro, che le cronache quotidiane di questi giorni dimostrano che i fatti ed i grandi eventi internazionali rischiano di scavalcare anche l'attualità dei dibattiti parlamentari, e ci riportano alle emergenze che si manifestano altrove -, dobbiamo sottolineare anche un modo incauto con cui vengono rilasciate dichiarazioni. Qualche giorno fa, infatti, il ministro D'Alema ha parlato di reazione sproporzionata, da parte di Israele, all'attacco degli Hezbollah. Non dobbiamo dimenticare, tuttavia, che forse ciò è diventato un costume, o una prassi, perché abbiamo ascoltato il Presidente del Consiglio Prodi rendere affermazioni alquanto incaute in un momento solenne quale quello delle dichiarazioni programmatiche del Governo.
Il Presidente Prodi, infatti, ha voluto definire - confermandolo in una intervista rilasciata ad un grande giornale tedesco - «truppe di occupazione» le nostre forze attualmente presenti in Iraq, vanificando, con ciò, il lavoro svolto e quasi insultando la memoria dei nostri caduti, nonché, per certi versi, il sacrificio dei nostri ragazzi (ho constatato, peraltro, che una certa retorica antimilitarista vorrebbe che non li definissimo in questo modo).
Noi, in questa occasione importante, vogliamo dunque ricordare, ancora una volta, che l'Italia non è entrata in guerra, che il nostro paese si è recato in Iraq sotto la copertura dell'ONU e che la nostra è una missione militare di pace, che vede numerosi nostri giovani (che rappresentano il nostro paese) impegnati nell'aiutare questa giovane democrazia a ricostruirsi moralmente e materialmente.
Ciò è estremamente importante e deve essere ricordato. Allo stesso modo, va ricordato al ministro D'Alema, il quale, intervenuto in sede di illustrazione delle linee programmatiche del proprio dicastero dinanzi alle competenti Commissioni parlamentari, nell'ambito di una polemica Pag. 13con l'opposizione di centrodestra volle in qualche modo insinuare che vi fosse una sorta di accordo segreto tra il Governo Berlusconi e gli Stati Uniti d'America circa il ritiro dall'Iraq (ritiro che, ricordo, era stato già preannunziato dallo stesso Presidente Berlusconi), nel senso che si dovesse lasciare una presenza formalmente civile, ma che, in realtà, sarebbe stata prevalentemente militare.
Credo che il ministro D'Alema dovrebbe essere più cauto nel pronunciare le proprie dichiarazioni, poiché, se vi è stata una sorta di omertà di Stato, anche nei confronti del Parlamento - si tratta di qualcosa di inaudito e grave rispetto a tutti i precedenti avvenuti nel corso della storia della Repubblica -, ciò si è verificato esattamente quando l'Italia ha partecipato alla missione militare in Kosovo e l'allora Governo D'Alema tenne il Parlamento all'oscuro di quanto accadeva effettivamente in tale regione. Si tennero all'oscuro il Parlamento e l'intera pubblica opinione, suscitando la protesta della sinistra radicale - la quale, vorrei osservare, dovrebbe un po' riannodare i fili della propria coerenza -, proprio quando i bombardieri italiani colpivano alcuni obiettivi nell'ambito di una operazione che fu definita di «polizia internazionale», al fine di impedire un genocidio.
Tuttavia, in quell'occasione l'Italia era sostanzialmente impegnata in guerra - secondo noi giustamente - con i nostri piloti che combattevano contro i piloti della parte avversa. E i video delle missioni compiute vennero fatti vedere soltanto ad operazione compiuta. Questa fu l'omertà di quel Governo sulle operazioni di guerra che oggi noi vogliamo ricordare, nel momento in cui si fa una polemica a nostro avviso assolutamente impropria.
Credo che il fluire dei fatti e anche il contenuto di questo provvedimento rischi di non farci comprendere fino in fondo l'aspetto politico importante che va invece sottolineato in questa occasione. Siamo convinti che il dibattito sulla proroga delle nostre missioni militari all'estero sia l'occasione per fare chiarezza secondo verità. La notizia importante o comunque l'evento sul quale dobbiamo discutere - vogliamo farlo con qualche incursione anche nella parte avversa, perché altrimenti rischiamo di ripeterci continuamente, ciascuno dicendo le cose che dice l'altro -, proprio alla luce del dibattito sulla missione in Afghanistan che sta animando fortemente la sinistra ed il centrosinistra, è che i sette-otto parlamentari dissidenti della sinistra sono esattamente i sette-otto parlamentari che sono coerenti con tutte le precedenti posizioni della sinistra.
Non sono loro il caso anomalo, bensì lo è la maggioranza di centrosinistra, in particolare l'area della sinistra, che vorrebbe cambiare posizione rispetto ad un retroterra storico e politico e ad un background che essa ha sulle sue spalle, che poi è esattamente quello che, in altri tempi, ha determinato le posizioni di chi voleva che l'Italia uscisse dalla Nato - non parliamo di trent'anni fa, ma di appena alcuni anni fa -, il rifiuto di una parte consistente della sinistra di votare per l'allargamento ad est della Nato, la grande polemica nella scorsa legislatura sulla concessione dell'uso delle basi militari - che poi D'Alema stroncò, due legislature fa, in modo direi perentorio -, la contrarietà di una parte della sinistra all'intervento in Albania, così come poi all'intervento in Kosovo, che dilaniò il Governo D'Alema, in quanto vi fu una differenziazione forte all'interno delle varie componenti politiche della sua coalizione.
Devo però anche ricordare, proprio a coloro i quali parlano continuamente di legittimazione da parte degli organismi internazionali, che in un'occasione importante ci fu la contrarietà della sinistra anche dinanzi al mandato ONU di intervenire affinché Saddam Hussein si ritirasse dal Kuwait che era appena stato invaso.
Dunque il problema che oggi abbiamo di fronte, come Parlamento, come paese, come mondo politico ed anche come area del centrosinistra, è che ci sono queste due sinistre, una occidentale - lo voglio riconoscere -, che vuole andare incontro alla tradizione politica di questo paese, un'altra invece che è coerente con la sua Pag. 14cultura politica, con la sua storia e con il suo passato, che segue con coerenza le sue idee, al di là delle forme partito che si avvicendano; parlo dei Comunisti Italiani, delle minoranze interne a Rifondazione Comunista e dell'area pacifista, ma anche di un grande giornale della sinistra radicale che fa opinione, come Il Manifesto. Potrei leggere gli editoriali di un padre della sinistra - che ora non c'è più -, Luigi Pintor, che ha dipinto l'operazione in Afghanistan come una vera e propria guerra (ricordiamo quelle pagine) e diffidava, metteva in guardia la sinistra ad avventurarsi in un'operazione di questo genere.
Voglio ricordare alcune dichiarazioni, tra le quali quella dell'onorevole Rizzo risalente a qualche ora fa. Egli, riferendosi all'Afghanistan, ha affermato: «Quello di Prodi è peggio del Governo Berlusconi». Quindi, avendo a riferimento questa conversione di pezzi della sinistra, a cominciare da Rifondazione comunista e dai Verdi, vorrei dire che basta andare a guardarsi il dibattito parlamentare del tempo per capire che vi è un «Bertinotti pensiero» di oggi e un «Bertinotti pensiero» di ieri, un «Pecoraro Scanio pensiero» di oggi e un «Pecoraro Scanio pensiero» di ieri. E ieri, riguardo all'operazione, all'intervento, alla missione militare in Afghanistan, Fausto Bertinotti - cito il leader politico, non ancora Presidente della Camera - definì la posizione assunta, il voto della sinistra in favore dell'intervento in Afghanistan - eravamo all'indomani dell'11 settembre -: «La notte della politica».
Oggi registriamo ben altre posizioni; noi, da questo punto di vista, nella logica dell'interesse nazionale, ne siamo contenti e soddisfatti, ma il problema di fondo è un altro. Infatti, osservo che autorevoli esponenti della Margherita e della maggioranza di centrosinistra cominciano a sostenere che in politica si deve dialogare ed allargare la maggioranza ad alcune forze della Casa delle libertà.
Vi è un problema di fondo che noi, purtroppo, ritroveremo molto presto, infatti la politica internazionale rispecchia la politica di un grande paese e non la si può scindere dal resto della politica generale del Governo. Di conseguenza, se questo Governo ha posto, e pone ogni giorno - credo che nelle ore seguenti lo porrà molto meno -, il proprio accento sulla discontinuità rispetto al Governo precedente, vuol dire che la politica estera era dinanzi agli elettori (su questo punto tornerò in seguito), alla pubblica opinione un elemento discriminante tra centrodestra e centrosinistra, tra il Governo dell'Unione di oggi e il Governo della Casa delle libertà di ieri.
Questo è un punto centrale che la maggioranza di Governo dovrà chiarire. Ieri ho seguito la polemica giornalistica fra Adriano Sofri e Gino Strada; tra le tesi espresse da Sofri una riveste particolare importanza, e cioè quella in base alla quale egli, rivolgendosi ai sette-otto parlamentari dissidenti della sinistra radicale, afferma: «Voi dovete lasciare il seggio perché non siete più in linea con la maggioranza di Governo». In questo caso, notiamo un punto importante, fondamentale che ritroveremo nelle prossime settimane, nei prossimi mesi, da cui dipenderà la vita di questo Governo. Mi spiego: i sette-otto parlamentari della sinistra radicale rappresentano un'area politica (l'area pacifista della sinistra), centinaia di migliaia di elettori a cui rispondono, i quali non vogliono la guerra ad ogni costo e nessun intervento militare sostenuto, appoggiato, coperto o meno, dalle istituzioni internazionali, a cominciare dall'ONU. Eppure quei voti, quei consensi hanno fatto la differenza per far vincere la coalizione di centrosinistra e per la creazione del Governo Prodi.
È una contraddizione che la maggioranza dovrà sciogliere, perché vi è stata una sorta di pubblicità ingannevole da parte dell'Unione, del suo programma e dello stesso Prodi nei riguardi di questa fascia di elettorato della sinistra radicale, che però, votando per l'Unione, per lo schieramento del centrosinistra, se ricordiamo lo scarto minimo che ha fatto sì che prevalesse l'Unione rispetto alla Casa delle libertà, ha rappresentato pienamente la Pag. 15differenza e che oggi, con tali posizioni - torno al tema - sulla proroga e sulla prosecuzione delle nostre missioni militari all'estero, vede disattese le proprie legittime - che noi non condividiamo affatto - aspirazioni e istanze in sede politica e di Governo.
La maggioranza ed il Governo dovranno sciogliere questa contraddizione profonda. Non è possibile che vi sia una maggioranza per tutto il resto della politica del Governo ad eccezione della politica internazionale, della politica estera e della politica della difesa, in quanto esse, in un mondo in cui eventi drammatici e tragici si susseguiranno giornalmente, rappresentano la politica del Governo e del paese.
Votando «sì» sul provvedimento in esame, ma non mancando di rimarcare le discrasie, le incoerenze, le difficoltà nel portare avanti questo disegno di legge, che sono gravi, forti e provocano fratture profonde nella coalizione e anche all'interno del Governo, ribadiamo le ragioni profonde della nostra coerenza, di un valore quale l'interesse nazionale che, per noi, va al di là anche dei comodi tatticismi cui avremmo potuto cedere.
Non vogliamo, in questo momento, che i nostri militari all'estero - che nella scorsa legislatura sapevano di avere alle spalle e accanto un Governo coeso sulla politica estera e di difesa e una maggioranza le cui anime, pur diverse, in questo campo importante non hanno mai avuto nessuna cedevolezza e nessun contrasto e si sentivano sicuri di avere accanto l'intero paese e l'intera comunità nazionale e, comunque, il Governo che la rappresenta - si sentano soli in un compito difficile che abbiamo il dovere di tenere sempre presente con gratitudine. Oggi vogliamo che, con il nostro contributo, i «nostri ragazzi» che rappresentano l'Italia nelle missioni militari all'estero - a cominciare dall'Afghanistan - sentano questa sicurezza, il calore ed il sostegno del popolo italiano (Applausi dei deputati del gruppo di Alleanza Nazionale).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Monaco. Ne ha facoltà.
FRANCESCO MONACO. Signor Presidente, vorrei cominciare con un rilievo critico e, se vogliamo, anche autocritico. Da settimane siamo impegnati in una vivace discussione sulle nostre missioni internazionali. È giusto; ci mancherebbe altro. Tuttavia - ecco il rilievo critico -, a fronte della nostra ossessiva concentrazione sulle missioni internazionali o più esattamente su due di esse, quella in Iraq e quella in Afghanistan, rilevo due vistose lacune nel dibattito pubblico anche interno al nostro campo.
La prima lacuna consiste in un clamoroso deficit di conoscenza tra gli italiani - ma, oserei dire, anche tra noi parlamentari - circa il contenuto proprio di tali missioni, il fine, i mezzi, il contesto, il bilancio della loro azione. Bene hanno fatto i relatori e anche il Governo, specialmente nell'istruttoria in Commissione, a proporci un'accurata informativa anche circa le altre missioni, quelle che sono meno sotto i riflettori.
La seconda lacuna che riscontro nel dibattito pubblico - ma anche interno al nostro campo - è che ci siamo concentrati sulle missioni che, se anche importanti, sono pur sempre uno strumento, quasi trascurando ciò che a mio avviso più conta, e cioè, il quadro generale degli indirizzi di politica estera entro il quale le missioni, come strumento, si iscrivono.
Questa sproporzione tra quadro complessivo e singolo tassello ha ipotecato anche la discussione all'interno dell'Unione, ove si sarebbe dovuto apprezzare di più da parte di tutti la decisa discontinuità nelle linee guida di politica estera rispetto al Governo precedente, una discontinuità che possiamo condensare in due parole: multilateralismo e ancoraggio all'Europa. Discontinuità che, a ben vedere, si concreta nell'impegno a rimettere l'Italia sui binari storici della sua politica estera dopo il «deragliamento» del Governo Berlusconi. In queste ore drammatiche, a mio avviso abbiamo misurato l'efficacia di quel principio di svolta, di Pag. 16discontinuità. Ritengo che l'attivismo diplomatico che è stato sviluppato dal nostro Governo - dal Presidente Prodi - in occasione del G8 nelle ore scorse è anche esattamente il prodotto di quella svolta e di quella discontinuità (lo dico anche agli amici più in sofferenza rispetto al voto che ci apprestiamo a dare all'interno dell'Unione).
La condizione per avere ascolto e per esercitare una concreta influenza consiste nel praticare il multilateralismo dal di dentro, da protagonisti, nelle politiche multilaterali e, prima ancora, nelle istituzioni delle multilateralismo; proprio il multilateralismo come via politica concreta alla pace, che è scolpito nella nostra Costituzione all'articolo 11 e che, non a caso, abbiamo voluto ritrascrivere nel nostro programma.
L'articolo 11 tutto intero. Infatti, non sono due commi, così come fanno osservare i giuristi, ma si tratta di un solo comma scandito in due proposizioni che fanno l'unità dell'articolo. La prima proposizione sancisce il ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà di altri popoli e di risoluzione delle controversie internazionali; la seconda proposizione esplicita che l'Italia si impegna a conferire sovranità e concreta cooperazione a quegli organismi internazionali che perseguono la sicurezza, la giustizia e la pace, a cominciare dall'ONU che, come noto, non dispone di mezzi suoi ma si avvale di quelli degli Stati membri.
Poggia su questo «liquido», solido fondamento costituzionale, la doppia decisione affidata al disegno di legge in esame: rientro dall'Iraq e continuità delle altre missioni concepite e condotte esattamente su basi multilaterali. Ritiro dall'Iraq in coerenza con il giudizio che abbiamo dato, da sempre, sulla guerra - un tragico errore fondato su una menzogna - ingaggiata contro la legalità internazionale; in coerenza con il giudizio che abbiamo dato circa l'eterogenesi dei fini che si è prodotta, cioè, un aumento del terrorismo piuttosto che una diminuzione dello stesso, nonché in coerenza - questa decisione - con il convincimento che altre siano le forme efficaci di aiuto e di sostegno a quel martoriato paese, l'Iraq. Dunque, non un abbandono, non una diserzione, bensì una riconversione del nostro impegno.
Del resto, lo stesso Governo precedente aveva annunciato il ritiro del contingente entro l'anno, magari sussurrando dietro le quinte affidamenti diversi (non è chiaro).
Per converso, invece, ci disponiamo al rifinanziamento di quelle missioni umanitarie e di pace che testimoniano il responsabile contributo italiano all'azione della comunità internazionale.
Il caso sul quale più si è concentrata la discussione in seno alla maggioranza, come noto, è quello dell'Afghanistan. Lo si comprende: trattasi di un teatro difficile, ove si richiede il ricorso alla forza e che dunque esige una metodica, un' assidua vigilanza, perché sul fine, la pace e le condizioni per la pace, non faccia premio il mezzo, cioè il ricorso alla forza. Come abbiamo spiegato, si tratta di una missione affatto diversa da quella irachena, deliberata dall'ONU dopo l'11 settembre per abbattere un regime oscurantista santuario delle organizzazioni terroristiche; una missione che registrò la partecipazione di una vasta coalizione internazionale, nella quale figurano paesi lontanissimi da una vocazione bellicista (penso alla Svezia, alla Finlandia, alla Svizzera, alla stessa Spagna, che ha addirittura aumentato il proprio contributo). Una missione condotta su basi spiccatamente e inequivocabilmente multilaterali dall'Unione europea e dalla NATO. Proprio il multilateralismo, la nostra stella polare, prescrive la continuità del nostro impegno. Se ne è discusso all'interno dell'Unione - è inutile tacerlo - e si è addivenuti all'idea di una mozione di accompagnamento. Sarebbe ipocrita tacere di un travaglio: è sotto gli occhi di tutti e sotto i riflettori; tuttavia, a mio avviso, la mediazione che ne è sortita non è un compromesso subito, ma mi sentirei di dire che è una sintesi persuasiva, convincente, sostenibile, più esigente, se si vuole, nel rapporto tra i mezzi, il ricorso alla forza, e i fini, la pace.
Si attribuiscono al Governo impegni ragionevoli, utili: quello di un monitoraggio Pag. 17permanente in sede parlamentare sulle missioni, quello di un mix più equilibrato tra impegni umanitari e civili da un lato e impegni militari dall'altro, la richiesta che la comunità internazionale faccia il punto sul deterioramento oggettivo del teatro afgano. Infatti, come ha osservato Barbara Spinelli, che non è incline ad un facile pacifismo, si deve considerare responsabilmente la situazione così com'è, fuori dagli ideologismi, se non si vuole ridurre il tutto ad una guerra delle parole, ad una guerra di posizionamento. Lo dico all'amico e collega Briguglio, che vedo informatissimo sui guai dell'Unione: occupiamoci dei guai del mondo, che meritano forse più attenzione!
In tema di principio di proporzionalità, cerchiamo di avere il senso delle proporzioni anche tra i guai dell'Unione e i guai del mondo, perché sarebbe offensivo (lo dico anche a taluni nel nostro campo) ed anche un po' cinico, verso chi la guerra - non la guerra delle parole, la guerra dei documenti, ma quella vera, quella cruenta - la vive sulla propria pelle.
Nella mozione si evoca la speranza ed il conseguente impegno a far maturare le condizioni perché le missioni abbiano un loro compimento; è nella natura stessa delle missioni avere un proprio compimento, specie quando le missioni contemplano il ricorso alla forza. Un mezzo estremo orientato al fine: quello di mettere quei popoli nelle condizioni di vivere nella sicurezza, nella libertà e nella pace, senza l'esigenza di interventi esterni.
PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE PIERLUIGI CASTAGNETTI (ore 10,25)
FRANCESCO MONACO. In definitiva, dal disegno di legge e dalla mozione si ricava una posizione di equilibrio, che coniuga la vocazione internazionalista del nostro paese con il suo spirito di pace, scolpiti nella Costituzione; una limpida opzione etica e ideale con il senso delle nostre responsabilità dentro e con la comunità internazionale; la giustizia con la forza - essendo qui presente Gerardo Bianco, anch'io sento di darmi un po' di importanza con una citazione - e, come ammoniva Pascal, dobbiamo rendere forte ciò che è giusto e giusto ciò che forte (Applausi dei deputati del gruppo de L'Ulivo).
PRESIDENTE. Constato l'assenza dell'onorevole Bricolo, iscritto a parlare: s'intende che vi abbia rinunziato.
È iscritto a parlare l'onorevole Mancini. Ne ha facoltà.
GIACOMO MANCINI. Signor Presidente, signor viceministro, onorevoli colleghi, con il dibattito sulla mozione e sul provvedimento riguardanti la partecipazione italiana alle missioni internazionali e con le votazioni che ne seguiranno il Governo e le forze dell'Unione di centrosinistra fissano, di fatto, i punti della propria azione e definiscono le traiettorie ed il ruolo per il presente e per il futuro del nostro paese nello scacchiere planetario.
La comunità internazionale è scossa dai venti di guerra che soffiano sul Medio Oriente. Il conflitto evidente tra lo Stato di Israele e Hezbollah del Libano e quello latente con gli Stati arabi di quel quadrante, fin da adesso già drammatico, rischiano di produrre conseguenze catastrofiche e di innescare una spirale del conflitto tra religioni e civiltà che sarebbe terrificante non solo per quell'area, ma per tutto il pianeta.
In questo quadro il nostro paese è chiamato a scegliere il posizionamento migliore e la strategia più utile per promuovere l'affermazione di una comunità internazionale basata sullo sviluppo e la solidarietà fra i popoli, sul multilateralismo e sul rispetto del diritto internazionale. A questa esigenza contribuiscono non poco gli intenti contenuti nella mozione che il Parlamento voterà domani ed il contenuto del disegno di legge che stiamo adesso discutendo. Entrambi sono frutto del programma che le forze dell'Unione hanno proposto agli elettori e sul quale è stato conquistato il consenso della maggioranza degli italiani. Non nascondiamo che esso sia anche il risultato di Pag. 18una mediazione possibile tra le diverse componenti della coalizione che ha coinvolto anche La Rosa nel Pugno e ha convinto le sue componenti, sia quella socialista, sia quella radicale.
L'Italia era nel passato e rimane anche per il futuro convinta alleata degli Stati Uniti d'America. Nei prossimi anni, ad iniziare dall'approvazione di questi provvedimenti, però, intende svolgere quel ruolo che il passato Governo ha sacrificato per autorelegarsi a sostenitore acritico delle decisioni di Washington. La sfida in cui oggi è impegnato il nostro paese, il suo Governo, la sua maggioranza, è quella di investire e di far accrescere il ruolo politico dell'Europa, con l'intento di far diventare il nostro continente un attore forte, con una voce che diventi sempre più unitaria così da essere sempre più autorevole e che dovrà spendersi per la risoluzione delle criticità della comunità internazionale.
In questa giusta prospettiva si sono mossi, fin da subito, il Presidente del Consiglio, anche da ultimo nel corso del G8 di San Pietroburgo, rilanciando un rapporto positivo con Francia e Germania, il ministro degli esteri, spiegando con chiarezza e non senza fermezza la nostra posizione sull'Iraq al sottosegretario di Stato americano Condoleeza Rice, e il viceministro Intini che, con intelligenza ed acutezza, segue i problemi dell'area mediorientale, oggi scenario della crisi più acuta. È proprio in questo contesto che il ruolo del nostro paese può ambire ad essere più incisivo e più determinante.
Nei giorni passati si è aperto un dibattito che è stato promosso e pensato più in chiave di differenziazione tra gli attori della politica nazionale che per calibrare una migliore definizione della nostra politica estera su un'asserita equivicinanza dell'Italia con lo Stato di Israele e con quello palestinese e, più in generale, con il mondo arabo. Il termine «equivicinanza», calato nel contesto drammatico che stiamo vivendo in queste ore, ha alimentato una discussione tra le forze politiche e nelle forze politiche, coinvolgendo anche La Rosa nel Pugno e le sue componenti.
Personalmente, credo non si possa rimanere insensibili rispetto all'attacco che sta subendo lo Stato di Israele da parte di movimenti fondamentalisti che teorizzano la cancellazione di quello Stato e di quella comunità, né penso che il solo eccesso nella legittima difesa che si imputa ad Israele, che ha probabilmente il torto di aver causato la morte di civili e la distruzione di infrastrutture civili, sia sufficiente per non individuare con chiarezza da quale parte stia la ragione. Però, proprio per questo, è nostro dovere attivare gli strumenti della politica per fermare il conflitto e per contribuire al ristabilimento di un quadro rispettoso del diritto internazionale, che già ispira l'azione del Governo e della sua maggioranza rispetto alle scelte che riguardano l'Iraq e l'Afghanistan.
Il Presidente del Consiglio, già da San Pietroburgo, si è reso protagonista dell'inizio di una lodevole mediazione. Auspichiamo che anche in queste ore si intensifichino gli sforzi in questa giusta direzione. Se impegneremo il nostro paese in questa sfida, rendendolo protagonista nella conquista di una frontiera di pace, garantiremo all'Italia una nuova autorevolezza e alla comunità internazionale la conquista di una nuova stagione di stabilità. Alla definizione di questo quadro il centrosinistra darà il proprio leale contributo e La Rosa nel Pugno, per conto suo, si impegnerà a tenere ferma la barra del Governo e della maggioranza su posizioni che non cedano al pacifismo strumentale, impotente e sempre antiamericano, ma, al contrario, che confermino l'alleanza leale con gli Stati Uniti e siano utili a svolgere una politica che possa contribuire a dare un ruolo centrale all'Unione europea (Applausi dei deputati dei gruppi de La Rosa nel Pugno e de L'Ulivo).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Bosi. Ne ha facoltà.
FRANCESCO BOSI. Signor Presidente, per il gruppo dell'UDC è assai semplice intervenire in questa discussione sulle linee generali, per ribadire la nostra completa Pag. 19adesione alle missioni all'estero nel loro complesso e, in modo particolare, a quella dell'Afghanistan, sulla quale si è incentrato e si sta incentrando un certo tipo di dibattito che crea sofferenza all'interno della maggioranza di Governo. Credo che l'aver detto da parte del nostro gruppo che avremmo votato favorevolmente al rifinanziamento delle missioni sia stato un atto doveroso. Doveroso nei confronti della comunità internazionale, del sistema delle alleanze alle quali l'Italia partecipa da sempre, delle popolazioni martoriate di quei paesi ed anche, mi sia consentito, delle Forze armate italiane, che in questi anni hanno operato in numerosi teatri nei quali si sono determinate situazioni di grande crisi, pericolosità e sofferenza per intere popolazioni. La presenza dei nostri militari ha destato sincera ammirazione ed apprezzamento in tutto il proscenio internazionale.
Nei cinque anni del Governo Berlusconi ho avuto la responsabilità di sottosegretario per la difesa e, quindi, l'opportunità di recarmi nei luoghi di missione. Credo che solo il volto, le espressioni, la faccia di quelle popolazioni - da quelle dei Balcani a quelle dell'Afghanistan e dell'Iraq - dimostrassero quanto fosse importante, per ragioni umanitarie, la nostra presenza in quei luoghi, per ricostruire, per soccorrere le popolazioni, per ricostituire le condizioni ordinarie della vita, le minime indispensabili condizioni per l'ordinarietà, senza considerare il grandissimo apporto anche in termini ricostruttivi dato dai nostri militari. Mi recai proprio in Afghanistan quando un generale italiano assunse il comando della regione di Herat e vidi quanto avevano fatto, ad esempio, per la ricerca dell'acqua, che non c'era. Vedevamo quelle povere popolazioni cercare l'acqua nelle pozzanghere, filtrarla, con grandi depositi e silos per l'acqua dove tutte le donne andavano a prendersi i propri rifornimenti.
Per non parlare, poi, della salvaguardia rispetto ai rischi del terrorismo, che cinicamente e crudelmente imperversa proprio contro i più deboli ed i più poveri, nelle scuole e negli ospedali, ovunque vi sia una concentrazione di persone.
Dunque, riteniamo - ed abbiamo ritenuto immediatamente - doveroso votare «sì», per coerenza politica e per rispetto a valori importanti ai quali ci riferiamo, primo tra tutti la difesa della dignità della persona umana, anche per affermare che nel nostro paese, un grande paese, con una storia ed una tradizione di solidarietà internazionale, non si può di volta in volta, decidere se dire «sì» o «no» in relazione all'opportunità ed alle convenienze politiche. Bisogna avere la determinazione e la lungimiranza di dire «sì» quando un fatto è giusto e dire «no» quando lo riteniamo, in coscienza, sbagliato.
Dunque, siamo ben lieti che tutta la coalizione della Casa delle libertà voterà «sì» al rifinanziamento di questo complesso di missioni. Siamo, tuttavia, francamente preoccupati, a causa di alcune espressioni che sono state usate anche in quest'aula poc'anzi. Mi riferisco all'intervento dell'onorevole Folena, e mi spiace che egli si sia allontanato subito dopo aver svolto tale intervento. Detto intervento può essere, per alcuni versi, emblematico di un modo singolare di intendere il ruolo internazionale dell'Italia, di intendere il ruolo delle nostre missioni all'estero, ossia che tali missioni non si devono fare quando non ricorrano determinate condizioni sulle quali vi sono pregiudiziali di tipo ideologico nei confronti di questa o di quella potenza, nei confronti di questa o di quella determinata situazione. Ma allora dobbiamo intenderci una volta per tutte: queste missioni servono e debbono essere svolte doverosamente e principalmente quando lo chiedono le organizzazioni internazionali, iniziando dall'ONU, per la salvaguardia della sicurezza delle persone, sempre, nonostante alcuni strani e stravaganti pregiudizi che si levano di volta in volta.
Credo che anche sulla questione irachena, diciamocelo francamente - anzi ridiciamolo una volta per tutte -, sia stata sollevata negli scorsi anni una grande menzogna, successivamente approdata in Pag. 20campagna elettorale, da parte della coalizione che si è formata attorno a Prodi: quella per cui quella irachena era una cattiva missione, non perché non obbedisse ad esigenze di carattere umanitario importantissime, clamorose e visibili da tutti, ma perché coloro i quali avevano deciso unilateralmente l'intervento avevano sbagliato e non avrebbero dovuto farlo. Ma cosa c'entra ciò? Cosa c'entra l'Italia? Il Governo italiano mai si è pronunciato a favore dell'intervento unilaterale degli Stati Uniti e del Regno Unito in Iraq. Nonostante ciò, abbiamo ritenuto imprescindibile e doveroso intervenire in quelle aree in cui si perpetravano, e si continuano ancora oggi a perpetrare massacri e stragi. Immaginate se in Iraq non vi fossero state le forze della coalizione internazionale, tra le quali anche quelle italiane! Immaginate i contraccolpi, le epidemie, le uccisioni, gli innumerevoli morti tra le fasce più deboli: avrebbe potuto un paese civile, che ha delle risorse, tapparsi, per così dire, gli occhi e non intervenire?
È questa la logica che si vorrebbe sposare? È questa la moralità della politica estera alla quale alcune forze si ispirano? È davvero vergognoso e mi meraviglio che si possano fare e che si siano fatti discorsi così smaccatamente strumentali. Bisognerebbe, invece, comportarsi come noi, che, malgrado siamo all'opposizione, votiamo a favore del finanziamento di tali missioni perché vi crediamo; coloro i quali, invece, sono stati all'opposizione in passato, mistificando intorno alle missioni e così rendendo un cattivo servigio all'immagine dell'Italia, devono ora rendersi conto che sulle grandi questioni della politica estera non si interviene strumentalmente per piccoli disegni di carattere interno e nazionale. Ciò non è degno di una classe dirigente che si voglia chiamare con questo nome.
Siamo orgogliosi di avere partecipato alla missione in Iraq; i nostri militari che hanno perso la vita e che oggi sono ricordati con una lapide sono degli eroi e hanno reso un grande servizio ai valori della pace e della vita, ai valori umanitari della solidarietà internazionale. Sostenere che non si è trattato di una missione proficua equivale al più grave affronto nei riguardi dei familiari i quali, nel dolore e nel vuoto della perdita dei loro cari, si aggrappano, come è giusto che sia, all'importanza della causa per la quale i loro congiunti hanno perso la vita.
Quindi, ora che il Governo e la maggioranza dichiarano, attraverso il disegno di legge e la mozione, di accingersi al ritiro delle nostre forze, gradirei che in questa Assemblea, nel corso del dibattito, si riconoscesse che detto ritiro può avvenire solo grazie a questi sacrifici di vite, che hanno consentito a quelle popolazioni di tornare a votare, di scegliersi il proprio Parlamento ed il proprio Governo, di organizzare le forze interne di polizia per contrastare il terrorismo. Ritengo che ciò debba essere ascritto ad orgoglio delle nostre Forze armate, dell'Italia e del nostro paese; chi non lo riconosce, dimostra di non essere in buona fede.
Sviluppare una convinzione del genere è importante per tutti, al di là dei fini strumentali che possono animare e muovere la politica. Sappiamo che la politica si nutre talvolta anche, purtroppo, di strumentalizzazioni, ma una parte della maggioranza che sostiene questo Governo ha maturato e sta maturando nel tempo tali acquisizioni.
Qualcuno mi dovrebbe poi spiegare - ancora nessuno lo ha fatto - per quale motivo si dovrebbe distinguere così fortemente la legittimazione dell'intervento in Afghanistan da quella della missione in Iraq quando entrambi sono raccomandati non da una ma da varie risoluzioni delle Nazioni Unite. Se qualche paese europeo, per i propri interessi, ha deciso di non partecipare alla missione, dovrebbe esso fornire spiegazioni chiarendo perché non ha partecipato, disattendendo così una ragione importante di solidarietà internazionale.
Signor Presidente, onorevoli colleghi, continuiamo ad ascoltare interventi da parte degli esponenti della maggioranza che davvero lasciano esterrefatti e perplessi, quando si parla, ad esempio, della Pag. 21missione Enduring Freedom - ciò è tratteggiato anche nel documento della mozione per la quale è intervenuto efficacemente, ieri sera, l'onorevole Forlani per il nostro gruppo - come fosse un'accezione negativa, che fortunatamente va regredendosi ad una dimensione che impegna unicamente 250 uomini della Marina militare, quasi vergognandosi di questa missione, che invece ha sempre svolto - e continua a svolgere - una funzione importante contro il terrorismo internazionale e contro la strategia di Al Qaeda. Perché mai si manifesta questa sorta di pudore nei confronti della missione denominata Enduring Freedom? Anche su questo io credo che la maggioranza dovrebbe parlare, così come dovrebbe farlo il Ministro della difesa, i sottosegretari e i relatori. Insomma, come si qualifica questa missione e perché viene presentata nella risoluzione quasi come un disegno da contenere in una misura marginale e in fase di esaurimento? Come ci si attrezza ad affrontare eventuali altre necessità per il rafforzamento dei nostri contingenti, ad esempio nell'Afghanistan, quando proprio le Nazioni Unite hanno chiesto ed insistito per un rafforzamento di queste presenze? Cosa pensa e cosa fa l'Italia al riguardo? Ho apprezzato il fatto, ad esempio, che il Presidente del Consiglio abbia dichiarato - come appare oggi su tutti i giornali - l'immediata e pronta disponibilità dell'Italia a creare una sorta di cuscinetto nella striscia di Gaza, per interporsi e scongiurare in qualche modo i fatti che accadono in questi giorni. Ritengo sia giusto aver dato l'immediata disponibilità dell'Italia ad intervenire in una situazione così pesante e così difficile, di crisi internazionale. Come si concilia questo, però, con alcuni interventi secondo i quali soltanto parlare di missioni militari, quasi vi fosse un antimilitarismo marciante, è come individuare il male laddove vi è una presenza militare e laddove una comunità internazionale decida di intervenire sulla scorta di ragioni umanitarie? Allora viene a galla una sorta di ideologia pacifista, per la quale la pace non è il superamento dei momenti più drammatici di lotta armata, delle stragi e dell'ecatombe di persone innocenti per favorire gli interessi dei signori della guerra e di alcuni potenti locali che cercano, con le armi e con il terrorismo, di imporre la loro spietata legge. Il pacifismo è inteso come una sorta di uscita, di disimpegno, nel senso quasi di voler essere lasciati in pace a fumare spinelli, a svolgere riti particolari, senza essere scomodati, a starsene a casa e non pensare a ciò che succede nel mondo. Questo è un tipo di pacifismo; ma a quali ragioni etiche e morali - lo domando al collega Folena - risponde un tipo d'ideologia come questa? Non so dove dobbiamo andare ad attingere.
Chiamiamolo il trionfo dell'egoismo di questi «pacifisti pantofolai», i quali se ne stanno nei propri panni, guardano alla televisione le stragi e quanto di più tremendo e terribile avviene e poi pontificano, dando la colpa a quello o a quell'altro, a seconda delle simpatie ideologiche e politiche. Davvero, se c'è un male, esso è costituito da questo tipo di mentalità.
Signor Presidente, onorevoli colleghi, credo che noi dovremmo compiere uno sforzo e guardare non solo oltre confine, ma anche in avanti nel tempo. In un grande processo di mondializzazione, nel quale siamo inseriti e nel quale vogliamo e affermiamo di essere inseriti, credo si debba pensare ad un maggior numero di esigenze di intervento laddove maggiormente si soffre e non solo nei paesi arabi. Qualcuno, infatti, ha lumeggiato il sospetto che si intervenga laddove c'è in ballo la partita per il petrolio. Invece, io mi riferisco all'Africa e ad alcuni paesi della regione indiana, nella quale, peraltro, ci sono forze ed elementi di autosufficienza. Mi riferisco anche a tante altre aree di crisi del mondo laddove se un problema c'è o ci potrà essere, in prospettiva, forse è proprio quello della latitanza dei paesi più progrediti, che avrebbero il dovere di intervenire maggiormente.
Questo è il tema che noi ci troviamo di fronte, questa è la sfida dei prossimi decenni per la costruzione di un mondo migliore e più giusto nel quale si possa Pag. 22vivere e nel quale soprattutto coloro i quali intendano opprimere altri con la forza debbono sapere che c'è un consesso mondiale che osserva, valuta, decide ed è capace di intervenire e mettere un freno alle violenze, alle prepotenze e alle ragioni del sottosviluppo. Questa, lo ripeto, è la sfida che abbiamo di fronte.
Quindi, se, da un lato, vi è un'idea di solidarietà attiva che si svolge anche attraverso le missioni militari, dall'altro, vi è il rifugiarsi e il crogiolarsi nella propria particolare e piccolissima realtà, nella quale - come affermavo in precedenza - vige un imperativo: lasciateci in pace. Ecco, noi non vogliamo essere lasciati in pace perché quanto avviene ci tocca, ci preme, è cosa che ci appartiene. Abbiamo il dovere morale di fare tutto il possibile, di contribuire, a costo di sacrifici non solo finanziari ma, talvolta, anche in termini di vite umane, ahimé, e di intervenire laddove ce n'è bisogno, laddove si può dare un contributo, anche modesto, all'affermazione dei valori universali (Applausi dei deputati dei gruppi dell'UDC (Unione dei Democratici Cristiani e dei Democratici di Centro) e di Alleanza Nazionale).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Nicco. Ne ha facoltà.
ROBERTO ROLANDO NICCO. Signor Presidente, onorevoli colleghe e colleghi, signor viceministro, la Carta delle Nazioni Unite sancisce il diritto di ogni popolo a disporre di se stesso e ad autogovernarsi. Si tratta di un principio sacrosanto e irrinunciabile che, assieme all'articolo 11 della nostra Costituzione, deve costituire la bussola della nostra politica estera.
Essere fedeli a questi principi significa essere contrari a priori a qualsiasi intervento, anche militare? Certamente no. Ci sono situazioni eccezionali in cui ciò è, non solo legittimo, ma doveroso. Siamo ben consapevoli del ruolo fondamentale svolto dall'intervento degli Stati Uniti per spazzare dall'Italia e dall'Europa fascismo e nazismo e saremo loro eternamente grati per il sangue versato sullo nostro suolo.
Venendo alle drammatiche vicende di questi giorni in Medio Oriente, è certo condivisibile la proposta, avanzata ieri dal Presidente Prodi, di costituire nell'ambito dell'ONU una forza internazionale di interposizione.
Ma questo era il caso dell'Iraq. Una guerra dichiarata dal Presidente Bush, con l'obiettivo - si disse - di individuare quelle armi di distruzione di massa del regime iracheno, che avrebbero rappresentato un pericolo, una minaccia per l'umanità. Ricordiamo l'immagine del Segretario di Stato americano Powell, che brandiva una provetta di antrace al Consiglio di sicurezza dell'ONU. E quando, nonostante tutti gli sforzi, quelle armi non furono trovate, fu poi lo stesso Powell a dover ammettere che quella era stata una delle pagine meno brillanti delle sua carriera politica. Venuto meno quell'alibi, divenne allora una guerra per la democrazia. Motivazione credibile?
Come non ricordare che troppi paesi sono stati incatenati a regimi dittatoriali e sanguinari non meno di quello di Saddam, per intervento diretto o indiretto proprio degli Stati Uniti? È storia non troppo remota, dal Cile di Pinochet all'Argentina dei generali, dai contras in Nicaragua a El Salvador e a troppe altre vicende in quello che gli Stati Uniti considerano il cortile di casa. Evidentemente, in quei casi, poco importava portare la democrazia. E lo stesso Saddam non era stato ampiamente foraggiato quando serviva in funzione antiraniana?
Si è anche affermato che l'intervento aveva carattere umanitario. Recentemente, si sono registrati altri terribili conflitti; ad esempio, quello spaventoso tra gli Utu e i Tutsi, con 800 mila morti, in maggior parte donne e bambini. Morti che non interessavano a nessuno, scomparsi - semmai vi sono entrati - nell'agenda delle grandi potenze.
Si è parlato inoltre di una guerra per debellare il terrorismo. In realtà, mai come adesso, il terrorismo è stato alimentato, con l'Europa entrata direttamente nel mirino della follia omicida del fanatismo islamico, in attesa di sapere se, dopo Madrid e Londra, altri paesi dovranno contare i propri morti e i propri feriti.Pag. 23
Ben altre sono le strade per debellare il terrorismo, per prosciugarne il terreno di coltura ed in ciò vi è un ruolo politico che l'Europa avrebbe dovuto svolgere e che auspichiamo almeno in futuro sappia svolgere. Altre erano quindi le motivazioni di quel di conflitto, prima tra tutte il controllo delle riserve petrolifere, delle quali quelle irachene - stimate in 112 miliardi di barili di greggio - costituiscono un appetibile boccone.
Dopo oltre tre anni di guerra, la realtà irachena è sotto gli occhi del mondo: un paese sull'orlo della guerra civile, anzi con una guerra civile in corso, caratterizzata da un susseguirsi di stragi e ritorsioni che quasi non fanno più notizia, come quella di ieri a Mahmoudiya, con i suoi 50 morti confinati in poche righe, quasi scomparsi sui media di oggi.
Un paese, l'Iraq, diviso e devastato, nel quale la stragrande maggioranza delle vittime è costituita non da terroristi, ma da civili, da donne e bambini. Siamo di fronte al fallimento di una strategia sbagliata, con un prezzo altissimo anche tra le truppe di Antica Babilonia. In guerra si spara e si muore da entrambe le parti ed accorgersene solo di fronte alle bare dei propri caduti, con un profluvio di retorica sull'onore patrio, è un esercizio di insopportabile ipocrisia.
Dunque, è giusta e condivisibile, anche se tardiva, la decisione di ritirarsi dall'Iraq contenuta nell'articolo 2 del disegno di legge in esame.
Certo, qualche seria riflessione andrà fatta, nei tempi e modi opportuni, anche sulla situazione dell'Afghanistan. Essa è indubbiamente diversa sia nelle sue premesse di legittimità sia nella sua evoluzione politica; tuttavia, credo occorra chiedersi se, anche in questo caso, gli obiettivi indicati siano stati raggiunti o meno.
Quattro anni di occupazione militare straniera non sono serviti a rafforzare l'autorità del Governo Kharzai, che continua a controllare un'area assai limitata di un paese in cui ancora dominano i signori della guerra e dell'oppio ed in cui cresce l'ostilità nei confronti della presenza militare straniera. Proprio in questo periodo, assistiamo ad una drammatica ripresa dei combattimenti e, ancora una volta, al tragico coinvolgimento di innocenti - donne e bambini, vittime, in troppi casi, delle bombe assai poco intelligenti degli aerei statunitensi -, che non possiamo non rifiutarci seriamente di continuare a considerare effetto collaterale del conflitto, perché di vite umane spezzate si tratta: altro, tutt'altro è una politica di pace! Sulla distanza abissale tra gli obiettivi proclamati e la realtà sul territorio occorrerà interrogarci - tutti - al di là di posizioni preconcette e di schieramenti precostituiti.
Pieno accordo, dunque, sul punto della mozione Sereni ed altri n. 1-00014 che impegna il Governo a promuovere nelle sedi internazionali, in special modo nell'ambito delle Nazioni Unite e della NATO, una verifica dell'impegno e della presenza internazionale in Afghanistan volta a valutare risultati ed efficacia delle missioni.
Ciò non significa affatto essere indulgenti, e tanto meno conniventi, con i talebani e con il loro esecrabile regime, allo stesso modo in cui considerare sbagliata la guerra in Iraq non significa accettare la sanguinaria dittatura di Saddam: siamo contro le dittature - tutte, sempre e ovunque -, così come siamo contro ogni tipo di fondamentalismo e di tecnocrazia, sempre e ovunque, e non a seconda degli interessi geopolitici di qualcuno.
Il mondo a cui guardiamo è un mondo in cui non vi sia sfoggio muscolare, ma sia fondamentale il dialogo tra culture diverse - l'opposto dello scontro tra civiltà! -, il che non esclude affatto la fermezza e la difesa, intransigente anche, di quelle che riteniamo essere le nostre ragioni, dei principi, per noi inderogabili, della civile convivenza tra individui e popoli e dei fondamenti della democrazia, in un contesto internazionale multipolare in cui ogni popolo abbia uguali diritti e pari dignità.
PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Francescato. Ne ha facoltà.
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GRAZIA FRANCESCATO. Signor Presidente, signor viceministro, colleghi, i Verdi si preparano a dire «sì» al disegno di legge sulla partecipazione italiana alle missioni internazionali; o, meglio, si preparano a dire una gamma di «sì», di diversa intensità e gradazione: dal «sì» convinto, e pieno di sollievo, che saluta la sospirata fine della presenza di Antica Babilonia in Iraq, al «sì» tormentato ed inquieto, quasi al confine con il «no», che accoglie il mantenimento della nostra missione in Afghanistan.
Su quest'ultimo punto, il più spinoso, mi soffermerò in seguito. Ora, desidero cominciare il mio intervento riaffermando la vitale importanza del nostro ritiro dall'Iraq, scelta che, in questi giorni, appare un po' sbiadita sotto l'urto della vampata di guerra riaccesa in Medio Oriente, che sembra ricacciare in secondo piano le drammatiche vicende irachene e ridurre il rientro ad un fatto scontato, ad una sorta di déjà vu: non è così! E noi Verdi, che questo rientro abbiamo voluto e perseguito con instancabile determinazione, insieme alla costellazione dei popoli della pace ed alle forze politiche consonanti sul tema, salutiamo con profondo sollievo il cambiamento di segno della nostra missione irachena.
Tale missione sancisce una svolta storica, una forte discontinuità, volendo usare il codice politico oggi in voga, rispetto alla fase precedente, per motivi di fondo, perché il ritiro sancisce il riconoscimento, scritto a chiare lettere nel nostro programma comune - da cui cito -, che la guerra in Iraq è stato un grave errore, che non ha risolto, ma complicato, il problema della sicurezza, ridando anzi fiato alle azioni terroristiche; riconoscimento ormai diffuso, tanto che, non un verde iperpacifista, non un no global esagitato, ma il portavoce dei giudici europei antiterrorismo riuniti a Firenze due mesi fa, ha segnalato che, dal 2003, il reclutamento di volontari per la jihad è cresciuto del 30 per cento; per questo motivo, la guerra in Iraq deve essere considerata «il migliore aiuto alla propaganda dell'ideologia qaedista».
L'altro motivo per cui il ritiro dei nostri soldati segna un passaggio chiave è che sigla il ritorno della nostra politica estera dentro l'alveo del multilateralismo, riaffermandone il valore come metodo per la soluzione concordata dei conflitti e per rafforzare il ruolo delle Nazioni Unite, restituendo loro una autorevolezza di cui hanno disperatamente bisogno.
Come Verdi, non possiamo però trascurare l'importanza di altre missioni, purtroppo, più lontane dai riflettori dei media, che avrebbero necessità di una maggiore attenzione da parte di tutti noi. Penso al genocidio troppo a lungo dimenticato del Darfur, in Sudan, tragedia che noi, Verdi europei, abbiamo segnalato con costante impegno anche grazie alla presenza nelle file dei negoziatori ONU, che hanno tessuto il fragile inizio di pace tra le opposte fazioni, del nostro portavoce europeo finlandese, Pekka Haavisto, lo stesso, peraltro e non a caso, che ha avuto un ruolo importante nella vicenda dell'uranio impoverito. È stato tra i primi a denunciare all'opinione pubblica internazionale questo problema.
Quindi, con soddisfazione ritroviamo nel disegno di legge l'impegno a proseguire lo studio epidemiologico, per accertare i livelli di uranio e di altri elementi potenzialmente tossici che espongono a seri rischi per la salute il personale militare impiegato nelle missioni, i civili dei luoghi contaminati e l'ambiente, che paga anch'esso un duro prezzo quasi mai preso in considerazione dalla follia distruttiva della guerra.
Colgo l'occasione per segnalare che, accanto all'uranio, gli esperti puntano sempre di più il dito, con sempre maggiore preoccupazione, sull'avanzata drammatica delle nanopatologie, malattie causate dall'immensa quantità di particelle infinitesimali che le esplosioni provocano. I militari si ammalano, spesso generano figli malformati, proprio perché inalano polveri sottili e sottilissime che ogni esplosione ad alta temperatura genera (ricordo che l'uranio è responsabile di temperature superiori ai tremila gradi). Quindi, si volatizzano insieme bersagli e proiettili, una Pag. 25sorta di orrenda nemesi che colpisce chi ha colpito il bersaglio e, purtroppo, contamina suolo, erba, l'intera catena alimentare, dunque, esseri umani ed ambiente. Un problema ancora sottovalutato che occorre, invece, sempre più denunciare come tremendo effetto collaterale nei teatri di guerra.
Ma vengo ora alla questione per noi più spinosa, all'Afghanistan, quindi al nostro «sì» più sofferto, più vacillante, per qualcuno di noi in bilico sul «no». Non può d'altronde stupire questa sofferenza in un partito, come quello dei Verdi, che, non a caso, ha l'arcobaleno di pace sulla sua bandiera, che ha il pacifismo e la non violenza nel suo DNA, che ha fatto della pace, insieme all'ambiente e ai diritti, una triade di tematiche che sono alla base del suo agire politico, della sua stessa ragione d'essere.
Abbiamo - lo sapete - detto «no» all'intervento in Afghanistan fin dall'inizio. Questo «no» lo abbiamo ripetuto otto volte. Se oggi diciamo il più faticato dei nostri «sì» non è solo per senso di responsabilità verso l'Unione, c'è anche questo ovviamente, ma perché non vogliamo e non possiamo sottovalutare i passi avanti contenuti nella mozione che accompagna il disegno di legge, su cui poi si soffermeranno i miei amici e colleghi Verdi, e che per noi costituiscono un punto non d'arrivo, ma di partenza verso la costruzione di un processo di pace e di democrazia in quel disastrato paese; un punto di partenza verso una exit strategy, una via d'uscita, per ora solo larvatamente evocata, ma che dovrà diventare un orizzonte verso cui procedere, non tanto e non soltanto per nostra scelta, ma perché la forza degli eventi lo imporrà in tempi probabilmente più brevi del previsto.
PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE CARLO LEONI (ore 11,10)
GRAZIA FRANCESCATO. Il fattore tempo sarà sempre più cruciale nella vicenda afgana. La situazione di quel paese si sta deteriorando sempre più velocemente. Scelgo un indicatore fra i tanti, uno dei più rilevanti, perché mette a rischio la sicurezza non solo dei civili, ma anche dei bambini e soprattutto delle bambine, che sono le vere martiri di questa cultura che ha fatto della misoginia uno dei baluardi: il rapporto recentissimo di Human Rights Watch, illustrato dalla presidente dell'AIDOS, Daniela Colombo, alle Commissioni competenti, intitolato «Lessons in Terror. Attacks on Education in Afghanistan», che mette in luce il tragico fenomeno degli assalti alle scuole, agli insegnanti e agli studenti, soprattutto di sesso femminile, vista l'imperante misoginia della cultura afghana, che permane anche dopo la cacciata dei talebani.
Parliamo di 204 attacchi in 18 mesi, con 17 educatori assassinati, specialmente nel sud e nel sud-est, che sono i luoghi più piagati dagli scontri. Questi attacchi hanno registrato un netto incremento nella prima parte del 2006 rispetto al 2005.
Minacce, insulti, aggressioni per mano dei talebani, dei signori della guerra e dei gruppi criminali legati al narcotraffico sono l'amarissimo pane quotidiano per i bambini e, soprattutto, per le bambine afghane. Il risultato è il seguente: mentre nel 2005 risultavano iscritti nelle scuole di ogni ordine e grado 5,2 milioni di studenti (le ragazze sempre in proporzione minore), Human Rights Watch indica oggi il raggiungimento di un plateau. Non so solo: prevede un ritorno indietro e, quindi, una netta diminuzione del numero degli iscritti entro il 2008. Ciò vuol dire che intere giovani generazioni troveranno sbarrate le porte della scuola e, quindi, del futuro.
L'insicurezza crescente che attanaglia non solo scolari e studenti, ma tutta la popolazione afghana impone alla comunità internazionale una rapida rilettura del concetto stesso di sicurezza in Afghanistan, oggi inteso in senso strettamente militare (numero di soldati dispiegati, dislocazione geografica e così via). Tale concetto dovrebbe essere rimodulato, in risposta alle esigenze dei cittadini, in primis delle nuove generazioni, e mirato a garantire Pag. 26il difficile percorso di ricostruzione, institution e capacity building, stabilizzazione e pace.
Non è solo la strategia di sicurezza, bensì tutta la missione afghana ad avere urgente bisogno di essere ridisegnata lungo queste linee e con grande celerità prima che la situazione si deteriori ancora di più. Basti pensare al boom del narcotraffico legato, come sappiamo, ai signori della guerra. Quest'anno ci si attende il raccolto di oppio più consistente della storia dell'Afghanistan, con un profitto vertiginoso di 3 miliardi di dollari: tutto combustibile che andrà ad alimentare il motore dei conflitti.
La nostra posizione faticata, tormentata e inquieta si pone, dunque, nel solco di questa verifica considerata - lo ripeto - non un punto d'arrivo, ma un punto di partenza (Applausi dei deputati del gruppo dei Verdi).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Del Bue. Ne ha facoltà.
MAURO DEL BUE. Signor Presidente, signor viceministro degli affari esteri, mi atterrò alle questioni politiche che, a mio giudizio, sono essenziali nel dibattito sul disegno di legge presentato dal Governo per il finanziamento delle missioni italiane all'estero.
La prima osservazione, che può apparire ad un osservatore distratto quasi un paradosso, è che questo disegno di legge ha riscontrato, senza alcuna obiezione, il favore delle minoranze e ha posto, invece, in difficoltà la stessa maggioranza, tanto che - lo ha riferito correttamente prima di me l'onorevole Monaco - essa ha avvertito il bisogno di presentare una mozione politica di accompagnamento. Tale mozione, tra le pieghe - anche questo è stato ricordato dall'onorevole Bosi dell'UDC - introduce una sottile distinzione, per quanto riguarda l'Afghanistan, tra l'operazione Enduring freedom e la missione ISAF. Della prima si propone, sia pure in prospettiva, il superamento, anche se è prevista una presenza italiana navale nel Golfo arabico; della seconda non si parla affatto in termini di exit strategy (strategia di uscita).
Penso che la difficoltà di comporre una posizione di politica estera da parte della maggioranza non sia di oggi, ma risalga, da un lato, ai diversi atteggiamenti assunti in questa aula dalle diverse forze che la compongono a proposito delle missioni italiane all'estero e, in particolare, di quella in Afghanistan e, dall'altro lato, al momento dell'elaborazione del programma dell'Unione all'indomani del quale si svilupparono polemiche proprio sui temi delle missioni italiane all'estero. Si pensava, infatti, di aver trovato un accordo su due punti: l'Italia sarebbe andata via dall'Iraq, ma avrebbe mantenuto la propria partecipazione alle altre missioni all'estero. Evidentemente, tale accordo non era chiaro, oppure non era stato sufficientemente chiarito.
Un Governo, signor Presidente e signor viceministro degli affari esteri, deve avere una politica estera condivisa, soprattutto oggi. Vorrei fosse ben chiaro che, quando affermo «oggi», parlo di un momento storico iniziato con quell'attentato alle Torri gemelle di New York, l'11 settembre 2001, che ha cambiato il mondo, così come il 1989 cambiò l'Europa.
La lotta al terrorismo di matrice islamica, che ha proclamato la guerra santa contro l'Occidente miscredente e crociato, ha quindi imposto una assunzione chiara di responsabilità a tutti i paesi occidentali, nonché ai paesi arabi moderati, i quali rappresentano il primo bersaglio della stessa offensiva terroristica. Essa, infatti, mira ad unificare la grande nazione araba contro l'Occidente.
Ebbene, questa nuova fase richiede una globalizzazione degli interventi e, in una certa misura, anche un'interconnessione tra le operazioni svolte in Iraq, quelle in corso in Medio Oriente e quelle intervenute in Afghanistan ad alcuni mesi di distanza dall'attentato di New York. Vorrei evidenziare che quei mesi sono serviti per formare una coalizione antiterroristica capace di coinvolgere, per l'appunto, sia l'insieme delle democrazie occidentali, sia larga parte del mondo arabo. Desidero Pag. 27sottolineare, altresì, che le citate operazioni si sono svolte nel quadro delle regole della comunità internazionale, attraverso deliberazioni assunte dall'Organizzazione delle Nazioni Unite.
Nella mozione di accompagnamento al provvedimento in esame presentata dai gruppi della maggioranza, discussa sulle sue linee generali nella seduta di ieri, si sottolinea che tutte le operazioni devono avvenire sotto l'egida dell'ONU, ed io concordo con tale principio.
Nel corso della seduta di ieri ho ricordato due precedenti in questa materia. Il primo è stato la guerra nel Golfo del 1991, quando, nonostante le deliberazioni dell'ONU prevedessero la possibilità di ricorrere all'uso della forza per liberare il Kuwait, l'allora PCI (non ancora PDS) preferì esprimersi contro la partecipazione italiana e cavalcare i movimenti di protesta sorti in tutta Italia.
Ho altresì menzionato, all'opposto, la posizione assunta di fronte alla guerra in Kosovo e in Serbia, la quale si è svolta attraverso la NATO, senza tuttavia ricevere la legittimazione dell'Organizzazione delle Nazioni Unite. Mi riferisco, in altri termini, ai bombardamenti che l'allora Governo di centrosinistra, presieduto dall'onorevole D'Alema, ha compiuto su Belgrado e in Kosovo, nonché alle posizioni schizofreniche assunte da alcuni personaggi che facevano parte di tale Esecutivo. Ricordo, infatti, che essi - penso all'onorevole Diliberto ed al senatore Cossutta - erano ad un tempo favorevoli alla guerra, ma, contemporaneamente, manifestavano in Serbia a favore di coloro contro i quali il loro Governo stava agendo militarmente.
Pertanto, se vi è un punto della mozione della maggioranza che posso condividere, è proprio quello relativo al ruolo dell'ONU. Di fronte alla nuova offensiva terroristica, infatti, la globalizzazione degli interventi contro di essa deve avvenire sulla base di precise regole, non al di fuori di esse. Tali regole sono, a mio giudizio, quelle dettate dall'Organizzazione delle Nazioni Unite.
È questo il motivo per cui credo che abbiamo fatto bene a non partecipare direttamente alla guerra unilaterale che Stati Uniti d'America e Gran Bretagna hanno posto in essere contro l'Iraq e ad inviare, invece, nell'ambito delle prescrizioni, dei dettati e dei limiti stabiliti dalle risoluzioni dell'ONU, un contingente di pace, sia pur militare.
Ma il punto è che una parte della maggioranza non è neppure d'accordo sul fatto di intraprendere iniziative sancite da risoluzioni dell'Organizzazione delle Nazioni Unite. Lo ha affermato molto chiaramente ieri, in un intervento al quale ho dato atto di chiarezza politica ed onestà intellettuale, l'onorevole Mantovani, il quale ha detto: non tutte le iniziative prescritte dall'ONU noi le possiamo condividere.
Quindi la maggioranza si divide anche su questo. Si divide non sull'eventualità di intraprendere iniziative fuori dall'ONU, ma anche sulle iniziative da svolgere all'interno dell'ONU, perché una parte le ritiene in sé e per sé regolari, legittime, necessarie per il nostro paese, mentre un'altra parte non sempre le ritiene tali. Leggendo i giornali di quest'oggi, l'onorevole Letta ha affermato proprio sul tema della politica estera che occorre un allargamento della maggioranza. Anche perché questa maggioranza rischia di essere da un lato schiava degli atteggiamenti - a volte si può dire anche degli infortuni - dei senatori a vita, dall'altro schiava dei cosiddetti dissidenti dell'estrema sinistra, i quali potrebbero essere appunto determinanti in una delle due Camere del Parlamento della Repubblica italiana.
Un allargamento della maggioranza a pochi mesi dalla costituzione di un Governo è certamente un'ammissione di debolezza politica. Pur tuttavia, sui temi della politica estera, noi come Nuovo PSI, che abbiamo costituito un gruppo autonomo con la Democrazia Cristiana, ma anche l'UDC, a più riprese abbiamo detto che eravamo disponibili, a prescindere dalla decisione della Casa delle libertà, a votare a favore di un provvedimento di rifinanziamento delle missioni italiane all'estero, in particolare di quella dell'Afghanistan. Lo avevamo detto prima, a prescindere Pag. 28dalle decisioni della minoranza e lo diciamo oggi a fronte di una decisione, che a mio giudizio è responsabile e saggia, presa dall'insieme delle forze di minoranza.
Il Presidente della Repubblica, senatore a vita, Napolitano, ha fatto recentemente una dichiarazione, sulla cui lucidità e chiarezza non è dato a nessuno dubitare. Egli ha detto: alcuni piccoli gruppi mostrano ostilità verso gli Stati Uniti e la NATO in Italia. Questi piccoli gruppi in realtà producono una regressione di impostazione politica e culturale all'insieme della sinistra italiana. Altro che Partito Comunista! Altro che Berlinguer, che già negli anni Settanta definiva la NATO un ombrello, sotto il quale poter riparare l'indipendenza nazionale. Siamo alla politica comunista degli anni Cinquanta, coniugata con un movimentismo di stampo sessantottesco.
Questa è una realtà con la quale dobbiamo fare i conti e, facendo i conti con essa, da un lato emerge la preoccupazione, che queste forze hanno, di staccarsi da quei movimenti di protesta alla Gino Strada, che in qualche misura essi stessi hanno contribuito a creare, dall'altro lato devono fare i conti con un gioco allo scavalco dei due partiti dell'estrema sinistra, che pare lo sport preferito in questi ultimi tempi dall'onorevole Diliberto e dall'onorevole Rizzo! Questo ultimo si erge addirittura a nuovo sacerdote dell'ortodossia marxista, sconfessando e ritirando la patente di marxista al Presidente della Camera, Fausto Bertinotti, al quale tutto si può imputare tranne certamente l'accusa di essere un nuovo vate di una nuova ortodossia! Piuttosto, diciamo che Bertinotti è sensibile ai movimenti di protesta ed anche ad un certo estremismo verbale, ma non riesco ad identificarlo come un nuovo cultore di una nuova ortodossia ideologica, che invece pare di moda all'interno di altri schieramenti politici.
Dovremmo un po' sprovincializzarci, evitare questa logica - in questo l'onorevole Monaco ha perfettamente ragione - di bottega, di nazionalizzare i grandi problemi di politica estera e di renderli oggetto di speculazione politica da parte delle diverse componenti il Parlamento della Repubblica italiana.
Il senatore Napolitano, Presidente della Repubblica, nella sua offensiva contro i gruppi antiamericani e anti NATO, aggiunge poi: i voti decisivi dell'opposizione sarebbero un grave segno di debolezza del centrosinistra, che non rimarrebbe senza conseguenze. Tra l'altro, a mio giudizio, la parola «conseguenze» rimanda, inevitabilmente, alla parola crisi di Governo. È evidente che una maggioranza non autosufficiente su un tema di politica estera fondamentale come questo non potrebbe che entrare in crisi politica ed il Governo dovrebbe, conseguentemente, rassegnare le dimissioni.
Prima di Napolitano, D'Alema aveva detto, più o meno, le stesse cose, minacciando le dimissioni da ministro degli affari esteri qualora la sua maggioranza non avesse approvato la politica indicata da egli stesso, in particolare la conferma della missione in Afghanistan; ciò, anche perché, come ha ricordato proprio ieri lo stesso D'Alema nel corso di una pubblica manifestazione, essere contro la presenza militare italiana in Afghanistan significa essere contro la NATO, l'ONU e significa portare l'Italia in una terra di nessuno.
In ogni caso, al di là delle opinioni, delle esplicite divergenze presenti all'interno della maggioranza, di questi sei-sette-otto possibili dissidenti, mi pare ancor più grave il dissenso occulto, l'accettazione per disciplina di partito, il voto per non far cadere il Governo e per non cedere alle ragioni dell'opposizione, il dire «sì» - come qualcuno ha detto - per limitare il danno (vorrei sapere se la missione in Afghanistan può essere considerata un danno), oppure il dire «sì» nel senso dell'onorevole Diliberto, il quale ha affermato: «... anche se eravamo, siamo e saremo contrari alla missione in Afghanistan». Ciò, rende manifesta nei termini politici - lo ricordavo ieri sera - una sorta di figura retorica dell'ossimoro, cioè la conciliabilità di due termini opposti tra loro. Siamo contrari e favorevoli: non mi pare il massimo della chiarezza politica!Pag. 29
Poi vi sono i «sì» graduati, pronunciati in precedenza dall'onorevole Francescato con molta delicatezza e coerenza rispetto alle sue impostazioni politiche. Il primo «sì» è un «no» alla missione in Iraq, poi vi sono dei «sì» meno convinti, come quello alla prosecuzione della missione in Afghanistan. Insomma, una divisione esplicita, o anche sotterranea, che mette in profonda difficoltà il Governo del nostro paese in un momento particolare come quello che stiamo vivendo su un tema fondamentale di politica estera.
Recentemente la politica estera è stata teatro di una nuova grave tragedia in Medio Oriente, dovuta all'aggressione - da sud, attraverso il movimento Hamas, e da nord, attraverso Hezbollah - allo Stato di Israele.
Ieri sera ho partecipato ad una manifestazione a favore del popolo e dello Stato d'Israele assieme a molti deputati del centrodestra e del centrosinistra, e voglio portare in Parlamento quell'ansia di libertà e quel desiderio di vita ed indipendenza che la popolazione ebraica, dopo tanti anni di martirio, pretende per sé: pace, indipendenza, sicurezza.
Il Governo della Repubblica italiana deve dire con chiarezza che, a fronte di un'aggressione, sta dalla parte dell'aggredito, e l'aggressore è il terrorismo internazionale che attraverso Hamas e gli Hezbollah vuole oggi, come nel 1967, la distruzione dello Stato d'Israele. Questa è, oggi, la posta in gioco, che ha richiamato, in una lucida intervista sul Corriere della Sera, proprio ieri, il ministro Amato.
Dobbiamo esser chiari su ciò, dopodiché si potrà discutere sulla proporzione o sulla sproporzione della reazione israeliana all'aggressione. Anche su questo, però, chiedo chiarezza. Personalmente, sono per l'equivicinanza tra il diritto di Israele ad avere la vita e la sicurezza e il diritto sacrosanto del popolo palestinese ad avere una patria. Ma non sono e non sarò mai per l'equivicinanza tra lo Stato democratico e libero di Israele - dentro il quale vi sono partiti e tendenze diverse che si misurano anche in conflitto tra loro e al governo del quale vi è una coalizione composta dal partito di Kadima (fondato dall'ex premier Sharon, che ha liberato in modo unilaterale la striscia di Gaza, producendo anche gravi drammi ai coloni che ha fatto evacuare, e guidato da Olmert, oggi suo successore), che governa il paese assieme al leader storico della sinistra laburista israeliana, Simon Peres - i terroristi Hezbollah, nei confronti dei quali una risoluzione dell'ONU pretende il disarmo, ancora non avvenuto, e che hanno una libera rappresentanza nel Parlamento del Libano, e Hamas, che propone ancora tra i suoi principali punti l'annientamento e la distruzione dello Stato d'Israele.
La comunità internazionale intera, dopo la vittoria di Hamas alle elezioni palestinesi, aveva chiesto un gesto di disponibilità: il riconoscimento dello Stato di Israele, che non è avvenuto. Hamas si configura, alle costole di Israele, come una tendenza di guerra pericolosissima per l'incolumità degli abitanti israeliani e per la salvaguardia dell'indipendenza e dell'integrità nazionale di questo Stato.
Si è parlato di «sproporzione», ma sproporzione rispetto a cosa bisognerebbe specificare. Se vi è stata una reazione sproporzionata di Israele rispetto all'attacco micidiale che ha subito, bisognerebbe anche chiarire se la sproporzione della reazione sia rapportata all'attacco, cioè se Israele abbia esagerato cercando di individuare la presenza degli Hezbollah in Libano e di colpire obiettivi militari (purtroppo, come si sa, non esistono bombe così «intelligenti» e «umane» da evitare di compiere, a volte, drammatici errori e di colpire anche i civili) in relazione all'attacco che la stessa Israele ha subito. Bisognerebbe capire bene cosa significhi «sproporzione», visto che il termine è stato usato più volte.
Signor Presidente, signor viceministro degli affari esteri, colleghi parlamentari, siamo qui per sostenere qualsiasi azione di mediazione e di pace del conflitto che insanguina il Medio Oriente. Kofi Annan propone, oggi, un'interposizione militare sotto l'egida dell'ONU, e sembra che il Presidente Prodi si sia dimostrato disponibile ad accogliere la proposta e a farvi Pag. 30partecipare anche un contingente italiano. Non so se le azioni militari per un antimilitarista ed un pacifista possano essere «buone» o «cattive» a seconda delle condizioni. Mi piacerebbe ascoltare su tale proposta opinioni da parte dei componenti dell'estrema sinistra del Parlamento.
Mi piacerebbe anche sapere perché ritengono una partecipazione militare italiana ad un'azione all'interno del Libano o della striscia di Gaza giusta, mentre ritengono la partecipazione alla missione di pace in Afghanistan una scelta sbagliata o un danno che deve essere limitato (o una prospettiva da cui poter uscire). Trovo in tutto questo, francamente, una certa contraddizione nei principi. Ad ogni modo, se sarà utile, daremo il nostro appoggio, perché nulla sia risparmiato per tentare di salvare la pace in quella martoriata zona del mondo, per cercare di difendere il diritto alla vita di tutti i cittadini di Israele, del Libano, della Palestina, per fare in modo che riprenda il processo di pace bruscamente interrotto dall'ascesa al potere di Hamas in Palestina e di Ahmadinejad in Iran, nonché dalla ripresa e dall'armamento degli Hezbollah grazie alla Siria e all'Iran, in un teatro che diventa sempre più micidiale ed esplosivo: il Medio Oriente. Diciamo «sì», dunque, a qualsiasi missione di pace che possa essere utile per scongiurare i drammi e le tragedie della guerra, «sì» alle missioni di pace italiane in Afghanistan e ovunque nel mondo si svolgano attraverso il consenso e le regole della comunità internazionale. Diamo il consenso a qualsiasi azione il Governo volesse intraprendere in questa direzione, ma chiediamo chiarezza allo stesso sui temi della politica estera e al Parlamento sulla politica estera di un grande paese come l'Italia.
L'Italia è un paese che in questo dopoguerra non ha mai condotto azioni di guerra nei confronti di alcuno, avendo partecipato sempre e soltanto ad azioni di mediazione e di pace. Oggi vorremmo che questa tradizione italiana, che non è stata - così come qualcuno ha detto - oscurata dal Governo Berlusconi, continuasse. Penso che Berlusconi abbia ereditato e sviluppato logicamente una politica estera coerente per il nostro paese. Riteniamo che questa politica estera debba continuare oggi, sia pure con un Governo diverso, il Governo Prodi dell'Unione, perché qualsiasi strappo, qualsiasi discontinuità - visto che si cita spesso questo sostantivo come se fosse positivo - in politica estera oggi non potrebbe che arrecare danno al nostro paese (Applausi dei deputati del gruppo della Democrazia Cristiana-Partito Socialista).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Giuditta. Ne ha facoltà.
PASQUALINO GIUDITTA. Signor Presidente, signori rappresentanti del Governo, onorevoli colleghi, i Popolari-Udeur, come già più volte preannunciato, partecipano alla discussione riguardante l'impegno italiano nelle missioni internazionali condividendo in pieno nel merito il provvedimento presentato dal Governo, ritenendo necessario che l'Italia non dimostri alcun disimpegno negli equilibri con i paesi atlantici per contribuire alla sicurezza internazionale sotto l'egida dell'ONU e nel pieno rispetto della nostra Costituzione (così come citato espressamente dall'articolo 11 della stessa). È assolutamente inconcepibile, secondo noi, intraprendere altre strade che ci allontanino dall'impegno del nostro paese a sostenere le missioni all'interno dello scenario internazionale.
Cari colleghi, il disegno di legge in esame - vorrei ricordarlo - si occupa non solo di Iraq e di Afghanistan bensì dell'insieme delle missioni italiane nel mondo, ispirate a prevenire i conflitti, a dare un contributo per la realizzazione della sicurezza internazionale, per la tutela dei diritti umani, per la costruzione della democrazia soprattutto, mirando anche al ripristino delle condizioni di pace e di sviluppo economico in quelle realtà non pacifiche.
Inoltre è necessario sottolineare come, sempre all'interno di questo provvedimento, sia previsto, entro l'autunno, il rientro delle nostre truppe che partecipano Pag. 31alla missione internazionale in Iraq, che dovrà avvenire con attenzione costante e con modalità che non determinino vuoti pericolosi di responsabilità e di potere.
Le norme presenti nel provvedimento hanno un duplice contenuto: da un lato, definiscono lo stato giuridico, il trattamento economico e la giurisdizione da applicare al personale inviato nelle missioni internazionali, dall'altro, autorizzano la partecipazione delle nostre Forze armate alle missioni, definendone lo status internazionale ed i compiti principali.
Entrando ancora più nel merito, ovvero toccando i profili più strettamente normativi, il provvedimento prevede la proroga del termine della partecipazione italiana alle missioni internazionali delle Forze armate e delle Forze di polizia, individuando per ciascuna di essa il costo previsto ed il termine temporale di differimento. Peraltro, all'interno del testo è prevista anche l'autorizzazione allo svolgimento di altre missioni internazionali. Per quanto riguarda le due missioni più importanti, l'Iraq e l'Afghanistan, come già anticipato, si prevede nel primo caso un disimpegno militare già nell'autunno prossimo e si autorizza una spesa di 129 milioni di euro contro i 190 milioni autorizzati nell'ultima proroga prevista dal precedente Governo. È prevista inoltre - profilo importantissimo, per chi ben conosce il valore e i compiti altamente edificanti ed importanti svolti dai nostri militari in missione - la prosecuzione della partecipazione di esperti militari italiani alla riorganizzazione dei Ministeri della difesa e dell'interno iracheni, nonché alle attività di formazione e addestramento del personale delle Forze armate.
Nel caso dell'Afghanistan, non si fa altro che autorizzare fino alla fine dell'anno la spesa necessaria per la proroga della partecipazione di personale militare alla missione internazionale ISAF, così come per la missione in Iraq è prevista una consistente riduzione del costo totale della stessa, essendo autorizzata la spesa di 136 milioni di euro.
È d'obbligo comunque ricordare che negli ultimi anni abbiamo partecipato con contingenti militari ad azioni di pace molto apprezzate, in vari punti caldi del pianeta, come ad esempio il Libano, l'Albania, il Kosovo e il Mozambico.
Tornando all'Afghanistan, colleghi, vorrei sottolineare l'importanza di una missione iniziata il 10 gennaio del 2002. L'ISAF, istituita a seguito di una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'ONU, ha autorizzato la costituzione di una forza di intervento internazionale con il compito di garantire nell'area di Kabul un ambiente sicuro a tutela dell'autorità provvisoria afghana.
Bene, colleghi, ho voluto prima sottolineare l'importanza del tema ed attirare l'attenzione, perché purtroppo in questi giorni si è assistito, secondo noi, a troppi distinguo nella vicenda della nostra partecipazione alla missione in questione, che peraltro non prevede assolutamente in alcun modo la partecipazione dei militari italiani ad azioni di guerra o presunte tali. Lo ricordo, i Popolari-Udeur non approverebbero mai un provvedimento in tal senso. L'invio di contingenti militari all'estero non è da ritenersi un'azione militare, ma è in primis un'azione politica nella complessità dei suoi riflessi internazionali, così come credo che in quest'aula oggi nessuno voglia mettere in discussione l'articolo 11 della nostra Carta costituzionale. Mi duole dover sottolineare queste ovvietà, ma mi trovo costretto a farlo dopo avere assistito attonito ai tanti e troppi distinguo pronunciati in queste settimane riguardo al rifinanziamento delle missioni internazionali. Distinguo che hanno portato all'inizio della scorsa settimana a parlare addirittura di remissione dell'incarico da parte del nostro ministro degli esteri, onorevole D'Alema; distinguo che hanno determinato il Presidente della Repubblica, senatore Giorgio Napoletano, ad esprimersi in maniera forte sulla capacità di tenuta della coalizione, con un monito rivolto all'assunzione di responsabilità dell'intera maggioranza.
Cari colleghi, i Popolari-Udeur non hanno compreso i motivi e non condividono assolutamente l'atteggiamento per il quale alcuni settori della maggioranza non Pag. 32abbiano appieno condiviso quanto in precedenza sottoscritto, mettendo anche in discussione il nostro programma di Governo. Questo voto deve mettere in primo piano gli interessi nazionali, facendo prevalere il senso dello Stato rispetto agli interessi politici di partito. C'è assoluto bisogno di unità e di chiarezza rispetto alla politica estera per poterci porre da interlocutori prestigiosi nello scenario internazionale, anche in vista del prossimo vertice del G8.
Non mi soffermerei nemmeno a discutere sulla continuità o sulla discontinuità dell'azione di questo Governo rispetto al precedente, ma a nostro avviso è necessaria ed utile una continuità. La continuità è la scelta di fondo europeista ed atlantica che in un momento storico ed importante fece la Democrazia cristiana ispirandosi a valori di cui l'Udeur si sente erede. Tali scelte si sono rivelate strategiche per il prestigio e lo sviluppo del nostro paese. La strada che dobbiamo intraprendere nel futuro, possibilmente in maniera unitaria, non può essere che questa. Dopo la caduta del muro di Berlino, con la globalizzazione, con le mutate condizioni internazionali, la tutela della sicurezza internazionale ha assunto una nuova dimensione, divenendo condizione imprescindibile da cui non possiamo esimerci.
Sempre nel merito del provvedimento, mi preme sottolineare gli importanti compiti che i nostri militari hanno svolto e svolgono tuttora in quelle aree a rischio del pianeta. Le missioni, quindi, in linea con le citate risoluzioni dell'ONU, hanno il compito di affiancare i Governi per consolidare tutti i tipi di istituzioni e promuovere i diritti dell'uomo, nonché lo sviluppo economico e sociale. Le finalità delle missioni sono queste. Peraltro, l'Italia si muove in questo campo sulle orme dell'operato dell'ONU e della NATO, come ribadito in questi giorni anche dal Segretario generale dell'ONU in visita ufficiale nel nostro paese.
L'approvazione del disegno di legge elaborato dal nostro Governo vuole esprimere un'impronta significativa nella politica estera italiana, coinvolgendo il Parlamento in un dibattito che definisca con chiarezza i principi, gli obiettivi e le finalità delle nostre missioni. I Popolari-Udeur credono che in questi momenti così delicati vi sia bisogno di dimostrare unità e compattezza di intenti, unità da ricercare su questa vicenda, come atto di responsabilità, prevalentemente all'interno di questa maggioranza, che deve offrire al paese, con questo provvedimento, una condizione di forza a livello internazionale anche tramite l'auspicabile posizione favorevole delle forze di opposizione.
Signor Presidente, cari colleghi, la discussione di questi giorni, anche in riferimento agli ultimi eventi del Medio Oriente, ci fa riflettere su temi ed obiettivi legati alla sicurezza, alla pace, alla realizzazione della democrazia, allo sviluppo economico, alla tutela dei diritti umani in quelle aree del pianeta sconvolte da guerre e disordini. Per poter raggiungere tali obiettivi qualcuno deve lavorare per produrli: noi non possiamo esimerci (Applausi dei deputati dei gruppi dei Popolari-Udeur e de L'Ulivo).
PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Paoletti Tangheroni. Ne ha facoltà.
PATRIZIA PAOLETTI TANGHERONI. Signor Presidente, signor rappresentante del Governo, colleghe e colleghi, nessuno può votare a cuor leggero e senza riflettere sulla partecipazione di soldati del proprio paese a missioni militari in un teatro di guerra, perché di guerre certamente si tratta, anche se di tipo nuovo e del tutto particolare. Tanto meno a cuor leggero si può intervenire in questo Parlamento a sostegno di una simile decisione. Vi assicuro che io non parlo a cuor leggero e non parlo senza riflettere, ma proprio una riflessione attenta mi porta ad una piena convinzione dell'opportunità e della necessità di un voto favorevole al proseguimento della missione, nella consapevolezza che tutti dobbiamo - quanto meno dovremmo - essere all'altezza della situazione storica in cui ci troviamo.
«Guerra» è una parola terribile, specie quando ci tocca direttamente. Tuttavia, Pag. 33signor Presidente, colleghi, non è giocando con le parole, ricercando sfumature, facendoci paralizzare dal politically correct, fingendo di non vedere, di non capire e di non prevedere che possiamo rimuovere la realtà. Invece, osservare la realtà, saperla interpretare, sapere ad essa rispondere è specificamente il compito della politica.
Come tutti, sono particolarmente sensibile alle immagini della guerra che vediamo, guerra che conosco bene, anche per ragioni professionali, nei suoi tragici risvolti e nei suoi orrori che mi hanno talvolta toccata direttamente.
Tuttavia, credo sia necessario per noi pensare al mondo futuro, sul quale verrebbe a gravare, ancor più dell'11 settembre e di quello che stiamo subendo oggi, l'ombra nera ed implacabile del terrorismo. Esso va fermato nei fatti e non con le parole, con i sogni, con utopistici progetti o con irrealistiche alternative ispirate, al di là della buona o cattiva fede di ciascuno, essenzialmente ad un antiamericanismo profondo. Quindi, si tratta di un pacifismo di tipo unilaterale, che rifiuta sostanzialmente la difesa dei nostri valori e della nostra civiltà, valori che hanno una portata universale. È questo che rifiutano, e tale rifiuto è la base del pacifismo che non riconosco perché si caratterizza come antiamericano. Ciò è apparso chiarissimo, signor Presidente, fin dal giorno successivo all'11 settembre, quando per alcuni la colpa di quanto stava accadendo era, in fondo, riconducibile agli americani e alla politica americana.
Sempre richiamandomi alla mia esperienza di lavoro e al mio impegno contro le spirali del sottosviluppo, lasciatemi dire che non si deve ammettere che ci si nasconda dietro le generalissime ed astratte considerazioni sulla povertà del cosiddetto sud del mondo. Questo terrorismo, che pretende di agire in nome dell'Islam, non ha diritto di richiamarsi al sud del mondo, né di parlare in nome di esso. I suoi fini sono l'umiliazione e l'annientamento dell'Occidente, con l'assunzione della guida politica del mondo islamico. I suoi fini, quindi, non sono certo lo sviluppo economico e sociale delle popolazioni più povere, sviluppo che anzi, talvolta, viene ostacolato nei fatti proprio da questa matrice terroristica. Nelle mozioni presentate ieri dai colleghi della Casa delle libertà si rigettava il principio dello scontro di civiltà. In effetti, l'odio dei terroristi di matrice islamica si rivolge soprattutto verso quegli islamici che vorrebbero ritrovare insieme la strada, che oggi sembra smarrita, della convivenza. Strada che pure è stata percorsa, non solo in epoche remote - quando Fibonacci andava dagli arabi ad apprendere le nuove frontiere della matematica o Tommaso D'Aquino recepiva gli insegnamenti di Avicenna ed Averroè -, ma anche in epoche molto più vicine a noi, quando sul sud del Mediterraneo si affacciavano popoli con grandi potenzialità di sviluppo sociale e culturale.
Il giornalista Magdi Allam descrive l'Egitto degli anni Sessanta come un ambiente pieno di stimoli culturali ed assolutamente laico. Abu Mazen aveva scommesso con coraggio sulla possibilità di un percorso di pace, oggi gravemente compromesso dall'attuale crisi del Medio Oriente. A proposito di tale crisi, signor Presidente, credo sia indispensabile annettere in essa il partito degli Hezbollah e il terrorismo internazionale di matrice islamica. L'esercito rientra in Libano dopo sei anni dall'uscita ordinata da Ehud Barak. Tutto questo mentre eccitazione ed odio si rovesciano su Gerusalemme e si distribuiscono caramelle e pasticcini lungo le vie di Beirut e di Gaza in onore degli aderenti di Hezbollah.
Il primo ministro Ehud Olmert ha affermato che l'attacco di Hezbollah è un atto di guerra non provocato contro il territorio israeliano. Per Olmert l'esecutivo post «rivoluzione arancione» di Beirut ha cercato una politica di appeacement con Hezbollah, facendo anche entrare alcuni aderenti nel Governo. Quindi, il capo di Hezbollah, Nasrallah, dice: se Israele oggi vuole combattere, sappia che non siamo gli stessi di anni fa, ma molto più forti e più organizzati. Mi scusi, Presidente, per questa digressione sul Medio Oriente, ma davvero nel complesso quadro internazionale la globalizzazione della politica estera Pag. 34appare un dato di fatto e le interdipendenze ed i legami sono evidentissimi a tutti noi. Il nome in codice dell'operazione nel corso della quale gruppi di estremisti palestinesi hanno rapito tre israeliani è «illusioni distrutte»
L'operazione «illusioni distrutte» e la conseguente reazione del Governo israeliano dimostrano, purtroppo, signor Presidente, che il dialogo è difficile (Commenti del deputato Ranieri)... Credo che abbia rinunziato un mio collega a parlare, signor Presidente...
UMBERTO RANIERI, Relatore per la III Commissione. Signor Presidente, tentavo di «cacciare» dai banchi del Governo un «disturbatore»...
PRESIDENTE. Onorevole Paoletti Tangheroni, lei ha comunque ancora tre minuti a disposizione. Prego, continui pure.
PATRIZIA PAOLETTI TANGHERONI. La ringrazio, signor Presidente. Come stavo dicendo, «illusioni distrutte» e la conseguente reazione del Governo israeliano dimostrano che il dialogo non può neppure iniziare. Ma tra le illusioni distrutte ve ne sono anche molte dell'Occidente, dell'Europa e dell'Italia. Gli avvenimenti degli ultimi giorni dimostrano, purtroppo, che Abu Mazen non conta più nulla e controlla a stento il suo palazzo, che in mezzo ai suoi miliziani vi sono alcuni tra i peggiori terroristi. Per quell'Europa che ha sperato che Abu Mazen potesse rappresentare i palestinesi è davvero la fine delle illusioni. Olmert ha ragione quando indica al mondo i mandanti dei rapimenti nella Siria e nell'Iran.
Un'altra «illusione distrutta» dell'Occidente è che si possa risolvere il problema palestinese senza intervenire sul regime siriano e senza trovare le vere responsabilità nell'Iran. Se, dunque, tutti questi nessi esistono, se non ci possiamo concedere di abbassare la guardia contro il terrorismo di matrice islamica - e a tal proposito, poiché credo di averne il tempo, vorrei citare una frase di un pacifista israeliano, apparsa oggi sul Corriere della Sera: «(...) La vera battaglia di questi giorni non infuria affatto tra Beirut e Haifa, ma tra una coalizione di nazioni in cerca di pace - Israele, il Libano, l'Egitto, la Giordania e l'Arabia Saudita, da una parte - e l'islam fanatico, alimentato da Iran e Siria, dall'altra (...)».
Ciò lo dice Amos Oz, un pacifista - ripeto - israeliano. Se, dunque, tutto cio è vero, credo non si debba assolutamente abbassare la guardia e sia pertanto necessario votare con convinzione a favore del rifinanziamento delle missioni previsto dal provvedimento in discussione. Sarà dunque garantita la prosecuzione di tutte le missioni militari di pace nei Balcani, ed il nostro progressivo e graduale disimpegno in Iraq dovrà realizzarsi senza compromettere la dignità e la credibilità dei nostri militari, ma soprattutto senza compromettere la situazione e la sicurezza delle popolazioni locali. In Afghanistan gli impegni assunti con la comunità internazionale, principalmente in qualità di membri della NATO e dell'ONU, saranno onorati. Pertanto, la nostra presenza sarà confermata per tutto il tempo ritenuto necessario, in accordo con i nostri alleati e con il legittimo Governo locale, per il ripristino delle condizioni di sicurezza e di pace.
Poiché questo provvedimento prevede tali operazioni, esso deve essere sostenuto, visto che è all'insegna della continuità, una continuità che noi condividiamo (Applausi).
PRESIDENTE. È iscritta a parlare la deputata Zanella. Ne ha facoltà.
LUANA ZANELLA. Signor Presidente, il momento storico in cui siamo chiamate e chiamati ad esprimere il nostro voto sul rifinanziamento delle missioni italiane all'estero è di una criticità estrema. Ancora una volta, il Medio Oriente si è infuocato e, anche a causa della guerra angloamericana in Iraq, i rischi di espansione dell'incendio sembrano essere maggiori che in passato. In tale contesto, il ritiro delle nostre truppe in Iraq, previsto dal programma dell'Unione, invocato con passione ed instancabile determinazione dal Movimento per la pace, assume un valore Pag. 35politico e simbolico estremamente importante. Ma questa decisione certamente non risolve il problema. Non rappresenta, di per sé, l'uscita dalla tragedia irachena. Lo rammenta molto bene Giuliana Sgrena, in un suo articolo apparso su il manifesto di oggi. In Iraq rimangono soldati e terrore.
Certo, il ritiro dei militari dall'Iraq, sancito con un atto legislativo, è un segno chiaro di discontinuità in politica estera di questa maggioranza di Governo rispetto a quella precedente, che ben poco ha fatto per contrastare l'affermazione della logica della guerra. A tale ultimo riguardo, penso, ad esempio, all'unilateralismo, alla prevaricazione delle regole elementari del diritto internazionale, all'ulteriore indebolimento degli organismi sopranazionali, a partire dall'ONU.
Ma la politica estera del Governo dell'Unione non si esaurisce, non può esaurirsi nella fine della partecipazione italiana al conflitto iracheno; deve assolutamente andare oltre, avere una ambizione più alta, che dia vera e piena attuazione all'articolo 11 della nostra Costituzione, fino in fondo.
Una riflessione sulla strategia di lotta al terrorismo adottata in questi anni - lo sottolineava anche il presidente della III Commissione, Umberto Ranieri, nel suo intervento - è già in corso negli Stati Uniti, in Europa e nel mondo. Sugli esiti terribili e fallimentari prodotti dall'uso della guerra come mezzo per risolvere i conflitti, combattere il terrorismo e le crisi geopolitiche si impone una riflessione in Parlamento, soprattutto nel momento in cui il nuovo Governo intende svolgere un ruolo di primo piano sullo scenario globale, valorizzando la nostra tradizione diplomatica, la capacità di mediazione, il dialogo culturale e interreligioso. Si impone una valutazione di tutte le missioni effettuate in questi anni e che si intendono prorogare; una vera valutazione.
È un bene che la mozione di maggioranza, che accompagna e sostanzia il provvedimento, preveda uno strumento parlamentare, un Comitato, per monitorare, passo dopo passo, le nostre missioni militari e doverosamente verificare gli interventi e renderli visibili all'opinione pubblica anche quando non siano, per così dire, sotto i fari dei mass media. Più volte ho avuto modo di osservare l'incredibile rimozione dell'attuale situazione del Kosovo dal dibattito pubblico, anche all'interno del variegato mondo pacifista; ringrazio la giornalista Ida Dominijanni, che invece oggi lo ricorda sul Manifesto.
Eppure, un'analisi attenta, franca e rigorosa della recente storia di questa piccola provincia balcanica consentirebbe di avere in mano elementi di interpretazione e di comprensione della realtà più vasta di grandissima utilità. Il Kosovo è una misura sotto gli occhi di tutti dell'esito paradossale della guerra umanitaria; mentre gli albanesi aspettano l'indipendenza promessa, i serbi e le altre minoranze vivono assediati nelle enclave, vittime di persecuzioni, della contropulizia etnica, della miseria, della disoccupazione (che, comunque, riguarda anche le masse albanesi). Su ciò, silenzio; sembra che abbiamo già dimenticato i pogrom del marzo 2004 - che pure occuparono, per due o tre giorni, qualche pagina nei nostri quotidiani -, quando una folla inferocita di estremisti si dette alla caccia del serbo. Abbiamo dimenticato gli assassini di serbi, dei rom, degli albanesi moderati, i desaparecidos, i 200 mila serbi fuggiti, i 150 monasteri e chiese ortodossi incendiati, le icone sacre ed i cimiteri profanati. Tutto ciò è avvenuto dopo l'ingresso delle truppe NATO nel giugno del 1999, dopo la pace di Kumanovo, che aveva posto fine ai bombardamenti durati ben settantotto giorni.
Non possiamo ammettere l'afasia, i balbettii sul pericolo che, come sostiene il generale Mini, già al comando delle truppe Kfor, il Kosovo potrebbe riesplodere, né possiamo continuare ad affidare alla presenza armata la possibilità della sopravvivenza, seppur grama, delle minoranze, la tutela del patrimonio culturale e spirituale serbo-ortodosso, di inestimabile valore. La vita stessa dei monasteri è resa possibile, appunto, solo grazie alla sorveglianza dell'esercito. È quindi indispensabile una svolta complessiva, culturale e politica, che sappia renderci capaci di affrontare la Pag. 36complessità e l'urgenza in quest'area, come nelle altre in cui siamo direttamente coinvolti. È questo il senso della nostra mozione.
Venendo all'Afghanistan, dove la situazione - come sottolineato da più parti - resta drammaticamente irrisolta, lo stato in cui versa attualmente il paese dà ragione a chi, come noi Verdi, aveva a suo tempo denunciato la problematicità di un intervento militare, cosiddetto umanitario, in quella regione del mondo, senza una strategia di ampio respiro o, peggio, per assecondare una strategia militare dai tratti oscuri. Noi Verdi - ricordo - votammo contro ripetutamente, argomentando puntualmente il nostro dissenso. La collega Tana De Zulueta, nel suo intervento in Commissione affari esteri, chiarisce bene, ancora una volta, come la missione ISAF, nata per garantire la sicurezza della popolazione civile e il processo di democratizzazione dell'Afghanistan, si sia confusa sempre di più con l'operazione bellica Enduring freedom. Truppe ISAF vengono coinvolte in questi giorni in azioni belliche, come quella definita «salto alla montagna» tuttora in corso nel sud-est del paese. Non possiamo certo tacere il numero impressionante di morti tra i civili, le continue lesioni dei diritti umani, le prigioni segrete, le condizioni di vita drammatiche, l'insicurezza e il terrore. Noi ascoltiamo non solo le ragioni del dissenso pacifista, ma la voce, purtroppo flebile, delle donne afgane di RAWA, l'organizzazione impegnata da decenni - sottolineo: decenni - contro il fondamentalismo islamico, che ora denunciano con forza la presenza nel Governo e nel Parlamento afghani dei signori della guerra e dell'oppio. Con questo non dobbiamo forse fare i conti, colleghe e colleghi, se è vero - come afferma anche il viceministro Ugo Intini - che per ogni area d'intervento militare deve esserci la relativa exit strategy e se è vero che in Afghanistan, l'Italia è meno libera rispetto all'Iraq - va detto - poiché maggiormente implicata nell'accordo NATO?
È anche vero, però, che la strategia di uscita dall'Afghanistan, al presente, è tutt'altro che chiara. Da qui, la necessità di impegnare con la nostra mozione il Governo in questo senso. Non si tratta - badate bene - di difendere posizioni ideologiche senza «se» e senza «ma», ma di saper guardare in faccia la realtà, calcolare il rischio, evocato qui più volte, dell'«irachizzazione» dell'Afghanistan. L'Italia - e concludo Presidente - ha il compito storico di adoperarsi per spegnere l'incendio che rischia di bruciare il mondo. È compito nostro, di noi parlamentari, porre le basi, come faticosamente stiamo facendo in questi giorni, per impostare un cammino differente rispetto a quello fin qui percorso, in sintonia con il dettato costituzionale del ripudio della guerra e in armonia con il bisogno globale di pace e giustizia, sempre più pressante e ineludibile (Applausi dei deputati dei gruppi dei Verdi e di Rifondazione Comunista-Sinistra Europea).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Evangelisti. Ne ha facoltà.
FABIO EVANGELISTI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, riesce difficile a me - al pari di altri che mi hanno preceduto - intervenire oggi in aula per parlare di missioni internazionali di pace, avendo negli occhi le immagini di guerra che arrivano da Beirut e da Israele, senza farvi subito riferimento.
Un invito mi permetto di rivolgere, però, a ciascuno di voi, un invito alla cautela nei giudizi, a fronte di una situazione quanto mai delicata e complessa in cui tutto è possibile, tranne che tagliare a metà la mela dei torti e delle ragioni. In questa tragica vicenda israelo-libanese (la definisco così anche se in modo improprio) intravedo quasi una legge del contrappasso. Nella impotenza ed intempestività delle nostre pur pregevoli riflessioni, così come di quelle ancor più autorevoli del gruppo dei paesi del G8 riuniti a San Pietroburgo, i lampi e i tuoni di una guerra guerreggiata, con il suo carico di lutti, di sangue, di dolore, di profughi, di danni, di menzogne e di odio ma anche, riposta in fondo, di speranza, sono tornati Pag. 37minacciosi a lambire le acque del Mediterraneo. Non che l'eco di guerre lontane fosse, per le nostre coscienze, meno preoccupante ed angosciante. Tuttavia, si intravede, in questa nuova crisi mediorientale, un potenziale esplosivo ben più dirompente di quello che abbiamo potuto saggiare in questi anni di cosiddetta guerra preventiva al terrorismo internazionale. L'escalation militare, infatti, seguita al proditorio attacco degli hezbollah di Israele dopo la recente e tragica fase che è seguita al rapimento di un soldato israeliano nella striscia di Gaza, può rappresentare un drammatico salto di qualità e coinvolgere, con il Libano, anche la Siria e l'Iran e, sull'altro fronte, gli Stati Uniti d'America dietro ad Israele.
In quest'aula, quest'oggi ascolteremo le valutazioni del nostro ministro degli affari esteri ma, intanto, sento che c'è il rischio di compiere un grave errore nel sottovalutare e nel considerare quanto sta avvenendo soltanto come una difficile crisi regionale congiunturale. Al contrario, quello che ci arriva attraverso le immagini televisive e gli altri organi d'informazione mi sembra prefiguri in maniera plastica quanto potrà accadere in termini di scontro, se non ci sarà un intervento politico e diplomatico a livello internazionale.
Insomma, la materia ritengo sia strettamente legata a quanto è contenuto nel disegno di legge sul finanziamento delle missioni internazionali e nelle mozioni che stanno accompagnando le nostre decisioni in proposito. Ricordiamoci - lo ricordo soprattutto a me stesso - che anche il più vasto sforzo internazionale, quello dell'ONU, della NATO e di altri organismi, non produrrà effetti positivi e duraturi se non lavoreremo per affermare, insieme, il diritto di Israele ad esistere in sicurezza e il diritto del popolo palestinese ad una sua terra. Due popoli e due Stati, per riassumere in una formula la complessità della questione. Gli effetti non potranno essere, comunque, né positivi né duraturi se non lavoreremo - come fu efficacemente prefigurato, qualche anno fa - anche a prosciugare i giacimenti di odio che fanno da contraltare ai giacimenti di petrolio i quali, spesso, rappresentano, in verità, l'unico interesse delle politiche occidentali. Ecco perché ritengo che l'esame del provvedimento in titolo debba e possa rappresentare l'occasione per una riflessione più complessiva certamente, ma non soltanto, per il nostro paese, nel novero delle iniziative multilaterali assunte sia per la difficile e complessa lotta al terrorismo sia - perché no - per porre fine ai troppi conflitti e focolai di tensione sparsi in ogni angolo della terra. Ecco perché è importante ed utile la centralità assunta, tra le altre, dalla missione in Afghanistan, la missione ISAF. Una simile riflessione non può essere sganciata, oggi, da quella, appena avviata, relativa ad una forza ONU che possa fungere da interposizione pacifica in Libano. Al di là dei problemi tecnico-procedurali che quest'ultima solleva, non ho ascoltato una sola voce dissonante, almeno nel nostro panorama politico, rispetto ad una ipotesi di invio di caschi blu o, comunque, di truppe sotto l'egida dell'ONU.
Pertanto, chiedo se sia diverso lo spirito di un simile invio rispetto alla nostra presenza in Afghanistan. Possibile che, di 28 missioni internazionali di pace in ben 19 paesi, soltanto quella in Afghanistan oggi possa rappresentare un'azione che reca offesa anziché aiuto a un paese? O non siamo forse anche noi vittime innocenti di quel militarismo unilaterale con il quale si è inteso partire all'attacco delle centrali terroristiche - immaginate prima sulle alture che separano Kabul da Peshawar - e poi a caccia di inesistenti armi di distruzione di massa in Iraq?
Dico questo perché personalmente ho fatto fatica ad immaginare di esprimere un voto favorevole sul provvedimento in esame se non fosse stato accompagnato anche da elementi di discontinuità. Invece - come affermato ieri dal collega Leoluca Orlando -, il presente testo contiene elementi di continuità e di discontinuità. Di continuità di carattere costituzionale diceva Orlando, per quanto riguarda una più marcata e più corretta affermazione dello spirito dell'articolo 11 della nostra Costituzione, Pag. 38ma anche di discontinuità rispetto al riferimento improprio che in precedenza si faceva a quell'articolo 11.
Il vero elemento di novità, la vera discontinuità contenuta in questo provvedimento si rinviene nel passaggio nel quale si afferma che il finanziamento, per quanto riguarda la missione Antica Babilonia, è per il ritiro delle nostre truppe da quel teatro di guerra. Ciò è importante e significativo in quanto su quel territorio le nostre truppe non si trovavano nel novero di un'azione multilaterale sotto l'egida dell'ONU - almeno all'inizio -, infatti eravamo al seguito di un'iniziativa sbagliata, di una guerra assolutamente inefficace nella lotta al terrorismo, che anzi ha prodotto il diffondersi del virus del terrorismo in quella realtà. Per non parlare delle atrocità delle quali siamo venuti a conoscenza, delle condizioni pietose in cui sono custoditi i detenuti a Guantanamo e di quanto accaduto ad Abu Ghraib. Senza dimenticare le operazioni sporche portate avanti dagli 007 a livello internazionale e persino nel nostro paese, come abbiamo potuto constatare nella vicenda del rapimento dell'imam di Milano, Abu Omar, sulla quale spero si riesca a fare chiarezza nonostante il segreto di Stato.
Potrà mai essere efficace la lotta al terrorismo bombardando le montagne dove si immagina possa essersi nascosto Bin Laden, senza scovare le vere centrali che lo alimentano? Mi riferisco al sistema bancario, a quello della finanza internazionale, che dovrebbero essere colpiti con efficacia. Questo è il primo elemento di discontinuità.
Il secondo elemento di discontinuità contenuto nel provvedimento in esame consiste nella messa in discussione della nostra presenza all'interno della missione Enduring freedom. Anch'essa, come la missione ISAF, opera in Afghanistan, ma è tutt'altra cosa: la prima rappresentava un atto di guerra quasi unilaterale contro l'Afghanistan - individuato come la centrale del terrore o la copertura di tale centrale -, la seconda è un'azione che accompagna anche altre iniziative civili. Un'azione volta alla ricostruzione delle istituzioni democratiche in quel paese e a superare una situazione che, francamente, faccio fatica ad immaginare migliore di quella odierna. Mi riferisco a quando vi erano i talebani.
Altro elemento di discontinuità - che abbiamo proposto proprio noi di Italia dei Valori - è costituito dal superamento del codice penale militare di guerra, limitato - così era scritto in una prima stesura - soltanto alle missioni che operano in Afghanistan. A fronte della presentazione di numerose proposte emendative in tale direzione, la disponibilità, finora affermata dal Governo, a rimettere in discussione l'applicazione del predetto codice per le sole tre missioni che operano in Afghanistan propone un altro elemento di discontinuità.
Infine, un altro elemento di discontinuità, non offerto dal provvedimento in esame, ma esplicitamente fornito dalla mozione Sereni ed altri n. 1-00014, che accompagna questa nostra riflessione, riguarda la creazione di un organismo di monitoraggio permanente volto a valutare non una exit strategy unilaterale (che, francamente, non avrebbe molto senso), ma - e davvero - la congruità tra gli scopi per cui siamo in Afghanistan, le finalità che abbiamo affermato, e i risultati che la missione stessa può far conseguire.
Avviandomi alla conclusione, signor Presidente, non posso non associarmi al saluto che la presidente della Commissione difesa, onorevole Pinotti, ha voluto rivolgere alle nostre Forze armate impegnate in Afghanistan, ai nostri uomini impegnati nei Balcani e in Iraq, a quelli che saranno impegnati nel Darfur e in Congo, a quelli che operano tra Kabul ed Herat: noi apprezziamo davvero il loro lavoro ed i loro sforzi e sappiamo che si trovano ad operare in situazioni estremamente complesse e contraddittorie; sappiamo che ad ogni timido successo, ad ogni timido sorriso fa riscontro una realtà drammatica dal punto di vista economico e sociale, resa ancora più difficile dal fatto che si tratta comunque di territori che sono teatri di guerra.Pag. 39
Desidero concludere il mio intervento con un riferimento che vuole essere soprattutto un auspicio. Noi tutti siamo consapevoli - in quest'aula e nel paese - che è in atto una discussione, una riflessione, in ordine alla maggioranza che sosterrà il provvedimento in esame. Auspico che a sostegno del provvedimento non vi sia soltanto una maggioranza, ma l'unanimità di questa Assemblea. L'unanimità è possibile proprio sulla base di quegli elementi di continuità e di discontinuità di cui ho detto in precedenza.
Rivolgo un invito, però, alla maggioranza politica che, in primis, è chiamata a sostenere questo sforzo. L'invito è quello di fare davvero uno sforzo per dare la preferenza all'interesse generale rispetto all'interesse di parte. Al riguardo, desidero riportare in questa sede il senso di una telefonata cortese che ho ricevuto ieri sera da un caro amico di Rifondazione Comunista, consigliere comunale della mia città. Pur soffrendo, pur vivendo come contraddittorio questo passaggio, egli mi ha detto: Non è che, se noi ce ne andiamo via, a Kabul finisce la guerra .... Semmai, aggiungo io, la nostra presenza può servire a mitigare i drammatici effetti della guerra. Però, questa deve essere una riflessione compiuta. Io ho grande rispetto per chi, di fronte a un passaggio così delicato e complesso, è in difficoltà: noi tutti gli dobbiamo rispetto e non possiamo dileggiarlo. In questo senso, avrei preferito che, in un passaggio siffatto, certi riferimenti ad alti livelli istituzionali fossero quanto meno accompagnati dal riconoscimento di sensibilità alle quali mi sento sicuramente vicino.
Ovviamente, faremo un'apposita dichiarazione di voto, ma non ho difficoltà ad anticipare il voto favorevole dei deputati del gruppo dell'Italia dei Valori sul provvedimento in esame. Grazie (Applausi).
PRESIDENTE. Grazie a lei, onorevole Evangelisti.
È iscritto a parlare l'onorevole Bianco. Ne ha facoltà.
GERARDO BIANCO. Signor Presidente, pochi ed intimi colleghi di buona volontà, vorrei trattare un unico tema che mi sembra meritevole di grande attenzione, perché, presentandosi come concezione generale di una politica, qual è quella del pacifismo programmatico, è, di per sé, rilevante. Infatti, non c'è alcuna buona politica, non c'è alcuna corretta impostazione, soprattutto nel campo della politica internazionale, se non è sorretta da una visione generale dei problemi, diciamo pure da un principio che regoli ed orienti.
Non devo evocare, in questa sede, la lunga, secolare e non inutile discussione sulle problematiche della cosiddetta guerra giusta. È importante che si possa verificare se questa visione della politica, che, peraltro, è emersa in maniera forte all'interno della nostra maggioranza, sia in grado di rispondere ai problemi del nostro tempo, e, in modo particolare, se tale logica sarebbe stata in grado di affrontare le 125 guerre civili che si sono verificate in questi cinquant'anni, le 57 guerre combattute, i 20 milioni di morti, vittime del terrorismo e delle guerre civili. Sì può corrispondere a tali esigenze con una impostazione generale di questo tipo.
Almeno su un punto, colleghi, dovremmo trovare un accordo e credo sia incontrovertibile che ai sanguinosi conflitti che sconvolgono il mondo non possiamo rimanere indifferenti. Nessuno può dire, rispetto alle tragedie che si vanno consumando, «io non c'entro; quello che accade non mi riguarda». Siamo irrimediabilmente dentro il conflitto, dentro lo scontro e per costruire la pace non basta proclamarla. Dobbiamo saper trovare le strade di un ordine mondiale che, come dicevo prima, sia ispirato ad un principio, ad una logica.
Non è un caso che ad una cattedra, alla quale troppo poco si presta ascolto, quale è quella del Pontefice, si è sempre regolato il rapporto della pace con il tema della giustizia. Oggi, in un pregevole articolo di Casavola sul Mattino, è stata richiamata l'importanza del diritto e della fonte del diritto. È il punto di riferimento, che può offrire una legittimazione, che è appunto quella dell'ONU.Pag. 40
Possono apparire, queste, considerazioni un po' astratte, ma - lo ripeto - abbiamo bisogno di un filo conduttore e di riportare razionalità nell'azione politica, non soltanto entusiasmi, pregiudizi, ideologie, che praticamente disorientano, ma razionalità. Ancorare tutto ciò ai principi di giustizia significa creare un presupposto che consenta il necessario dialogo, un dialogo che sia efficace tra le parti in contesa, che aiuti a valutare dove, come e quando sia possibile l'uso della forza per allontanare i rischi di aggravamento della crisi.
Qualche minuto fa, ho sentito un'affermazione che, peraltro, sembra essere dirimente, ma che è persino ovvia: l'attuale politica dell'intervento militare non paga, si è dimostrata fallimentare. Ma è evidente che l'intervento militare non costruisce la pace; può creare le condizioni, perché la politica possa costruire la pace.
L'intervento militare - è stato anche scritto - serve sempre a far scendere la febbre ed a riportare la discussione intorno ad un tavolo.
Ma se si immagina che l'intervento militare per principio ed a priori non sia possibile, mi domando come possano essere affrontate le questioni aperte, come possa essere affrontato il terrorismo dilagante. Credo che anche i colleghi, come me, abbiano ricevuto un documento proveniente dai gruppi pacifisti (vedo che il presidente Ranieri ne possiede una copia), che comincia con un'affermazione: non è possibile ripetere la famosa frase, che appartiene alla cultura antico-romana, si vis pacem, para bellum. Poi, viene ripetuto uno slogan che ricorre nelle bandiere del pacifismo: si vis pacem, para pacem. Da un punto di vista linguistico, si tratta di una affermazione classicamente tautologica, cioè vi è un ritorno su se stessa.
Non penso che questa sia la strada. Forse, se dovessimo seguire la via del principio della giustizia, secondo cui iustitiam para, pax sequetur, forse si troverebbe un cammino molto più adeguato per riportare la pace nel mondo. La giustizia non può vivere rimanendo inerme. Ecco perché bisogna tener conto anche della necessità di utilizzare, in determinati momenti, la forza per poter costruire le condizioni per fare la pace. A meno che il termine «pace» non venga scambiato con il termine «resa».
Non è un caso che, sempre in quel documento che ho visto anche sul tavolo della presidente Pinotti, vi è un punto che mi ha impressionato e che, forse, la dice lunga sulla logica che ispira certe tendenze. Si dice: chi è contro la guerra ai talebani non può accettare l'intervento della guerra. In altri termini, c'è chi ritiene che la pax talebana sia preferibile alla odiata pax americana, il che mi sembra un incredibile paradosso. Direi che non ci si rende conto di ciò che è accaduto in Afghanistan: vi è un'amnesia storica. E l'amnesia storica porta a non rendersi conto che gli Stati Uniti d'America, dopo l'uscita dell'Unione sovietica dall'Afghanistan, hanno, per così dire, lasciato mano libera. E in quella realtà, che è stata conquistata e dominata per varie ragioni, che non è il caso di ricordare, dai talebani, si è creato il santuario da cui è partita la riorganizzazione della rete terroristica. Si vuol tener conto di questo o dobbiamo, invece, ritenere che oggi il ritiro sia una soluzione e non la creazione di nuove condizioni, affinché si ricreino le retrovie logistiche del terrorismo? Su questo interrogativo mi pare non vi siano adeguate risposte. Non devo intervenire sulle ragioni della legittimità dell'intervento in Afghanistan: vi sono le due pregevoli relazioni degli onorevoli Ranieri e Pinotti e l'intervento del viceministro.
Dobbiamo, invece, chiederci cosa fare e come realizzare un intervento, accanto a quello militare. Vorrei solo esprimere un concetto: non ci si rende conto che coloro che sostengono il multilateralismo (come i sottoscrittori della mozione presentata), coloro che sostengono che l'unilateralismo è un pericolo per la politica mondiale, portando avanti alcune tesi sostenute dai movimenti pacifisti, finiscono per favorire la logica tipica di quelle nazioni che, sentendosi in pericolo, ricorrono alla propria forza.Pag. 41
Signor Presidente, ho consegnato al relatore Ranieri una pagina antica (che non ho il tempo di illustrare) che la dice lunga sulla logica dei paesi che, essendo potenti e sentendosi accerchiati dai nemici, ricorrono poi alle cosiddette guerre preventive. È soltanto l'isolamento, la mancanza della politica multilaterale che finisce per favorire quelle logiche. E si ottiene ciò che Vico chiamava l'eterogenesi dei fini, ossia l'effetto esattamente contrario: il pacifismo si rivolta contro se stesso e distrugge la pace.
Concludendo, signor Presidente, credo che il Governo abbia fatto bene a proporre una forza di interposizione rispetto alla guerra che si sta scatenando nel Libano. Ritengo altresì positivo il fatto che tutti vogliano convergere anche sull'approvazione del disegno di legge in esame: penso, infatti, che non possano sussistere differenze su tali questioni.
Credo che le convergenze, nell'ambito della continuità di una politica estera che trova il suo riferimento nell'articolo 11 della Costituzione e che ha visto, altresì, i Governi degasperiani gettare le basi di una politica di pace e di europeismo che dobbiamo conservare, costituiscano un elemento senz'altro positivo. Si tratta, infatti, dei fondamenti della nostra storia repubblicana (Applausi dei deputati dei gruppi de L'Ulivo e dei Popolari-Udeur).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il deputato Zacchera. Ne ha facoltà.
MARCO ZACCHERA. Signor Presidente, onorevoli colleghi, mi dispiace che una questione così seria ed importante, come quella che stiamo seguendo in questi giorni, si riduca, dal punto di vista politico, ad una domanda fondamentale: sette o otto parlamentari dell'estrema sinistra voteranno o no, al Senato, a favore del Governo? Tutto, infatti, gira intorno a questa situazione!
Credo sia un peccato. Infatti, non soltanto reputo importante la discussione su tale tema, ma ritengo, altresì, veramente difficile concepire la politica estera di un paese, nell'ambito dello scacchiere mondiale, come legata al voto di sette o otto «estremisti di estrema sinistra» che, forse, possono addirittura far cadere un Governo!
Mi dispiace veramente, anche perché, conseguentemente, emergono tonnellate di ipocrisia. Anzi, ciò non mi dispiace, ma mi indigna! Mi indigno, infatti, quando leggo anche solo una parte delle lunghissime prese di posizione assunte dai partiti di Governo per cercare di alzare, in qualche modo, alcune «cortine fumogene» ed accontentare tutti, tentando anche di compensare in qualche modo l'esistenza di sette o otto eventuali parlamentari dissenzienti.
Vorrei osservare, a tale riguardo, che mi sembra strano che non siano stati creati ulteriori sette o otto incarichi di sottosegretario: in tal modo, saremmo arrivati non a 102, ma 108 o 110 rappresentanti del Governo, e sarebbero stati sistemati tutti!
Come stavo dicendo, tuttavia, si cerca di individuare i termini e le condizioni per far sì che non siano decine i parlamentari della maggioranza di centrosinistra che, un domani, non dovessero sostenere più provvedimenti del genere. Andando al Governo, infatti, ci si rende conto che certe scelte possono anche non piacere, e possono anche essere considerate pericolose o difficili dal punto di vista politico; tuttavia vorrei osservare che si tratta di responsabilità che un paese serio ed importante, come l'Italia - piaccia o non piaccia sia al centrodestra, sia al centrosinistra! - deve assumersi nei confronti del mondo.
Non sto parlando delle piccole o grandi o stupide battute di Prodi, il quale ha affermato di non aver trovato neanche il tempo di farsi fotografare, ieri a San Pietroburgo, assieme agli altri leader mondiali perché era impegnato al telefono! Si tratta, piuttosto, di prendere atto dell'ipocrisia che si cela dietro determinate affermazioni.
Si parla, ad esempio, di discontinuità in ordine all'intervento in Iraq. Ebbene, vorrei rilevare che è stata operata una grandissima discontinuità rispetto al passato. Prima, infatti, le rubriche degli articoli Pag. 42dei provvedimenti in tale materia erano «Norme concernenti la missione umanitaria in Iraq» o «Partecipazione italiana alle missioni internazionali in Iraq»; adesso, grazie a tale discontinuità, la rubrica dell'articolo 1 del nuovo provvedimento è: «Interventi umanitari, di stabilizzazione, di ricostruzione e di cooperazione» in Iraq. Questi sono i cambiamenti apportati, perché i contenuti del provvedimento, in realtà, sono esattamente gli stessi di prima!
Vorrei altresì ricordare che il precedente Governo Berlusconi aveva affermato che la nostra missione militare in Iraq sarebbe stata conclusa entro la fine dell'anno, ma adesso si afferma che ciò si verificherà entro l'autunno. Orbene, l'autunno finisce il 21 dicembre, e dunque la differenza potrà essere, al massimo, di dieci giorni! Tutto questo, comunque, viene «venduto» come se fosse veramente una scelta di discontinuità!
Ciò che, invece, non rappresenta una discontinuità, ma è veramente demagogia e falsità, è affermare nel testo della vostra lunghissima mozione, colleghi della maggioranza, che: «(...) Il Governo ha programmato la conclusione della missione Antica Babilonia in Iraq, nata in conseguenza dell'intervento militare» - ovviamente, si intende quello americano - «deciso in violazione alle norme di diritto internazionale (...)».
Vorrei evidenziare, al contrario, che ci siamo recati in Iraq non nel momento in cui è scoppiato il conflitto, ma a seguito della risoluzione n. 1637 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite!
ROBERTA PINOTTI, Relatore per la IV Commissione. No: prima!
MARCO ZACCHERA. Ricordiamoci queste posizioni! Infatti, il comma 2 dell'articolo 1 del nostro decreto-legge n. 165 del 2003 ha stabilito proprio le finalità della nostra missione in Iraq, prevedendo interventi destinati al settore sanitario, al comparto delle infrastrutture, al settore scolastico (con particolare riguardo alla riabilitazione funzionale delle strutture distrutte), nonché alla conservazione del patrimonio culturale.
Se non vado errato, ieri, 17 luglio, quarantasei «poveri cristi» sono saltati in aria nel quartiere principale di Baghdad. Si trattava non di cittadini occidentali o di americani, ma di «poveri cristi» libanesi, dei quali forse si è parlato solo in quattro righe di un dispaccio ANSA!
Immaginiamo che nessuno di noi fosse andato in Iraq: quanti morti in più ci sarebbero stati nel frattempo? Tutti i pacifisti nostrani sarebbero stati così più contenti?
Il vero problema è stabilire cosa vogliamo fare dopo in Iraq. Tutti vogliamo uscire dalla situazione difficile, nella quale ci siamo messi in Iraq, ma poi che succederà? Quale altra esplosione ci sarà nel Medio Oriente? Quale altro pazzo presidente, come quello iraniano, andrà in giro a dire che vuole costruire bombe atomiche da distribuire a tutti? Queste sono le situazioni alle quali dobbiamo rispondere!
C'è ipocrisia quando dite: ma che bello che adesso in Afghanistan - dice sempre la vostra mozione - non siamo più impegnati nella missione Enduring Freedom, ma finalmente ci occupiamo soltanto di altre cose o di altre missioni all'interno dell'Afghanistan! Non dimentichiamo, colleghi, che Enduring Freedom era diventata, con l'utilizzo delle navi, una presenza militare abbastanza anomala. Quindi essa non era già dal 2003 una presenza militare in Afghanistan? Oggi noi in Afghanistan ci stiamo con l'ISAF, e qui si tratta di un movimento di migliaia di persone. Come dicevo in Commissione, in Afghanistan le cose vanno male; dobbiamo dirci la verità da questo punto di vista. Non possiamo prenderci in giro. Non possiamo, come sempre, fare le cose a metà. Così come non possiamo metterci in testa di conquistare l'Iraq manu militari, né tanto meno pensare di farlo con l'Afghanistan.
Non possiamo controllare un paese che è di fatto controllato in alcune zone da persone o ambienti collusi o comunque vicinissimi al terrorismo. Non possiamo farlo con una presenza che, a livello mondiale, impegna alcune decine di migliaia Pag. 43di soldati. È ridicola questa posizione! Il territorio dell'Afghanistan è immenso. Le risorse economiche non ci sono. È vero, quello della droga è un problema, ma non potete dire che risolverete il problema delle colture dell'oppio, utilizzandole per le terapie del dolore! Sottosegretario Intini, lei è una persona seria, vedo che mi ascolta: ma le sembra logico che il problema delle colture di oppio in Afghanistan possa risolversi utilizzando l'oppio per le terapie del dolore in Italia? È un'idea che bisogna dare al ministro Ferrero, così riuscirà a trovare qualche milione o meglio qualche decina di milioni di italiani che soffrono di insonnia, a cui dare l'oppio afghano!
Mi sembra veramente un po' leggero voler risolvere le situazioni con queste battute di spirito o con queste relazioni, che al punto in cui siamo servono solo per tacitare le coscienze! Le vere coscienze devono invece porsi un problema di fondo: volenti o nolenti, la gran parte delle presenze italiane all'estero, su ventotto missioni che in questo momento stiamo portando avanti, sono legate al terrorismo. Noi come ci confrontiamo con il terrorismo? Sono preoccupato quando sento dire che siamo equidistanti. La parola «equidistante» significa «essere distanti uguali». Uguali da chi? Uguali dagli Stati o uguali nei confronti del terrorismo? Poiché sono assolutamente convinto che tutti o la grandissima parte dei colleghi del centrosinistra sono, come me, contro il terrorismo, la domanda è: cosa si fa poi in concreto contro il terrorismo?
Non è infatti solo un discorso astratto o politico, così come non è bello fare tanti begli slogan e tante belle carovane che vanno in giro per l'Italia, ma è questione di dire se si ha o meno il coraggio di prendere determinate posizioni. Infatti anche di fronte alla crisi di questi ultimi giorni nel sud del Libano cosa abbiamo fatto per convincere gli Stati a togliere alcune postazioni di Hezbollah nel sud del Libano, che da settimane martellavano Israele? Cosa hanno fatto i Governi occidentali? Cosa ha fatto l'Unione europea? Assolutamente nulla! Poi ci lamentiamo delle reazioni israeliane?
Ma cosa avremmo fatto in Italia se tutti i giorni, tutte le settimane, fossero arrivati dei razzi sul nostro territorio? Cosa avremmo fatto se fossimo stati in un paese, che il giorno successivo alla sua dichiarazione d'indipendenza - 1948, ormai quasi sessant'anni fa! - fosse stato attaccato da tutti i vicini? Che fare quando un paese liberamente si ritira da un territorio, dopo averlo occupato militarmente (il sud del Libano), così come si ritira dalla striscia di Gaza, ma poi vede che da lì arrivano gli attacchi terroristici? Come ci poniamo di fronte ad un paese che contro l'opinione pubblica mondiale ha costruito un muro che è stato chiamato «muro della vergogna», ma che ha ridotto quasi del 100 per cento gli attentati terroristici in Israele? Non volevamo questo muro, però intanto gli attentati sono stati interrotti.
Queste sono situazioni di cui dobbiamo renderci conto.
Noi con il terrorismo non abbiamo il coraggio di prendere determinate posizioni. Giustamente siamo uno Stato di diritto, non sto dicendo assolutamente che tutto sia lecito, ma stiamo spaccando il capello in quattro per conoscere come, quando e chi sapeva del prelievo coatto, del rapimento di una persona: ovviamente, mi riferisco all'imam catturato a Milano nel 2003. Ci preoccupiamo molto meno, come opinione pubblica, che in Iraq, dalle tasche di alcuni kamikaze, saltano fuori dei documenti rilasciati dalla questura di Milano, segno che queste persone erano state in quella città: di questo ci preoccupiamo molto meno e ne parlano molto meno anche i giornali.
Coscienza e serietà impongono di interpretare a fondo questi fatti ma, purtroppo, vi sono dei terroristi che usano determinati atteggiamenti sparando nel mucchio e che hanno sulla coscienza centinaia, migliaia di morti - come ce li hanno anche le grandi potenze -: non facciamo ipocrisie su queste cose.Pag. 44
Noi dobbiamo anche avere il coraggio di renderci conto che vi sono interessi nazionali, europei ed internazionali che vanno difesi. Per concludere, è la presenza dell'Italia che conta all'estero e mi dispiace che la propaganda politica continui a sostenere - almeno a sinistra - che nei cinque anni scorsi l'Italia ha perso credibilità internazionale. Se avevamo perso credibilità internazionale, come mai eravamo noi al comando della missione in Kosovo? Come mai lo siamo stati in molti altri scenari, compreso l'Afghanistan fino a sei mesi fa, o fino all'ultimo passaggio di competenze con il comando inglese? Queste sono le credibilità di un paese che ci siamo presi all'estero. Come mai oggi, praticamente, abbiamo tutte le nostre Forze armate impegnate all'estero (voi sapete, infatti, che moltiplicando per 3,5 il numero di persone che sono all'estero esauriamo, in definitiva, le risorse operative delle nostre Forze armate)? Siamo diventati un paese credibile, ma non diventiamo più credibili perché siamo equidistanti, e soltanto quando abbiamo degli alleati seri manteniamo la parola data e difendiamo le nostre posizioni, costi quello che costi. Tutto ciò, lo hanno dimostrato anche i nostri poveri martiri di Nassiryia, perché tutto il paese - tranne qualche mascalzone - è stato dietro quelle bare, così come in tante altre situazioni di morti e di difficoltà, poiché ci si identificava con esse. È così che cresce un popolo, è così che un popolo si riunisce e non lo fa soltanto quando siamo tutti contenti perché ha vinto la nazionale di calcio.
Nel caso di questo provvedimento la preferenza per il disegno di legge nei confronti, invece, del decreto-legge rappresenta solo «fumisteria» organizzativa, utilizzata dalla Camera dei deputati solamente per coprire eventuali dissenzienti nelle file del Governo.
Penso che il senso di responsabilità debba prevalere e non importa se comanda il centrodestra o il centrosinistra; nel continuare un'opera dobbiamo essere disponibili con lealtà perché, ad un certo punto, dobbiamo portarla avanti agli occhi del mondo, ai quali interessa poco che vi sia Berlusconi o Prodi a comandare l'Italia. Al resto del mondo interessa sapere che può e deve contare sul futuro del nostro paese.
A voi, amici della sinistra, pongo però una domanda: che farete il 22 dicembre in Iraq? Sparirete? Non si sa più nulla, non c'è alcun disegno politico su questo? Stiamo parlando di una questione fondamentale: finiremo la nostra missione? La cambieremo? Se la cambieremo, in che modo tutto ciò verrà fatto? Non ditemi che ci penserete tra sei mesi, non si esce fuori dall'Iraq in tre giorni poiché, probabilmente, ci vorranno degli anni, perlomeno dei mesi, per andarsene. Riguardo a tutto questo non ho sentito assolutamente nulla. In Afghanistan, che cosa faremo dopo?
Mi permetto di dire che, nel mio piccolo, in questi posti vi sono stato; avrei voluto ascoltare maggiormente - lo dicevo anche in Commissione, presidente Pinotti - Alberto Cairo, un medico italiano che, senza fare politica come il signor Strada, è presente da anni in Afghanistan a curare tutte le persone, sotto qualsiasi regime e situazione. Gino Strada fa molta politica, sta molto poco in Afghanistan - sarebbe bello sapere quanto tempo vi è, effettivamente, stato in questi anni - e trasforma l'aiuto umanitario in politica: sono queste le cose che non mi vanno, perché mi sembrano molto ipocrite e, nel nostro caso, anche un po' da furbi.
A nome dei colleghi di Alleanza Nazionale affermo che voteremo con orgoglio a favore di questo provvedimento perché, in buona sostanza, si tratta dello stesso provvedimento di prima. Se è stato modificato, ciò è avvenuto soltanto per allungare il brodo perché bisognava, in qualche maniera, tener anche conto non dei sette-otto potenziali dissenzienti, ma delle decine di parlamentari dell'Unione che su tali questioni non sono d'accordo e non sono sostanzialmente equidistanti, ma stanno dall'altra parte, come lo sono sempre stati negli ultimi cinquanta-sessant'anni, quando i cortei per la pace erano sempre a senso unico.
Cambierò questa opinione quando vedrò qualche pacifista ammettere che Pag. 45tutti, nello scacchiere internazionale, possono avere ragioni, ma una cosa è fondamentale: la libertà. L'Italia deve lavorare seriamente per portare la libertà, per aiutare altri popoli ad averla. Questo è il fine.
Poi, potrebbe saltare fuori che l'unica nazione democratica libera in Medio Oriente è proprio Israele o che in Afghanistan i «signori della guerra» si sono inseriti nel nuovo Parlamento dove vi è un partito filo-Arabia Saudita o filo-iraniano. La libertà è difficile da conquistare nei cuori perché troppe volte se ne parla nelle piazze.
Il decreto-legge in esame necessita del voto favorevole della Casa delle libertà. Sarebbe bello che i deputati del centrosinistra votassero con convinzione e secondo coscienza, non per obblighi di partito o di maggioranza e di Governo. Scopriremmo, allora, che molti di quei parlamentari, deputati o senatori, non avrebbero il coraggio di votare la loro mozione (Applausi dei deputati del gruppo di Alleanza Nazionale).
PRESIDENTE. Informo le colleghe ed i colleghi che, da un calcolo approssimativo relativo al tempo necessario per esaurire gli interventi dei deputati iscritti a parlare, arriveremmo intorno alle 15, forse troppo a ridosso delle 15,30, ora in cui è previsto il passaggio al terzo punto all'ordine del giorno. Il tempo degli interventi è contingentato e, quindi, la Presidenza non ritiene affatto di proporre ulteriori restrizioni. È rimesso comunque alla valutazione dei singoli deputati il mantenersi entro i limiti temporali massimi che ancora sono nelle loro disponibilità ed usare nel modo più parsimonioso possibile il tempo.
Questa è la situazione che porto a conoscenza dei colleghi, in quanto era stata rivolta un'esplicita richiesta in tal senso.
È iscritto a parlare il deputato Cassola. Ne ha facoltà.
ARNOLD CASSOLA. Signor Presidente, accolgo il suo invito e svolgerò un intervento più breve.
Signor viceministro, colleghe e colleghi, sarebbe superfluo da parte mia affermare che il dovere di tutti noi è lavorare per la pace in ogni angolo del mondo. Ciò che mi preme sottolineare, però, è che il nostro lavoro per la pace si deve basare su un forte impegno di cooperazione multilaterale, che trova il suo naturale sbocco in organismi quali l'Unione europea e l'ONU.
È altresì vero, però, che i due organismi summenzionati non stanno attraversando un momento felice, con l'Unione europea in una cosiddetta pausa di riflessione, che sembra piuttosto una crisi di impotenza dopo lo shock dei «no» olandese e francese, e l'ONU bloccata su una riforma che sembra proprio che «non s'ha da fare».
Tuttavia, chi veramente vuole la pace, come tutti noi, deve dare il massimo per rafforzare l'Unione europea e le Nazioni unite, perché solo con l'ONU e l'Unione europea forti ed in salute si può rinvigorire il diritto internazionale.
Ho parlato della sacralità della cooperazione multilaterale. In quest'ottica uscire dall'Iraq diventa un dovere sacrosanto per l'Italia, perché l'attacco all'Iraq non solo è stato frutto di una decisione bilaterale angloamericana, ma si è anche basato su motivazioni «nucleari» menzognere, come ormai tutti riconoscono.
In Afghanistan, invece, ci troviamo dinanzi ad una situazione diversa. L'operazione Enduring freedom lanciata dagli americani, senza mandato dell'ONU, ha totalmente fallito nei suoi scopi dichiarati sia di sconfiggere il terrorismo sia di eradicare il potere dei produttori di oppio. Quindi, l'Italia dovrebbe immediatamente farsi carico di proporre nelle sedi multilaterali internazionali il superamento di Enduring freedom, un'operazione chiaramente viziata da una genesi unilaterale. Ma in Afghanistan vi è anche l'International security assistance force, meglio conosciuta come ISAF, che ha mandato ONU e, al contrario di Enduring freedom, ha lo scopo preciso di assicurare la stabilità nel paese e di garantire sicurezza alla gente tramite la ricostruzione delle strutture democratiche, economiche e civili.Pag. 46
In questo contesto l'Italia ha l'obbligo morale di dare il suo contributo per la ricostruzione del paese nell'ambito di questa missione che è sotto egida ONU. Dico ciò perché le esperienze drammatiche in Ruanda e in Bosnia ci hanno dimostrato che l'Europa non può permettersi il lusso di stare a discutere, a disquisire mentre centinaia, migliaia di vittime innocenti vengono fatte a pezzettini a colpi di machete ogni giorno.
I fatti tristi di questi giorni in Israele e in Libano rafforzano ancora di più questa mia convinzione. È quindi chiaro, anche per un convinto pacifista come me, che la ricostruzione dell'Afghanistan sarebbe impossibile senza la presenza di truppe estere in loco. Piuttosto, il Governo italiano dovrebbe adoperarsi con più convinzione per far sì che l'impronta militare dell'ISAF venga fortemente attutita. Bisogna trasformare l'operazione ISAF in modo che essa renda la vita più sicura, non solo per gli abitanti soggetti a tanto strazio, ma anche per tutti quei civili stranieri che stanno lavorando per la ricostruzione del paese.
Il concetto di sicurezza non ha niente a che fare con la logica della militarizzazione, come invece alcuni vorrebbero farci credere. Detto questo, non possiamo permetterci di abbandonare bruscamente l'Afghanistan, se vogliamo realmente aiutare quel popolo. Votare sì vuol dire qualche scuola in più per i bambini afghani, vuol dire qualche ospedale in più per i malati afghani; votare sì significa assicurare alle donne afghane un briciolo di quella libertà di cui le donne italiane godono da tanto tempo.
Chi, in questo Parlamento, crede nei diritti dei bambini, dei malati e dei deboli, chi crede nelle quote rosa, certamente, non può fare mancare il suo «sì» a questo disegno di legge.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Rivolta. Ne ha facoltà.
DARIO RIVOLTA. Nell'ascoltare alcuni degli interventi in discussione generale riferiti a questo provvedimento, prendiamo atto del fatto che molti di essi non vertono sull'opportunità o meno del rifinanziamento delle missioni, bensì partono e hanno come presupposto un ragionamento sull'opportunità o sulla negatività - sotto i vari aspetti - degli interventi militari che furono fatti in Afghanistan e in Iraq in modo particolare.
A questo punto vorrei dire ai colleghi della sinistra che non solo nelle loro file vi furono molte voci contrarie alla scelta dell'intervento militare (in modo particolare in Iraq, mentre in Afghanistan direi che c'era una concordia nel mondo sulla necessità di quell'intervento), perché anche nelle file del centrodestra - anche nel Governo di centrodestra - si fece di tutto per cercare di evitare che la guerra in Iraq scoppiasse. Si cercarono altre soluzioni, si batterono altre strade: il rischio era chiaro a tutti.
Nel mio piccolo, io stesso ebbi modo sia di dire, in occasione di interventi pubblici, sia di scrivere che una guerra in Iraq avrebbe potuto causare degli effetti peggiori del male che allora si poneva. Il 18 aprile del 2002, l'Herald Tribune pubblicò alcune mie righe in cui, fra l'altro, dicevo che «un conflitto che coinvolgesse Baghdad, molto probabilmente, porterebbe alla dissoluzione dell'Iraq». Dicevo ancora: «(...) altri squilibri geopolitici derivanti dalla scomparsa dell'Iraq riguarderebbero l'Iran, quest'ultimo, da Komeini in poi - forse anche da prima - ha sempre cercato di esercitare un ruolo egemonico nella regione e il suo principale contrappeso è stato proprio l'Iraq di Saddam Hussein e la scomparsa di quest'ultimo creerebbe un vuoto politico nell'area a vantaggio degli stessi iraniani, con prevedibile disappunto degli altrettanto ambiziosi sauditi» (e non solo, aggiungo ora).
Inoltre, eravamo tutti consci, come dicevo nell'articolo, che le masse arabe, in parte già insoddisfatte dell'atteggiamento di alcuni loro Governi, avrebbero visto accentuarsi un sentimento di alterità e ci si sarebbe trovati ben presto a dover fronteggiare un'opinione pubblica araba facile preda di sentimenti antioccidentali e di fondamentalisti.Pag. 47
Era quindi ovvio a molti lettori e analisti di politica estera, ma anche ai politici che componevano il Governo di centrodestra, che era meglio trovare altre soluzioni piuttosto che la guerra in Iraq; ma altre soluzioni non sono state trovate e oggi, poiché il nostro compito non è quello di storici, ma quello di politici: noi dobbiamo prendere le nostre decisioni, tenendo conto delle situazione di oggi e non di quella che avrebbe potuto essere o di quella che ci sarebbe piaciuto fosse.
Altre ipotesi forse sarebbero state migliori, ma la situazione di oggi è che l'Iraq è un paese sulla via della democrazia, anche se con molti punti di domanda. L'Afghanistan è un paese dove alla caduta del Governo dei talebani non ha corrisposto, nei tempi che ci si aspettava, una nascita di una nuova e moderna democrazia. Da politici dobbiamo chiederci cosa fare davanti a questa situazione: ritirare le truppe? Mantenerle così come sono? Aumentare la nostra presenza militare? La presenza internazionale? Chiunque volesse ragionare partendo dalla situazione attuale e lo volesse fare con buonsenso e con capacità di analisi, sa che per ciò che riguarda l'Afghanistan la diminuzione o addirittura il ritiro delle truppe internazionali lì presenti farebbe riprecipitare l'Afghanistan in un caos e in una anarchia ben maggiore di quel caos che ancora oggi purtroppo è presente nella maggior parte di quel territorio.
Noi tutti sappiamo che è indispensabile che il Governo legittimamente eletto in Afghanistan possa acquisire la forza per governare veramente quel paese. Sappiamo tutti che tante operazioni politiche, ma anche militari, devono ancora essere svolte perché queste condizioni si avverino. Non è sufficiente poterlo desiderare, non è sufficiente gridare alla pace o al dialogo; noi sappiamo che pace e dialogo sono due obiettivi da tutti desiderati, ma che per poter farli diventare una realtà occorre - ahimè! - passare per un periodo, ancora di durata indefinita, non solo di guerra, ma di vittoria necessaria della coalizione internazionale e di realizzazione del mandato dell'ONU, affinché si possa ottenere il risultato.
Chi chiede che le truppe dell'Afghanistan vengano ritirate, se non è amico del giaguaro, va contro il buon senso e contro le necessità della storia. Chi ha deciso di non assecondare la richiesta dell'ONU di aumentare la presenza militare, probabilmente per pavidità o per motivi non ben dichiarati o non ben chiariti, seppur dichiarati, ha deciso di non dare il contributo del nostro paese affinché si facciano tutti gli sforzi per portare a soluzione positiva un'operazione che fu iniziata ormai tempo fa, ma che dalla soluzione positiva è ancora lontana.
Non sono d'accordo sul contenuto di questo provvedimento, che di fatto congela la situazione. In Afghanistan, era indispensabile che tutti i paesi, anche l'Italia, che vogliono giocare un ruolo e vogliono rispettare il proprio senso di responsabilità, aumentassero la propria presenza; ma anche per quanto riguarda l'Iraq, non sono d'accordo sul fatto che sia stato deciso il ritiro delle truppe italiane. Intendiamoci con chiarezza: l'Italia non ha partecipato al conflitto in Iraq, l'Italia ha mandato dei militari che avevano come regole di ingaggio il compito di contribuire alla creazione delle istituzioni locali, alla formazione del personale locale e all'aiuto alle forze locali per il mantenimento dell'ordine.
Dal punto di vista militare, la nostra presenza non è indispensabile, ce ne rendiamo conto noi, se ne rendono conto anche gli iracheni, ma proprio quegli stessi iracheni, che sanno che dal punto di vista militare la presenza o l'assenza delle truppe italiane non è indispensabile, sanno che invece anche dal punto di vista politico e dal punto di vista simbolico la presenza delle truppe italiane in Iraq è eccezionalmente importante, per due motivi. In senso positivo, perché contribuisce a dare maggiormente l'impressione di una presenza internazionale variegata e a dimostrare, proprio perché noi non abbiamo partecipato alla guerra, la volontà di ricostruzione Pag. 48che, anche su richiesta dell'ONU, l'Italia sta svolgendo o ha svolto fino ad ora in Iraq.
Dal punto di vista negativo perché, nel momento in cui le nostre truppe si ritireranno, nessuno impedirà ai gruppi guerriglieri e terroristi di urlare alla vittoria e dire: vedete, così continuando stiamo ottenendo risultati, scacciamo gli stranieri. In altre parole, scacciamo quelli che vogliono contribuire alla costruzione di una democrazia effettiva in quel paese.
Nella legislatura precedente avevamo concordato che la nostra missione avrebbe subito un'ulteriore variazione che, peraltro, avrebbe implicato anche una diminuzione del numero dei militari italiani presenti in Iraq. Tuttavia, non si parlò mai di un totale ritiro delle truppe, perché la continuazione delle operazioni di sostegno alla costruzione delle istituzioni locali e la presenza di civili italiani che svolgevano tale compito aveva, ed avrebbe ancora oggi, assoluto bisogno di una protezione militare che garantisse loro di poter svolgere tale compito in totale sicurezza. Decidere il ritiro delle truppe italiane fino all'ultimo uomo, come sembra dalle dichiarazioni di gruppi dell'estrema sinistra, ma anche della maggioranza di questo Governo in maniera concorde, significa non inviare più civili, significa rinunciare a dare quel contributo sul territorio iracheno che abbiamo concordato con l'ONU stesso.
Vorrei leggere a questo punto due righe, non del sottoscritto, tratte da un libro pubblicato dall'onorevole Massimo D'Alema quando era Presidente del Consiglio in merito alla guerra del Kosovo. Diceva l'onorevole D'Alema, oggi ministro degli esteri: il rischio peggiore è stare in un paese che non conta niente, espulso dai luoghi dove si decide; questo è un caso in cui l'eccesso di democrazia apparente preclude la democrazia vera, perché emargina dalle sedi dove si decide anche per te. Diceva ancora l'onorevole D'Alema, anche se oggi con queste decisioni sembra contraddirsi: l'Italia farà fronte alle sue responsabilità; siamo un popolo che ama la pace, siamo un popolo che ama la vita e i diritti umani e faremo quanto ci è richiesto per affermare questi valori.
Mi pare che con le decisioni e con i contenuti di questo provvedimento non si voglia fare quanto ci è richiesto per affermare i nostri valori.
PRESIDENTE. Onorevole Rivolta...
DARIO RIVOLTA. Mi avvio alla conclusione, signor Presidente. Quanti minuti ho?
PRESIDENTE. Onorevole Rivolta, ha già esaurito il suo tempo, e ciò andrà a scapito degli altri due colleghi del suo gruppo che ancora devono intervenire.
DARIO RIVOLTA. Parlerò per un minuto soltanto.
Ai colleghi della sinistra che contestano la decisione della loro stessa maggioranza di mantenere almeno le truppe in Iraq, affinché non si stupiscano, ricordo sempre dal libro di Massimo D'Alema Gli italiani e la guerra, alcune affermazioni che l'onorevole D'Alema faceva allora: sostanzialmente c'è un patto non detto; il Governo svolge i compiti che gli spettano, le forze politiche sono libere di prendere le loro iniziative; il Governo ne tiene conto ma sempre nel quadro delle responsabilità da assolvere, degli impegni da onorare. Cioè, dite pure ciò che volete, noi facciamo ciò che riteniamo. Per meglio precisare il suo pensiero diceva ancora: io rispondo del mio operato alla maggioranza di Governo, naturalmente, ma ne rispondo alla fine, non giorno per giorno. E poi: se vogliamo influire, non possiamo chiamarci fuori; in una situazione eccezionale è consentito al Governo di interpretare il suo mandato con margini anomali; questo è stato accettato da tutti; anche chi - forse allude proprio, in maniera preveggente, ad alcuni suoi contestatori nell'attuale maggioranza - insisteva che l'Italia si pronunciasse contro l'intervento della NATO, sapeva che non potevamo farlo.
PRESIDENTE. Onorevole Rivolta, la prego di concludere, altrimenti sarò costretto Pag. 49a non dare la parola agli altri due colleghi del suo gruppo. Devono ancora parlare gli onorevoli Osvaldo Napoli e Della Vedova.
DARIO RIVOLTA. Concludo dicendo che, forse, a tutti i colleghi potrebbe essere utile rileggere le parole dell'onorevole Massimo D'Alema. Ce ne sono altre interessanti che non ho avuto il tempo di leggere.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Capezzone. Ne ha facoltà.
DANIELE CAPEZZONE. Signor Presidente, signori rappresentanti del Governo, colleghe e colleghi, siamo qui a discutere di uno specifico provvedimento, sul quale esprimeremo voto favorevole, ma non possiamo nasconderci il contesto in cui il nostro dibattito si colloca: quello di una gravissima crisi in Medio Oriente. È stato acutamente scritto che ora c'è uno scenario che, per alcuni versi, ricorda quasi quello che ha preceduto lo scoppio della Prima guerra mondiale, una situazione nella quale nessuno sembra avere un pieno controllo delle dinamiche che possono innescarsi. Prima di ogni cosa, guai se, dinanzi ad eventi così drammatici, il nostro dibattito italiano fosse provinciale, ombelicale, ripiegato sulle piccole risse, sulle polemiche, sui battibecchi di casa nostra, insomma sul cortile interno, quello con i panni stesi.
Prima di venire più direttamente al nostro provvedimento, non voglio esimermi da alcune osservazioni su questa drammatica attualità. È mia opinione che noi non vinceremo la lotta al terrorismo se prima non batteremo un vecchio riflesso antiisraeliano che lambisce - in qualche caso non solo lambisce -, attraversa e caratterizza settori non inconsistenti della politica italiana ed europea. Non possiamo fingere che lo scenario di questi giorni sia quello del «solito» conflitto israelo-palestinese. Oggi Israele deve misurarsi con una sfida tremenda, quella di un tentativo della sua cancellazione. Come si fa a non vedere il ruolo del quadrilatero Hamas, Hezbollah, Iran e Siria? Questo dobbiamo tenerlo presente e lo dico anche e soprattutto ai colleghi della maggioranza. A questo proposito, c'è stato un dibattito infelicissimo - ed è bene che il Governo si sia, almeno in parte e sia pure tardivamente, ad esso sottratto - su una presunta mediazione iraniana. Ho detto e ripeto che chiamare in causa Ahmadinejad per mediare in questa situazione è qualcosa di simile all'operazione di chi nel 1939 avesse chiamato Hitler per mediare sugli eventi di quegli anni. Il regime iraniano non è parte della soluzione, ma parte del problema. Lo dico alla sinistra: che sinistra siamo se non abbiamo al centro la lotta alle tirannie? Che sinistra siamo se non esprimiamo il nostro sostegno a quelli che a Teheran, a Damasco, ovunque cercano la loro strada per la libertà e la democrazia oppressi da quei regimi? Che sinistra siamo se non ci poniamo il problema delle dissidenze in quei paesi e di milioni di donne e di uomini che non hanno potuto conoscere il bene della libertà e della democrazia?
Non si tratta di esportare, ma di promuovere la democrazia. Lo dico con le parole di un'eroina birmana, Aung San Suu Kyi, con il suo grido rivolto a noi: «Usate le vostre libertà di occidentali per promuovere le nostre». Questo è quello che Aung San Suu Kyi chiede. Per questo credo che ci sia un gran bisogno di visione, di pensieri «lunghi» anche per affrontare le questioni mediorientali. Credo che oggi tutte le strade non ambiziose - e, purtroppo, tra queste anche la road map - non bastino. Occorre ridare una speranza grande, qualcosa che cambi i termini della partita, che riappassioni i cittadini, le donne, gli uomini, che parli ai cuori e alle menti.
Marco Pannella, i radicali, con tanti altri, propongono ad esempio da anni, ormai da lustri, la carta dell'ingresso di Israele nell'Unione europea: vale per Israele, vale su un altro piano per la Turchia.
Dare un segno vero, non solo a parole e non solo differito negli anni, che chi è democratico, chi gioca la carta democratica, può entrare nel club, significa cambiare Pag. 50la partita, significherebbe che Israele non sarebbe più solo lo 0,4 per cento del territorio del Medio Oriente, ma diverrebbe la marca di frontiera di 350-400 milioni di europei (Commenti di deputati del gruppo di Rifondazione Comunista-Sinistra Europea).
Ho fatto questa premessa per dire che, a mio avviso, abbiamo drammaticamente bisogno di politiche. Trovo assai insoddisfacente che, in tutti questi mesi, in Italia ed in ogni sede, si parli solo di una exit strategy rispetto a tutto e non si parli mai di una strategy. Ha ragione il Presidente Napolitano quando fa un'affermazione severa (ma severa è la realtà che il Presidente fotografa) dicendo alla nostra maggioranza che una maggioranza che non dovesse avere (o che già non abbia) una politica estera rischierebbe - e rischia presto - di disintegrarsi, di non esserci. Questo è il compito della politica, dei dirigenti politici, dei leader parlamentari e delle forze politiche: dire al popolo della sinistra ed ai cittadini che, ad esempio, anche Zapatero, quando ha lasciato l'Iraq, non se n'è andato dall'Afghanistan, ma ha rafforzato la presenza spagnola in tale paese. È compito dei dirigenti politici rispondere - non l' ha fatto quasi nessuno - alle vergogne di Gino Strada, vergogne per la storia di una sinistra che sia sinistra amica dei popoli e della loro marcia di libertà e di democrazia. È incredibile sentir dire che in Afghanistan si stava meglio ai tempi dei talebani: si stava meglio quando si stava peggio! Certo, vi sono alcuni piccoli aspetti irrilevanti - irrilevanti per Strada -, come il fatto che alcuni milioni di persone abbiano potuto votare ed irrilevante è il fatto che bambine e ragazze abbiano potuto trovare - o ritrovare - la strada della scuola, la strada di un minimo di dignità civile! Cosa ci stanno a fare la sinistra ed i leader della sinistra parlamentare e politica, se non rispondono a ciò con parole di sinistra?
Ho molto polemizzato in queste settimane con Oliviero Diliberto e con la linea del suo partito, tuttavia, devo dire con molta franchezza che ciò non deve divenire un alibi, perché Oliviero Diliberto ha una strategia, che è lontanissima ed opposta a quella che io preferirei, ma non ho capito quali siano la linea e la strategia della sinistra che si definisce riformatrice e riformista. Noi non possiamo «brandire» la parte di politica estera del programma dell'Unione, un programma vago e poco ambizioso in politica estera, degno di una ONG, ma di medio livello. Se noi avessimo una strategia chiara e comprensibile, allora sì potremmo appassionare la nostra gente e potremmo parlare all'opinione pubblica come fa Tony Blair, che quando ha cose difficili da spiegare non si nasconde, ma prova a spiegarle, in primo luogo dinnanzi ai suoi contraddittori. Allora, se avessimo tale strategia, potremmo anche provare ad appassionare gli elettori delle forze della sinistra non riformatrice e non riformista, convincendo anche loro. Non si può solo pensare sempre ad andare via e non si può sempre meccanicamente escludere il ricorso alla polizia internazionale. Adriano Sofri è tornato a scrivere su tale argomento cose che mi paiono intelligenti, umanissime e di sinistra. Non si tratta di essere favorevoli ad un uso indiscriminato dei mezzi militari, ma - questo sì - di fermare la mano dell'aggressore. Ciò è vitale, come è stato vitale farlo - troppo tardi, ma almeno lo si è fatto - nell'ex Jugoslavia, negli anni dello stupro etnico, del massacro di civili e delle fosse comuni. Ed allora, proviamo a darci una strategia.
Altri spunti: per esempio, basta soldi ai dittatori! È il nostro onore, di europei, di italiani ed anche di alcune regioni italiane, avere stipulato Accordi di cooperazione con i paesi in via di sviluppo. Ottima cosa, ne siamo fieri, come siamo fieri che in genere, all'articolo 2 di tali Accordi di cooperazione, vi siano clausole esplicite sul rispetto dei diritti umani e della promozione della libertà e della democrazia. Il problema è che tali clausole non vengono mai rispettate e ciononostante il fiume di denaro va e, a quel punto, diventa un fiume di denaro che serve non a far crescere una democrazia possibile, ma a far fiorire dittature. Dunque, accordiamoci Pag. 51su tale aspetto. Può esservi una grande convergenza: non un euro a chi viola i suddetti principi!
Inoltre, un grande, nuovo, moderno, intelligente uso dei media, dalle radio ad Internet: con investimenti piccolissimi, risibili in termini percentuali rispetto ai bilanci della Difesa, noi possiamo oggi immaginare le nuove Radio Londra, capaci di destabilizzare le tirannie e di metterci in sintonia, ad esempio, con i giovani di Teheran, con le loro antenne, con i loro canali satellitari, con il loro tentativo di cercare clandestinamente la voce dell'Occidente.
Infine, quanto è più importante è far lavorare insieme le democrazie. Sono in tanti ad esserne convinti: non solo il partito radicale transnazionale; negli Stati Uniti, tutti, dagli esponenti democratici a quelli repubblicani, allo stesso Dipartimento di Stato, pur con molte cautele. Da Soros ai neocon, tutti sono attenti al progetto della comunità delle democrazie, ad un impegno comune delle democrazie, nell'ambito e all'esterno dell'ONU. Democrazie che sarebbero maggioranza, ma non sanno lavorare insieme con un'agenda comune, come invece hanno sempre fatto i nemici della libertà e della democrazia nell'ambito dell'ONU, dai «non allineati» in poi.
Questi sono solo alcuni spunti di un discorso che avremmo urgente bisogno di affrontare. Sono certo che se discutessimo di ciò, anziché delle solite contese, tanta parte del centrosinistra e del centrodestra potrebbe unirsi nella chiarezza e la voce della sinistra riformatrice potrebbe elevarsi con grandi consensi nel paese, isolando chi vorrebbe schiacciarci su posizioni estremiste, massimaliste e, in ultima analisi, amiche delle dittature e dei tiranni.
Mi auguro che il provvedimento (che alla fine approveremo con larga maggioranza), anziché chiudere una pagina - il che, peraltro, sarebbe un grave errore -, ne apra una nuova, generando un grande dibattito di cui questo Parlamento ha bisogno; un grande dibattito che evidentemente non è questo.
Auspico, signor Presidente, che vi sia la disponibilità di molti non a ritrovarsi in questa sede tra qualche mese per affrontare gli stessi temi in un dibattito stanco cui segua un voto, ma ad aprire un ampio dibattito di cui la politica italiana ha grande bisogno (Applausi dei deputati dei gruppi de La Rosa nel Pugno, della Democrazia Cristiana-Partito Socialista e del deputato La Malfa - Congratulazioni).
PRESIDENTE. È iscritta a parlare la deputata Deiana. Ne ha facoltà.
ELETTRA DEIANA. Signor Presidente, inizio il mio intervento dalla crisi mediorientale che, come il viceministro Intini sa bene, pone problemi di primo piano; problemi che richiedono una lettura di qualità della politica estera del nostro paese. Alcuni passi compiuti dall'attuale Governo dinanzi a tale crisi, e dallo stesso Presidente del Consiglio, sono andati felicemente in questa direzione; ma sono molto timidi e, a mio giudizio, ancora molto limitati. Non bastano; occorre innanzitutto fare chiarezza su un problema di fondo, che però rimane sempre, per così dire, sottaciuto: quale è la reale posta in gioco? Quali sono gli obiettivi non delle azioni di formazioni come Hezbollah (o Hamas in Palestina) ma delle operazioni belliche compiute unilateralmente da Israele in Libano (ricordo, per inciso, che si tratta di una rappresaglia che ha assunto forme di vero e proprio attacco militare)? Solo la liberazione dei soldati fatti prigionieri da Hezbollah, obiettivo che, come è noto, non può essere certo realizzato con azioni di così violenta rappresaglia militare? Solo la necessità impellente di difendersi dal quadrilatero degli Stati evidentemente «canaglia» cui faceva testé riferimento con una certa qual disinvoltura l'onorevole Capezzone? Oppure, mettere in atto una assai discutibile strategia preventiva che leda alle radici la possibilità di un reale percorso di soluzione e di pace del conflitto palestinese-israeliano che lacera quella regione?
In che modo gli Stati Uniti d'America entrano in tutto questo? Sono domande Pag. 52assai spinose e scomode, che credo sia assolutamente necessario porsi, se vogliamo avviare una politica estera nuova e all'altezza sia dei complessi problemi che la globalizzazione e gli eventi contemporanei fanno emergere palesemente come la violenza, le bombe, i morti, sia anche di quelli che troppo spesso rimangono nell'ombra, coperti dalla retorica e dall'ideologia di parte.
Credo che i passi compiuti dal nuovo Governo segnino una discontinuità importante rispetto al passato, perché si sono rotti alcuni automatismi. Abbiamo ereditato dal Governo Berlusconi i frutti di una politica estera contrassegnata da grave subalternità nei confronti della Casa Bianca e da un'assoluta insipienza strategica nei confronti dell'Europa e delle Nazioni Unite. In ragione di ciò abbiamo condiviso, come paese, scelte di guerra - parlo dell'Afghanistan e dell'Iraq - che hanno violato la Costituzione della nostra Repubblica e hanno contribuito grandemente a vanificare le forme faticosamente acquisite di diritto internazionale nel secondo dopoguerra. Per questo voglio sottolineare la discontinuità che caratterizza la scelta del Governo e dell'attuale maggioranza, di ritirare le truppe dall'Iraq rispetto al calendario di rientro previsto dall'ex ministro Martino. La discontinuità - voglio sottolinearlo - non è soltanto e neanche eminentemente nel fatto che il ritiro, a differenza di quello messo in cantiere precedentemente, dovrebbe avvenire in forma completa.
Tra l'altro, personalmente ritengo che questo ritiro sarebbe potuto essere più veloce e più circoscritto nel tempo di realizzazione. Tuttavia, quel ritiro è frutto di un orientamento coerente nel tempo e non dell'urgenza dettata da una convenienza politico-elettorale, quella che invece ha sostanzialmente spinto Berlusconi a parlare di rientro entro l'anno. I dati - oggi peraltro pubblicati da alcuni giornali - dicono che il 61 per cento dell'opinione pubblica nazionale continua ad essere contraria a tutte le guerre, compresa quella in Afghanistan. Tutti i partiti dell'Unione hanno condiviso il giudizio critico sulla guerra in Iraq, a cominciare dalla condanna dell'imbroglio della guerra preventiva e dall'individuazione di quella guerra come di una strumento micidiale di attivazione infinita dell'escalation guerra-terrorismo. La precipitazione della crisi mediorientale - riprendo un punto che, a mio avviso, è di fondamentale importanza - con il rischio incombente di una deflagrazione catastrofica del conflitto e un suo incontrollabile allargamento, è frutto di quella strategia e di quella guerra, dell'infingimento con cui Bush ha preteso di far credere al mondo che l'abbattimento del dittatore di Baghdad avrebbe favorito, fra le tante fandonie raccontate, anche la soluzione del conflitto tra Israele e la Palestina. Un grande piano Marshall per il rilancio della Palestina aveva promesso Silvio Berlusconi, per l'appunto da gregario delle menzogne di guerra del Presidente americano. Noi vorremmo che la discontinuità in politica estera fosse più netta e decisa e investisse nei fatti concreti, non solo a livello di grandi ed astratti richiami all'articolo 11 della Costituzione, alla pace e alla pacificazione, lo snodo della legittimità dell'uso della forza (come, quando e perché si può) e delle alleanze militari, a cominciare dalla NATO. Nel 1999, durante il summit di Washington, peraltro in piena guerra - un'altra guerra assolutamente illegittima contro la Serbia - la NATO cambiò pelle.
Si trasformò, per ristretta volontà dei Governi alleati, in uno strumento di polizia bellica globale con diritto di intervento in qualsiasi parte del mondo e con finalità del tutto diverse da quelle che erano all'origine del Patto atlantico del 1949. Ciò è avvenuto senza che i Parlamenti, sicuramente quello italiano, ne sapessero alcunché e fossero messi nelle condizioni di discutere e decidere. Le questioni che poniamo con forza, e continueremo a porre con determinazione, all'Alleanza di cui facciamo parte sono, da un lato, quella relative alla natura odierna della Alleanza atlantica (chi l'abbia discussa, come e perché) e, dall'altro, quelle concernenti le forme di controllo politico e parlamentare sulle decisioni assunte in sede NATO e la Pag. 53necessità di contrastare l'automatismo del coinvolgimento del nostro paese nelle decisioni assunte in sede di Consiglio atlantico. Si tratta di un problema di fondo, dirimente, della nostra politica estera. Anche per questo abbiamo chiesto una discontinuità politica riguardo alla partecipazione italiana alla missione militare in Afghanistan, dove è in atto una vera e propria guerra - lo ammettono tutti gli analisti di questioni militari e gli analisti politici - e dove la NATO fa le prove del suo nuovo ruolo e del suo diritto a una proiezione militare globale, ben al di fuori e lontano da quel perimetro del Nord Atlantico che le era stato assegnato dal Trattato del 1949. Dall'agosto 2003, infatti, senza alcuna legittima sede di decisione, senza trasparenza dei ruoli (mi riferisco a chi comanda che cosa e alle filiere di comando), con un mandato autoreferenziale, per quanto riguarda la sede, ed eterodiretto, perché stimolato dal Pentagono, in base ad una decisione assunta esclusivamente in sede di alleanza militare, la NATO opera in Afghanistan con un ruolo di coordinamento e comando della missione ISAF. Tale organizzazione ha acquisito via via un ruolo sempre più ampio e determinante, arrivando a dirigere, attualmente, tutte le operazioni militari in quel territorio. Da una parte, ISAF, dall'altra, Enduring freedom; da una parte, la missione di polizia internazionale e di nation building (questo sarebbe il ruolo riconosciuto ad ISAF da una risoluzione delle Nazioni Unite), dall'altra, quella guerra a tutti gli effetti contro le zone del paese in cui si annida la guerriglia dei Taleban e si consumano le alleanze con i gruppi terroristici legati alla rete di Al Qaeda. Voglio essere chiara: noi non condividiamo la permanenza dell'Italia in Afghanistan e non certo per le ragioni invocate, ad esempio, da un nostro amico, Gino Strada, che ha sottolineato, molto negativamente, a mio avviso, come si stesse meglio prima. Si tratta, infatti, di situazioni di violenza ambedue assai negative; tuttavia, non è questo il problema. Noi siamo impegnati a costruire, nel dibattito parlamentare e nei rapporti con i movimenti, i soggetti e le associazioni pacifiste ed i partiti dell'alleanza di cui facciamo parte, le condizioni perché a questo giudizio di negatività tutta l'Unione arrivi insieme. Altri sono i terreni, a cominciare da quello della cooperazione, sul quale vorremmo che si investissero le risorse italiane; soprattutto, sono altri i modi di contribuire a risolvere i conflitti, gli scontri, le crisi e le guerre, a cominciare da un rilancio, da una reinvenzione delle forme di intervento dell'ONU. La situazione di guerra in Afghanistan è uno dei motivi per i quali siamo contrari alla permanenza delle nostre truppe. Nel sud del paese è in atto una violentissima operazione militare tesa debellare la guerriglia dei taleban. Nelle zone di Kandahar, Uruzgan, Helmand e Zabul sono state uccise centinaia e centinaia di persone. Tutti miliziani? Ovviamente no, perché i miliziani vivono nel seno delle loro comunità tribali.
Ma i morti afghani non hanno nome, neanche quando si tratta di vittime innocenti.
Tom Collins, portavoce delle forze statunitensi, di recente ha ammesso che la popolarità dei talebani sta crescendo; lo stesso affermano l'istituto di studi strategici di Londra e gli esponenti delle organizzazioni non governative e delle associazioni pacifiste impegnate sul campo, che abbiamo ascoltato durante un'audizione nelle Commissioni. La presenza dei militari è percepita negativamente, sottrae spazio all'attività civile, restituisce legittimità all'azione dei signori della guerra e dei Talebani.
La guerra in Afghanistan è stata la madre di tutte le nuove guerre del XXI secolo, guerre preventive, guerra per un nuovo ordine mondiale targato Stati Uniti d'America. Alla tragedia delle Torri gemelle l'Amministrazione Bush intende rispondere con una scelta di vendetta e di guerra che non aveva alcuna ragionevolezza politica e nessuna ragione di diritto.
La stessa richiesta di attivazione dell'articolo 5 del Trattato NATO è stato un atto illegittimo, teso a costruire le condizioni di un'altra ottica, completamente Pag. 54distorta, sulla questione del diritto internazionale. Mi rifaccio alle parole che l'allora ministro degli esteri, Ruggiero, pronunciò di fronte alle Commissioni esteri e difesa riunite il 13 settembre 2001, a due giorni dall'attentato alle Torri gemelle, per discutere delle conclusioni del Consiglio atlantico, in relazione alla richiesta degli Stati Uniti di attivare l'articolo 5 del suddetto Trattato.
Il ministro, nel leggere l'atto del Consiglio atlantico nel quale il Consiglio accettava la richiesta degli Stati Uniti in ordine all'articolo 5 del Trattato NATO, sottolineava il fatto che il Consiglio stabiliva che, laddove fosse stato accertato che questo attacco era stato diretto dall'estero contro gli Stati Uniti, esso sarebbe stato considerato come un'azione che ricadeva nell'ambito dell'articolo 5. Il ministro, dunque, evidenziava la sottolineatura del Consiglio, vale a dire la necessità di accertare se effettivamente vi fossero le ragioni per considerarlo un attacco dall'estero. Come sapete, le ragioni non sono state mai chiarite, nonostante le reiterate richieste presentate anche da parte del Congresso americano. Non sappiamo quale sia stato il lavoro di investigazione dell'intelligence.
In quella stessa occasione, il 13 settembre 2001, il senatore Andreotti, parlando della vaghezza e della pericolosità del concetto di attacco dall'estero, affermò: L'articolo 5, fortunatamente, non è stato mai applicato, proprio perché il successo della NATO è stato tale che la sua deterrenza si è rivelata così valida da dissuadere il potenziale aggressore, cosicché non è stato mai necessario sparare un colpo di cannone. Faccio solo presente che la frase che ho ascoltato, se si accerterà che viene dall'estero, non so cosa possa significare. Infatti, se si tratta di uno Stato, posso ancora capire - difatti, l'articolo 5 si attiva, si sarebbe dovuto attivare, laddove fosse stata riconosciuta la responsabilità di uno Stato - ma, dicendo «dall'estero», dobbiamo fare attenzione - sono sempre parole di Andreotti - esattamente perché si cade nel limbo della indeterminatezza e, cioè, in quel limbo che rende vano o rende un infingimento qualsiasi richiamo al diritto (che, per definizione, ha bisogno di chiarezza e non di margini di interpretabilità nell'ambito della vaghezza). Questa la vicenda che ha portato all'attivazione delle varie alleanze e alla decisione degli Stati Uniti di attaccare Kabul e di dar vita ad un nuovo regime, aprendo una fase infinita di escalation che non ha fine e che non ha fatto approdare a nulla.
Non voglio entrare nella retorica con la quale viene presentata la nuova situazione in Afghanistan. Ovviamente, i punti di vista sono molto diversi. Noi abbiamo ascoltato da Joya Malalai, deputata afghana che è stata assalita nell'aula parlamentare dai suoi colleghi signori della guerra e del narcotraffico, una presentazione dei problemi del suo paese - peraltro, con riferimento a zone sotto il controllo dell'ISAF, come Kabul - che non dà sicurezza circa il buon impiego delle risorse italiane in quel territorio.
Desidero concludere ...
PRESIDENTE. Onorevole Deiana...
ELETTRA DEIANA. ... riallacciandomi ad alcune questioni di ordine generale.
Il ritiro dei militari italiani dall'Iraq è una grande conquista per noi, un grande passo, un elemento di profonda ed importante discontinuità. Ovviamente, continuiamo ad essere sostenitori del ritiro delle truppe italiane anche dall'Afghanistan.
Si tratta di questioni decisive, ma che sono veramente tali soltanto nel contesto di una riflessione allargata, che noi proponiamo. Per quanto ci riguarda, ci impegniamo a far sì che la nostra riflessione promuova una discussione più ampia. In parte, la nostra impostazione è stata recepita dalla cosiddetta mozione di accompagnamento, che, a mio avviso, però, certamente non basta.
Innanzitutto, occorre decostruire una serie di luoghi comuni che gravano sulla cultura politica (in parte, anche su quella dell'Unione) e costituiscono la filiera di connessioni e consensi di quella politica Pag. 55bipartisan sulle questioni internazionali che da troppe parti viene invocata.
Voglio elencare...
PRESIDENTE. Deve concludere, onorevole Deiana.
ELETTRA DEIANA. ... in maniera rapidissima - impiegherò un minuto, signor Presidente - i dogmi bipartisan che non condividiamo. Al primo posto, la funzione legittimante dell'ONU nei confronti delle guerre di aggressione: i famosi mandati ex post non sono la stessa cosa di un'assunzione di responsabilità da parte dell'ONU, come terzo soggetto al di sopra delle parti.
PRESIDENTE. Onorevole Deiana, ha già superato di oltre un minuto il tempo a sua disposizione...
ELETTRA DEIANA. I mandati ex post sono soltanto la legittimazione di azioni decise in altra sede.
Inoltre, e concludo, signor Presidente, contestiamo il ruolo di pacificazione e ricostruzione civile che può essere svolto - e che tutti dicono sia svolto positivamente nel mondo - da un'alleanza militare come la NATO, la funzione emancipatrice del militarismo umanitario praticato dall'Occidente in nome dei diritti dell'uomo. Si tratta di nodi profondi, di nodi culturali che si sono sedimentati come luoghi comuni e che noi riteniamo assolutamente disastrosi. Bisogna mettere in atto e sviluppare una politica di pace, di diplomazia e di cooperazione volta a disinnescare mine vaganti, bombe ad altissima potenza che attentano ...
PRESIDENTE. Grazie, onorevole Deiana...
ELETTRA DEIANA. ... alla libertà, alla sicurezza ed alla convivenza tra i popoli.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Garofani. Ne ha facoltà.
FRANCESCO SAVERIO GAROFANI. Signor Presidente, signori rappresentanti del Governo, onorevoli colleghi, la discussione sul disegno di legge in esame ha avuto, come baricentro (l'abbiamo sentito ripetere nel corso del dibattito di questa mattina), il tema della continuità o della discontinuità rispetto alla politica estera del Governo precedente.
Se consideriamo il tema del rientro delle nostre truppe dall'Iraq, possiamo affermare che, in questo caso, il massimo della discontinuità possibile coincide con il recupero di una continuità sostanziale, le linee portanti di cinquant'anni di politica estera italiana rispetto alle quali, con i Governi Berlusconi, si era realizzata una rottura che ritengo grave.
Chi, nelle file del centrodestra, cerca di ridurre, oggi, la portata delle decisioni sull'Iraq, affermando che, in fondo, anche il Governo precedente aveva già ipotizzato il rientro delle truppe italiane entro la fine dell'anno, svolge un ragionamento che finisce per confondere la politica con il calendario. Non si tratta di contare i giorni. Le date potrebbero anche coincidere, ma ciò che, comunque, assolutamente diverge sono le motivazioni politiche del rientro, oltre che, naturalmente, il giudizio politico sulla nostra partecipazione alle operazioni militari in Iraq, che era e resta un giudizio di netto dissenso per ragioni che non possono essere messe tra parentesi o troppo rapidamente archiviate come opinabili, ragioni che via via in questi mesi hanno svelato la gravità degli errori compiuti.
È su quelle ragioni che oggi misuriamo quella svolta nella politica estera, richiamata in tanti interventi, che riporta l'Italia in asse rispetto alla sua tradizione e l'allinea alle scelte delle principali democrazie continentali, nella cornice di un'alleanza transatlantica. Una discontinuità rispetto al recente passato che non riguarda, del resto, soltanto l'Italia, se è vero che ora anche il Presidente americano, George Bush, dice di comprendere le ragioni italiane sul rientro dei militari dall'Iraq. E non sono certamente considerazioni attinenti soltanto agli impegni che l'Unione ha assunto in campagna elettorale con i suoi elettori. C'è una valutazione di fondo che si sta facendo strada anche all'interno dell'amministrazione americana Pag. 56(anche ciò è stato ricordato nel corso del dibattito), oltre che nell'opinione pubblica mondiale, sul sostanziale fallimento dell'unilateralismo sperimentato in Iraq, sull'inefficacia in termini di sicurezza globale, sulla teoria della guerra preventiva. È ormai evidente che la democrazia non si esporta, tanto meno con le armi, caso mai - come ha detto il collega Capezzone nel suo intervento ricco di provocazioni, anche interessanti, se non tutte condivisibili - si promuove. Ed è ancora più evidente che nessuna potenza mondiale, nemmeno l'unica superpotenza sopravvissuta alla fine dei blocchi, oggi può disporre delle risorse che servirebbero a sostenere un'infinita campagna militare globale contro chi insidia pace e stabilità.
Pace e stabilità: anche in questo dibattito si è posto il tema di come distinguere, anche a livello teorico (lo ha ricordato anche Gerardo Bianco nel suo intervento), tra guerre e terrorismo. È entrata nel circuito lessicale la definizione di guerre simmetriche; si è sottolineato l'elemento di novità dei fenomeni che mettono a rischio la sicurezza globale e, dunque, la necessità di elaborare risposte altrettanto nuove in termini di politiche, di strumenti, per realizzare le decisioni che si assumono.
Se è vero che l'11 settembre ha definitivamente cambiato il nostro modo di vivere, è altrettanto vero che siamo ancora agli inizi di questa nuova era. Procediamo per tentativi. Le risposte politiche che fino a qui la comunità internazionale ha dato alle diverse aree di crisi sono quasi sempre insufficienti, inefficaci e, qualche volta, persino contraddittorie.
In una sua recente audizione, di fronte alle Commissioni riunite di Camera e Senato, il ministro Parisi ha insistito molto sulla dimensione del cambiamento di scenario, evidenziando due questioni. La prima è che, se si vuole essere fruitori di sicurezza, si deve essere, nello stesso tempo, produttori di sicurezza. Questo vuol dire disponibilità a partecipare alle decisioni, gli impegni che assume la comunità internazionale, una disponibilità che nasce non dall'obbligo di affermare un ruolo di potenza, ma dalla volontà di contribuire, in questo modo, al bene comune rappresentato dalla sicurezza e dalla pace.
Seconda questione: le risposte non possono essere solo militari. Esse devono essere globali, economiche, culturali e politiche.
PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE PIERLUIGI CASTAGNETTI (ore 13,50)
FRANCESCO SAVERIO GAROFANI. A questi due elementi potremmo aggiungerne un terzo, anch'esso già menzionato nel corso di questo dibattito, a proposito delle riflessioni che si impongono anche oltreoceano e da cui si ricava un dato fondamentale: la risposta più giusta ed efficace agli attacchi terroristici non può che essere multilaterale, cioè condivisa dalla comunità internazionale e governata dagli organismi sovranazionali.
Il tema della multilateralità è quello che più drasticamente ha rappresentato uno spartiacque, che ha diviso gli Stati Uniti dai suoi tradizionali alleati e, più ancora, l'Europa al suo interno, tanto da far distinguere una presunta vecchia Europa e una nuova Europa. Oggi, forse, questa divisione può essere superata e le linee di politica estera del Governo Prodi, a cominciare proprio dal rientro dall'Iraq, riaprono per il nostro paese un ruolo di primo piano nel processo di integrazione europea anche in materia di sicurezza.
In questo quadro complesso, ricco di rischi e di opportunità, si colloca la discussione sulle nostre missioni. Su alcune di esse il giudizio politico è positivamente condiviso tra maggioranza e opposizione e non soltanto per l'elevato grado di professionalità operativa dimostrata dai nostri soldati, unita ad un riconosciuto senso di umanità messo in campo anche nelle situazioni più difficili di cui tutti siamo grati.
La presenza italiana nei Balcani, in Africa, in Medio Oriente non solo non solleva obiezioni politiche, ma anzi riscuote un apprezzamento trasversale nei nostri schieramenti e si traduce nel sostegno al disegno di legge in discussione, nella Pag. 57consapevolezza che proprio in alcune di queste aree il nostro paese può esercitare un ruolo di protagonismo politico vero ed efficace.
È di straordinaria e drammatica attualità il tema del Mediterraneo. È stata citata la situazione in Medio Oriente ed è auspicabile che si rafforzi l'iniziativa preannunciata dal Governo. Non possiamo nascondere che il punto più critico riguarda la nostra presenza in Afghanistan. A questo proposito, è importante la cornice politica rappresentata dalla mozione sottoscritta da tutte le forze dell'Unione, che evidenzia i legami tra sicurezza, democrazia e sviluppo e che collega indissolubilmente il ricorso allo strumento militare a criteri di legittimità, in un quadro di legalità internazionale.
Rispetto i dubbi, il disagio politico e il dissenso motivato, che non può essere trasformato in caricatura, emerso in alcuni settori della nostra maggioranza, ma ritengo che sarebbe un grave errore politico mettere sullo stesso piano la missione in Iraq e quella in Afghanistan. Ciò significherebbe sottovalutare la svolta politica di questo Governo e ciò che si sta realizzando in politica estera.
In conclusione, credo che il disegno di legge predisposto dal Governo rappresenti un punto d'equilibrio credibile tra l'esigenza di un cambiamento di linea politica rispetto a scelte non condivise e la necessità di dare seguito agli impegni assunti dall'Italia in sede internazionale, per contribuire alla costruzione della stabilità e della pace in una cornice di piena legalità. Così com'è essenziale che questa assunzione di responsabilità sia sostenuta, sia pure con motivazioni e sensibilità diverse, da tutte le forze che compongono la maggioranza (Applausi dei deputati del gruppo de L'Ulivo).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Osvaldo Napoli. Ne ha facoltà.
OSVALDO NAPOLI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, sono trascorsi quasi cinque anni da quando, il 7 ottobre 2001, prese avvio l'operazione Enduring freeedom (libertà duratura). Due giorni dopo, il 9 ottobre, il Parlamento espresse il suo voto favorevole all'invio di militari e navi per sostenere il duplice impegno dell'Italia, con altre decine di nazioni del mondo libero, in due distinte missioni. Da un lato, Enduring freedom, la grande coalizione messa in piedi da Washington e Londra all'indomani dell'11 settembre per contrastare il terrorismo. Dall'altro lato, la missione ISAF con compiti più mirati - ma non per questo meno circoscritti - di stabilizzazione e di sicurezza in Afghanistan.
Il voto del Parlamento fotografò una situazione abbastanza chiara. La sinistra radicale si dissociò dall'ampia maggioranza che diede il via libera alla missione italiana. Quando, alcuni mesi dopo, si rafforzò il contingente italiano con l'invio degli alpini, si ripeté, nelle Camere, lo stesso schema, con qualche sofferenza in più tra i Democratici di Sinistra, anche se, alla fine del dibattito, e grazie all'astensione incrociata dei due schieramenti sulle rispettive mozioni, il Parlamento confermò gli impegni assunti dall'Italia sulla scena internazionale.
Nei cinque anni trascorsi, il nostro paese ha saputo mantenere fede agli impegni liberamente, e con grande convinzione, assunti nel consesso delle democrazie e di fronte al mondo libero. La partecipazione dell'Italia alle due missioni in Afghanistan è avvenuta con l'assunzione di un considerevole impegno di uomini, di mezzi e di risorse. Essa ha comportato non pochi sacrifici in termini di vite umane, così come è accaduto per le altre missioni di stabilizzazione e di pace (da ultima, quella in Iraq), sempre offrendo al mondo, in Iraq o Afghanistan, l'esempio dei nostri soldati, animati da abnegazione, umanità e professionalità.
Il Governo Berlusconi ha sviluppato, in questi cinque anni, una linea di politica estera che ha guadagnato al paese prestigio e considerazione sulla scena internazionale. Da quella linea non si può oggi tornare indietro, o denegare, senza, con ciò stesso, compromettere l'immagine e la credibilità dell'Italia.Pag. 58
Questa mia affermazione è tanto vera al punto che oggi siamo qui, in questa Assemblea, per esprimere un voto di continuità rispetto agli impegni solennemente assunti, e più volte confermati, con i nostri alleati. Tanto è importante il voto che il Parlamento è chiamato ad esprimere da aver scosso, fin dalle fondamenta, la maggioranza malcerta ed esigua che sostiene l'Esecutivo in carica.
Mi permetta il Presidente Prodi, ma vorrei osservare che egli ha condotto la sua maggioranza ad un bivio politico drammatico, superato il quale, come auspico nell'interesse del paese, non viene tuttavia meno nessuna delle incognite che si addensano sul futuro del suo Governo. Dopo aver rassicurato fumosi ed alquanto generici impegni di discontinuità nel corso della campagna elettorale, infatti, egli si trova di fronte al primo serio impegno del suo Esecutivo, per assolvere il quale non ha altra scelta se non quella, limpida e sicura, che viene da una forte continuità con le decisioni, chiare e vincolanti, assunte dal Governo precedente.
Mi riferisco non alla vocazione vendicativa della realtà, o alla replica dei fatti più forte del velleitarismo fin qui mostrato, dal suo Esecutivo, sul terreno insidioso della politica estera, ma all'inadeguatezza degli strumenti prescelti e delle posizioni sostenute sia da lei in prima persona, signor Presidente del Consiglio, sia da numerosi suoi ministri.
Ciò al punto che i vertici istituzionali, innovando in modo alquanto irrituale rispetto ad una prassi consolidata, si sono spesi nel dibattito politico per ricordare a lei, signor Presidente del Consiglio dei ministri, a quali rischi espone il suo Esecutivo in assenza di una autonoma maggioranza in politica estera.
Le parole del Presidente della Repubblica sulla sopravvivenza, a sinistra, di gruppi e componenti «anacronistici» possono rientrare, compiendo qualche sforzo, nella sfera del potere di esternazione del Capo dello Stato, sia pure con una punta di irritualità, dal momento che le affermazioni di Napolitano, riferite nell'intervista rilasciata alla Frankfurter Allgemeine Zeitung (ma precedute da altre dello stesso tenore), prefigurano una qualche forma di tutela istituzionale rispetto all'incerta e vacillante linea di politica estera del Governo. Si tratta di una circostanza decisamente nuova, sulla quale sarà bene riflettere il giorno in cui si potrà riprendere, con animo rasserenato, il processo di riforme costituzionali.
Non nascondo, invece, il mio stupore rispetto alle parole pronunciate dal Presidente della Camera. Il suo richiamo alla maggioranza affinché non faccia venir meno la sua coesione sulla politica estera, infatti, è una lesione ai doveri del suo ufficio di Presidente di una Assemblea parlamentare.
L'onorevole Bertinotti ha agito come un leader politico, mettendosi ben al di sotto delle parti rispetto al ruolo di Presidente della Camera dei deputati. Bertinotti e Napolitano sono intervenuti, dunque, in soccorso di una maggioranza, consapevoli che il suo venir meno sulla vicenda afgana non potrebbe rimanere senza conseguenze sul piano politico.
Ecco dunque, onorevole Prodi, un primo grave danno del suo Governo: aver costretto i vertici istituzionali ad esporsi nella battaglia parlamentare, per supplire alle inadeguatezze e alle insufficienze della maggioranza - come con grande onestà intellettuale ha riconosciuto ieri il sottosegretario Enrico Letta -, mettendo in qualche misura a rischio lo stesso ruolo di garanzia dei vertici istituzionali.
La Casa delle libertà non abbandona i militari italiani in Afghanistan. Noi ci siamo assunti la responsabilità il 9 ottobre 2001 di aiutare il popolo afghano a ritrovare la via della libertà dal terrorismo e la via della democrazia. Noi siamo pronti a sostenere con il nostro voto gli afghani nella ricerca, ancora difficile e lunga, della stabilità politica e dell'organizzazione civile del loro paese. Il ministro degli affari esteri ha ritenuto qualche giorno fa di evocare la possibilità di una missione internazionale di tregua in Medio Oriente. Ritengo, se ho ben capito le parole dell'onorevole Pag. 59D'Alema, che l'Italia potrebbe proporsi come protagonista attiva di questa nuova missione.
Credo che il ministro, venendo meno al suo tratto di uomo prudente, abbia lanciato un sasso molto in alto. Una missione di tregua, o di interposizione in Medio Oriente, non potrebbe non avvenire se non con l'assenso pieno e convinto di Israele, cioè di uno Stato democratico libero e sovrano, e non potrebbe realizzarsi se non sulla base di un presupposto di chiarezza: da un lato ci sono gli aggressori, cioè gli Hezbollah, dall'altro c'è uno Stato democratico aggredito, cioè Israele. È il punto di maggior chiarezza fissato nelle conclusioni del vertice G8 a San Pietroburgo, sia pure nella provvisorietà propria di un vertice, che si pronuncia su avvenimenti drammatici in svolgimento. In un sol colpo sono stati cancellati decenni di ambiguità diplomatiche e di contorsioni politiche. Non ci sono più letture e filtri ideologici per la situazione medio-orientale. Non c'è più spazio, onorevole D'Alema per contorcimenti che sfociano in improbabili posizioni di equivicinanza o di equidistanza, un metro di giudizio che pone le vittime sullo stesso piano degli aggressori: uno Stato democratico, Israele, sullo stesso piano di un'organizzazione criminale e genocidi, come Hezbollah.
L'Italia si è lasciata alle spalle una stagione troppo lunga di politica estera segnata da ambiguità e ipocrisie pelose, solidarietà più o meno imbarazzate verso il popolo israeliano, sempre al centro di aggressioni nei 58 anni di vita del suo Stato. Un silenzio dilagante e omertoso da parte di molti dei nostri Governi - con l'eccezione del Governo Berlusconi e, nel passato, del Governo Spadolini -, timorosi sempre di urtare la sensibilità di un'infima minoranza radicale ed estremista, che sapeva e sa tuttora occupare la piazza e la ribalta mediatica. È in questo terreno scivoloso, fatto di silenzi o di omertà, che ha potuto attecchire nel tempo una forma nuova e più insidiosa di antisemitismo. È quell'antisemitismo che si maschera di solidarietà all'apparire di una svastica nel ghetto di Roma - episodio deprecabile quant'altri mai, e mai troppo deprecato! -, ma è pronto a scattare come un sol uomo quando si tratta di criticare lo Stato di Israele ed accusarlo delle peggiori nefandezze.
Signor Presidente, lei si è fatto purtroppo interprete di questa irrisolta contraddizione di fondo della politica italiana nei confronti dello Stato di Israele.
PRESIDENTE. Onorevole Osvaldo Napoli, la invito a concludere.
OSVALDO NAPOLI. Un minuto e ho finito. L'onorevole Deiana, Presidente, ha parlato 8 minuti in più del tempo a sua disposizione. Le chiedo scusa, ma ho proprio poche righe per concludere.
Lei si è fatto purtroppo interprete di questa irrisolta contraddizione di fondo della politica italiana nei confronti dello Stato di Israele. Chiamare sul banco degli accusati lo Stato israeliano, come lei ha fatto, per una reazione sproporzionata, ignorando l'azione criminale specifica degli Hezbollah e la sua perdurante aggressione contro i villaggi civili israeliani da parte dell'area del sud del Libano, è stato quanto meno un azzardo politico, ma sicuramente un passo falso sul piano diplomatico. Questo ramo del Parlamento è dunque chiamato a dare un voto di conferma ad una linea di politica estera, che non nasce oggi e non nasce soprattutto da una scelta improvvisata.
La capacità dell'Italia di essere presente sulla scena internazionale per svolgere un ruolo, da tutti riconosciuto, di solidarietà e di sicurezza per le popolazioni civili, vittime di conflitti, è una questione più grande delle divisioni politiche e delle laceranti incertezze della sua maggioranza. Per questa ragione la Casa delle libertà è pronta a dare il proprio contributo decisivo, sul piano politico prima che su quello dei numeri, per salvaguardare il ruolo ed il prestigio del nostro paese.
La Casa delle libertà e Forza Italia hanno la coscienza chiara e forte delle responsabilità cui è chiamato il nostro paese perché noi, per primi, abbiamo assunto l'impegno solenne con il popolo Pag. 60afghano e con i nostri alleati. Da quella responsabilità non fuggiremo, intendiamo confermarla senza esitazioni né incertezze, ma nella doverosa chiarezza delle posizioni e dei ruoli tra Governo ed opposizione (Applausi dei deputati del gruppo di Forza Italia).
PRESIDENTE. Onorevole Osvaldo Napoli, lei ha parlato due minuti oltre il tempo a sua disposizione, come la collega Deiana; adesso non compenseremo più con nessun altro collega. È iscritto a parlare l'onorevole Allam. Ne ha facoltà.
KHALED FOUAD ALLAM. Onorevoli colleghi, onorevole Presidente della Camera, vi si sono certo diverse letture della questione afghana e della nostra missione in Afghanistan. Non mi soffermo sul fatto che dobbiamo rispettare i nostri impegni internazionali e che un paese come il nostro deve sapersi definire nella complessità del mondo odierno, evitando le tentazioni pericolose di un isolazionismo che si fonda sulla filosofia del rifiuto di qualunque intervento. In ogni caso, io che vi parlo studio da quasi vent'anni la questione del radicalismo nell'Islam contemporaneo e ho vissuto le prime fasi del fondamentalismo in Algeria all'inizio degli anni Ottanta. Mi sento dunque, emotivamente, oltre che politicamente, coinvolto in questa vicenda.
La questione afghana va ben oltre la peculiarità di quell'angolo del mondo, delle sue caratteristiche etniche, culturali e geografiche perché esiste una grande questione afghana che sarà il banco di prova su cui si giocheranno i destini del mondo. Ciò, perché il mondo del post 11 settembre è nato proprio lì e perché è lì che il radicalismo islamico ha sperimentato la sua veste politica, vale a dire il nuovo totalitarismo del ventunesimo secolo.
Vorrei ricordare che l'occupazione talebana aveva sostituito la dicitura Stato afghano con la parola Emirato. Ovviamente, non ho nulla contro gli Emirati, ma quella sostituzione lessicale mostra chiaramente come i talebani opponessero due ordini, due codici politici: il loro, fondato su un'interpretazione iperigorista della shari'a e quello di uno Stato fondato sulla libertà e la democrazia. Il lessico arabo non è privo della nozione di Stato: esiste la parola dawla, che in arabo significa Stato. Ma essi, giocando su un cambiamento del linguaggio politico, definivano, in realtà, la loro rappresentazione del mondo, un mondo chiuso in se stesso, un mondo senza sorriso, un mondo che si autodefinisce virtuoso. Vorrei ricordare anche in questo caso che sotto l'occupazione talebana il ministero della cultura fu sostituito da un ministero delle virtù; abbiamo visto, in seguito, in che cosa consistesse la virtù talebana. Un totalitarismo improntato ad un Islam che dimenticava totalmente l'uomo, su una rigidità comportamentale, individuale e collettiva, che non aveva nulla da invidiare a quel totalitarismo sovietico, così ben descritto da Solgenitzin.
Oggi, dunque, esiste una grande questione afghana ed esiste una linea di confine geopolitica e, ovviamente, culturale fra i difensori delle libertà e coloro che le negano.
L'Afghanistan ha segnato e segnerà il nostro ingresso nel post guerra fredda e so bene che tale ingresso è segnato oggi dall'irruzione di una violenza inedita, violenza che troppo spesso colpisce le popolazioni civili. Ma proprio perché quella violenza sta segnando la nostra storia è dovere di uno Stato, che ha firmato degli accordi internazionali, fare di tutto per impedire che l'Afghanistan sia inghiottito da quella violenza.
Che cosa vogliono ottenere i talebani con la loro strategia? Intendono conquistare il monopolio della violenza per inghiottire quello Stato e costruire un ponte verso altre entità come, ad esempio, la Somalia di oggi o altre aree del mondo dove il terrorismo di matrice islamica potrà ritmare la cadenza del modo, dove tenterà di uccidere la libertà, sostituendo l'ordine mondiale con la tirannia devastante della loro ideologia.
La questione afghana è la grande questione della nostra epoca e vorrei ricordare qui, in quest'aula, per chi lo avesse Pag. 61dimenticato, le tragiche immagini dell'ostaggio di Kabul, i riti di morti collettive, le donne lapidate e l'immagine che ha girato il mondo intero, quella della donna di cui non vedremo mai il volto, fucilata a bruciapelo come si abbattono gli animali, i cani.
Se dovessi votare il provvedimento in esame anche per salvare solo una donna, solo un uomo, solo un bambino, lo farei, cari colleghi. Non ho alcun dubbio, e non amo la guerra, ma fra l'oppressione, la tirannia e la libertà scelgo la libertà e chi aiuta a farla crescere, a conquistarla, a proteggerla.
Non vi parlo nemmeno delle strategie dei talebani, in maggioranza appartenenti alla tribù dei pashtun, in cui è presente il sogno di riunire i dodici milioni di pashtun divisi fra il Pakistan e l'Afghanistan; non vi parlo del traffico internazionale della droga, di cui i talebani si sono fatti maestri. Insisto unicamente sui destini della libertà, sul pericolo che incombe sul mondo e sul ruolo e la responsabilità che la comunità internazionale ha di fronte a chi, volendo instaurare un nuovo totalitarismo, minaccia anche il difficile tentativo del mondo musulmano, un mondo in totale crisi, di costruire il suo spazio democratico, di tentare un approccio alla libertà e alla convivenza civile (Applausi).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Della Vedova. Ne ha facoltà.
BENEDETTO DELLA VEDOVA. Signor Presidente, signor viceministro, ciò che accade in queste ore, l'attacco concentrico delle forze terroristiche alla democrazia israeliana, fa sì che il dibattito in corso venga sottratto definitivamente ai sofismi in cui le forze della maggioranza si sono asetticamente esercitate per settimane, nell'unico intento di trovare un accordo in cui non solo ciascuna forza politica dell'Unione - etichetta che oramai suona quanto mai grottesca - ma ciascun singolo deputato e senatore potesse riconoscere anche la propria posizione per poter non votare contro.
Iraq, Afghanistan, Israele, Iran, Siria, Libano, e poi Al Qaeda, Hezbollah, Hamas formano un unico puzzle che va affrontato con un'unità di intenti e di decisioni. Non è possibile continuare con i sofismi lessicali, ma è necessario scegliere il campo in cui militare, con i costi che ciò comporta.
Cosa sceglie il Governo italiano? Il campo della libertà e delle democrazie minacciate, democrazie consolidate come quella israeliana o nascenti come quella irachena e afghana, o quello delle forze e dei paesi che hanno interesse alla destabilizzazione terrorista?
Non intendo disconoscere le ragioni della diplomazia, per carità, ma confesso di non aver capito cosa significhi «equivicinanza», come non capisco come sia possibile che il Presidente del Consiglio italiano chiami in causa come mediatore nella crisi israeliana - e la smentita è arrivata troppo debole e troppo tardi - quell'Iran il cui Presidente vuole cancellare lo Stato ebraico dalle cartine geografiche. Oggi, innanzitutto, si sta con Israele o contro Israele. La Casa delle libertà è stata ed è con Israele; l'Unione non si sa o non si capisce con chi stia. Ciò è inevitabile. Quando la politica estera cessa di riflettere gli obiettivi e le strategie internazionali di un paese, per diventare una delle tante camere di compensazione degli equilibri di potere interni alla maggioranza, un paese cessa, di fatto, di avere una politica estera e un grande paese non può e non deve permettersi ciò. E, soprattutto, non può permetterselo quando, sulla base di impegni assunti nell'ultimo decennio, è impegnato con personale militare e civile in diversi scenari di crisi, perché così non si mette solo a repentaglio la credibilità delle politiche e l'autorevolezza delle istituzioni ma anche e, in special modo, la stessa sicurezza del paese.
Nella maggioranza si fronteggiano posizioni tra loro inconciliabili e non vi è nulla in comune né mediazione possibile fra chi ritiene che si stesse meglio nell'Afghanistan dei talebani, di cui ci ha parlato il collega Khaled Fouad Allam, o comunque non ci si dovesse immischiare nella vicenda afghana nell'unico modo possibile, Pag. 62quello militare, e chi vorrebbe, invece, mantenere l'ancoraggio atlantico, occidentale, democratico della politica internazionale italiana.
Una politica estera e internazionale non si fa mediando fra queste posizioni inconciliabili, ma scegliendone responsabilmente una. Invece, voi siete - qui noi tutti siamo - a discutere in che forma e a che prezzo un Governo possa onorare le cambiali elettorali accese alla sinistra antagonista antioccidentale, mantenendo, tuttavia, una qualche forma di solidarietà atlantica.
Avete, lo dico ai più «occidentali» della maggioranza - un Presidente del Consiglio che, a proposito dell'intervento italiano in Iraq, parlò di partecipazione alla guerra di occupazione.
Avete usato, qualcuno di voi suo malgrado, ne sono certo, la peggiore propaganda antiamericana per arruolare l'esercito elettorale delle piazze pacifiste, ma ora i nodi vengono al pettine e i conti vanno all'incasso.
Lo stesso tentativo che fate per distinguere la natura della missione italiana in Afghanistan da quella in Iraq è qualcosa di penoso, francamente parlando. In entrambi i casi, l'impegno italiano, che nessuno ha mai immaginato a tempo indeterminato, è volto ad assicurare il successo di una transizione democratica avviata ma non completata e minacciata dalla violenza di quanti vorrebbero ripristinare lo status quo ante o peggio. In entrambi i casi, la presenza italiana è necessaria al mantenimento dell'ordine e della sicurezza; in entrambi i casi, colleghi, la presenza italiana - non il complesso della vicenda bellica ma la presenza italiana sicuramente sì - adempie ad un mandato esplicito delle Nazioni Unite; in entrambi i casi, gli interlocutori politici ed istituzionali del nostro paese sono Governi legittimi e affidati, per la loro stessa sopravvivenza, al sostegno politico e militare di paesi liberi e democratici.
In Iraq come in Afghanistan, se combattiamo - come dite - una guerra, combattiamo quella che il fanatismo islamista, nazionalista e terrorista ha dichiarato al popolo afghano e iracheno e alle sue istituzioni in primis (in fondo, la guerra che il fanatismo islamista combatte contro l'Occidente libero). Sapete spiegare con una qualche coerenza perché, uscendo dall'Iraq, non dovremmo, per le stesse identiche ragioni, uscire dall'Afghanistan e, magari, dai Balcani o perché, al contrario, la nostra presenza in Afghanistan sarebbe più difendibile in termini politici e militari di quella in Iraq?
Sapreste spiegare per quale ragione il superamento - il termine vi piace molto - dell'impegno militare in Afghanistan a cui alludete debba, giustamente, essere concordato e governato in una prospettiva multilaterale e negoziale con gli alleati e le autorità politiche del paese e, invece, a Baghdad possa essere tale superamento imposto agli uni e agli altri come un fatto compiuto?
Forse perché in Iraq la situazione è - credo lo sia solo apparentemente - più difficile anche dal punto di vista militare, nel senso che il paese si trova sul crinale tra la stabilizzazione improntata ad un sistema democratico e il caos voluto dai terroristi antiiracheni prima che antioccidentali?
Perché la responsabilità è apparentemente maggiore e sicuramente maggiore è l'attenzione dei media? È questo che vi spaventa? È per questo che decretate una vera e propria fuga dalle responsabilità che abbiamo assunto?
È questo che intendono accettare tutte le forze della maggioranza, anche quelle che hanno sempre creduto nella necessità di una presenza occidentale, anche - in alcuni casi soprattutto - militare in favore della democrazia in Iraq e hanno denunciato il pericolo insito in un fallimento del regime change, del dopo Saddam? E, se le cose peggiorassero anche in Afghanistan, e quindi la nostra presenza militare diventasse ancora più necessaria al Governo legittimo, fuggiremo subito anche da lì?
In tutto questo, in più, pretendete di dare lezioni. La vostra politica estera tornerebbe - dite - ad essere multilaterale e diplomatica, dopo essere stata unilateralmente militare per il Governo che vi ha Pag. 63preceduto. La vostra politica estera - aggiungete - ha il proprio ancoraggio nell'ONU e nelle istituzioni europee.
Al di là della retorica e delle falsità contro la politica del Governo precedente, occorre precisare non solo quale sia la logica, più o meno multilaterale, ma anche quale sia il contenuto e l'obiettivo della politica internazionale del nostro paese. Il multilateralismo, la delega all'ONU non sono, di per sé, una soluzione, anzi il contrario, come la storia ci insegna.
Lo sapete, del resto, perché è passato meno di un decennio, che fu solo grazie all'unilateralismo americano, della NATO e anche italiano ed europeo in quel caso, che un intervento militare osteggiato in sede ONU dalla Russia salvò i musulmani kosovari dallo stesso destino a cui il protettorato ONU sui campi profughi consegnò i musulmani bosniaci: l'ONU li teneva fermi, mentre Karadzic e Mladic li massacravano. Adesso voi pensate a forze di interposizione sotto la bandiera dell'ONU in Libano e anche a Gaza.
Anche in questo caso lo strumento nella sua retorica - non so nella sua efficacia - è chiaro, ma i fini non lo sono. Volete andare lì per disarmare le fazioni di Hamas e Hezbollah e quindi per impedire che Israele venga bombardata e non abbia bisogno di reagire militarmente? Oppure volete andare lì per accerchiare anche politicamente, con la bandiera dell'ONU, il territorio di Israele, continuando a pontificare sulla sproporzione delle sue reazioni? Volete fare della nostra politica estera una dependance politica e diplomatica, non dico e non direi mai di Hezbollah o di Hamas, ma della lega araba forse sì? Non è il tempo - e concludo signor Presidente - dei compromessi, ma quello della chiarezza. Se il vostro unico orizzonte possibile è il primo, cioè quello dei compromessi, al vostro interno e indipendentemente da ciò che succede nel mondo, traetene la conseguenze il prima possibile. Lo hanno detto in molti e lo ripeto: non si governa oggi un grande paese senza una politica internazionale; è un lusso che gli italiani non possono permettersi (Applausi dei deputati del gruppo di Forza Italia).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Scotto. Ne ha facoltà.
ARTURO SCOTTO. Signor Presidente, signori deputati, la mozione parlamentare presentata dall'Unione segna uno spartiacque decisivo con questi ultimi anni di politica estera del paese. L'Italia rientra in Europa, rifiutando in maniera definitiva la logica che aveva animato la dottrina della guerra preventiva, portatrice di lutti e di errori, sia sul piano militare sia dal punto di vista della strategia geopolitica. L'Europa torna al centro della politica estera italiana, perché con la scelta di ritirare le truppe dall'Iraq nel prossimo autunno ci riconnettiamo a quei paesi, Francia, Germania, Spagna, che prima di noi, con modalità differenti, avevano rifiutato l'idea che la guerra fosse l'unico strumento per contenere il fenomeno crescente del terrorismo fondamentalista, che dopo l'11 settembre aveva destabilizzato relazioni internazionali, agende economiche dei paesi e la stessa quotidianità dei cittadini.
Ma come fanno i colleghi del centrodestra a non vedere che l'impianto della dottrina dei neoconservatori americani - alcune eco le sentivo anche nell'intervento di chi mi ha preceduto - nonché l'esplicito richiamo al conflitto di civiltà hanno condizionato inequivocabilmente il delicato rapporto su cui regge l'equilibrio tra noi e il resto dei paesi, che provengono da un passato di colonizzazione e che oggi vivono con maggiore preoccupazione e criticità i processi di globalizzazione economica? Di chi è figlia la follia antisionista ed espansionista del Presidente iraniano Ahmadinejad? Da dove proviene la vittoria di Hamas in Palestina? Perché, a cinque anni dall'11 settembre, le nostre città, le nostre metropolitane, i nostri luoghi di socialità sono sempre più percepiti come insicuri? Questo inevitabilmente finisce per restringere gli stessi spazi democratici. L'Italia oggi ripristina pienamente il dettato dell'articolo 11 della Costituzione, come avevano Pag. 64chiesto gli straordinari movimenti pacifisti, capaci di mobilitare milioni di donne e di uomini su un messaggio chiaro: mai più la guerra sostituisca la diplomazia! Mai più la guerra surroghi il diritto internazionale! Mai più la guerra scavalchi gli orientamenti delle Nazioni Unite! Mai più la guerra giustifichi inferni di tortura come Guantanamo e Abu Graib.
Dunque, il rientro dei militari italiani dall'Iraq è un grande fatto politico, che non può essere coperto dalle difficoltà che pure in queste settimane sono emerse sull'altro capitolo rilevante del provvedimento sulle missioni: cosa fare in Afghanistan.
Non possiamo nascondere che a Kabul i ritardi nel consolidamento delle infrastrutture civili e democratiche, nella riconversione delle colture dell'oppio, nella costruzione di un tessuto solido che tenga insieme società religiosa e società politica, nel rispetto dei diritti umani a partire dal ruolo della donna, siano tanti ed evidenti. Tuttavia, sarebbe un errore - e lo ritengono tale anche quei parlamentari critici dell'Ulivo che già nella scorsa legislatura avevano in più passaggi manifestato contrarietà alla partecipazione italiana a Enduring Freedom - scegliere di far uscire il nostro paese da un contesto multilaterale dove le principali nazioni europee svolgono un ruolo non solo militare, ma anche di ricostruzione di relazioni civili e di solida assistenza sociale. La mozione prevede che entro un tempo ragionevolmente breve l'Italia possa porre in sede ONU e NATO una valutazione rigorosa sull'efficacia della missione afghana senza escludere che, in un quadro di normalizzazione e pacificazione del paese, venga affidata al Governo legittimo di Kabul la responsabilità del controllo del territorio e del mantenimento della pace.
Concludendo, voglio solo aggiungere che il ritorno dell'Italia in Europa consente al nostro paese di far sentire con più forza ed autorevolezza la propria voce, in queste ore drammatiche, lì a Gaza, a Beirut, a Haifa, dove si stanno consumando scenari di guerra ed emergenze umanitarie incalcolabili. Israele sta vivendo un dramma enorme con il sequestro dei propri militari e gli attacchi di Hezbollah sul proprio territorio nazionale. Tuttavia, in questo caso ha ragione il Governo, il nostro ministro degli esteri, e lo stesso G8: la reazione dell'esercito israeliano su Gaza e Beirut è sproporzionata e va immediatamente predisposto il «cessate il fuoco» prima che la crisi precipiti irrimediabilmente. La pace non è solo assenza di guerra, la pace è uno spazio pieno, dove la democrazia, la tolleranza, il dialogo, la cooperazione riescono a costruire le basi per un rapporto nuovo fra i popoli e gli Stati (Applausi dei deputati del gruppo de L'Ulivo).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Tucci. Ne ha facoltà.
MICHELE TUCCI. Signor Presidente, signor rappresentante del Governo, onorevoli colleghi, è del tutto evidente che, nel quadro della politica estera espresso dal Governo di centrodestra, anche la missione in Afghanistan si è mossa nella direzione di una nuova, accresciuta responsabilizzazione del grande processo di sicurezza globale che deve imporre a tutti di essere parte attiva e dinamica nella salvaguardia del bene comune. Di questa politica le nostre Forze armate sono state e devono continuare ad essere uno strumento essenziale, cui dobbiamo molto anche in termini di coerenza e di rispetto, preservandole dagli effetti delle divisioni strumentali e delle contraddizioni ideologiche.
Con grande impegno e con qualificata professionalità i nostri soldati hanno conquistato rispetto, prestigio e finanche la simpatia e l'affetto delle popolazioni civili, assumendo sempre più ruolo e responsabilità nonostante le complesse condizioni in cui si è svolto il loro mandato. Di questo noi diamo atto, di questo noi siamo grati, di tutto ciò siamo legittimamente orgogliosi.
Oggi, però, i soldati italiani, ignorati completamente dal dibattito in corso sul rifinanziamento delle missioni, rappresentano i veri convitati di pietra, che assistono Pag. 65impotenti ai pericolosi e deleteri contorsionismi del Governo Prodi. Tutti i nostri militari, tanto coloro che sono ancora lì, quanto quelli che sono eroicamente caduti nell'adempimento del proprio dovere, meritano un maggiore rispetto anche dal Governo Prodi, oltre che una migliore considerazione per l'immagine che hanno dato del nostro paese.
Il consenso, l'adesione verso le missioni umanitarie internazionali trascende dalle collocazioni di parte e dagli interessi di politica di schieramento. Si tratta di scegliere, consapevoli delle responsabilità internazionali che incombono sul nostro paese, il senso del dovere verso lo Stato, il senso della patria, la solidarietà che abbiamo sempre espresso per tutte le popolazioni civili. Ecco, è questo il sistema dei valori al quale facciamo riferimento come elemento fondamentale del nostro impegno politico: quel comune senso dei valori che certamente non appartiene alla composita e contraddittoria maggioranza che in questa fase guida il governo del paese.
Soprattutto sull'Afghanistan, ma non solo, il centrosinistra ha offerto uno spettacolo penoso, frutto non solo di profonde divisioni interne, ma anche di ipocrite convenienze di parte. La nostra scelta, quella espressa pubblicamente e lucidamente dal presidente Casini, rappresenta un atto di responsabilità nazionale che neanche una concezione primitiva e irresponsabile del bipolarismo può indurre a modificare. Noi abbiamo espresso la nostra posizione con tempestività e chiarezza ed oggi prendiamo atto con soddisfazione che tutta la Casa delle libertà si ritrova in una posizione di grande responsabilità verso la nazione e i nostri militari, ma anche verso la comunità internazionale, che non ha mai fatto mancare il proprio apprezzamento per il ruolo significativo e positivo che il nostro paese ha fin qui avuto nel processo di pace. Abbiamo registrato come il ministro degli esteri D'Alema, intimamente conscio degli effetti devastanti per le prese di posizione irresponsabili emerse all'interno della maggioranza di Governo, si sia affannato ad affermare che non vi era alcun problema all'interno delle forze di maggioranza sulla politica estera. Ma abbiamo soprattutto registrato come prontamente l'onorevole Diliberto, in buona e numerosa compagnia, lo abbia ripetutamente e freddamente smentito, ricordando a lui e a Prodi - non certamente all'UDC e alle altre forze del centrodestra - di avere sempre votato contro la presenza militare italiana in Afghanistan.
D'altra parte, in che modo mai potrebbe giustificare davanti ai suoi elettori un così radicale cambiamento di posizioni proclamate con tanta veemenza in tutte le piazze d'Italia? Quelle stesse posizioni che hanno fatto guadagnare a Prodi un gruzzolo di voti, forse anche decisivo e determinante per la vittoria delle elezioni politiche da parte di quell'elettorato di marca pacifista. Questo è il punto centrale del contendere, un punto che aiuta a comprendere innanzitutto perché la sinistra radicale abbia ottenuto una significativa vittoria nella definizione della linea politica internazionale del Governo Prodi. La sinistra antagonista è riuscita ad imporre un compromesso tutt'altro che al ribasso. La missione, seppur rifinanziata con questo voto, viene svuotata del suo significato strategico e geopolitico. Escono così sconfitti coloro che, come D'Alema - che, voglio ricordare a me stesso, è pur sempre l'attuale ministro degli esteri -, avevano annunciato un rafforzamento dell'impegno italiano in Afghanistan, preparando invece la strada al disimpegno italiano dal coinvolgimento come protagonista di primo piano nella lotta al terrorismo islamico al fianco degli Stati Uniti d'America.
In politica estera non servono, per coprire la sconfitta di Prodi e del suo Governo, le dichiarazioni rese nelle ultime ore da lui e da D'Alema sulla partecipazione dell'Italia ad una forza di interposizione nel Libano e a Gaza all'interno della crisi israeliana. Resta forte in noi, invece, la preoccupazione di un possibile ridimensionamento del ruolo internazionale del nostro paese, con conseguente perdita, questo sì, di credibilità politica. Allora, appare chiaro come la sinistra radicale voglia determinare le condizioni Pag. 66dell'uscita dell'Italia dalla NATO, un traguardo cui ancora oggi non rinuncia, nonostante il compromesso sul voto odierno. Non c'è altro senso nelle reiterate richieste di un disimpegno in Afghanistan, dove pure siamo sotto l'egida della NATO e grazie ad una risoluzione dell'ONU. La sinistra radicale, tradendo la storia del nostro paese, vorrebbe un'Italia neutralista, soltanto perché questa rappresenterebbe l'unica via per rivedere e ricontrattare il ruolo del nostro paese in tutti gli organismi internazionali, compresa magari anche la Comunità europea. Sembra di capire che la posizione che assume il Governo in relazione alla nostra presenza in Afghanistan sarà elastica ed ingannevole pur di soddisfare la sinistra radicale; per questo appare particolarmente ambigua la posizione definita in sede di Governo.
Il dato che emerge è, ancora volta, una situazione di perenne affanno di una maggioranza che deve nascondere le proprie lacerazioni dietro un gioco di parole, in un esercizio di acrobazia condotto sul filo della crisi, con l'incubo di ogni votazione già tra gli stessi componenti dell'esecutivo, divisi tra riformisti moderati e sinistra radicale: una convivenza che risulterà sempre più nociva per il paese, per la sua storia e per la sua prospettiva politica all'interno del processo di stabilizzazione e di pace.
Signor Presidente, signor rappresentante del Governo, il nostro obiettivo - quello dell'UDC - non è mai stato soccorrere né una maggioranza, che è - e rimane -, nonostante questo voto, insufficiente prima ancora sul piano politico che su quello numerico, né un Governo costretto a navigare a vista, senza alcuna prospettiva credibile e di lunga durata. Si tratta di una maggioranza che fa tutto da sola, persino l'opposizione a se stessa sulla politica economica e sulla politica estera. Noi lo diciamo con chiarezza: se la maggioranza non avrà i voti necessari, ossia se non risulterà autosufficiente ed i nostri voti saranno determinanti, Prodi avrà il dovere morale e politico di dimettersi, e bene ha fatto il Capo dello Stato a sottolinearlo, dall'alto del suo ruolo istituzionale e di garanzia.
Onorevoli colleghi, un'opposizione non è condannata a dire sempre «no»: un'opposizione seria e responsabile ha il dovere di lavorare soprattutto nell'interesse del paese, non contro l'Italia, non contro gli italiani e meno che mai contro i nostri militari, come, invece, è successo, molto spesso, nella precedente legislatura da parte dell'allora opposizione. Non abbiamo mai pensato di strumentalizzare e penalizzare i nostri soldati, al solo fine di mettere in crisi una maggioranza inidonea a guidare il paese in un contesto temporale e politico così delicato. Noi abbiamo sostenuto, e continueremo a sostenere, le nostre missioni militari all'estero, facendo prevalere il senso di responsabilità istituzionale rispetto alle convenienze politiche di parte; proprio quel senso di responsabilità, onorevoli deputati, che pure dovrebbe accomunare il paese nelle grandi scelte di politica estera e che in noi è presente, tanto più - e soprattutto - quando è assente in chi ha la responsabilità di governare il paese [(Applausi dei deputati del gruppo dell'UDC (Unione dei Democratici Cristiani e dei Democratici di Centro)].
PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.
(Repliche dei relatori e del Governo - A.C. 1288)
PRESIDENTE. Ha facoltà di replicare il relatore per la III Commissione, onorevole Ranieri.
UMBERTO RANIERI, Relatore per la III Commissione. Signor Presidente, rinunzio alla replica.
PRESIDENTE. Sta bene, onorevole Ranieri.
Ha facoltà di replicare la relatrice per la IV Commissione, onorevole Pinotti.
ROBERTA PINOTTI, Relatore per la IV Commissione. Signor Presidente, anch'io rinunzio alla replica.
PRESIDENTE. Sta bene, onorevole Pinotti.
Ha facoltà di replicare il rappresentante del Governo.
UGO INTINI, Viceministro degli affari esteri. Signor Presidente, onorevoli deputati, tra ieri ed oggi - con le mozioni e con il presente provvedimento - si sono svolte oltre otto ore di discussione. Si è trattato di una discussione importante, in cui non si è fatta propaganda, ma si è tentato di approfondire gli argomenti. Ho ascoltato, ho preso nota ed ho imparato dagli interventi dei deputati della maggioranza e dagli interventi dei deputati dell'opposizione.
Svolgo anzitutto, una breve riflessione politica generale, che riguarda gli schieramenti. In qualunque paese normale, anche dove al Governo vi è non una coalizione di partiti, ma un solo partito, non il cento per cento di tale partito è d'accordo con il cento per cento della politica estera. Nel Regno Unito non il cento per cento del Labour Party è d'accordo con la politica irachena di Blair. Negli Stati Uniti non il cento per cento del Partito Repubblicano è d'accordo oggi con il multilateralismo di Condoleeza Rice, che apprezziamo, e non il cento per cento era d'accordo ieri con l'unilateralismo di Rumsfeld, che apprezzavamo molto meno. In qualunque paese normale, su una larga parte della politica estera sono d'accordo sia la maggioranza sia l'opposizione. Esattamente questa è la forza delle grandi democrazie: più largo è il consenso tra maggioranza ed opposizione, più uniti sono gli sforzi, più stabile ed autorevole è la politica estera di un paese.
Queste sono le ovvie considerazioni dalle quali iniziare. Anche l'Italia è un paese normale, anche in Italia, dunque, la maggioranza non è unanime su tutta la politica estera. La maggioranza e l'opposizione non sono pertanto divise su tutta la politica estera.
Passiamo alla sostanza del provvedimento: si finanziano quasi trenta missioni militari all'estero. L'impegno militare lontano dai confini è assolutamente normale per qualunque grande paese moderno, è routine. Nel mondo globalizzato nessun incendio può essere lasciato divampare senza che esso riguardi qualsiasi zona del mondo, senza che sia necessario l'intervento dei pompieri. L'impegno militare all'estero è, dunque, normale ed è importante; tuttavia sono più importanti l'impegno per lo sviluppo e l'impegno politico e diplomatico.
Noi riconosciamo questa gerarchia negli impegni all'estero; sappiamo che la statura internazionale di un paese non dipende dal peso del suo impegno militare, ma quest'ultimo, anche ciò sappiamo, è indispensabile. È indispensabile anche se non tutti gli impegni militari possono essere valutati sullo stesso piano. Anche tra gli impegni militari vi è una gerarchia, come ama ricordare l'onorevole Mantovani, e a ragione.
La filosofia dell'Italia in materia è molto semplice; noi preferiamo gli impegni multilaterali, le azioni militari di peace keeping, quando sono multilaterali, perché sono più neutrali, più legittimate e, quindi, più efficaci. Preferiamo dunque gli interventi sotto la guida diretta delle Nazioni Unite e vorremmo una capacità militare diretta delle Nazioni Unite stesse; ma non sempre ciò è possibile. Dunque, possiamo anche impegnarci nell'ambito delle alleanze tradizionali (la NATO o l'Unione europea), purché tali azioni siano promosse dalle Nazioni Unite, come appunto è avvenuto in Afghanistan. Non possiamo invece impegnarci al di fuori di tutte le alleanze tradizionali, e anche per questo ci ritiriamo dall'Iraq.
Dunque, anche la cornice, la forma degli interventi militari comporta una gerarchia: in cima si pongono le iniziative delle Nazioni Unite mentre, ad un livello minimo di efficacia e di accettabilità, si pongono quelle unilaterali.
La comunità internazionale interviene militarmente dunque nel mondo, ma purtroppo l'impegno non sempre è proporzionato alla gravità delle sofferenze umane; spesso è proporzionato piuttosto Pag. 68all'importanza strategica dell'area in cui si interviene: per tale ragione, in Africa, abbiamo avuto crisi con milioni di morti dimenticati da tutti.
Oggi, la maggioranza è molto sensibile a tale tema ed è perciò significativa l'intenzione di concorrere ad una missione in Darfur, che si auspica sia decisa il più presto possibile dalle Nazioni Unite.
Le nostre missioni sono di pace; il codice militare che deve essere applicato, dunque, è quello militare di pace, e non di guerra. Se mai sarà necessario, si potrà ammodernarlo per renderlo adatto alla nuova realtà delle missioni degli anni Duemila, una realtà impensabile quando, tanti decenni fa, si costruirono i codici militari attuali.
Il Governo vuole seguire una politica coerente, ed è coerente che ci si ritiri dall'Iraq rimanendo, però, in Afghanistan. Ciò, per la semplice ragione che l'Iraq non è l'Afghanistan e che in Iraq, per la prima volta dal dopoguerra, siamo intervenuti al di fuori di tutte le alleanze internazionali tradizionali, dalle Nazioni Unite alla NATO all'Unione europea: non era mai accaduto. In Afghanistan, invece, siamo intervenuti sotto l'egida della NATO, insieme a paesi come la Svezia e la Finlandia che, pur non facendo parte di tale organizzazione, sono tuttavia noti per il loro impegno umanitario e pacifista.
L'intervento in Iraq è nato da una menzogna o da un errore, dall'affermazione che esistessero armi di distruzione di massa che in realtà non esistevano. In Afghanistan, invece, l'intervento è nato dalla circostanza di fatto che in quella regione esistevano davvero le basi di Al Qaeda e che in quell'area, certo, si nascondeva Bin Laden. Si tratta di fatti reali, non inventati, che furono alla base dell'azione militare condotta in Afghanistan; analogamente, fu un fatto reale e non inventato la tragedia dell'11 settembre.
Dall'Iraq, dunque, si può venire via come singoli perché ci siamo andati come singoli, come parte di una coalizione di willings, di volenterosi. In Afghanistan, no. In Afghanistan, infatti, siamo intervenuti non come singoli ma come parte delle comunità NATO e Unione europea; anche se volessimo, non potremmo venire via dall'Afghanistan senza rompere una solidarietà collettiva. A tale proposito, ancora sull'Iraq, ci si deve porre una domanda molto semplice alla quale non ho mai sentito una risposta: perché mai in Iraq si dovrebbe chiedere all'Italia un impegno diverso e maggiore di quello che si chiede alla Francia, alla Germania, alla Spagna e a tutti i paesi dell'Europa continentale? Perché mai si dovrebbe chiedere a noi qualcosa che non si chiede a nessuno? La risposta non c'è e, difatti, la domanda non viene posta. Bush ha capito la posizione italiana: ci siamo disimpegnati dalla presenza militare in Iraq, ma non dalla presenza in Iraq, senza venir meno ad un rapporto corretto con i nostri alleati. L'Italia in Iraq se ne stava militarmente impegnata, ma isolata rispetto al cuore dell'Europa e rispetto ai padri fondatori dell'Europa tra cui ci siamo noi. Questo era anche il modo simbolico di un capovolgimento della tradizionale politica estera italiana. Vedete, la politica estera italiana tradizionale, da decenni, con i Governi guidati da democristiani e da socialisti, si è basata su due pilastri: da un canto l'Alleanza atlantica e, dall'altro, l'unità politica dell'Europa. Due pilastri legati l'uno all'altro, perché un rapporto paritario con gli Stati Uniti si può avere soltanto attraverso un'Europa politicamente unita. Per la prima volta, il Governo Berlusconi non si è più appoggiato a questi due pilastri, ma ad uno solo: l'Alleanza atlantica. È per questo che la politica estera del Governo Berlusconi è stata profondamente sbilanciata.
Tornando all'Afghanistan, occorre dire che in quel paese le cose non vanno bene. Non sempre c'è rispetto sufficiente per la popolazione, un adeguato sforzo per lo sviluppo o una fermezza verso la corruzione e l'arroganza dei signori della guerra, gli stessi che erano stati cacciati dai talebani. Non c'è sufficiente fantasia nell'iniziativa politica. A proposito di fantasia, si è parlato di oppio; ne ha parlato con competenza l'onorevole D'Elia ieri, e l'onorevole Zacchera avrebbe dovuto Pag. 69ascoltarlo. In effetti, si è sempre tentato di distruggere le coltivazioni di oppio, ma non ci si è mai riusciti. Allora, si può tentare una strada diversa, vale a dire quella di acquistare legalmente l'oppio per l'industria farmaceutica internazionale. Il denaro illegale proveniente dalla vendita dell'oppio è l'acqua nella quale navigano i pesci del terrorismo e della guerriglia: bisogna prosciugare quest'acqua e lo si può fare anche attraverso questa strada. Si risponde: ma non serve tanto, non è presente una tale domanda di oppio!. Ciò non è vero, perché non stiamo parlando della domanda in Italia. A Zurigo o a Roma si muore di cancro - grazie a Dio senza sofferenze atroci - perché c'è la morfina. Nel Lagos o a Kinshasa, si muore tra sofferenze atroci: perché non deve essere dato questo aiuto anche ai sofferenti del terzo mondo? Come si vede, la domanda non è anelastica. La domanda può crescere se si sviluppano ragioni di umanità.
Le cose dunque in Afghanistan non vanno bene. È giusto monitorare la situazione affinché non sfugga di mano, ma l'Italia deve prendersi le sue responsabilità. Poi, proprio per questo, avrà l'autorità di dire la sua in seno alla NATO e all'Unione europea. Su questi temi, onorevoli deputati, la filosofia del Governo è ispirata al semplice buonsenso. Il pacifismo è un valore, certo, ma non lo è più se diventa isolazionismo. Prima viene la politica e l'aiuto allo sviluppo e la lotta alla povertà, ma spesso senza la sicurezza e senza l'impegno militare non c'è né politica, né sviluppo, né lotta alla povertà. Questo è il senso delle nostre missioni all'estero.
Vorrei concludere, sottolineando il grande sforzo che tutti dobbiamo compiere e che si è avvertito in questo dibattito. Il terrorismo fondamentalista islamico, come la guerra fredda, durerà per decenni, non dobbiamo farci illusioni; andiamo incontro ad una guerra che durerà per decenni. Non si può affrontare questa nuova guerra degli anni 2000 con la psicologia, la filosofia, il dogmatismo ed i pregiudizi del secolo scorso. Tutti, maggioranza ed opposizione, dobbiamo compiere un grande sforzo di modernizzazione politica e culturale (Applausi dei deputati dei gruppi de L'Ulivo, di Rifondazione Comunista-Sinistra Europea, dell'Italia dei Valori, de La Rosa nel Pugno, dei Comunisti Italiani, dei Verdi, dei Popolari-Udeur, del Misto-Minoranze linguistiche e del Misto-Movimento per l'Autonomia).
PRESIDENTE. Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.
Avverto che la discussione sulle linee generali del disegno di legge in materia di società operanti nel settore dell'energia e del gas avrà luogo al termine dell'informativa urgente del Governo.
Sospendo la seduta, che riprenderà alle 15,30 con la deliberazione sulla richiesta di stralcio relativo alle proposte di legge in materia di amnistia ed indulto. Seguirà l'informativa urgente del Governo sui recenti sviluppi della situazione in Medio Oriente.
La seduta, sospesa alle 14,55, è ripresa alle 15,35.
PRESIDENZA DEL PRESIDENTE FAUSTO BERTINOTTI