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Allegato A
Seduta n. 194 del 25/7/2007
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(Sezione 4 - Orientamenti del Governo in merito alla separazione delle carriere nella magistratura)
BARANI. - Al Ministro della giustizia. - Per sapere - premesso che:
il giudice per le indagini preliminari milanese Clementina Forleo ha richiesto al Parlamento la possibilità di utilizzare le intercettazioni di alcune conversazioni telefoniche intercorse tra gli indagati nei procedimenti penali (ancora in fase preliminare) per le scalate bancarie Rcs/Bnl/Antonveneta ed alcuni parlamentari, giova sottolineare non indagati;
la legge n. 140 del 2003 subordina all'autorizzazione della Camera di appartenenza l'utilizzabilità processuale, come prova a carico di un terzo, del contenuto di una conversazione telefonica intercettata ed intercorsa tra un indagato ed un parlamentare;
alla luce della vigente disciplina, il giudice per le indagini preliminari Forleo ha, quindi, correttamente trasmesso gli atti al Parlamento per una decisione di esclusiva competenza del medesimo;
fin qui, in altre parole, nulla di strano; l'articolo 68 della Costituzione garantisce l'immunità funzionale dei parlamentari e la legge n. 140 del 2003, in attuazione di tale principio costituzionale, ha introdotto un'ulteriore possibilità di controllo politico da parte della Camera di appartenenza sull'utilizzabilità in un processo penale delle conversazioni telefoniche cui abbia preso parte un parlamentare, anche se non indagato;
il motivo che ha scatenato le polemiche è, però, consistito nelle motivazioni con le quali il giudice per le indagini preliminari Forleo ha richiesto al Parlamento la possibilità di utilizzare le conversazioni telefoniche in questione;
il giudice milanese, infatti, nell'ordinanza con la quale ha inviato gli atti a Roma ha definito i politici coinvolti, allo stato non indagati, «complici consapevoli» dei reati finanziari contestati agli imputati ed ha scritto che «sarà proprio il placet del Parlamento a rendere possibile la procedibilità penale nei confronti dei suoi membri, i quali, all'evidenza, appaiono non passibili percettori di informazioni pur penalmente rilevanti, ma consapevoli complici di un disegno criminoso»;
i politici cui fa riferimento il giudice per le indagini preliminari milanese sono di primaria importanza; si tratta del presidente dei Democratici di sinistra e Ministro degli affari esteri e Vice Presidente del Consiglio dei ministri Massimo D'Alema, del segretario dei Democratici di sinistra Piero Fassino e del senatore dei Democratici di sinistra Nicola Latorre, quindi tutti coloro che non vollero comprendere la quaestio in materia sollevata al tempo da Bettino Craxi, dando il via alla stagione di tangentopoli e della giustizia mediatica e politicizzata, e nulla hanno fatto per cercare una ragionevole soluzione;
per il rilievo delle personalità coinvolte ben si può comprendere la moltitudine di infuocate reazioni scatenate dalle parole del giudice per le indagini preliminari; Fassino ha dichiarato che il giudice per le indagini preliminari Forleo non ha «il diritto di precostituire giudizi infondati senza accertamenti», il Ministro Di Pietro accusa D'Alema, Fassino e Latorre di «aver dialogato con i furbetti del quartierino» e parla di «sistema coalizzato come nel '94», il Ministro interrogato si rivolge a Prodi per affermare ancora una volta che «se Di Pietro ritiene che i nostri colleghi di Governo abbiano avuto atteggiamenti criminosi, dovrebbe dimettersi» ed il procuratore generale presso la Corte di cassazione apre un procedimento disciplinare;
la questione è stata ritenuta di rilievo anche dal Presidente della Repubblica, il quale, parlando da Presidente del Consiglio superiore della magistratura in occasione della nomina del primo presidente della Corte di cassazione, ha invitato la magistratura «alla massima serenità e riservatezza nello svolgimento di tutte le funzioni proprie dell'autorità giudiziaria» ed ha formulato «il richiamo a non inserire in atti processuali valutazioni e riferimenti non pertinenti e chiaramente eccedenti rispetto alle finalità dei provvedimenti»;
dovrebbe, tuttavia, essere ampiamente risaputo che quotidianamente, nelle aule di giustizia, capita di assistere ad un giudice che dice ad un pubblico ministero cosa fare, esprimendo delle valutazioni che il codice di procedura penale non gli preclude;
non è inusuale che un giudice respinga un «patteggiamento» già concordato tra accusa e difesa, che condanni un imputato di cui l'accusa chieda l'assoluzione, che non scarceri un detenuto di cui lo stesso pubblico ministero chieda la liberazione, oppure che ordini la «trasmissione degli atti» al pubblico ministero perché proceda nei confronti di soggetti (ad esempio testimoni) sino a quel momento non indagati;
non ci dovremmo, quindi, stupire del fatto che un giudice per le indagini preliminari usi termini «forti» nei confronti di soggetti non indagati (giuridicamente parlando, allo stato qualificabili come testimoni), «suggerendo» così all'organo dell'accusa di valutare se vale la pena di avviare un'indagine anche a loro carico;
probabilmente sono i retaggi della mentalità «inquisitoria» che ha guidato (e tuttora guida) per tanti anni i processi penali italiani; proprio per questo motivo non bisogna, però, accantonare ora la battaglia in favore di un processo penale che sia veramente espressione di un ordinamento democratico-liberale -:
se intenda, alla luce di quanto sta accadendo nel settore della giustizia, ripensare al problema della separazione delle carriere e della precisa funzione e
compiti che debba avere la magistratura inquirente e la magistratura giudicante.
(3-01124)
(17 luglio 2007)