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Allegato B
Seduta n. 161 del 30/5/2007
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AFFARI ESTERI
Interpellanze:
Il sottoscritto chiede di interpellare il Ministro degli affari esteri, per sapere - premesso che:
il 6 ottobre del 1950, la Repubblica popolare cinese di Mao Tse-Tung con un contingente di 40.000 militari diede inizio all'occupazione del Tibet, stato indipendente a nord del Nepal. A seguito di questo atto di aggressione in violazione della legge internazionale, il Tibet divenne parte del territorio cinese, a nord suddiviso tra le province di Qinghai, Gansu, Sichuan e Yunnan e a sud con la provincia dell'U'-Tsang compresa in quella che diverrà, nel 1965, la Regione Autonoma del Tibet (TAR);
l'autonomia politica e amministrativa della regione, prevista nell'Accordo in 17 punti sottoscritto dalla Cina e dal Tibet nel 1951, rimase solo sulla carta. Di fatto la legislazione locale venne limitata e sottoposta all'approvazione del governo centrale, mentre l'amministrazione venne gestita
dal partito comunista regionale che non hai mai avuto un leader tibetano;
le difficoltà per la realizzazione di una pacifica convivenza furono da subito evidenti a fronte delle sistematiche forme di repressione e di sottomissione adottate da Pechino nei confronti del popolo tibetano che, con il passare degli anni, venne privato del diritto all'auto-determinazione, alla libertà di espressione, alla libertà religiosa, alla libertà di circolazione;
il 10 marzo del 1959, i tibetani tentarono di ribellarsi alla occupazione straniera con una sollevazione popolare. Seguì una durissima reazione da parte dell'Esercito della Repubblica popolare, le vittime civili, da stime di fonte cinese, furono 87.000 e circa 100.000 tibetani insieme al loro capo spirituale e politico, Tenzin Gyatso XIV Dalai Lama, ripararono in India costretti a chiedere asilo politico. Da quel momento il flusso dei profughi non si è più arrestato, così come il numero delle vittime, delle torture, dei processi sommari e delle persecuzioni;
in 48 anni di governo cinese ci sono stati 1.200.000 tibetani uccisi. Il Centro Tibetano per i Diritti Umani e la Democrazia (TCHRD) organizzazione internazionale che ha base in India, ha accertato che, dal 1987 ad ora, settanta prigionieri sono morti a causa delle torture subite. Al momento i detenuti politici sono 700, ma non tutti sono registrati ufficialmente e il numero dei rifugiati supera le 135.000 unità. La repressione cinese ha, inoltre, significato il completo smantellamento delle istituzioni locali, la distruzione del 90 per cento del patrimonio artistico ed architettonico, compresi 6.000 monumenti tra templi, monasteri e «stupa» e il divieto dell'insegnamento della lingua tibetana nelle scuole;
la violazione dei diritti umani in Tibet ha da subito destato evidente preoccupazione nella comunità internazionale. Solo dal 1959 al 1965, le Nazioni Unite hanno approvato tre risoluzioni per «la cessazione di tutto ciò che priva il popolo tibetano dei suoi fondamentali diritti umani e delle libertà». Molti altri appelli e denunce sono seguiti nel corso degli anni con altrettante risoluzioni elaborate dai governi nazionali, dal Congresso degli Stati Uniti e dal Parlamento Europeo;
è del 17 febbraio 2007 l'ultima risoluzione del Parlamento Europeo sul dialogo tra il governo cinese e gli inviati del Dalai Lama, nella quale si ribadisce tra l'altro che «l'identità comune etnica, linguistica, religiosa e culturale del popolo tibetano deve essere rispettata e che le sue aspirazioni ad un sistema amministrativo unificato devono essere sostenute»;
il Dalai Lama che da tempo non rivendica più l'indipendenza tibetana, ma più moderatamente è a favore di una sostanziale autonomia, in un'intervista rilasciata al quotidiano La Repubblica del 13 ottobre 2006 ha sottolineato «l'unica cosa che può funzionare è il dialogo. Credo sia l'approccio giusto. La maniera migliore per aiutare il Tibet è discutere con i cinesi». Anche se poi ha espresso molta preoccupazione per quello che avviene ancora oggi nel Tibet dove «l'attitudine cinese è sempre più severa nei confronti della popolazione e molte persone mi parlano di un'atmosfera sempre più simile a quella della rivoluzione culturale»;
il Rapporto annuale 2007 di Amnesty International sulla situazione dei diritti umani nel 2006 ha denunciato che nella Regione Autonoma del Tibet e altre zone etniche tibetane si sono verificate gravi restrizioni dei diritti alle libertà di credo religioso, di espressione e di associazione, oltre a discriminazioni nel campo dell'occupazione. Molti tibetani, inclusi monaci e monache buddisti sono stati detenuti o imprigionati per aver praticato la propria religione o espresso le proprie opinioni. È continuativo l'uso eccessivo della forza contro i tibetani che cercano di fuggire dalla repressione in Tibet». Il Rapporto di Amnesty International riferisce inoltre del caso di Sonam Gyalpo, un ex monaco, condannato a 12 anni di detenzione per «aver messo in pericolo la sicurezza dello
Stato» dopo che le autorità avevano trovato alcuni video del Dalai Lama ed altro «materiale incriminante» nella sua abitazione. La sua famiglia ha saputo del suo processo e della sentenza quando ha cercato di fargli visita nel luogo di detenzione;
l'associazione Italia-Tibet nell'ottobre del 2006 ha riportato la notizia dell'uccisione di sette tibetani (tra essi una giovane monaca e un bambino) ad opera dei membri del Pap, People Armed Force, una forza paramilitare cinese che si occupa di sicurezza interna, mentre tentavano di oltrepassare il confine con il Nepal. Il gruppo International Campaign for Tibet sempre in riferimento allo stesso episodio ha denunciato torture e maltrattamenti sui 25 tibetani sopravvissuti al momento della cattura. Nell'aprile del 2007, 4 attivisti americani dell'organizzazione Students for free Tibet sono stati arrestati per aver organizzato una manifestazione di protesta contro il passaggio della fiaccola olimpica in Tibet e per aver lanciato lo slogan «Tibet libero»;
sono, inoltre, ciclici i divieti imposti dal governo autonomo ai propri dipendenti riguardo la possibilità di andare a pregare nei templi;
nel 2000, con il programma di sviluppo «Verso Ovest» annunciato dal governo di Pechino per valorizzare le risorse delle province occidentali e colmare il divario tra le zone costiere e le zone rurali interne, la strategia di repressione si è indirizzata verso la modernizzazione economico-sociale. Tale è infatti il pretesto ufficiale per la realizzazione di opere infrastrutturali e di collegamento, ma soprattutto per dar luogo al definitivo sradicamento dei tibetani dalle loro terre d'origine e la «cinesizzazione» del territorio con l'afflusso di cinesi Han (cinesi etnici);
in particolare, i trasferimenti forzati dei contadini e pastori tibetani, in nuove zone facilmente controllabili sono parte integrante di un progetto, inserito nell'11o Piano Quinquennale, denominato «Namdrang Rangdrik» (Programma fai-da-te) e avviato nel 2005. Esso consiste nello spostamento delle popolazioni, stanziate ora lungo le strade principali della regione, nei cosiddetti «villaggi socialisti» dai blocchi di casette tutte uguali e con la bandiera rossa sul tetto. Queste abitazioni per la maggior parte non hanno né elettricità né acqua ed inoltre nessuna è provvista del cortile per allevamento degli animali, attività primaria e fonte di reddito e di sostentamento per migliaia di persone. Per di più l'acquisto della nuova casa è a carico dei nuovi arrivati e in media il costo si aggira sui 4.200 euro, dei quali il governo ne presterebbe solo 1.200, mentre per la restante somma si deve ricorrere ad un mutuo che, per una popolazione il cui reddito pro-capite è di 200 euro l'anno, diventa proibitivo. Sono, inoltre, denunciati dalla stampa internazionale, il McClatchy Newspaper, fenomeni di corruzione dei funzionari del governo cinese che intascherebbero le sovvenzioni statali;
è recente la notizia diffusa dalla organizzazione umanitaria Human Right Watch di nuovi trasferimenti forzati ai danni di 250.000 tibetani abitanti dei villaggi rurali. In altre parole l'operazione coinvolgerebbe un decimo della popolazione complessiva, che non può opporsi se non vuole correre il rischio dell'immediata distruzione delle vecchie abitazioni -:
quali siano le valutazioni del Ministro degli affari esteri in merito a questi ultimi episodi che riguardano la sistematica violazione dei diritti umani da tempo perpetrata ai danni del popolo tibetano;
quali iniziative concrete intenda assumere il Governo nei colloqui bilaterali fra Italia e Cina e in sede europea, ad esempio nella prossima riunione del G8 in Germania, al fine di sostenere il tema dei diritti umani quale questione fondamentale nei rapporti economici e politici con la Cina.
(2-00564)«Boato».
Il sottoscritto chiede di interpellare il Ministro degli affari esteri, il Ministro per
le politiche europee, per sapere - premesso che:
nel 2002 sulla base della dichiarazione di Laeken, dal nome della città belga dove si tenne il Consiglio europeo, è stata istituita una Convenzione composta non solo dai rappresentanti dei governi nazionali, ma anche dai rappresentanti dei parlamenti nazionali, della Commissione europea e del Parlamento europeo, incaricata di elaborare il testo di un Trattato costituzionale che superasse i limiti e le lacune dei Trattati esistenti in vista dell'allargamento a 27 membri dell'Unione Europea;
dopo due anni di approfondito lavoro e di ricerca di una soluzione condivisa, il 29 ottobre 2004 a Roma è stato sottoscritto dai 25 Paesi componenti l'Unione Europea, dalla Bulgaria e Romania, entrati successivamente nell'Unione nel 2007, e dalla Turchia, il Trattato che istituisce una Costituzione per l'Europa;
il passo successivo alla sottoscrizione del Trattato costituzionale è stato quello della ratifica, da parte dei singoli Stati, che si sarebbe dovuta concludere entro il 2006, permettendo così la piena entrata in vigore;
ad oggi, 18 Stati su 27 hanno già ultimato l'iter di ratifica. Spagna e Lussemburgo hanno utilizzato lo strumento del referendum popolare, ratificando il Trattato costituzionale rispettivamente con il 76,73 per cento di voti favorevoli il 15 giugno 2005 e con il 56,52 per cento, il 30 gennaio 2006. Gli altri sedici paesi hanno completato l'iter attraverso la ratifica parlamentare;
due paesi, Francia e Olanda, nel 2005, hanno respinto la ratifica a seguito dell'esito negativo dei rispettivi referendum popolari e 7 paesi, Gran Bretagna, Danimarca, Irlanda, Polonia, Repubblica Ceca, Portogallo e Svezia, sono ancora in sospeso;
a due anni di distanza dalla «pausa di riflessione», intrapresa all'indomani del fallimento dei referendum francesi e olandesi, si è riproposta la domanda sul come superare l'impasse e di cosa salvare, qualitativamente e quantitativamente, del Trattato costituzionale che era, comunque, già stato sottoscritto da tutti gli stati membri e già ratificato da 18;
nella solenne Dichiarazione di Berlino del 25 marzo 2007, in occasione dei 50 anni dei Trattati di Roma, gli Stati membri si sono detti «uniti nell'obiettivo di dare all'Unione europea entro le elezioni del Parlamento europeo del 2009 una base comune rinnovata. Perché l'Europa è il nostro futuro comune»;
il Consiglio europeo del 21 e 22 giugno 2007, sotto la presidenza tedesca, fisserà le tappe che la Conferenza intergovernativa dovrà rispettare per la riforma delle istituzioni europee, tenendo sempre ben presente che qualsiasi modifica ai trattati dovrà essere adottata all'unanimità;
il blocco dei paesi che ha già ratificato il Trattato, che rappresenta, tra l'altro, la maggior parte della popolazione europea, preme per la conservazione delle innovazioni contenute nel Trattato costituzionale a fronte del blocco dei paesi «euroscettici», Gran Bretagna, Polonia, Repubblica Ceca e Olanda che punta a ridimensionarlo al massimo, eliminando le questioni di forma (nome «Costituzione», inno e bandiera) e di sostanza: abolizione del «ministro» degli esteri UE, della personalità giuridica, cioè la possibilità di firmare accordi internazionali, la supremazia delle norme UE su quelle nazionali, la Carta dei diritti fondamentali, riduzione del campo di applicazione del voto a maggioranza e, proposto da Olanda e Polonia, il diritto di veto da parte dei parlamenti nazionali sulla legislazione europea qualora si raccolga il quorum di un terzo tra i 27 oltre l'introduzione della clausola dell'opt-out qualora un gruppo di Paesi minoritari non volesse accettare la legislazione voluta dalla maggioranza;
la Francia del neo-eletto Presidente Nicolas Sarkozy vede in un mini Trattato,
più snello e semplice, la soluzione di compromesso per far «uscire l'Europa dalla paralisi»;
il 9 maggio 2007, il Presidente della Commissione Europea, José Manuel Durão Barroso, in un incontro al Corriere della Sera, ha dichiarato che «Il nostro obiettivo ora è lavorare a un Trattato che renda più efficiente il processo decisionale in sede UE. Un Trattato, non una Costituzione in senso stretto. Non illudiamoci, la Costituzione così come è stata firmata da venticinque governi non l'avremo più. Un mini-trattato? Sarkozy lo ha proposto, ma è un'ipotesi di cui ormai parlano in molti»;
il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, nel corso di un incontro con gli studenti in occasione della Festa dell'Europa, lo scorso nove maggio, rispondendo ad una domanda sul futuro dell'Europa, ha dichiarato che: «La questione in questo momento è di adottare, e fare entrare in vigore, un Trattato che risponda ad esigenze fondamentali, di caratterizzazione, di ridefinizione e di rilancio, di un'Unione che non è più la stessa, non è più a sei e nemmeno a quindici. Perciò si è lavorato ad un Trattato a cui si è dato il nome di costituzionale, nel senso che c'era la necessità sia di ridefinire meglio principi, valori, obiettivi, associando a questa definizione e a un impegno comune tutti i nuovi Stati membri al pari di quelli che già facevano parte dell'Unione Europea. La necessità, a cui si è cercato di rispondere, è stata di un Trattato che riformasse le istituzioni in maniera da avere un'Europa più larga ma funzionante, un'Europa capace di rispondere ad una richiesta che viene dal resto del mondo, affinché l'Europa sia più presente, abbia più iniziativa, faccia sentire la sua parola, parli con una voce sola». Ha sottolineato inoltre che «Il Trattato è stato ratificato da 18 paesi» e ha giudicato «scandaloso» il fatto che alcuni paesi, tra i quali la Gran Bretagna, non abbiano avuto «il coraggio di sottoporlo a ratifica». Ha ricordato che «Il peso dei 18 che hanno detto sì deve essere adeguatamente valutato: non possono, in questa fase di crisi, avere voce solo i due che hanno detto no». Il Capo dello Stato ha inoltre aggiunto di riporre speranze a che la Francia possa dare un contributo positivo per superare l'impasse ma, ha anche precisato, che va bene un Trattato più semplice anche «se, dopo avere lavorato per anni a questo Trattato, dopo che ci hanno lavorato i rappresentanti dei Parlamenti nazionali e non solo dei governi, questo Trattato viene buttato via, e si ripiega sulla soluzione meschina dell'infilare nei vecchi Trattati quello che si può del nuovo, si avrebbe (...) una clamorosa auto-sconfessione dell'Europa, delle classi dirigenti, dei governi dell'Europa, e la pagheremmo cara sul piano della credibilità dell'Unione». Sull'ipotesi dell'Europa a due velocità il Presidente Napolitano ha detto che «Questo potrà accadere, anzi sarà inevitabile, e perfino augurabile, che accada ancora in futuro»;
nel suo intervento al Parlamento Europeo di Strasburgo del 22 maggio 2007, il Presidente del Consiglio Romano Prodi ha detto di non condividere «quanti continuano a opporre la necessità di produrre risultati alla necessità di rafforzare le istituzioni europee» e che «è venuto ora il momento di ascoltare chi quel Trattato del 2004 lo ha ratificato» tenendo fede al principio che «definisce l'etica stessa del nostro stare insieme» e che è «quello secondo il quale nello sviluppo della costruzione europea occorre fare uno sforzo per comprendere le ragioni degli altri (...) che in questo caso sono quelle di chi vuole un'unione sempre più stretta». Ha, inoltre, aggiunto che «Lo svolgimento dei negoziati sino a questo momento mi induce a ritenere che purtroppo noi dovremo rimettere mano al testo del 2004», ma «noi non potremo accettare uno stravolgimento del pacchetto istituzionale esistente. Il rafforzamento della politica estera e di sicurezza comune attraverso un Ministro degli esteri, una Presidenza stabile del Consiglio, l'estensione del voto a maggioranza qualificata, il superamento della struttura su tre pilastri e la personalità giuridica dell'Unione sono tutti aspetti per noi essenziali, che vanno salvaguardati». Il Presidente Prodi ha poi concluso dicendo che
l'Italia darà il «massimo appoggio alla Presidenza tedesca e poi a quella portoghese perché il Consiglio europeo del 21 e 22 giugno e la Conferenza intergovernativa che seguirà, siano un successo in cui tutti i Paesi membri possano riconoscersi» ma «allo stesso tempo, l'Italia sa bene che un compromesso non è un fine in se stesso. E che se quindi un tale compromesso non dovesse convincerci, noi non lo sottoscriveremmo. Un'avanguardia di Paesi potrebbe a quel punto rivelarsi il modo migliore per proseguire il percorso verso un'unione più stretta, a condizione che sia sempre lasciata la porta aperta a chi volesse entrare a farne parte in un momento successivo» -:
quali iniziative i Ministri interpellati intendano intraprendere per sostenere le posizioni del Presidente del Consiglio Romano Prodi in vista, in particolare, del Consiglio Europeo dei prossimi 21 e 22 giugno;
se non ritengano opportuno, a fronte di un probabile compromesso che porterà all'adozione di un «mini Trattato», e in qualità di rappresentanti di uno dei Paesi fondatori, di far sì che il nostro Paese possa assumere l'iniziativa di promozione di un Euronucleo, magari nella forma di una confederazione, per una cooperazione più stretta tra i Paesi integrazionisti, lasciando agli altri Paesi la possibilità di entrarvi a farne parte, qualora lo vorranno, in una fase successiva;
se non pensino, inoltre, che sia fondamentale il superamento dell'approccio «funzionalista» dell'integrazione europea basato sul postulato che l'Europa politica non dovrebbe essere costruita perchè sarebbero il mercato unico e l'economia a farla nascere come conseguenza del loro sviluppo;
se non ritengano che sarebbe, invece, necessario orientarsi verso un'idea di un'Europa democratica e federalista, come soggetto politico unitario con una politica economica ed estera comune in grado di far fronte alle nuove sfide globali, quali quelle della concorrenza di Cina ed India, dell'energia, del cambiamento climatico, del divario nord-sud e dei conflitti in Medio Oriente.
(2-00566)«Boato».
Interrogazione a risposta scritta:
NICCHI, LEONI, SASSO, D'ANTONA, BUFFO e MADERLONI. - Al Ministro degli affari esteri. - Per sapere - premesso che:
lo scorso 21 maggio si è appreso che la deputata afghana Malalai Joya, eletta insieme ad altre sessantasette donne in seguito alle elezioni del 2005, è stata espulsa dal parlamento, con la motivazione di «avere espresso critiche nei confronti dei colleghi parlamentari»;
Malalai Joya, che è di recente stata in visita ufficiale nel nostro paese, sta portando avanti, già da molto tempo, una dura battaglia politica contro i signori della guerra e i trafficanti di droga del suo paese, una battaglia per la democrazia e il rispetto dei diritti umani e civili in Afghanistan, riconosciuta a livello internazionale anche dalle Nazioni Unite;
la sua storia era già conosciuta per fatti accaduti nel 2003, quando Malalai Joya contestò duramente i signori della guerra che sedevano con lei alla Loya Jirga nel dicembre 2003, durante i lavori per scrivere la nuova Costituzione;
Malalai fu aggredita fisicamente e in seguito gravemente minacciata, e si dovette nascondere per mesi, sotto la protezione dell'ONU;
il suo impegno costante e la sua determinazione sono stati formalmente riconosciuti a livello nazionale ed internazionale con il premio afghano «Malalai of Maiwand» nel 2001, in Italia con il premio «Donna dell'anno» della Val d'Aosta nel 2004 e a livello internazionale con il premio per la pace coreano «Gwangju Human Rights Award» nel 2006;
il caso di Malalai Joya (così come il fatto che non si hanno ancora notizie certe sulle motivazioni che hanno portato all'incarcerazione e all'incriminazione di Hanefi, il collaboratore di Emergency) dimostra come la crisi afgana, ancora lontana dalla soluzione, non si stia evolvendo verso la na- scita di un compiuto sistema democratico;
la comunità internazionale deve interrogarsi sui risultati che l'azione in Afghanistan sta producendo e sulla necessità di migliorare ed intensificare l'azione politica e diplomatica, più che quella militare, nel paese -:
se il Governo sia stato informato in maniera il più possibile completa dalle nostre autorità diplomatiche e consolari della grave situazione che ha visto coinvolta la deputata Malalai Joya;
se il Ministro non ritenga opportuno muovere i passi necessari al fine di fare chiarezza sulla vicenda suesposta ed eventualmente attivarsi, nell'ambito delle relazioni tra il nostro Paese e l'Afghanistan, affinché venga garantito il rispetto dei diritti individuali e di espressione.
(4-03805)