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Si riprende la discussione.
(Ripresa esame articolo 5 - A.C. 1746-bis)
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Berruti. Ne ha facoltà.
MASSIMO MARIA BERRUTI. Signor Presidente, l'articolo 5 è sicuramente una delle parti più insidiose di questa manovra finanziaria. Per insidia intendo dire qualcosa che è all'interno dal quotidiano ma che non è immediatamente visibile e percepibile. Infatti, essa si rivela insidiosa proprio perché viene percepita in seguito. Emblematica come insidia della manovra è la disciplina degli studi di settore. L'articolo 5 del disegno di legge debutta con il restringimento del termine di revisione degli studi, da quattro a tre anni. Il precedente termine era infatti di quattro anni ed oggi è stato portato a tre.
Dopodiché, seguono una serie di indicazioni per tenere conto nella fase di revisione di dati e di statistiche ufficiali, ma, ahimè, si parla anche di indicatori di coerenza. La domanda che ci poniamo, colleghi, è da chi dovranno essere elaborati gli indicatori di coerenza e con quali criteri. Questo, onorevoli colleghi, non si dice. Il processo di insinuazione, dunque, della massima discrezionalità da parte di chi dall'Esecutivo è mandato al controllo di questo dicastero, per aumentare il reddito a proprio piacimento, si delinea ancora meglio, grazie alla previsione di utilizzare degli indicatori di normalità economica fino alla elaborazione e revisione degli studi di settore. Sono indicazioni, che, come tutti abbiamo visto, verranno approvate escludendo espressamente i pareri delle commissioni di esperti, pareri che, con la presenza di categorie interessate, concorrono per legge a dare validità alle proposte di nuovi studi o di modifiche di quelle esistenti, già presentate dall'amministrazione finanziaria.
Se non fosse chiaro, con i nuovi studi di settore è stato apprestato uno strumento giuridico per aumentare il gettito dei lavoratori autonomi e delle piccole ePag. 29medie imprese. Lontano, quindi, da occhi indiscreti e, soprattutto, senza che vi sia alcun controllo democratico. Qualcuno potrà domandarsi: ma perché dobbiamo dubitare della correttezza degli interventi correttivi che potranno intervenire medio tempore?
La domanda non ha alcun senso, perché basta leggere la relazione tecnica che accompagna il provvedimento per rendersi conto che il maggior carico tributario è già stato determinato. Quindi, la trasformazione degli studi di settore oggi è una trasformazione in mero arbitrio. Ha origini anteriori al presente disegno di legge e nasce, come tutti sanno perfettamente, dal cosiddetto decreto-legge Visco-Bersani. Il significato era molto ben precisato nei commi 2 e 3 dell'articolo 10 della legge 8 maggio 1998, n. 146. Questi commi prevedevano la possibilità di effettuare degli accertamenti nei confronti di contribuenti che fossero risultati incongrui in due periodi di imposta su tre, ovvero per quelli che in contabilità ordinaria, anche per opzione, si trovassero in presenza di gravi irregolarità nell'ambito delle scritture contabili.
Il fatto è, colleghi, che i suddetti commi sono stati abrogati ed ora è stata prevista la procedura di accertamento per effetto anche dell'incongruità per un solo periodo di imposta. Ora, questa modifica ha un significato preciso. Lo studio di settore perde la funzione di strumento indiziario e assume, invece, il ruolo di presunzione legale. Lo studio di settore che nasce con funzione di strumento indiziario, con questo provvedimento assume immediatamente il ruolo di una vera e propria presunzione legale.
Spetterà, quindi, al contribuente dimostrare l'applicabilità dello studio al proprio caso specifico e tutti possiamo immaginare con quali difficoltà di prova.
L'aspetto più preoccupante, però, degli studi di settore è che medio tempore per gli studi che sono in essere, e per quelli che verranno in futuro, i risultati verranno sicuramente tutti influenzati da quelle elaborazioni prodotte sì dall'amministrazione finanziaria, ma senza l'utilizzo di alcun contraddittorio. Viene a determinarsi, quindi, una situazione molto grave, perché la pressione fiscale su alcune categorie diventerà sicuramente una variabile che sarà indipendente nelle mani dell'Esecutivo.
È facile comprendere che si voglia qui giustificare tutto questo con la lotta all'evasione fiscale e che vi sia la tentazione di respingere le critiche, tacciandole come tesi provenienti dai difensori dei «peccatori», almeno secondo un nuovo, ma forse non tanto autorizzato, interprete delle leggi divine.
Tali argomentazioni, se sostenute, andrebbero respinte come un maldestro tentativo di eludere un aspetto che è invece molto delicato e sul quale occorre richiedere moltissima attenzione.
Con questi nuovi provvedimenti sono stati inaspriti gli obblighi contabili, le capacità di intrusione dell'anagrafe tributaria dai conti bancari alle consistenze patrimoniali, gli oneri di comunicazione di dati e di informazioni, così come sono stati rafforzati anche gli obblighi relativi alle ricevute degli scontrini fiscali, come abbiamo sentito a proposito dei precedenti emendamenti e nei commenti di vari colleghi.
È arrivato, dunque, il momento di fare chiarezza sui criteri che questa amministrazione finanziaria intende seguire per orientare la propria azione di controllo, se cioè punti sugli accertamenti analitici, oppure su quelli presuntivi, fino al punto di adottare senza termini la «catastizzazione» dei redditi.
I contribuenti hanno diritto di acquisire certezze sicuramente sui controlli che legittimamente devono subire, perché non possono essere compressi da oneri di adempimento (e mi riferisco alla cosiddetta «compliance»), che possono risultare del tutto inutili perché, secondo invariate e inveterate abitudini, sapete tutti - e lo sappiamo - che il fisco alla fine privilegerà sempre il metodo che darà il risultato migliore, quindi quello più alto dal punto di vista dell'amministrazione finanziaria.
È evidente quindi che tutta la manovra su questo argomento si appoggia su una forte contraddizione. Se venissero rafforzati gli strumenti per l'accertamento analiticoPag. 30non avrebbe assolutamente senso inasprire il regime delle presunzioni: o vi è un forte sistema che porti avanti l'accertamento analitico, e a quel punto non avrebbe senso inasprire il regime delle presunzioni, o non vi è l'accertamento analitico e quindi sarebbe comprensibile che vi fosse un forte regime sulle presunzioni.
Per essere ancora più espliciti rivolgo questa domanda: è ragionevole mantenere il misuratore fiscale se i ricavi vengono poi controllati con gli studi di settore? Al limite, si potrebbe anche pensare che i misuratori fiscali possano costituire vera e propria prova contro l'amministrazione finanziaria. Un eventuale appello alla lotta all'evasione fiscale per ignorare le tematiche fin qui segnalate risulta ancora una volta un'operazione di mera disinformazione, perché servirebbe solo a dissimulare finalità assolutamente inquietanti, che ormai traspaiono bene da questo provvedimento.
D'altra parte, non può certamente sfuggire ai colleghi la necessità della razionalizzazione del sistema, che significa certamente porre con forza il tema della sua economicità, considerato che l'elaborazione degli studi di settore è molto complessa e che tutti noi ne conosciamo perfettamente i costi.
Insomma, prima di concludere su questo argomento, ribadendo che, in un contesto completamente mutato, l'esaltazione degli studi di settore suscita fortissime perplessità e richiede una profonda meditazione sul suo utilizzo, sulla razionalità sistematica, sulla sua utilità (anche perché l'esasperazione di questo strumento sta sempre più depauperando le capacità di analisi e di indagine dell'amministrazione), si deve segnalare che dal «cilindro» degli studi sta venendo fuori una nuova sorpresa.
Gli studi sono nati per affrontare quelle realtà economiche in cui, in assenza di conflitti di interesse tra gli attori delle attività, le scritture contabili hanno un'attendibilità che si è ridotta nel tempo. Non si è mai pensato che i soggetti di notevole dimensione (mi riferisco alle grandissime aziende) possano permettersi di utilizzare gli stessi artifici, cui possono ricorrere i contribuenti di minore dimensione. Gli studi, quindi, sono stati per questo motivo rivolti a quei contribuenti che sono di modesto giro d'affari, il cui limite, comunque, viene ora innalzato.
Per quei soggetti a cui non si applicano gli studi di settore spuntano ora dei non meglio specificati indicatori di normalità economica, di cui, però, per la verità, non se ne spiega da nessuna parte l'utilizzo.
Altri indicatori sono, poi, destinati alle società di capitali di nuova costituzione per identificare i requisiti minimi di continuità. È inutile dire che non è dato assolutamente conoscere e non si è da nessuna parte informato chi sarà preposto all'elaborazione degli indicatori (quindi, immaginiamo, con ulteriori costi) e con quale garanzia per i contribuenti, categoria della quale nessuno si preoccupa di conoscere le garanzie.
Mi chiedo, allora, con grande preoccupazione, se l'Esecutivo non si stia apprestando ad assumere anche il controllo degli apparati produttivi, sempre in nome della decantata evasione fiscale.
Si è detto, all'inizio, che la manovra è stata montata con una tecnica che rende difficile, oggi, valutarne gli effetti sui contribuenti, specialmente nel 2008. Profonda meraviglia hanno destato, come ha detto poco fa il collega Napoli, le lacrime dei sindaci (mi riferisco non ai sindaci cui si richiamava il collega Napoli, quanto ai sindaci delle grandi città). Profonda preoccupazione e attenzione hanno destato questi grandi sindaci, che sono andati a piangere nelle piazze italiane versando lacrime, che l'Esecutivo ha subitamente asciugato, grazie a riserve che poi ha prontamente collegato alla finanziaria. Non è stato dato alcun chiarimento al riguardo, come se fosse ormai passato come pacifico che il bilancio pubblico si realizza con le tecniche dei «fondi neri»!
La meraviglia, signori, deriva dal fatto che la finanziaria e tutti i provvedimenti che l'accompagnano segnano un'autentica esplosione della finanza locale e, in particolare, della finanza locale riferita alle grandi città italiane.Pag. 31
Prima di tutto, il passaggio del catasto ai comuni segna, soprattutto per le grandi città, una svolta sui criteri di formazione degli estimi, ormai destinati a passare da valori reddituali, come sapete, a valori patrimoniali.
D'altra parte, nei provvedimenti che vengono criticati in questa sede, vi è una serie di norme tese a portare nel sistema catastale i dati relativi ai valori effettivi di mercato dei fabbricati e delle aree. Si conviene che l'introduzione di una «vera» patrimoniale è spesso contrastata con argomenti che sono da considerare assolutamente demagogici. Il problema - e cerco di essere veramente obiettivo, credetemi - non è il metodo di accertamento, perché fra un'imposta patrimoniale e un'imposta sui redditi vi potrebbe essere piena equivalenza, se l'imposta patrimoniale incidesse solo ed esclusivamente in termini di redditualità.
Sono concetti così noti che non mi sembra proprio il caso di riprenderli in questa sede. Il pericolo perciò sta nel fatto che l'ente impositore sia così avido da incidere, al di là della capacità del reddito, aggredendo direttamente il capitale. A questo punto mi domando: si apre la porta all'esproprio? Credo che questa ipotesi non sia poi del tutto sgradita ad alcune parti politiche in quest'aula, ma certamente lo è alla grandissima parte degli elettori italiani. A parte ciò comuni e province, sebbene queste ultime in misura molto inferiore, ricevono altri strumenti di pressione fiscale: l'attrazione nel campo di applicazione dell'ICI di stazioni ferroviarie, di grandi stazioni ferroviarie - ecco perché mi riferisco alle grandi città e ai grandi comuni italiani - dei porti, degli aeroporti; lo sblocco e il contemporaneo immediato aumento dell'addizionale da applicare su una base imponibile allargata per effetto della reintroduzione della detrazione di imposta; l'introduzione del regime degli acconti anche per le addizionali; le tasse di scopo per poter finanziare le opere pubbliche, la riesumazione dell'imposta di soggiorno ed altre cose ancora, sempre capaci di aumentare, comunque, le risorse dei grandi enti locali.
È significativo che nella relazione tecnica per alcuni di questi provvedimenti non siano state fornite mai le misure e le stime sul gettito. Dal punto di vista tecnico tutto questo è sicuramente corretto perché non sono somme che sono destinate allo Stato, ma dal punto di vista politico non avere questi dati ritengo che sia proprio una scorrettezza di non poco conto.
Allora mi chiedo, e ci chiediamo un po' tutti a questo punto, perché questi grandi sindaci si dolgano. Di cosa si dolgono? In effetti, a causa di alcuni restringimenti dei trasferimenti erariali, nel 2007 potrebbero verificarsi effettivamente delle difficoltà, ma negli anni successivi certamente inizierà l'era del bel paese per questi comuni; anzi - se vogliamo dirla meglio - per questi comuni ci sarà il comune di bengodi. I sindaci nelle loro pubbliche dichiarazioni non hanno mai contestato queste previsioni; però, hanno ugualmente criticato l'introduzione di queste misure.
Colleghi, a questo punto diciamoci una verità: il federalismo fiscale non vi piace perché inevitabilmente segna la fine della politica fondata sul panem et circenses ed impone di guadagnarsi il consenso dei cittadini assumendosi finalmente la responsabilità di governare, e questo non vi piace. Nel frattempo - a tutto deve esserci un limite -, in nome dell'autonomia degli enti locali, lo Stato non può lasciare i cittadini alla mercé degli amministratori o di quelli che siano poco avveduti e talvolta condizionati ...
PRESIDENTE. La prego, concluda.
MASSIMO MARIA BERRUTI. ... da fattori politici ambientali non proprio rassicuranti.
In conclusione, anche in questo articolo 5 della finanziaria, ci sono poche idee, poche proposte, tante misure contingenti esposte, talvolta, in un linguaggio scritto al limite della comprensibilità e in maniera sciatta, dal quale traspare, ancora una volta, il vostro senso di fretta e di approssimazione su problemi così importanti per il nostro paese ( Applausi del gruppo Forza Italia).
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Leo. Ne ha facoltà.
MAURIZIO LEO. Signor Presidente, con l'articolo 5 iniziano le disposizioni con le quali questo Governo penalizza notevolmente il comparto delle imprese e, in particolare, tali disposizioni sono volte a colpire pesantemente il maggior numero di imprese del nostro paese, vale a dire quelle cui si applicano gli studi di settore.
Teniamo presente che il 99,8 per cento di imprese italiane ha un volume d'affari inferiore ai sette milioni e mezzo di euro; quindi, tutti questi imprenditori saranno soggetti alle nuove regole sugli studi di settore.
Vediamo come il Governo ridisegna la struttura degli studi di settore. Lo studio di settore è un metodo di accertamento tributario basato su metodologie matematico-statistiche. Quindi, non rispecchia l'effettiva capacità contributiva del contribuente.
Sappiamo che la capacità contributiva del soggetto passivo di imposta è data dalla differenza tra i ricavi ed i costi; quindi, se un piccolo imprenditore ha 100 di ricavi e 50 di costi il suo reddito è pari a 50. Con l'impostazione del Governo, si stravolge completamente questo assetto, perché il soggetto, cui si applicano gli studi di settore, ripeto il 99,8 per cento di imprese italiane, dovrà introdurre nel meccanismo della congruità dei ricavi, i cosiddetti indici di coerenza. Si tratta di criteri, attraverso i quali si elevano i ricavi congrui. Quindi, gli imprenditori che si trovano a determinare il loro reddito sulla base degli studi di settore devono artificiosamente aumentare i ricavi e pagare più imposte, anche se questi redditi non sono stati conseguiti. Basti fare un esempio: se un imprenditore ha 100 di ricavi, 50 di costi ed il suo reddito è 50, per effetto delle nuove regole introdotte dal Governo, i ricavi devono diventare automaticamente 150, senza possibilità di provare il contrario; infatti, nel testo governativo vi è un'altra disposizione, estremamente penalizzante per le imprese, in base alla quale non è neppure data la possibilità di provare il contrario. Si introduce una sorta di presunzione legale, per cui lo studio di settore è l'unica metodologia di accertamento.
Questa è un'effettiva penalizzazione del mondo imprenditoriale italiano, ma non mi meraviglio che il Governo abbia apportato queste modifiche, perché dalla nuova disciplina degli studi di settore intende recuperare 2 miliardi e 600 milioni di gettito già dal 2006. Quindi, rendiamoci conto dell'entità della cifra! Come intende realizzare tutto ciò? Utilizzando surrettiziamente una nuova costruzione tributaria, quella dell'indice di normalità economica. La legge finanziaria verrà approvata entro fine anno, ma dispiegherà la sua efficacia dal primo gennaio del 2006. Quindi, dal primo gennaio del 2006 i contribuenti, dalla prossima dichiarazione dei redditi, dovranno sottostare a queste nuove regole e dovranno pagare più imposte.
È un fatto naturale e scontato: le associazioni di categoria ne sono ben consapevoli e alla luce di tutto ciò, rendiamoci conto come possiamo pensare che si incrementi il prodotto interno lordo nel nostro paese e che ci sia crescita economica.
Se la crescita economica dipende anche dalla riduzione del carico fiscale, lasciando a disposizione delle imprese risorse per indirizzarle verso l'attività produttiva, facendogli pagare più tasse, non penso che le imprese possano utilizzare queste risorse per la ripresa del nostro sistema paese.
Questo è il dato più allarmante, l'aspetto sul quale il Governo deve riflettere. Andrò più nel dettaglio sugli studi di settore. Addirittura si dice nella norma che, nel costruire i nuovi studi di settore, bisogna far riferimento ai dati di contabilità nazionale. Bene, vi è un vizio logico: i dati di contabilità nazionale non rispecchiano le microaree previste per gli studi di settore.
Noi sappiamo che, ai fini degli studi di settore, le imprese vengono raggruppate in quelli che, tecnicamente, sono definiti i cluster (vale a dire, le «microposizioni»). Ebbene, vorrei ricordare che sono previste circa 3 mila microposizioni.Pag. 33
I dati di contabilità nazionale sono necessariamente strutturati, per loro natura, in «macroclassi»: pertanto, questi due ambiti non si conciliano e non parlano tra loro. Una cosa, infatti, sono i dati della contabilità nazionale, un'altra sono le microposizioni previste dagli studi di settore. Appare illogico, dunque, che il legislatore preveda che, nell'elaborazione degli studi di settore, occorra fare riferimento ai dati della contabilità nazionale!
Pertanto, con le proposte emendative che ho presentato (sulle quali, peraltro, ritengo interverranno anche gli altri miei colleghi), desidero segnalare che si tratta di un'assoluta anomalia del sistema, che deve essere rimossa.
Il dato che vorrei tuttavia segnalare all'Assemblea, sul quale invito anche i colleghi della maggioranza a riflettere, è che, con la nuova impostazione degli studi di settore, stiamo praticamente reintroducendo la cosiddetta minimum tax. Ricordiamo tutti che, nel 1992, furono condotte battaglie epiche contro tale tributo, poiché non corrisponde all'effettivo reddito del contribuente. Ebbene, vorrei rilevare che la stiamo reintroducendo surrettiziamente attraverso il cosiddetto indice di normalità economica (come lo definisce il provvedimento in esame).
Come ho precedentemente affermato, si realizza ciò addirittura con effetti a decorrere dal 2006 e senza consultare il tavolo degli esperti. Vorrei ricordare che gli studi di settore sono sempre stati elaborati in maniera negoziale, attraverso una sorta di stanza di compensazione alla quale partecipano anche i rappresentanti delle categorie, i quali sono in grado di esprimere l'effettiva potenzialità dei singoli settori economici.
Invece il Governo, manu militari, cosa farà? Adotterà un decreto ministeriale in base al quale verrà stabilito l'entità dei ricavi delle piccole e medie imprese: quindi, saranno coinvolti sia l'artigiano che dichiara 5 o 6 mila euro, sia l'imprenditore che registra un fatturato pari a 7 milioni e 500 mila euro. Verranno determinati i ricavi, ma non vi sarà la possibilità di produrre alcuna prova contraria!
L'assurdo è che in precedenza, come ricordato dal collega Berruti, era contemplata la possibilità, per i soggetti sottoposti alla contabilità ordinaria (vale a dire, coloro che calcolano il proprio reddito sulla base delle scritture contabili), di non applicare gli studi di settore qualora non si fossero registrati scostamenti in due anni su tre.
Bene: con la normativa proposta dal Governo, anche il soggetto che opera in regime di contabilità ordinaria - cioè, colui che dichiara fino all'ultimo euro - dovrà dichiarare, senza la possibilità di provare il contrario, un reddito almeno conforme ai dati indicati dagli studi di settore!
Ciò è assolutamente aberrante. Immaginate che un imprenditore soggetto alla contabilità ordinaria (si tratta, quindi, del caso di tante piccole e medie imprese italiane, le quali tengono i registri contabili, il libro-mastro, il libro-giornale ed il libro degli inventari) faccia le sue effettive annotazioni dei ricavi e dei costi. Ebbene, tale contribuente non potrà più utilizzare la sua contabilità (che rappresenta la prova principale per dimostrare la propria capacità contributiva) e dovrà dichiarare un reddito di gran lunga superiore, perché lo prevedono gli studi di settore!
Mi sembra che tutto questo contrasti con la logica e la coerente impostazione del sistema tributario. In questo caso, infatti, stiamo sovvertendo principi fondamentali dell'ordinamento fiscale italiano. Non dimentichiamoci che, come ha già ricordato qualche collega, tutte le normative tributarie devono rispondere ad una fondamentale disposizione della nostra Carta costituzionale.
L'articolo 53 della Costituzione, infatti, parla di capacità contributiva, e ricordo che quando venne varata, negli anni Settanta, la riforma del sistema fiscale, si affermò che il reddito deve necessariamente essere pari alla differenza tra i ricavi ed i costi. Esso, pertanto, non può essere il risultato del ricorso a metodologie matematico-statistiche o a meccanismi che non corrispondono all'effettiva capacità reddituale e contributiva dei soggetti passivi d'imposta!Pag. 34
È questo che noi contrastiamo. Per carità, lo studio di settore può essere un valido strumento in termini di accertamento, ma non potrà mai diventare un sistema di determinazione del reddito. Il Governo Prodi lo sta costruendo, invece, come sistema di determinazione del reddito. In ciò consiste la gravità dell'impostazione prevista in questa disposizione ed è proprio per tale motivo che noi ci opponiamo ad essa.
Quella che viene fatta alle imprese con la disposizione che stiamo esaminando è, a mio avviso, un'aggressione ad ampio raggio, ad ampio spettro. E si tratta di un'aggressione che prende le mosse addirittura dal decreto-legge approvato qualche giorno fa da questa Camera ed ora all'esame del Senato, e, ancor prima, dal cosiddetto decreto Bersani-Visco.
Cito alcuni casi che esemplificano chiaramente l'aggressione sistematica portata alle imprese. Innanzitutto, in materia di ammortamento degli immobili di tutti gli imprenditori, dal piccolo artigiano alla grande impresa che fattura miliardi di euro. Tutti questi soggetti dovranno separare, ai fini dell'ammortamento dei fabbricati, il costo relativo al terreno sottostante, la cosiddetta area di sedime, dal costo del fabbricato stesso. Tale previsione avrà effetto retroattivo e, come tale, una volta approvata, si porrà in totale spregio allo statuto del contribuente. Normativa quest'ultima, lo ricordo, che con tanta enfasi questa Camera ha approvato nel 2000, ma che l'attuale Governo non applica assolutamente perché continua ad adottare norme retroattive o che dispiegano i loro effetti dal 1o gennaio di ogni anno, con evidenti, enormi difficoltà per i professionisti e per le imprese, che si vedono costretti a ricalcolare gli acconti d'imposta.
Una delle ipotesi, dicevo, a cui sono state apportate delle correzioni è proprio quella degli ammortamenti dei fabbricati delle imprese. Oggi un imprenditore o un artigiano, che sta procedendo ad ammortizzare il proprio bene strumentale o che ha stipulato per esso un contratto di locazione finanziaria, deve - ripeto - scorporare il costo relativo all'area in modo da renderlo indeducibile. Ma vi pare possibile ciò e, fra l'altro, prevedere che tale disposizione abbia effetto retroattivo?
A me pare che in materia fiscale stiamo perdendo il lume della ragione. Si stanno introducendo norme di esclusiva penalizzazione per le imprese. E quello appena citato è un primo esempio, ma ce ne sono tanti altri. Vi sono, in particolare, esempi che riguardano il comparto delle auto aziendali. A questo proposito, si è assistito ad una sorta di parodia tributaria. Come sappiamo, le auto aziendali sono un bene strumentale grazie al quale l'imprenditore realizza i ricavi e i proventi. Cosa si è previsto per tali auto? Innanzitutto, si è dovuto prendere atto della sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee; una sentenza intervenuta nel corso del 2006 che ha stabilito che l'IVA pagata per l'acquisto di un'auto aziendale è detraibile. Ma questa non è una novità del sistema tributario! Come sappiamo, l'IVA non è un'imposta governabile esclusivamente dal singolo Stato aderente all'Unione europea. Ogni paese, infatti, modula l'imposta sul valore aggiunto conformemente alle direttive comunitarie. La VI direttiva comunitaria stabilisce, infatti, come «costruire» l'imposta sul valore aggiunto. Ebbene, in Italia, non da adesso ma da 27 anni - attribuire responsabilità a questo riguardo, come è stato fatto improvvidamente da qualche rappresentante dell'attuale Governo, all'esecutivo di Berlusconi mi pare, quindi, fuori luogo -, le imprese italiane non possono detrarre l'IVA pagata per l'acquisto delle auto aziendali.
Dopo la sentenza richiamata, il Governo è corso ai ripari. Che cosa ha fatto? Il Governo, anziché restituire l'IVA che i contribuenti interessati non hanno potuto detrarre utilizzando i canali naturali dell'automatica compensazione, blocca tutto e decide che presenterà, entro aprile, un'istanza. In tal modo, l'esecutivo ha preso tempo e non ha riconosciuto un diritto sacrosanto degli imprenditori. Si stabilirà ad aprile, con successivi provvedimenti,Pag. 35quale sarà la misura percentuale e secondo quali modalità e quali tempistiche procedere.
Bene, in questo lasso temporale l'imprenditore che cosa fa? Non acquista macchine? Non utilizza la macchina per lo svolgimento della sua attività imprenditoriale? Assolutamente no, è costretto a fare ciò e vede che il decreto-legge fiscale, collegato alla finanziaria, stabilisce che non sono possibili più deduzioni ai fini delle imposte sui redditi; quindi, oltre al danno, la beffa: non ci sono rimborsi, vengono limitate le deduzioni ai fini delle imposte sui redditi, insomma, il comparto delle auto è completamente danneggiato (mi riferisco al comparto delle auto delle imprese, che rappresentano il motore della nostra economia). Le auto aziendali non sono deducibili e per il rimborso dell'IVA bisogna attendere il 16 aprile.
A voi sembra possibile che questa situazione possa perdurare nel nostro sistema tributario? A me sembra di no! Mi sembra che stiamo utilizzando la costruzione normativa tributaria solo a fini di danneggiamento delle imprese.
Posso continuare. Il danneggiamento viene anche dagli appesantimenti amministrativi e burocratici che le imprese si trovano a dover affrontare negli ultimi tempi. Queste ultime - lo sappiamo tutti - versano le imposte attraverso un modello, denominato F24. Questo modello è tale per cui consente di effettuare anche operazioni di compensazione d'imposta. Tale modello, che tutti erano abituati ad utilizzare attraverso il documento cartaceo, può essere utilizzato oggi soltanto per via telematica. Tuttavia, l'assurdità è che si differenziano gli imprenditori. Infatti, alcune imprese - mi riferisco agli imprenditori che hanno una veste giuridica più elementare, come le imprese individuali o le società di persone - possono aspettare fino al 1o gennaio 2007 per procedere agli invii telematici mentre le altre imprese, che hanno una veste giuridica diversa ma lo stesso volume d'affari, devono, invece, sottoporsi a questo nuovo adempimento a far data dal 1o ottobre. Quindi, vi è una asimmetria nell'ambito del comparto imprenditoriale: a seconda della veste giuridica di impresa, vi è chi deve rispettare prima e chi dopo gli adempimenti suddetti. Non valeva allora la pena fare slittare questo termine e portare tutto al 1o gennaio 2007 per tutte le imprese? No, il Governo non l'ha fatto, ma ha creato appesantimenti, problemi e mille difficoltà agli imprenditori.
Queste sono situazioni che indubbiamente non fanno il bene del nostro settore imprenditoriale e che devono essere contrastate. Si tratta di situazioni sulle quali le imprese declineranno la responsabilità del Governo.
Il Governo di questi aspetti non si è fatto assolutamente carico. Penso che il Governo svolga un ruolo alla stregua di un centro studi, quindi, anziché calarsi nella realtà delle imprese, rielabora sistemi tributari e meccanismi impositivi senza valutare quale sia l'effettiva capacità reddituale dell'impresa e l'effettiva struttura aziendale. Questo è un dato veramente grave ed allarmante: non farsi carico dei problemi della gente e farlo anche con supponenza.
Abbiamo assistito a tanti interventi, del viceministro Visco e di altri rappresentanti del Governo, i quali hanno affermato di essere nel giusto, di stare facendo le cose a regola d'arte, mentre eventuali responsabilità e problemi sarebbero riconducibili solo al Governo Berlusconi, soprattutto per le auto aziendali.
Infatti, a proposito di queste ultime, è stata fatta un'affermazione che non sta né in cielo né in terra: è stato detto che la responsabilità per le auto aziendali era del Governo Berlusconi, il quale non si era mosso in proposito. Ebbene, se per i rimborsi IVA sulle auto aziendali diamo la responsabilità al Governo Berlusconi, per fatti accaduti 27 anni fa, allora dobbiamo anche attribuire la responsabilità al Presidente Berlusconi per la crisi del 1929, per i casi Enron e BNL; dobbiamo dare la responsabilità al Presidente Fini per i lussi capuani di Annibale; dobbiamo dare la responsabilità al Presidente Casini per il saccheggio dei templari in Terra santa e, ovviamente, al ministro Bossi la responsabilitàPag. 36per il sacco di Roma (Applausi dei deputati dei gruppi Alleanza Nazionale e Forza Italia).
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Barani. Ne ha facoltà.
LUCIO BARANI. Signor Presidente, al mio gruppo appare veramente critica l'impostazione culturale e politica dell'intera manovra finanziaria per il 2007, che è fortemente punitiva per il ceto medio produttivo e priva di parallele misure di rilancio della competitività e di sostegno del mondo della piccola impresa, dell'artigianato, del commercio e di tutte le professioni.
I consistenti aumenti delle imposte, il preannunzio di un utilizzo preconcetto della revisione degli studi di settore, prevista in questo articolo, e un pesante aumento della pressione contributiva sul lavoro autonomo e sulle professioni, ovviamente ci portano a dire che la stangata avviene soprattutto sul ceto medio.
L'effetto congiunto della riduzione del cuneo fiscale e dell'innalzamento dei contributi previdenziali per i lavoratori autonomi e per gli apprendisti evidenzia tutta la criticità della manovra. Il costo del lavoro cresce, infatti, dello 0,5 per cento per le piccole imprese e, in particolare, di quasi un punto percentuale (0,8 per cento) per le microimprese, mentre il beneficio della manovra si focalizza tutto su medie e grandi imprese, che lo vedono diminuire dello 0,9 per cento.
L'introduzione delle norme sopra riportate determina un forte sbilanciamento tra lo sforzo richiesto in termini di maggiore imposta alla categoria degli artigiani, dei liberi professionisti e dei commercianti e i beni riconosciuti.
Per sintetizzare il mio intervento, molto breve ma chiaro, sulla criticità dell'impostazione culturale di questa finanziaria rispetto alla repressione fiscale su tutto e tutti - dalla famiglia, agli studenti, alle università, tutti sono critici -, leggo alcuni commenti fatti all'interno della maggioranza stessa. Ne cito solamente alcuni.
Lamberto Dini, ex primo ministro: con questa finanziaria non si cresce. La voterò, ma questa finanziaria accontenta solo la sinistra radicale per le tasse e dà poco allo sviluppo. L'obiettivo doveva essere la crescita, ma con questa manovra non si cresce. Al di là del cuneo fiscale, non si fa niente. Non si parla di liberalizzazioni e di monopoli. Le riforme sono indispensabili. Lo chiede l'Unione europea e lo dovremo fare anche scontentando la sinistra.
Ancora, Antonio Di Pietro (ed è tutto dire citato da me, gliel'avrà scritto qualcuno questo commento): i primi cento giorni di Governo hanno creato molta incertezza e confusione nell'elettorato. La gente non ha capito dove sia la novità di questo Governo. L'unica cosa che gli italiani percepiscono è che non è cambiato nulla: litigi, ripicche, programmi non condivisi, incertezze decisionali e scelte di fondo sbagliate. Con questa finanziaria abbiamo impaurito la piccola e media industria, abbiamo spaventato l'elettorato, l'artigiano, il lavoratore autonomo.
Ancora, Daniele Capezzone de La Rosa nel Pugno, o quello che ne rimane: nessuno sottovaluti la gravità della crisi politica in atto. Dopo pochi mesi la maggioranza è già in evidente difficoltà al suo interno e con l'opinione pubblica e senza che le riforme siano state nemmeno incardinate. Speriamo che la risposta non sia: tutto va bene.
Ancora, alla sfilata dei precari: Damiano servo dei padroni, vattene!
Ancora, Giuseppe Caldarola dei DS: ho trovato inopportune le dichiarazioni di Prodi e D'Alema sulle manifestazioni dei precari. Se parliamo di politica, era evidente che la manifestazione era contro il Governo; se parliamo di metafisica invece si può sostenere qualcosa di diverso.
Ancora, Franco Giordano di Rifondazione Comunista: caro Romano, quelle che sfilavano sono le guardie del corpo del tuo Governo. È dagli altri che ti devi guardare.
Infine, due interventi pubblicati da importanti quotidiani del viceministro Vincenzo Visco: non ci sono poi tutte queste tasse nella manovra. E subito dopo: dall'anno prossimo toglieremo le tasse che abbiamo messo.Pag. 37
Come vedete, è una contraddizione dopo l'altra. Non citerò, inoltre, Sergio Chiamparino, sindaco di Torino, l'amico Leonardo Dominici, sindaco di Firenze, Massimo Cacciari, sindaco di Venezia: vanno tutti nello stesso senso.
Addirittura, alcuni ministri come Livia Turco dicono: niente tagli, giù le mani dalla sanità. Però, il ministro introduce i ticket per il pronto soccorso e su ogni ricetta.
Signor Presidente, visto che l'orario me lo consente - sono le 13 in punto - concludo con quello che Michele Santoro ha detto fuori onda: la finanziaria è una «gnocca senza testa». Credo che questo riassuma tutto.
PRESIDENTE. Secondo quanto preannunciato, sospendo la seduta, che riprenderà alle 15.
La seduta, sospesa alle 13, è ripresa alle 15,05.