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Allegato B
Seduta n. 182 del 3/7/2007
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AFFARI ESTERI
Interpellanze urgenti (ex articolo 138-bis del regolamento):
I sottoscritti chiedono di interpellare il Ministro degli affari esteri, per sapere - premesso che:
in Europa dal termine della Seconda guerra mondiale, il massacro di Srebrenica risulta essere senza precedenti. Esso fu perpetrato contro la popolazione civile, tra l'11 e il 19 luglio del 1995, dalle truppe serbo-bosniache comandate dal generale Mladic;
a Srebrenica furono torturate, uccise e sepolte in fosse comuni 8.000 persone, uomini e ragazzi bosniaci di religione musulmana, rifugiati e residenti nella cittadina della Bosnia orientale, dichiarata zona protetta dall'Onu nel 1993;
tale massacro è stato compiuto in ragione del progetto di pulizia etnica perseguito dai serbobosniaci nei confronti dei musulmani bosniaci;
nel 1993, in base alla Risoluzione n. 819 del Consiglio di sicurezza, a Srebrenica
fu dispiegata la Forza di protezione dell'Onu, l'Unprofor, in difesa della popolazione civile. All'atto del massacro l'area era sotto la responsabilità dei caschi blu olandesi, presenti con un contingente di 450 soldati. Dinanzi all'attacco sferrato dalle truppe serbo-bosniache contro l'enclave musulmano, il contingente olandese rimase nella più totale immobilità, divenendo testimone passivo dei rastrellamenti, degli stupri e dell'uccisione di migliaia di musulmani;
sono ormai trascorsi dodici anni da quella tragedia, riconosciuta dal Tribunale penale internazionale dell'Aja (aprile 2004) come un vero e proprio genocidio, e i principali responsabili, l'ex presidente della Repubblica Srpska, Radavon Karadzic e il suo generale Ratko Mladic, sono tuttora latitanti. Entrambi accusati dalla giustizia internazionale di genocidio, crimini di guerra e crimini contro l'umanità, sono nascosti, molto probabilmente, nella regione balcanica, così come dichiarato dall'ambasciatore USA a Sarajevo, Douglas McElhaney in un'intervista dell'11 dicembre 2006, rilasciata al quotidiano indipendente Oslobodjenj;
in questi anni, si è dibattuto a lungo sui fatti di Srebrenica e sul mancato intervento del contingente olandese e il relativo e incontestabile fallimento della missione della Forza di protezione Onu, l'Unprofor, in quell'area;
dal 1995 in poi, sono state istituite diverse Commissioni d'indagine sulle scelte e i comportamenti che hanno avuto le Nazioni Unite e le truppe schierate sul campo. In particolare, quella dell'Onu con il rapporto conclusivo del 1999 e quella dell'Istituto olandese per la documentazione di guerra (NIOD) con il rapporto pubblicato nel 2002 attribuiscono le maggiori responsabilità dell'eccidio ai capi politico-militari serbo bosniaci, cioè Radovan Karadzic e Ratko Mladic e ammettono solo una responsabilità «morale» dell'Onu e del contingente olandese;
tali conclusioni determinarono, inevitabilmente, aspre critiche da parte delle associazioni costituite da superstiti e da parenti delle vittime del genocidio. Tra queste il «Movimento delle madri di Srebrenica e Zepa», «Le madri di Srebrenica» e le «Donne di Srebrenica» protestarono vivamente e presentarono formale denuncia contro le Nazioni Unite per responsabilità nel massacro;
lo sdegno e le proteste delle associazioni e dell'intera comunità internazionale, suscitati dalla pubblicazione dei rapporti, alcuni mesi fa sono stati rinnovati con fervore alla notizia della decisione dei Ministro della difesa olandese di conferire cinquecento medaglie al valore ai soldati olandesi che fecero parte del contingente di pace stanziato a Srebrenica;
in Olanda, le associazioni bosniache hanno manifestato davanti al Parlamento e davanti alla caserma di Assen dove è avvenuta la cerimonia di consegna delle medaglie;
in Bosnia-Erzergovina, la radio studentesca «eFM.ba» ha promosso la campagna denominata «aferim» (complimenti), grazie alla quale in pochi giorni sono state recapitate all'ambasciata olandese in Bosnia-Erzegovina migliaia di cartoline con immagini della tragedia;
il 4 dicembre 2006, la presidenza tripartita bosniaca - risultante dalle elezioni del 1o ottobre 2006 - ha presentato formale protesta all'ambasciatore dei Paesi Bassi in Bosnia e ha affermato in una nota ufficiale; «Questo atto del governo olandese ha suscitato amarezza e proteste dei cittadini di Bosnia e in particolare tra le famiglie delle vittime del massacro»;
l'Associazione delle «Madri di Srebrenica e Zepa» ha parlato di «vergogna» nei confronti dell'Olanda, mentre su Il Foglio del 9 novembre 2006, Adriano Sofri ha scritto: «Quei militari e gli ufficiali furono o inerti o complici della selezione di donne e bambini da cacciare e braccare e dello sterminio di 8.000 uomini di ogni età, ragazzi e vegliardi compresi, da parte degli sgherri di quel Ratko Mladic che l'Olanda del Tribunale Internazionale
aspetta ancora invano. Tutto si scorda prima o poi. Prima, tutto si decora di una medaglia al valore» -:
se il Governo sia stato informato a suo tempo delle reazioni e proteste provocate dalla decisione del Ministro della difesa olandese di conferire le onorificenze ai soldati del contingente presente a Srebrenica;
quali siano le valutazioni in merito;
quali posizioni intenda assumere il Governo italiano, in sede comunitaria e internazionale, al fine di promuovere tutte le necessarie iniziative per la tutela e il rispetto della memoria delle vittime del genocidio di Srebrenica.
(2-00638)
«Boato, Bonelli, De Zulueta, Cassola, Balducci, Francescato, Fundarò, Lion, Pellegrino, Camillo Piazza, Poletti, Trepiccione, Zanella».
I sottoscritti chiedono di interpellare il Ministro degli affari esteri, per sapere - premesso che:
il 17 giugno la società petrolifera Eni ha informato che nella prima mattina di quello stesso giorno un non meglio precisato gruppo di uomini armati aveva occupato la flow station di Ogboinbiri nello stato di Bayelsa in Nigeria;
al momento dell'attacco, secondo quanto diffuso dalla stessa Eni, sarebbero stati presenti nell'impianto 24 lavoratori nigeriani e 51 soldati. 40 soldati e 8 lavoratori sarebbero riusciti a lasciare la flow station. Secondo quanto risulta ad Eni, pare non ci siano stati feriti o morti durante l'attacco;
il 21 giugno, quattro giorni dopo le prime notizie diffuse da Eni, le agenzie di stampa informavano che durante un'operazione militare lanciata nella notte dall'esercito nigeriano la stazione di pompaggio di Ogboinbiri era stata liberata dopo quattro giorni di occupazione da parte, si suppone, di quello stesso gruppo armato cui si riferivano le notizie diramate dall'Eni. Un portavoce dell'esercito ha riferito che nell'attacco sono stati uccisi 12 «militanti». Lo stesso portavoce ha riferito anche di aver trovato e liberato solo 11 tecnici al momento del raid e che dei soldati che secondo Eni erano stati presi in ostaggio non vi era traccia;
il 25 giugno in una comunicazione inviata al Times of Nigeria e poi ripresa da altri quotidiani nigeriani, Cynthia Whyte portavoce del JRC (Joint Revolutionary Council), una coalizione di gruppi delle milizie attive nella regione petrolifera del Delta del Niger dava un'altra versione dei fatti;
secondo questa ricostruzione qualche settimana fa l'esercito avrebbe ucciso alcuni civili Ijaw, e i loro parenti con un gruppo di giovani hanno occupato per protesta la low-station dell'Agip;
«giovedi 21 giugno 2007 - prosegue l'articolo del Times of Nigeria - su richiesta della oil Company (cioè l'Eni), forze armate della Sicurezza che sembra che lavorino per il gigante petrolifero italiano hanno attaccato e ucciso 12 giovani Ijaw di Ogboinbiri, che stavano protestando contro la criminale uccisione dei loro parenti avvenuta qualche settimana prima da parte delle forze armate»;
l'articolo prosegue citando le parole della suddetta Cinzia White: «Tutti coloro che sono stati parte di questa malvagità contro le nostre genti ne vedranno i frutti in futuro. La NAOC (Nigerian Agip Oil Company) sarà ripagata dallo stesso numero di incidenti, dolore e sfortuna.... Informiamo tutti gli uomini di buona volontà che tutte le azioni di rappresaglia prese contro l'Agip e i suoi cospiratori non saranno in alcun modo rapportate con la nostra prima decisione di tregua nelle ostilità contro il Governo Nigeriano. Le azioni di ostilità contro l'AGIP sono considerate solo come un pagamento per quello che fa l'AGIP e per ridurre l'attività operativa della NAOC negli Stati del Rivers e di Bayelsa»;
nella ricostruzione degli eventi fatta dal Times of Nigeria, non c'è traccia dei soldati che secondo Eni presidiavano l'impianto -:
quali siano le norme di sicurezza adotta l'Eni in Nigeria per garantire la sicurezza dei lavoratori e degli impianti;
quanti «soldati» fossero effettivamente presenti al momento dell'attacco e che azioni difensive hanno intrapreso;
se i «soldati» presenti al momento dell'attacco facciano parte delle forze di sicurezza dell'ENI o rispondono alle autorità nigeriane;
quanti fossero i «miliziani» che hanno sostenuto l'attacco e mantenuto l'occupazione e se tra loro ci fossero anche dei civili;
se sia stato un attacco armato o un'occupazione pacifica;
per quale ragione gli assalitori siano rimasti nella stazione di pompaggio per ben 5 giorni e se fosse stata aperta una trattativa;
se l'attacco alla stazione di pompaggio che ha liberato gli ostaggi e causato 12 vittime tra gli assalitori sia stata condotta dall'esercito nigeriano o da forze della sicurezza dell'Agip;
se ci sia stata resistenza da parte degli occupanti e se ci siano state vittime o feriti tra i «liberatori»;
quale sia l'effettivo numero degli ostaggi liberati e dove siano gli altri presunti ostaggi a cui aveva fatto riferimento l'Eni nel primo comunicato;
che tipo di politiche verso le popolazioni locali del Delta del Niger l'Eni abbia intenzione di attuare per abbassare il livello di tensione salito oltremisura negli ultimi mesi;
che impatto abbiano avuto le azioni armate e i sequestri di personale sulla produzione petrolifera dell'Eni in Nigeria;
che tipo di meccanismi di controllo e verifica l'Eni e il governo abbiano intenzione di attuare per consentire una valutazione indipendente della situazione nel Delta del Niger.
(2-00639)
«Cacciari, Mantovani, Siniscalchi, Migliore».
I sottoscritti chiedono di interpellare il Ministro degli affari esteri, per sapere - premesso che:
la libertà religiosa è parte fondamentale della libertà assicurata da una democrazia liberale che si fonda sulla laicità dello Stato;
qualsiasi discriminazione nei confronti di orientamenti filosofici e religiosi, che contraddice i principi di libertà, deve essere fortemente contrastata;
il sacerdote missionario italiano del Pontificio Istituto Missioni Estere (PIME) Giancarlo Bossi è stato rapito lo scorso 10 giugno 2007 nella provincia meridionale di Zamboanga nelle Filippine, mentre si recava a celebrare una messa;
l'organizzazione responsabile del rapimento è costituita da una formazione di guerriglieri islamici che opera nel sud delle Filippine;
Pinuccia Bossi, sorella del sacerdote rapito, ha chiesto di evitare polemiche e si è detta a conoscenza e in sintonia con il lavoro che sta svolgendo la Farnesina -:
quali iniziative intenda adottare per la liberazione di Padre Bossi.
(2-00641) «Turco, Villetti».
Interrogazioni a risposta scritta:
ZACCHERA. - Al Ministro degli affari esteri. - Per sapere - premesso che:
in molte nazioni le nostre ambasciate - per agevolare il flusso dei richiedenti visti o documenti - indirizzano gli utenti verso dei «call center» che predispongono gli appuntamenti;
molto spesso il ricorso a tale sistema implica lunghi periodi di attesa sia per trovare un operatore disponibile che per ottenere numeri liberi;
dopo telefonate che spesso durano decine di minuti cade la linea, si scopre che l'appuntamento è ottenibile solo molti mesi dopo la data necessaria o semplicemente si è invitati a richiamare;
il prezzo delle chiamate è molto ingente soprattutto in nazioni dove la moneta locale non ha il potere di acquisto dell'euro;
a questo procedimento sono obbligati anche i cittadini italiani residenti all'estero che devono servirsi degli uffici consolari per passaporti, pratiche, documenti -:
quali siano le ambasciate italiane che ricorrono a questo sistema, quanto costi al minuto l'attesa telefonica nei diversi paesi;
se il Ministro non ritenga di dover intervenire al fine di ridurre questi costi che sono a volte insostenibili per persone di modeste capacità economiche;
se più in generale venga effettuato un controllo sulla funzionalità e costi dei «call center» anche per stabilire a chi vadano gli ingenti profitti di questo servizio che in alcuni casi avviene addirittura con «call center» esteri rispetto al paese dove si deve contattare la nostra locale rappresentanza consolare.
(4-04236)
PICCHI. - Al Ministro degli affari esteri. - Per sapere - premesso che:
il signor Antonio Pagliaricci nel 1995 aveva esportato alcuni beni in Etiopia a seguito di un investimento italiano, protetto ai sensi della Legge 597 del 6 novembre 1996;
tali beni che risultano a tutt'oggi bloccati presso la Dogana Etiopica e di cui il Signor Pagliaricci ha la responsabilità giuridica ma non la disponibilità, non hanno più alcun valore commerciale, tuttavia la responsabilità giuridica dei beni impone la necessità di riesportarli per sottrarre il signor Pagliaricci a possibili «pressioni» esercitabili da qualsiasi Funzionario delle Istituzioni Etiopiche;
l'Ambasciata di Addis Abeba, contattata dal signor Pagliericci, ha dato incarico al Suo Legale di verificare il caso. Il Legale dell'Ambasciata concludeva sia nella sua relazione del 28 agosto 2003 che in quella dell'11 gennaio 2004 che la «richiestadi rimborso, era giustificata (1.5 Milioni di US$ + Interessi maturati in 12 anni)» e consigliava alcune possibili vie per ottenere il rimborso tra cui l'accesso alle risorse liberate dalla cancellazione del debito Italiano (documenti agli Atti dell'Ambasciata);
successivamente durante un incontro formale con il Board of Investment Etiopico, presieduto dal Ministro dell'Industria etiopico Girma Birru, l'Ambasciatore Guido La Tella produsse dei documenti in cui chiaramente si evinceva che un Funzionario della Dogana aveva bloccato una direttiva sia dell'Investment Authority nonché della Direzione delle Dogane;
la risposta formale dell'Investment Authority all'Ambasciatore La Tella, dichiara che la decisione con cui si rinnegava la loro azione secondo la Legge Etiopica fu presa in data 4 maggio 1999 in base ad una comunicazione della Direzione della Dogana datata 30 settembre 1999;
il giorno 5 gennaio 2005 l'allora Sottosegretario agli esteri Sen. Mantica unitamente all'Ambasciatore De Lutio, informavano il Signor Pagliaricci che era stato consegnato un fascicolo preparato dall'Agenzia delle Entrate Italiane al Ministro degli Esteri Etiopico Seyum Mesfin;
qualche tempo dopo il Funzionario dell'Ambasciata Italiana incaricato di seguire la cosa informava l'interrogante, che dette affermazioni non erano fondate in quanto non vi era agli Atti nessun fascicolo proveniente dalla Agenzia delle Entrate e che se fosse vero ve ne sarebbe stata una copia;
il giorno 28 agosto 2006 il signor Pagliaricci ha indirizzato una lettera all'Ambasciatore De Lutio, in cui trasmetteva degli atti della Dogana Etiopica in cui si evidenziava che 12 anni prima gli erano stati riconosciuti i diritti derivanti dalle Leggi vigenti, che tuttavia non esisteva alcuna pratica istruita per il rimborso e che infine non esistevano più documenti che riguardavano le proprietà sotto Dogana;
a seguito di ciò l'Ambasciatore De Lutio scrisse una lettera al Capo delle Dogane Etiopiche trasmettendo gli atti nonché la richiesta di rimborso; tuttavia ad oggi non risulta che vi sia stata alcuna risposta né che questa sia stata sollecitata -:
quali iniziative tempestive intende intraprendere presso il Governo Etiopico e presso le altre istituzioni italiane per risolvere la situazione del signor Pagliaricci;
quali tempi siano prevedibili per il superamento delle difficoltà in premessa.
(4-04237)