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Si riprende la discussione del testo unificato delle proposte di legge costituzionale n. 648 ed abbinate (ore 18,31).
(Ripresa discussione sulle linee generali - A.C. 648 ed abbinate)
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Nicco. Ne ha facoltà.
ROBERTO ROLANDO NICCO. Colleghe e colleghi, la libertà di lingua è certo una delle fondamentali ed incomprimibili libertà dell'individuo. Ognuno ha la sua, quella in cui si riconosce, non solo come strumento di comunicazione, ma anche in quanto tramite di un patrimonio culturale sedimentatosi nel tempo.
Non a caso l'articolo 3 della Costituzione sancisce che tutti cittadini sono eguali davanti alla legge, senza distinzione non solo di sesso, di razza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali, ma anche di lingua.
Lingue peraltro non cristallizzate o cristallizzabili, ma soggette ad una naturale evoluzione, nella funzione di rappresentare nuovi oggetti e concetti, e ad un continuo mutamento di ruolo e di importanza, l'una rispetto all'altra, frutto principalmente di fattori economico-sociali. A partire, un esempio classico per tutti, Pag. 93dall'imporsi su tutta la Francia della lingua d'oïl, in quanto lingua della capitale politica, economica e militare, ovvero di Parigi, sulle lingue d'oc e sul francoprovenzale.
Si tratta di un mutamento che oggi si manifesta, quotidianamente, nel linguaggio dell'informatica. Ma non solo: l'uniformazione linguistica è uno degli aspetti che caratterizzano la globalizzazione attuale, con i suoi effetti positivi e negativi. Tali effetti, a volte frutto anche di sudditanza psicologica, pigrizia intellettuale o semplice vezzo, si manifestano nei più disparati settori.
Finanche in questa stessa istituzione, la Camera dei deputati, laddove procediamo - due esempi tra i tanti - allo speech di ammissibilità o al question time, che potremmo benissimo definire in altro modo, conformemente alla lingua italiana.
Tuttavia, al di fuori di questi processi di ordine generale, non vedo, francamente, in atto alcuno specifico attacco al ruolo della lingua di Dante, Petrarca, Boccaccio e Manzoni, sciacquata o meno in Arno, la cui funzione è pacificamente riconosciuta ed apprezzata da tutti. Quindi, sono rimasto un po' sorpreso e sconcertato dall'iniziativa legislativa di alcuni colleghi, che ritengono necessario riaffermare ciò che già è palese. Come rilevato dal collega Zeller, in sede di Commissione, evidentemente lo scopo è un altro. Leggendo la relazione che accompagna le proposte di legge A.C. 648 e A.C. 1571, essa traspare chiaramente laddove ci si riferisce a presunte forti tensioni secessioniste, si paventano rischi di avvilimento e offesa degli elementi identificativi della comunità italiana nel Sudtirolo e ci si propone di prevenire situazioni critiche analoghe, nel momento in cui i più recenti orientamenti autonomisti portassero a valorizzare la lingua o il dialetto di altre comunità minoritarie o di altre aree geografiche.
Francamente, non sentivamo proprio il bisogno di riaprire una discussione sulla questione della lingua e, più generale, sul rapporto tra le minoranze linguistiche e lo Stato, che essa implica, essendo tutti, in questa Assemblea, ben consapevoli, credo, di quante discussioni, contrasti e tensioni vi siano stati in passato, su questo punto. Ogni volta che si parla di lingua, infatti, si toccano inevitabilmente corde profonde. Ci corre l'obbligo, perciò, di ricordare che alcune comunità inserite nello Stato italiano, tra cui la Valle d'Aosta che rappresento, hanno subito un processo di italianizzazione in larga parte frutto non di una naturale evoluzione economico-sociale e demografica ma di precise scelte politiche imposte dallo Stato centrale. Bisogna ricordare che quella regione ha fatto parte, sin dal momento in cui in Europa si sono delineate le differenti lingue neolatine, di un'area linguistica e culturale diversa da quella italiana, come tuttora testimoniano toponimi ed antroponimi, e che ancora alla metà dell'ottocento, come scrisse il deputato al Parlamento subalpino Laurent Martinet ad un suo collega, la quasi totalità dei suoi abitanti non conosceva la lingua italiana e quella francese fu, nelle parole di un illustre valdostano rivolte al ministro Matteucci, «arrachée comme on arrache un arbre, en la déracinant à coup de sape», ovvero brutalmente sradicata a colpi di vanga. Furono precise scelte politiche, un organico piano, cari colleghi, chiaramente delineato, fin dal 1861, in un noto opuscolo di un deputato di Lucca, Giovenale Vegezzi Ruscalla, intitolato: Diritto e necessità di abrogare il francese come lingua ufficiale in alcune valli della provincia di Torino. Ne consiglio vivamente la lettura. L'autore citato scrive, tra l'altro: «Egli ci bisogna scancellare ogni traccia di stranierume dalle scritture italiane; noi, eredi dei Romani, dobbiamo, come essi latinizzarono, italianizzare i nomi dei nostri comuni, torrenti, rivoli, monti regioni». Courmayeur sia dunque tradotto in Cortemaggiore e Chamois in Ciamese.
Queste proposte, come è noto, furono poi effettivamente realizzate, nel 1939, dal regime fascista che proprio sulla questione della lingua mostrò pienamente il suo carattere totalitario, senza timore di cadere nel ridicolo: Courmayeur divenne Cormaiore, Allein divenne Alleno e La Thuile divenne Porta Littoria. Sin dal Pag. 941929, la federazione fascista valdostana aveva sollecitato una speciale azione di epurazione nei confronti di quei direttori didattici ed insegnanti che non si adeguassero alla italianizzazione.
Vi fu persino chi propose di usare il «santo manganello», testuale, verso quei sacerdoti che si ostinavano a predicare nella lingua in cui avevano sempre predicato. Tutto ciò è ben impresso nella memoria storica di quella popolazione.
Il decreto luogotenenziale n. 545 del 7 settembre 1945, che ha cancellato l'obbrobrio dell'italianizzazione dei toponimi e lo Statuto speciale del 1948, che ha parificato la lingua francese a quella italiana, hanno posto parziale rimedio a quella prolungata violenza.
La Costituzione, tra i principi fondamentali, non derogabili, all'articolo 6, ha positivamente riconosciuto il ruolo delle minoranze linguistiche, chiudendo quella pagina negativa della storia italiana. Noi ci auguriamo per sempre.
Per tale motivo, ripeto, non avvertiamo alcuna necessità di riaprire vecchie e dolorose ferite che sono state ricomposte e che è bene lasciare ricomposte, senza alterare, come diceva bene il collega Zaccaria in Commissione, gli equilibri che sono stati raggiunti sulla materia.
Per quanto concerne i presunti pericoli che minaccerebbero l'identità nazionale, riteniamo che, qualora così effettivamente fosse, più che ricorrere a norme quale quella proposta, sarebbe opportuno richiamarsi alla lezione di un grande italiano, Federico Chabod, che, nei suoi studi su L'idea di nazione, poneva l'accento sulla necessità di una consapevole e rinnovata manifestazione di volontà, di quel «plébiscite de tous les jours», nella definizione data da Ernest Renan, che effettivamente rinnova, nella sostanza, l'adesione dei cittadini alla propria comunità, nella tolleranza e nel reciproco rispetto.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Menia. Ne ha facoltà.
ROBERTO MENIA. Signor Presidente, colleghi, è nozione comune e condivisa quella che, inizialmente, era solo una deduzione delle ricerche filologiche e cioè che la lingua contiene tutti gli elementi qualificanti la storia e l'identità del popolo che la parla.
Nell'articolazione del linguaggio non vi è soltanto l'espressione del pensiero in termini comprensibili, ma vi si condensano esperienze, relazioni, contatti, abitudini, vicende, aspirazioni e creazioni che, nel loro insieme, rappresentano l'evoluzione secolare di una comunità cioè la sua identità nazionale.
Insomma, la lingua non si limita ad essere un addendo del processo aggregante di una nazione, ma la storia della lingua, ammesso che al Presidente interessi... Presidente, anche se, come noto, nella fase della discussione generale di un provvedimento l'attenzione è quella che è, considerato che si tratta anche di una modifica costituzionale, credo che la questione abbia una sua rilevanza, motivo per cui sarebbe opportuno che lei invitasse i colleghi ad abbassare il mormorio per consentirmi di riprendere l'intervento. Stavo tentando di svolgere un discorso compiuto...
PRESIDENTE. Onorevole Menia, ha assolutamente ragione. Prego i colleghi di manifestare rispetto per i temi che stiamo discutendo.
Prego, onorevole Menia.
ROBERTO MENIA. La lingua non si limita ad essere un addendo del processo aggregante di una nazione, ma la storia della lingua consente di ricostruire la storia dello spirito che informa di sé l'ascesa di un popolo verso la nazione.
Data la stretta connessione tra lingua e nazione, possiamo affermare che, dove c'è unità linguistica, c'è unità nazionale.
L'Italia è uno dei pochi paesi occidentali, in cui la Costituzione non prevede espressamente il riconoscimento della lingua nazionale come lingua ufficiale dello Stato ed è questo un vuoto che va colmato per una pluralità di motivi.
Nel secolo della globalizzazione vanno mantenuti e rafforzati gli elementi identitari Pag. 95che danno un senso comune alla vita della nazione.
Ecco perché, proprio in questa fase, ritengo indispensabile riconoscere il ruolo della lingua italiana quale elemento costitutivo identificante della comunità nazionale, a prescindere dalle diversità localistiche.
La sottolineatura dell'unità linguistica non è certo, peraltro, in contrasto con la conservazione e la valorizzazione delle tradizioni e delle parlate locali e minoritarie, che vengono, tra l'altro, tutelate dall'articolo 6 della Costituzione, nonché da una specifica, anche recente, normazione ordinaria. Segnalo infatti che, proprio nella parte antimeridiana seduta, è stata ricordata, in più occasioni, la legge sulle lingue minoritarie approvata nel 1999.
L'evoluzione stessa della nazione e la sua proiezione nel tempo a venire, anche e soprattutto tenendo conto delle dinamiche demografiche e delle spinte migratorie, deve trovare un collante ed una ragione propulsiva nella lingua. La lingua comune diviene elemento fondamentale di integrazione. Quanto più la lingua italiana, con il suo portato di valori civili, morali e religiosi, sarà strumento di unione ed integrazione, tanto più potremo guardare con fiducia e speranza al futuro dell'Italia e delle prossime generazioni di italiani.
La vitalità di una lingua è la testimonianza della vitalità di una nazione. Va ricordato, in proposito, quanto scriveva un nobile padre della patria, Gioberti: «Ricordi a chi cale della patria comune, che secondo la comune esperienza, la morte delle lingue è la morte delle nazioni».
Potremmo quindi, in proposito e a contrario, essere sordi alle ripetute sollecitazioni dell'Accademia della Crusca - i cui rappresentanti, tra l'altro, sono stati auditi in Commissione affari costituzionali qualche settimana fa -, tese alla salvaguardia della lingua italiana? Questo non tanto e non solo nella difesa di un «purismo linguistico» e di una tradizione interna, ma anche e soprattutto nella conservazione e nell'espansione di uno spazio europeo ed internazionale.
Vale la pena, in proposito, di citare quanto ebbe a dire, nel luglio 2003, proprio il presidente dell'Accademia della Crusca di fronte alla decisione di escludere l'italiano dalle lingue in cui vengono tradotte le conferenze stampa della Commissione dell'Unione europea, appellandosi al Governo italiano affinché difendesse la nostra lingua in Europa.
Egli, infatti, affermò che: «Le idee che circolano in materia, non solo nell'Accademia, ma nella comunità scientifica dei linguisti italiani non sono affatto ispirate ad una difesa nazionalistica dell'italiano e delle lingue in genere, né a una banale anglofobia. Il nucleo forte della nostra riflessione sul tema è dato dal principio che tutte le lingue dei popoli europei sono un bene culturale fondamentale dell'intera Unione e che, perciò, occorre assolutamente una politica comunitaria delle lingue, per sottrarre la loro gestione al prepotere delle tre "nazioni forti" che, come ha ben detto Galli Della Loggia, tendono a fare dell'Europa una propria riserva di dominio».
Ma l'italiano è anche un bene universale fuori dai confini europei. Voglio qui riportare - pensando anche che per la prima volta, a partire da questa legislatura, abbiamo in Parlamento i rappresentanti degli italiani all'estero - a quanto ebbe a dire nel novembre del 2000, nel corso della Conferenza dei parlamentari di origine italiana, l'allora Vicepresidente del Senato della Repubblica argentina, Antonio Francisco Cafiero: «Possiamo affermare, senza tema di esagerare, che l'Italia non appartiene soltanto agli italiani: appartiene all'umanità intera (...). L'italianità ha saputo trasmettere i suoi valori, retaggi e messaggi lungo i secoli (...). Il linguaggio costituisce l'identità fondamentale di un popolo. Quando un'opera o un autore ci parlano con bellezza letteraria e profondità filosofica delle vicissitudini di un uomo alla ricerca del proprio destino, della complessa mutazione della cultura, dell'energica spinta alla vita attraverso l'arte poetica, ci troviamo senza alcun dubbio alla presenza di un genio delle lettere e della parola. Del poeta di una Pag. 96nazione e di tutte le nazioni. L'imponente presenza di Dante Alighieri e del suo capolavoro, la Divina Commedia, sono proprio questo: un passaporto universale degli italiani che, da secoli, apre le porte di tutte le culture».
Proprio il riferimento a Dante mi dà la possibilità di andare alle radici della nostra identità, così come egli, sette secoli fa, le descriveva nel primo capo del De vulgari eloquentia, scrivendo: «Habemus simplicissima signa», vale a dire: «abbiamo (cioè) alcuni tratti semplicissimi e fondamentali, in quanto agiamo come italiani, tratti di costumi, di abitudini, di lingua, rispetto ai quali si soppesano e si misurano le azioni italiane».
Questo valore unificante della lingua, che preesiste, dunque, alla stessa unificazione statuale dell'Italia, va oggi rinsaldato anche di fronte ad alcuni segnali inquietanti che vengono da alcune parti del territorio nazionale, in cui la centralità della lingua italiana è messa seriamente in discussione.
In alcuni casi, elementi di protezione avanzata delle minoranze nazionali o linguistiche (mi riferisco al cosiddetto bilinguismo) diventano, invece, strumento per l'imposizione di un monolinguismo della «toponomastica al contrario», che cancella l'italiano (Applausi del deputato Biancofiore): ciò succede, da anni, nell'Alto Adige, con il tedesco, ed inizia ora ad accadere anche nella mia Venezia Giulia, con lo sloveno. Infatti, vengono cancellati i toponimi italiani per essere «slovenizzati». Si tratta di un fatto ampiamente conosciuto, da decenni, in Alto Adige: scompare - e lo si riscontra, tra l'altro, dai censimenti linguistici ed etnici - la componente italiana!
In altri casi, invece, orientamenti autonomisti esasperati determinano situazioni in cui si tende a valorizzare la lingua o il dialetto di una comunità minoritaria in antitesi alla lingua comune. Nessuno pensa di dimenticarsene né può negarli. Ma la conservazione di questo patrimonio culturale, storico e linguistico si realizza nella valorizzazione del costume, delle tradizioni, delle fedi, dei canti popolari, nella diffusione locale delle opere letterarie dialettali, nella diffusione più vasta di quelle che assurgono a valore dell'arte, nel sostegno pubblico ad associazioni, circoli, filodrammatiche, riviste che abbiano come fine la preservazione e la divulgazione di quel patrimonio dialettale o linguistico.
È evidente, al riguardo, che le espressioni dialettali possono avere però carattere solo aggiuntivo, e mai sostitutivo, rispetto alle espressioni italiane.
La lingua di Dante ha unito l'Italia e di tutto questo c'è traccia nella tradizione popolare anche parlata di ogni nostro luogo anche dove l'Italia non c'è più.
Penso, ad esempio, a me che porto nel cuore la memoria familiare delle vecchie province orientali, che in Istria si cantava: « Viva Dante, gran maestro de l'italica favella» a Fiume invece: «Difendéla, difendéla questa lingua più del pan, perché Fiume la xe bela finché parla l'italian»; e a Zara si diceva: «Semo fradei! Za me capì, restemo sempre gente del sì!». Anche lontane memorie e anche canti popolari di un'Italia che non c'é più vanno poi alle radici di una tradizione antica.
Ho citato, accingendomi a concludere, queste strofe vecchie di decenni o quasi di un secolo per significare che si può fondere memoria e futuro, tradizione locale e nazionale, piccola e grande patria, unità linguistica e unità nazionale, anzi è questa azione intelligente e meritevole di attenzione da parte del Parlamento tutto.
«Sacralizzare» la lingua italiana, riconoscendola tra i principi della Costituzione all'articolo 12 è, al tempo stesso, riconoscere un patrimonio inestimabile e assieme proiettarlo nel futuro. Come ci insegnava Alessandro Manzoni, «dopo l'unità di Governo, d'armi e di leggi, l'unità della lingua è quella che serve più a rendere stretta, sensibile e profittevole l'unità di una nazione» (Applausi dei deputati del gruppo Alleanza Nazionale - Congratulazioni)!
PRESIDENTE È iscritta a parlare l'onorevole Santelli. Ne ha facoltà.
JOLE SANTELLI. Signor Presidente, i colleghi già nel corso della discussione Pag. 97sulle linee generali hanno ricordato come questo disegno di legge prenda le mosse nella XIII legislatura e continui, di fatto, il suo iter nelle legislature successive, senza però arrivare sostanzialmente ad una conclusione.
La maggiore obiezione che si può fare a questo testo è la seguente: considerato che la Costituzione è un testo abbastanza asciutto, almeno nella sua formulazione tecnico-linguistica, e considerato che i costituenti non avevano ritenuto opportuno inserire l'ufficializzazione della lingua italiana nella Costituzione in quanto la ritenevano scontata, perché oggi nasce questo problema? È un problema inutile. Io credo che la discussione effettuata non solo in questa legislatura sia in Commissione sia in aula, ma anche nelle precedenti legislature abbia dimostrato proprio il contrario. È vero che l'italiano è considerato la lingua dello Stato, ma vi sono paure reali e fantasmi che si annidano là dove si ritiene di poterla costituzionalizzare. Se così è vuol dire che non è innocuo inserirla o meno nel testo costituzionale. A tal proposito vorrei dare innanzitutto alcune risposte ai colleghi che hanno parlato in precedenza. Il collega Russo questa mattina ha detto che vi sono delle lingue che si sono dovute imporre nei loro paesi, come per esempio il francese in Francia come estensione del centralismo parigino, ed altre lingue che hanno avuto un loro riconoscimento generale nei loro paesi, come l'italiano, ma in realtà non è proprio così.
Nel 1870 - ai tempi dell'unità d'Italia -, solo 600 mila italiani conoscevano l'italiano e di questi 400 mila erano toscani. L'italiano attuale, che nasce, come sappiamo tutti, dal fiorentino, si impone per un suo dato culturale e letterario agli altri, ma diventa - questa è l'importanza della lingua in termini identitari - il vero collante (come ha ricordato già il presidente Violante nella relazione) dell'unità d'Italia, del senso identitario di un paese che nasceva. Questo avvenne non solo nel 1870 e nel momento dell'unità, quando l'analfabetismo raggiungeva la percentuale dell'80 per cento, ma anche nell'epoca post-repubblicana. Dobbiamo ricordare che la diffusione capillare dell'italiano si deve soprattutto allo strumento più immediato che arriva nelle case, cioè alla televisione. È la televisione che di fatto diventa la scuola tramite cui gli italiani imparano la loro lingua; essi non si discostano o dimenticano quelli che erano gli idiomi locali, ma imparano la loro lingua, che diventa il collante del senso di comunità nazionale.
Il presidente Violante ha citato Pasolini e quanto egli sosteneva a proposito dell'italiano; si tratta di una parte bellissima, con delle frasi meravigliose: l'italiano come vera istituzione, per cui si innova un senso nazionale; l'italiano come lingua e come innovazione per la creazione di una comunità, anzi per la creazione di una fratellanza.
Questa è la risposta - che deriva forse da anni precedenti - più sensata da dare alle preoccupazioni che oggi in quest'aula esprimeva il collega Russo.
Possiamo ritenere che inserire in Costituzione la previsione che l'italiano è la lingua ufficiale dello Stato costituisca un atto contro qualcuno? Stiamo facendo una norma per creare una barriera per coloro che saranno i nuovi cittadini italiani? È esattamente il contrario! Solo tramite la lingua, solo tramite la conoscenza reale della lingua, chi verrà in questo paese riuscirà realmente ad integrarsi e a sentirsi parte della comunità.
Volevo far riflettere, colleghi, su un fatto che ho notato spesso (forse alcuni di voi se ne saranno accorti): spesso in coloro che vivono nel nostro paese e non sono di origine italiana c'è una ricerca, spasmodica quasi, del vocabolo particolare, della proprietà di linguaggio, che noi italiani, parlando comunemente questa lingua, spesso non abbiamo. Ci si chiede perché esista questa ricerca. La risposta sta nel fatto che alla fine più ci si appropria della lingua e più si aumenta il proprio potere reale all'interno di una comunità. Lo sforzo è massimo. Quindi, credo al contrario che questo inserimento, invece di rappresentare una barriera, possa rafforzare Pag. 98il senso di comunità e di integrazione, favorendo l'abbattimento di una barriera.
Altri ostacoli a questa legge - alcuni palesi, altri posti in essere come polemiche finte, ma reali in quanto echeggiate in quest'aula - nascono da due diverse valutazioni.
In primo luogo, inseriamo nella Costituzione il riconoscimento dell'italiano come lingua ufficiale dello Stato perché in qualche modo vogliamo venir meno a quel principio di riconoscimento delle minoranze linguistiche che è previsto nella nostra Costituzione? In questi giorni mi sono divertita a vedere sui siti Internet un mare di rivendicazioni di associazioni che scrivono cose del genere; addirittura esiste un documento di una associazione per i popoli minacciati! Minacciati dal fatto che il Parlamento italiano scrive in Costituzione che l'italiano è la sua lingua ufficiale! La cosa più strana è - ed intendo rispondere anche al collega Boato - che la proposta di modifica della Costituzione genera preoccupazione proprio in quella popolazione (mi riferisco al Trentino-Alto Adige e all'Alto Adige in particolare) che, stranamente, è l'unica ad avere riconosciuto l'italiano come lingua ufficiale: l'unico testo costituzionale in cui c'è il riconoscimento della lingua italiana come lingua ufficiale dello Stato è l'articolo 99 dello statuto di autonomia del Trentino-Alto Adige.
Sull'ufficializzazione della lingua è stato scritto tanto. Essa è ritenuta una cosa naturale. D'altronde, come abbiamo ricordato in Commissione, è vero che non c'è il riconoscimento esplicito della lingua italiana nella Costituzione, ma è anche vero che la Costituzione italiana è scritta in italiano.
Però, direi che i fantasmi di un possibile ritorno all'indietro sul piano del riconoscimento delle minoranze linguistiche devono essere accantonati come pura demagogia politica. Altro è l'affermazione, voluta, di un monolinguismo straniero in queste zone. In alcune zone del nostro paese riconosciamo pienamente il bilinguismo, vale a dire due lingue che abbiano pari dignità, non una lingua straniera che abbia un ruolo maggiore rispetto alla lingua italiana: parità questo vuol dire; e mi sembra un riconoscimento ampissimo delle garanzie di chi si ritiene minoranza linguistica.
In secondo luogo, devo dare atto ai colleghi della Lega di avere cancellato, oggi, in quest'aula, anche quella che poteva essere una speciosa polemica, sollevata ad arte, relativa ad un presunto accanimento della Lega contro il testo in esame. Invece, l'atteggiamento della Lega è stato corretto nei termini, riconoscibile e condivisibile nei suoi principi. Oggi, la Lega ha detto: è vero che esiste una lingua ufficiale, che è l'italiano, ma esistono anche altre lingue, idiomi e dialetti (sulla cui caratterizzazione anche gli studiosi si dividono; io assumo il termine «dialetto» come lingua che non ha riconoscimento ufficiale). Vogliamo dare un riconoscimento costituzionale a queste lingue? Forse no, forse non serve un riconoscimento costituzionale. Sicuramente, è importante sapere che si tratta di una ricchezza. Al riguardo, mi sia consentito mutuare la seguente frase di De Mauro, che trovo bellissima: «Nel confronto europeo e mondiale c'è qualcosa di fondamentale e specificamente italiano: ed è proprio la tenace e millenaria persistenza delle differenziazioni linguistiche e culturali delle popolazioni che hanno convissuto e vivono in Italia».
Il problema diventa più grave, però, nel momento in cui riconosciamo una localizzazione ed una regionalizzazione. È vero che in alcune aree stabilite, in termini regionali, ci sono specifiche lingue, e che in altre regioni, costruite, in qualche modo, più politicamente che geograficamente comunitarie, troviamo un coacervo di lingue (pensiamo alla Sardegna, che ritiene di avere almeno cinque lingue, alcune delle quali riconosciute come vere e proprie lingue).
Quindi, credo che il tema proposto dalla Lega debba essere necessariamente approfondito ed assolutamente non sottovalutato. Si potrà scegliere se inserirlo o meno in Costituzione, ma ricordiamo che quel patrimonio linguistico è, ripetendo le Pag. 99parole di De Mauro, una delle particolarità, una delle peculiarità, delle grandi caratteristiche del nostro paese da preservare.
Per concludere, colleghi, oggi abbiamo una duplice «guerra» (tra virgolette) da combattere: una interna ed una esterna. Quella interna concerne il fatto che, come popolo, siamo particolarmente permeabili a tutte le innovazioni culturali e, spesso, molto affascinati dall'erba del vicino. Ciò ha portato ad una contaminazione fortissima della nostra lingua. Questo non significa che non dobbiamo conoscerne altre ed utilizzare altri termini.
PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE PIERLUIGI CASTAGNETTI (ore 19)
JOLE SANTELLI. Un conto è conoscere dei termini scientifici o tecnici, un altro è ricorrere necessariamente a questi. Semplicemente per rimanere nell'ambito parlamentare, comunemente parliamo di question time e il nostro Parlamento ha approvato una legge sulla privacy. Quindi, molto spesso, pur essendoci dei termini assolutamente italiani corrispondenti a quelli di tipo anglo-americano, scegliamo per comodità quelli anglo-americani. Allora, il riconoscimento in Costituzione può anche dare un orientamento reale soprattutto all'uso pubblico della nostra lingua.
Il secondo punto, più delicato, riguarda invece l'ambito estero e soprattutto quello dell'Unione europea. L'italiano, nonostante sia la diciannovesima lingua parlata in termini quantitativi, è la terza lingua studiata in quanto lingua straniera. Molto è stato fatto, molto può essere ancora fatto per la grande fascinazione che ha non solo dal punto di vista storico, ma anche dell'attualità politico-economica. Teniamo conto che, per esempio, in alcune categorie settoriali merceologiche molte imprese straniere scelgono il marchio con l'indicazione nominativa italiana perché, in qualche modo, il made in Italy, in termini di design in generale, viene considerato di maggior attrazione.
Il problema più grave, l'abbiamo visto negli scorsi anni, riguarda l'Unione europea perché si sta tentando di attestare sempre più un monolinguismo inglese. Difficilmente questo arriverà ad essere attuato pienamente nell'Unione europea, perché la forza nazionalistica della Francia e dei paesi di lingua francofona, soprattutto quelli del Benelux, non accetterà mai che esista esclusivamente la lingua inglese. Quindi, potremmo trovarci nell'Unione europea con una documentazione totale in francese e in inglese, con l'espropriazione totale di altre lingue che hanno pari dignità storica. Di conseguenza, oggi, al di là di quelle che possono essere polemiche in parte desuete in uno stato democratico, quello che possiamo riconquistare scrivendo questa modifica della Costituzione non è un arretramento in nessun principio, anzi, è il riconoscimento ulteriore della nostra identità culturale, storica, di quello che significa anche per noi essere nazione, soprattutto ribadendo - questo mi sembra doveroso - anche l'orgoglio di esserlo (Applausi dei deputati del gruppo Forza Italia).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Zaccaria. Ne ha facoltà.
ROBERTO ZACCARIA. Signor Presidente, in questo momento abbiamo recuperato il clima di questa mattina che era significativo perché particolarmente attento, anche se, ovviamente, l'aula non era al completo, come in genere avviene durante le discussioni generali. Era importante recuperare un clima di solennità perché stiamo mettendo mano ad una parte significativa della nostra Costituzione. Non sappiamo quale sarà l'esito di questo nostro primo atto, però devo ringraziare il presidente Violante, che, oltre che presidente della Commissione, questa mattina ha svolto anche le funzioni di relatore. Voglio altresì ringraziare l'onorevole Boato, e mi limito a loro due, non perché non voglia ringraziare tutti coloro che sono intervenuti, ma perché l'onorevole Violante ha indicato, il significato complessivo di questo provvedimento legislativo in veste di presidente e di relatore, mentre l'onorevole Boato ci ha aiutato, Pag. 100come spesso fa nei suoi interventi in quest'aula, a ricostruire la memoria storica di questo percorso. Dico ciò perché, parlando in questi giorni con alcuni colleghi, ho trovato nelle loro espressioni atteggiamenti di una certa sorpresa sul fatto che la Commissione affari costituzionali presentasse in aula un testo di questo tipo, quasi che fosse un'improvvisazione e non vi fosse alle spalle il lavoro di ben due legislature.
Anche se ogni legislatura ha la sua autonomia, il Parlamento, com'è naturale, ha una sua storia. E la storia di questo provvedimento risale alla XIII legislatura. Gli atti, gli interventi dei nostri colleghi sono rintracciabili nei documenti parlamentari ed è utile leggerli, per capire che un certo lavoro non nasce all'improvviso, ma attraverso un approfondito percorso parlamentare.
È importante rispettare questo percorso parlamentare perché, naturalmente, tiene conto di una serie di elementi e a questo tipo di intervento dà non solo la solennità, ma anche un significato, uno spessore, una particolare lettura, un valore.
Allora, dobbiamo cominciare con il dire che affrontiamo un percorso di revisione costituzionale. Anche nel dibattito di questa mattina alcuni colleghi hanno riprodotto la preoccupazione già espressa in altre sedi di non toccare la Costituzione, soprattutto la prima parte.
Navigando nel sito della Corte costituzionale, si constata che la Costituzione è stata modificata, con riferimento a diversi articoli, 37 volte e che sono state approvate, non le ho contate bene, 34 o 35 leggi costituzionali, che hanno toccato la nostra Costituzione o che, comunque, l'hanno integrata, dettandone significativi complementi.
All'articolo 10 - lo dico per coloro che si preoccupavano della possibilità di toccare i primi articoli -, laddove si stabilisce che non è ammessa l'estradizione dello straniero per reati politici, nella nota, si specifica che l'articolo unico della legge costituzionale 21 giugno 1967, n. 1, stabilisce: «L'ultimo comma dell'articolo 10 e l'ultimo comma dell'articolo 26 della Costituzione non si applicano ai delitti di genocidio».
È vero che dobbiamo stare molto attenti nel momento in cui tocchiamo certe parti della Costituzione, ma, non possiamo neppure considerarle assolutamente intoccabili. È eccessivo (mi sembra che l'abbia ricordato molto bene questa mattina Boato) negare perfino la possibilità di «aggiungere» alcune norme di principio. Questi sono limiti che non hanno senso, neanche alla luce dei recenti referendum in materia costituzionale. Il popolo ha detto «no» a modifiche che riguardino parti significative, fatte con maggioranze non sufficientemente ampie. Da un diverso punto di vista, si può dire che singoli punti della Costituzione, possono essere ben modificati con il conforto di ampie maggioranze.
Né mi preoccuperei del fatto che questa proposta provenga da alcuni colleghi di Alleanza Nazionale, che l'anno presentata in altre legislature. Quello della revisione costituzionale e delle leggi costituzionali è il terreno sul quale bisogna trovare larghe intese. Non è detto che le motivazioni siano le stesse da parte di coloro che concorrono da diverse parti alla modificazione delle norme costituzionali! Quello che è importante è che ci si trovi d'accordo su un determinato testo e su una certa formulazione, con motivazioni che possono venire da culture diverse. Questo è il significato di un lavoro corretto intorno alla Costituzione, altrimenti non arriveremo mai all'obiettivo, che ci siamo proposti, di arrivare a larghe intese.
Vorrei dire anche che l'inserimento della lingua italiana nella Costituzione, certamente, non è stato pensato e neanche molto dibattuto al momento della formazione della Costituzione tra il 1946 ed il 1948: quella non era la stagione.
Probabilmente, un certo modo di rapportarsi alla lingua, tipico del periodo precedente, ha condotto i costituenti a preoccuparsi maggiormente della valorizzazione delle minoranze. In ogni caso, si tratta di una giustificazione di quel momento Pag. 101storico, che non può essere considerata quale motivazione valida in ogni, anche diverso, momento storico.
Del resto, il collega Boato ha ricordato le altre Costituzioni nelle quali vi è un riferimento alla lingua ufficiale dei singoli paesi espresso con formulazioni diverse: la Francia ad esempio ne adotta una, la Spagna ne adotta una diversa, l'Austria fa riferimento alle garanzie delle minoranze linguistiche, in considerazione della propria articolazione sociale. Proprio la formazione dell'Europa (la Francia ha inserito la norma dopo il Trattato di Maastricht) rende plausibile che nelle diverse comunità nazionali questo riferimento, che al momento della formazione della Costituzione non appariva attuale, diventa estremamente significativo. Come a rendere esplicito il fatto che l'Europa si forma quale momento di sintesi di una pluralità di apporti diversi. Ecco perché dobbiamo tener conto che vi possono essere contingenze storiche che rendono indispensabile una norma che magari anni prima non era altrettanto importante.
Quando ho partecipato ai primi dibattiti in Commissione su questo argomento, anch'io ero agitato da alcune preoccupazioni e riserve, che probabilmente facevano parte di una sorta di retaggio e di pregiudizio che spesso accompagna ciascuno di noi nel momento in cui affronta una discussione nuova.
In quell'occasione, è sorta in materia del tutto spontanea la necessità di ascoltare i professori dell'Accademia della Crusca. Quell'audizione è stata per me estremamente illuminante.
Le pagine scritte dai professori Sabatini, Maraschio e Coletti - tra l'altro scritte in un perfetto italiano -, le raccomando alla lettura di tutti i colleghi, in quanto contengono parti estremamente significative.
La prima parte riguarda le premesse generali di storia linguistica italiana. Qui, attraverso pochissime parole, viene fornita una sintesi superba dell'evoluzione del processo linguistico - da Dante fino all'epoca contemporanea - visto, dapprima dal basso, attraverso il percorso dei dialetti fino a giungere al riconoscimento della lingua ufficiale e poi, dall'alto, in un percorso nel quale si evidenziano alcuni canoni significativi per l'identificazione di una lingua nazionale: la disponibilità ad una forma scritta, la formazione e l'accettazione di una norma esplicita sufficientemente univoca, il possesso di strutture sintattiche e di patrimonio lessicale, l'adeguatezza agli usi ufficiali, la capacità di confronto e corrispondenza con altre lingue in ambito internazionale.
Ma vi è una conclusione, in questa prima parte, che vorrei soprattutto ricordare perché mi pare molto importante: «A conclusione di questa rapida ricostruzione della storia linguistica d'Italia, va messo in piena luce un dato essenziale; diversamente da quanto accaduto negli Stati che, costituitisi come tali per tempo, hanno potuto affiancare e promuovere, con azioni politiche, il processo di formazione di una lingua nazionale, nel caso italiano è stata proprio l'esistenza costante ed indiscussa di una lingua unitaria di robusta cultura che ha preparato la successiva riunificazione politica ed ha permesso anche di individuare lo spazio del nuovo Stato».
Mi soffermerò poi sulla seconda parte del testo ma voglio intanto sottolineare ancora il particolare significato assunto dalla lingua italiana con riferimento alla costruzione dell'unità del paese.
Avviandomi alla conclusione del mio intervento, vorrei chiarire che noi abbiamo riflettuto attentamente su come articolare questo testo. Naturalmente, si discuteva della lingua italiana come lingua ufficiale e, al riguardo, ricordo che ci è stato consigliato di utilizzare la formula: l'italiano è la lingua ufficiale della Repubblica. Quindi, rifuggendo da qualsiasi volontà normativa sulla lingua, si intendeva in tal caso utilizzare il riferimento alla stessa per affermare un principio importante che è poi quello sul quale hanno richiamato l'attenzione i professori della Crusca.
Ma al riguardo vorrei riprendere le considerazioni svolte questa mattina dal presidente Violante circa il delicato punto Pag. 102di equilibrio tra momenti unitari e momenti di articolazione ed anche disgregazione possibile in una comunità complessa. Vorrei osservare che, in fondo, tale tipo di aspirazione è contenuto nell'articolo 5 della Costituzione, laddove si riconosce, in un'unica disposizione - che reca una delle norme più raffinate dell'intero testo costituzionale -, l'equilibrio tra l'unità e le «autonomie». A mio avviso, ancor più che nell'articolo 6 della Carta sulle minoranze linguistiche - cui farò riferimento tra breve -, è qui che è contenuto il momento fondamentale della nostra sintesi.
Il testo in esame, peraltro, oltre a recare la formula secondo la quale «L'italiano è la lingua ufficiale della Repubblica (...)» poteva teoricamente contenere un riferimento alle minoranze, come fanno la Costituzione austriaca o altre Carte. Anzi, taluno aveva proposto, nel corso del dibattito, di inserire appunto nell'articolo 6 un tale riferimento; sotto il profilo logico sarebbe stato abbastanza comprensibile perché l'articolo 6 parla di minoranze linguistiche ed ha esattamente il seguente tenore: «La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche». Come ha osservato l'onorevole Boato questa mattina, noi ci siamo posti il problema del significato che avrebbe assunto l'inserimento nell'articolo 6 di un «cappello» concernente la lingua italiana, così formulato: «La lingua italiana è la lingua ufficiale della Repubblica». Anche se quella sembrava la sedes materiae ideale, si sarebbe corso il rischio di frenare tutta l'interpretazione sviluppatasi intorno all'articolo 6. Un'interpretazione ricchissima nella dottrina costituzionalista, e non solo; nell'articolo 6, infatti, si è letta non solo la tutela delle minoranze linguistiche ma quella, anche, delle «diverse» minoranze esistenti. Quindi, un concetto molto più ampio che non quello puramente letterale compreso all'interno del nostro perimetro nazionale.
Ci siamo dunque posti il problema - e l'onorevole Boato ha dato la risposta adeguata - di operare una più discreta aggiunta all'articolo 12 della Carta. L'onorevole Franco Russo ha dichiarato che però si sarebbe «toccato» l'articolo 12; vorrei al riguardo invitare l'onorevole Franco Russo e gli altri colleghi presenti in questa sede a verificare, sui testi e sui commentari di diritto costituzionale, lo spazio dedicato all'articolo 12. Anzi, vorrei aggiungere in maniera più diretta che per lunghi anni molti costituzionalisti leggevano con un certo imbarazzo questo articolo, ritenendo che il riferimento alla bandiera fosse difficilmente commentabile e scarsamente significativo. Certamente, poi, il valore di tale articolo è stato via via costruito, grazie anche all'impegno del Presidente Ciampi nel suo settennato diretto alla valorizzazione del significato della patria, dell'unità nazionale e di tutti questi simboli. Ha quindi acquisito con il tempo un maggiore consenso e una maggiore giustificazione.
Oggi si aggiunge un altro valore simbolico in tale articolo. Vorrei dire che non sono affatto d'accordo con la ricostruzione fatta dall'onorevole Franco Russo, nell'affermare che la Costituzione si rivolge o a tutti o ai cittadini. Nei primi articoli della Costituzione vi sono norme che hanno un altro riferimento. L'onorevole Franco Russo ha parlato di maggioranza. Certo, ci sono norme che possono tener conto delle maggioranze. L'articolo 7 della Costituzione parte dal riconoscimento che vi è un ordinamento particolare per una religione che ha un seguito maggioritario nel paese. Certo che, poi, vi è anche l'articolo 8, che equilibra tale disposizione con l'eguale libertà. È chiaro che il riferimento alla bandiera è un simbolo che riguarda i cittadini tutti, più che gli stranieri, ma credo che anche i migranti che vengono nel nostro paese per risiedervi a lungo, accettino, nella misura in cui vogliono vivere in questo paese, anche quelli che possono essere considerati i valori simbolici di questo paese. Quindi, non mi preoccuperei di tale fatto. La Costituzione non mi pare che dica le cose che stamattina l'onorevole Franco Russo tendeva a farle dire.
Vorrei concludere citando la parte finale dell'audizione dei professori dell'Accademia della Crusca. Questi ultimi sono Pag. 103letterati, non sono giuristi, ma non credo che le leggi, soprattutto quelle costituzionali, non debbano essere fatte dai soli giuristi, anzi vorrei dire (un po' per scherzo e un po' no) che questi ultimi debbono essere tenuti a discreta distanza. Coloro che «maneggiano» la lingua possono, in qualche modo, dare un contributo certo in questa direzione e su questo tema, non decisivo, ma un contributo. «L'inserimento in Costituzione, nell'articolo 12, della menzione dell'italiano come lingua ufficiale è un gesto opportuno e auspicabile, perché riconosce e sintetizza una realtà di fatto secolare, voluta e condivisa da tutte le aree culturali del nostro paese e non può, in nessun modo, essere inteso come un atto di imposizione, un gesto di separazione, da nuclei di popolazione portatori di altre tradizioni linguistiche» e, vorrei aggiungere, culturali.
L'inserimento di tale menzione trova anche altri motivi a suo favore; aiuta innanzitutto una larga parte della popolazione che nel nostro giovane Stato è meno a conoscenza dei fatti storici e culturali che sono stati prospettati nella prima parte di questo documento; opera positivamente sui responsabili dell'istruzione scolastica e delle attività di formazione del personale destinato alla scuola; sostiene i responsabili della comunicazione istituzionale (ne parlava l'onorevole Santelli) e dei grandi mezzi di comunicazione; indirizza i responsabili di ogni azione politica estera, specialmente nel sedi europee, nelle quali è quotidiano il confronto con la pressione di altre lingue che tendono a togliere spazio all'italiano.
Tutto questo lo dicono i professori di storia della lingua. Potrà anche essere una visione discutibile, ma il significato in chiave europea è chiarissimo: si partecipa ad un processo di questo tipo anche forti delle proprie esperienze.
Vorrei ancora citare alcuni passi che mi paiono significativi: «Nel dibattito parlamentare» - e questo è un discorso che ci riguarda direttamente - «che ha preceduto i lavori di questa Commissione ci si è spesso chiesti come mai i costituenti non ritennero di inserire il riconoscimento della lingua ufficiale già nella Carta originaria. La risposta sta nella scarsa urgenza del problema in quel momento storico, nel carattere incontestato e pacifico dell'affermazione di quanto ora si richiede e anche, si può pensare, nell'opportunità di non marcare troppo un tratto che il nazionalismo precedente aveva esasperato, tanto è vero che si ritenne» - lo dicevo poc'anzi - «di inserire in Costituzione la tutela delle minoranze linguistiche. Ciò che allora poté sembrare superfluo e inopportuno oggi, invece, appare necessario, perché le questioni linguistiche hanno acquistato una centralità prima impensabile e le lingue dei grandi paesi hanno bisogno di acquisire una più precisa riconoscibilità».
Dunque, noi abbiamo inserito questa formulazione: «L'italiano è la lingua ufficiale della Repubblica, nel rispetto delle garanzie previste dalla Costituzione e dalle leggi costituzionali».
Non vorrei essere immodesto, poiché quel testo l'abbiamo proposto assieme al collega Boato.
MARCO BOATO. Ma l'hai scritto tu!
ROBERTO ZACCARIA. In ogni caso, ci siamo posti il problema di inserire in Costituzione un riferimento alla stessa Costituzione.
Non è una novità. In altre norme della Costituzione (ad esempio nell'articolo 1) vi sono riferimenti alla stessa Costituzione. Se noi ci fossimo limitati alle sole minoranze linguistiche, avremmo dettato una norma importante e necessaria; ma abbiamo voluto fare di più. Abbiamo voluto dire nel rispetto di tutte le garanzie previste dalla Costituzione, compreso soprattutto l'articolo 3 che parla di ogni minoranza e che, quindi, fa salva la ricchezza plurale e culturale acquisita dal nostro paese. Con il richiamo alla lingua italiana non c'è alcun tipo di imposizione.
Per sottolineare tutto questo, vorrei ancora richiamare le conclusioni dei professori della Crusca. «L'affermazione decisa e nitida posta nell'articolo 12, secondo cui l'italiano è la lingua ufficiale della Pag. 104Repubblica, rappresenterebbe il pieno riconoscimento, a distanza di 700 anni, della visione che Dante aveva già offerto della nostra lingua allora nascente, come lingua non imposta da poteri autoritari, ma nata per consenso degli spiriti nobili della »nazione« culturale e accolta e coltivata dappertutto in essa come principio di unione interna, veicolo di cultura nel mondo, forma concreta di rispetto delle diversità» (Applausi dei deputati del gruppo L'Ulivo).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Adenti. Ne ha facoltà.
FRANCESCO ADENTI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, la nostra Carta costituzionale è un preziosissimo patrimonio che siamo tutti chiamati a valorizzare e difendere - patrimonio che condensa i valori, i principi e la tradizione di civiltà del nostro paese -, ma allo stesso tempo essa deve esser intesa quale testo dinamico, capace di interpretare le evoluzioni che lo sviluppo storico e culturale e il mutare delle condizioni sociali e politiche del nostro paese determinano.
Così com'è avvenuto di recente sul tema dell'abolizione della pena di morte, anche oggi, discutendo delle proposte di legge sulla modifica dell'articolo 12 della Costituzione in materia di lingua ufficiale della Repubblica, ci troviamo di fronte ad un improcrastinabile intervento di modifica costituzionale.
La questione dell'ufficialità della lingua italiana non fu un tema centrale dell'Assemblea costituente; il dibattito di allora dimostra chiaramente come in quella precisa fase storica, da una parte, si considerava il tema della lingua ufficiale come un'ovvietà indiscutibile e, dall'altra, vi era una chiara volontà di non marcare un tratto che il nazionalismo linguistico fascista aveva esasperato.
Oggi le condizioni relative a questo argomento sono radicalmente cambiate. Infatti ci troviamo di fronte a due fenomeni che non possiamo omettere di considerare discutendo su questo tema. Gli anni più recenti ci hanno posto dinanzi a due fenomeni opposti, ma coesistenti: intendo cioè i fenomeni della globalizzazione e, di contro, dell'affermazione dei localismi. Due dinamiche socioculturali strettamente connesse tra di loro. Da una parte, la globalizzazione culturale determinata dai sempre maggiori contatti tra sistemi culturali differenti, dalla contaminazione sempre maggiore tra culture in virtù di sempre più facili, immediate e dirette relazioni tra individui - pensiamo ai grandi cambiamenti avvenuti nel campo della comunicazione, della mobilità, degli scambi e delle relazioni economiche, ma anche a fenomeni come quello dell'immigrazione che, certamente, ha favorito processi di scambio culturale -; dall'altra, una, forse inevitabile, difesa in questo clima da tutto ciò che si presenta come eterogeneo rispetto al proprio sistema culturale, una chiusura rispetto a tutto ciò che è diverso da se stessi. Un atteggiamento difensivo, che passa anche per processi di riscoperta profonda delle proprie origini e tradizioni nell'intenzione di preservare i caratteri precipui della propria identità.
Il tema della lingua nazionale dunque non può essere analizzato se non a partire da questi due fenomeni che interessano l'evoluzione culturale e sociale del nostro paese.
Dobbiamo chiederci che senso abbia oggi procedere alla costituzionalizzazione di un principio che, già presente in effetti nell'ordinamento, stabilisce il ruolo della lingua italiana quale elemento costitutivo identificante della comunità nazionale, a prescindere dalle diversità localistiche. Da una parte, infatti, tale provvedimento potrebbe essere interpretato come miope, di fronte ad un mondo che si muove verso la globalizzazione, un patetico intervento legislativo vòlto ad affermare un'identità locale. Dall'altra, esso potrebbe sembrare un intervento destinato ad arginare possibili degenerazioni localistiche interne e tentativi di porre in contrapposizione l'identità nazionale del nostro popolo con le tradizioni storiche e culturali locali.
Noi Popolari-Udeur riteniamo che costituzionalizzare questo principio sia un atto dovuto a tutela del patrimonio storico Pag. 105e culturale del nostro paese, anche alla luce della pregnante autonomia riconosciuta alle regioni in materia di istruzione e cultura, ai sensi del nuovo articolo 117 della Costituzione. Infatti, non possiamo in alcun modo dimenticare il significato storico e politico che, sopratutto in epoca risorgimentale, la ricerca e la formazione di una lingua comune a tutti gli italiani ha assunto nella costruzione della nostra coscienza nazionale, intesa come senso di appartenenza ad un'unica nazione, erede di una storia e di una civiltà comuni, benché soggetta a frammentazione locale nel corso dei secoli passati. Ne consegue la necessità di preservare questo elemento di comunione, simbolo, al pari del tricolore, dell'unità e dell'indivisibilità della Repubblica, solennemente affermate dall'articolo 5 della Costituzione. Quest'ultima necessità si impone sia rispetto alle eccessive possibili spinte localistiche, sia rispetto all'importanza di affermare, attraverso il riconoscimento della lingua nazionale, il carattere specifico dell'identità italiana, nell'ambito di un processo di globalizzazione culturale.
Inoltre, crediamo che tale provvedimento, così come risulta al termine dei lavori della Commissione, in nessun modo voglia recare pregiudizio all'identità delle minoranze linguistiche. Il dibattito su questo tema nell'Assemblea Costituente, infatti, si concentrò proprio sulla tutela delle minoranze linguistiche. Il risultato si tradusse nell'articolo 6 dell'attuale dettato costituzionale. Tale principio in nessun modo deve e può essere messo in discussione. In questo senso, si condivide pienamente quella parte del progetto di legge ove si dice espressamente che il riconoscimento della lingua italiana quale lingua nazionale avviene nel rispetto delle garanzie previste dalla Costituzione e dalle leggi costituzionali.
Infine, crediamo che in materia debba anche essere sollecitata, prendendo spunto da questa proposta di legge costituzionale, una significativa azione politica di affermazione del ruolo della lingua italiana nel contesto dell'Unione europea, di cui siamo parte e tra i paesi fondatori, auspicando in tal senso un'azione che sostenga il ruolo della lingua italiana accanto alle altre lingue dei principali paesi europei, in particolare di quelli fondatori.
PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.