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Allegato B
Seduta n. 194 del 25/7/2007
ATTI DI INDIRIZZO
Mozione:
La Camera,
premesso che:
l'operazione «Hamman», condotta dalle forze di Polizia e dalla Digos di Perugia, ha portato all'arresto dell'Imam della moschea di Ponte Felcino e di due dei suoi assistenti, accusati di essere membri di una cellula jihadista finalizzata ad azioni terroristiche nel nostro Paese;
le intercettazioni ambientali e telefoniche condotte dalle Forze dell'ordine, impegnate nella operazione «Hamman», hanno permesso il ritrovamento di sostanze chimiche pronte per essere utilizzate per attentati terroristici contro obiettivi strategici in Italia;
da quanto si apprende dalle notizie riportate dagli organi di stampa l'attività terroristica del gruppo jihadista era radicata all'interno della moschea umbra. La moschea, difatti oltre ad offrire una base logistica, era utilizzata, anche nelle normali attività dedicate all'esercizio del culto, per aggregare soldati per la lotta armata e formare secondo indottrinamento paramilitare le nuove generazioni di terroristi;
nel nostro Paese, le indagini sul terrorismo internazionale hanno portato a numerosi arresti e hanno dimostrato, senza ombra di dubbio, la presenza in Italia di cellule eversive del terrorismo islamico legate al movimento di Al Qaeda;
è noto che la moschea, oltre ad essere sede di attività religiosa, diventa anche centro della vita sociale e politica della comunità musulmana. Lo stesso sostituto procuratore Dambruoso e il Pm Massimo Maroni, che sono impegnati nelle indagini sul terrorismo di matrice islamica, hanno più volte dichiarato: «che le moschee sono dei punti critici che fungono in alcuni casi da catalizzatori divenendo punto di aggregazione dei terroristi»;
mentre oramai è palese che anche in Italia all'interno delle comunità islamiche si annidi la presenza di gruppi eversivi, (basti pensare, tornando indietro nel tempo, alle vicende giudiziarie che hanno investito il centro islamico di viale Jenner a Milano, la moschea di Cremona e ai più recenti casi delle moschee di Torino di via Saluzzo e via Cottolengo), allo stesso tempo non è invece facilmente riscontrabile - ad avviso dei firmatari del presente atto - una collaborazione con le Forze dell'ordine e la magistratura da parte di quei musulmani che si dichiarano moderati e che continuano a chiedere diritti dimostrando la volontà di volersi integrare nella nostra società. Questo silenzio, dettato dalla paura o da una tacita condivisione di intenti, ad avviso dei firmatari del presente atto aiuta il terrorismo a crescere e a diventare sempre più forte;
una politica buonista, superficiale e poco attenta alle vicende internazionali ha permesso il radicamento del fondamentalismo islamico anche nel nostro Paese;
tra le voci più autorevoli che si sono levate a denunciare i reali rischi dell'islamizzazione strisciante dell'Europa c'è quella del cardinale Giacomo Biffi, il quale ha dichiarato: «Non esiste il diritto d'invasione. Nulla vieta allo Stato italiano di gestire l'immigrazione in modo, che sia salvaguardata la sua identità nazionale. Lo Stato dà tuttora l'impressione di smarrimento e pare non abbia ancora recuperata la capacità di gestire razionalmente la situazione. I criteri per ammettere gli immigrati non possono essere solamente economici e previdenziali. Occorre che ci si preoccupi seriamente di salvare l'identità propria della nazione. L'Italia non è una landa deserta o semidisabitata, senza storia, senza una inconfondibile fisionomia culturale e spirituale, da popolare indiscriminatamente (...). Uno Stato davvero laico, che volesse risparmiare al popolo italiano tante sofferenze, avrebbe convenienza a gestire l'immigrazione in modo da privilegiare i cattolici»;
da tempo denunciamo l'errore di chi, in Italia e in Europa, di fronte a un solo Islam coranico, pretende di poter operare una separazione netta tra moderati e integralisti;
un'assurdità, un falso pudore frutto di una mentalità che non vuol vedere le cose come stanno nella realtà e che tenta di applicare le categorie di pensiero dell'Occidente ad una cultura quale quella Mediorientale, diametralmente opposta alla nostra; una cultura che non conosce estinzione tra fede e Stato;
la storia ci insegna come sia stata proprio l'intrinseca natura dell'Islam ad impedirne, nel corso dei secoli, il radicamento in Europa. La separazione tra sfera laica e religiosa, la democrazia e i diritti umani sono prìncipi, ad oggi ancora, incompatibili con la visione islamica del mondo. Per questo è un errore applicare categorie di pensiero occidentali alla cultura mediorientale; per questo è un errore tenere un atteggiamento di apertura nei confronti dell'Islam cosiddetto moderato, che, ad avviso dei firmatari del presente atto, altro non è se non l'altra faccia dell'Islam integralista. Non esiste una vera divisione tra Islam moderato e integralista. Questo aspetto, spesso trascurato in nome di una tolleranza superficiale, si presenta in tutta la sua drammaticità quando si scopre, ad esempio, che i terroristi che hanno colpito Londra nel luglio del 2005 sono britannici, figli di immigrati moderati, apparentemente integrati, di lingua inglese, che hanno vissuto evidentemente la contraddizione di nascere e vivere in uno stato culturalmente e storicamente diverso dal loro, anche in relazione al credo religioso;
da un lato, infatti, ci sono le regole e le istituzioni dell'Occidente, dall'altro quelle della loro fede. L'Occidente o la fede islamica? Questo è il dilemma dovuto ad una situazione di oggettiva incompatibilità che porta agli esiti drammatici tristemente noti. Ne sono prova le dichiarazioni degli Imam italiani definiti moderati, che tentano di «incastrare» in qualche modo questi due sistemi culturali - quello dello Stato e quello della fede islamica - attraverso un'improbabile e pericolosa gerarchia. Affermando che prima vengono le regole della comunità, poi quelle definite dallo Stato. Ma cosa accade quando tra le due sorge un'incompatibilità, ad esempio nella vita quotidiana o nel comportamento personale? Attenzione, la domanda non è «cosa accade se», ma «cosa accade quando», infatti le occasioni di incompatibilità sono numerose e sotto gli occhi di tutti. Matrimoni islamici, burqa, macellazione rituale, condizione della donna, scuole coraniche che per ragioni di fede mettono in discussione le elementari teorie scientifiche su cui si basano le nostre tecnologie, il nostro benessere e soprattutto il nostro stile di vita;
molti immigrati, superata la fase di adattamento e di risposta alle prime necessità di sopravvivenza, si trovano a dover scegliere a quale modello culturale fare riferimento. Questa doppia identità sfocia per molti di loro nell'odio ideologico e nel tentativo anche violento di affermare la superiorità delle proprie dimensioni culturali e di fede rispetto a un mondo che in termini storici non sentono proprio;
la strada da seguire è quella della presa di coscienza che in Occidente c'è una «cultura di riferimento» che non può accettare continue deroghe. In sostanza se si viene in Europa si viene alle nostre regole e non per portarne altre. L'alternativa è non venire in Europa. In definitiva, l'odio ideologico contro di noi si può fermare solo con la consapevolezza che c'è un limite alla capacità dell'Occidente di assorbire culture senza snaturare la propria, abbandonando quindi l'idea (che i firmatari del presente atto giudicano impossibile) di modernizzare l'Islam, per evitare di islamizzare l'Europa;
l'attività politica perseguita dai governi italiani che si sono succeduti, dall'11 settembre 2001 ad oggi, è stata tesa da un parte a salvaguardare, giustamente, il diritto alla libertà religiosa e dall'altra a contrastare l'attività criminosa che trovava origine nel fondamentalismo e nel fanatismo islamico;
partendo dal presupposto della correttezza logica di un tale approccio, è necessario condannare gli errori che sono stati commessi nel tentativo di arginare le frange fondamentaliste, istituzionalizzando le associazioni ritenute moderate;
in questa ottica presso il Ministero dell'interno con decreto è stata istituita la Consulta per l'Islam italiano;
secondo i firmatari del presente atto è inaccettabile, ad esempio, che tra i membri della Consulta per l'Islam italiano, che tanta influenza dovrebbe avere sulle comunità musulmane presenti nel nostro Paese nella ricerca della mediazione e del dialogo, vi siano anche rappresentanti dell'Ucoii, (riferimento italiano del movimento integralista dei fratelli musulmani che controlla la gran parte dei luoghi di culto);
la legittimazione istituzionale dell'Ucoii e del suo presidente Nour Dachan costituisce fatto grave;
è inaudito che lo Sato scelga come suo interlocutore un'organizzazione, (Ucoii), che già nel 2003 giustificò la strage di Nassiriya, che vede, a quanto consta ai firmatari del presente atto, il suo presidente Dachan e l'intero vertice dell'Ucoii al centro di un'indagine anti terrorismo della Procura di Roma. Un'organizzazione che, a parere dei firmatari del presente atto, legittima pubblicamente il terrorismo suicida palestinese e di Al Qaeda in Iraq; che nega il ritto all'esistenza di Israele; che diffonde un interpretazione ideologica dell'islam profondamente anti cristiana, anti ebraica, anti occidentale; che è ideologicamente e operativamente affiliata ai fratelli musulmani che, come attesta il movimento palestinese Hamas, considerano lecito il ricorso al terrorismo per conseguire il traguardo condiviso dello Stato islamico;
affinché l'Ucoii possa essere considerata un interlocutore credibile dovrebbe condannare in modo esplicito tutti gli atti di terrorismo a partire dagli attacchi kamikaze in Israele e in Iraq;
uno Stato non può cedere alla paura del ricatto scegliendo la via della conciliazione cercando quindi con logiche premiali di istituzionalizzare organizzazioni come l'Ucoii soltanto nel tentativo estremo di cercare in questo modo di controllarne l'attività;
impegna il Governo:
a varare una moratoria di cinque anni all'immigrazione in Italia di stranieri provenienti dai Paesi islamici e a programmare i flussi annuali di ingresso in modo da privilegiare i cittadini provenienti da Paesi culturalmente affini all'Italia;
a provvedere all'immediata espulsione degli imam che anche solo nell'esercizio del culto, attraverso una predicazione violenta, la diffusione di una cultura dell'odio nei confronti dell'Occidente e l'apologia di terrorismo, contribuiscono a diffondere la strategia del terrore;
ad adottare iniziative normative affinché si proceda ad una mappatura delle moschee presenti in Italia e ad una schedatura in appositi registri di tutti gli imam presenti nel nostro Paese;
a predisporre controlli approfonditi in tutte le moschee e centri islamici presenti sul territorio italiano, chiudendo immediatamente quelli al cui interno si riscontrano presenze eversive;
ad escludere dalla Consulta islamica e a monitorare l'attività di tutte quelle associazioni di rappresentanza dell'Islam italiano (tra tutte l'Ucoii) che pongano in essere comportamenti contrari ai principi dell'ordinamento giuridico italiano e promuovano una cultura dell'odio nei confronti dell'Occidente.
(1-00212)
«Maroni, Gibelli, Bricolo, Cota, Dozzo, Alessandri, Allasia, Bodega, Brigandì, Caparini, Dussin, Fava, Filippi, Fugatti, Garavaglia, Giancarlo Giorgetti, Goisis, Grimoldi, Lussana, Montani, Pini, Stucchi».
Risoluzioni in Commissione:
La VIII e la XIII Commissione,
premesso che:
sembrerebbe in corso di approvazione un'ulteriore bozza di decreto del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare ai sensi dell'articolo 1, comma 1226 della legge 27 dicembre 2006, n. 296, recante criteri minimi uniformi per la disciplina delle zone di protezione speciale e di altre aree protette di cui alla Rete Natura 2000 costituita dal recepimento della direttiva comunitaria n. 92/43/CEE «Habitat» e n. 79/409/CEE «Uccelli»;
tale decreto avrebbe ricadute non indifferenti sul mondo agricolo e quello venatorio, e in alcuni casi anche sulla pesca;
nella seduta del 5 luglio 2007 è stata discussa in Commissione Agricoltura l'interrogazione a risposta immediata 5-01227 Misuraca ed altri, proprio in merito alle implicazioni sul settore agricolo e della caccia di tale decreto ministeriale;
la risposta alla suddetta interrogazione non rassicura sui possibili disagi, se non proprio danni, che il decreto potrebbe causare, infatti esso verrebbe ad impattare sull'attività agricola in atto, sull'attività ricreativa, sull'attività venatoria, senza consentire, in pieno periodo di ferie, alle regioni di intervenire in materia di propria competenza;
a detta delle Associazioni venatorie, peraltro, il problema sarebbe già stato affrontato e disciplinato dalla maggior parte delle regioni, dopo la promulgazione dei decreto-legge n. 251 del 2006, che, come noto, non è poi stato convertito in legge;
dette associazioni lamentano la mancata concertazione con le istituzioni, come era del resto avvenuto anche in vista della promulgazione del decreto-legge n. 251 del 2006, per la predisposizione del decreto ministeriale, lamentando che le riunioni con i Comitati tecnici non sono avvenute nella sede specifica dei Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare per cui sarebbero inidonei a fornire al Ministero i dati istruttori sui quali fondare l'elaborazione di qualsiasi ipotesi di decreto ministeriale nelle sue varie bozze di difficile lettura;
le maggiori criticità al decreto si evidenzierebbero in tutta la loro gravità soprattutto laddove si imponessero al settore agricolo divieti al di fuori dei principi informatori del regime di condizionalità degli aiuti in agricoltura (decreto ministeriale 12541 del 21 dicembre 2006); laddove si imponessero divieti all'attività venatoria privi di ragioni tecniche e contrastanti con la normativa vigente per cui si andrebbe a colpire un «assetto» sensibile, frutto del faticoso raffronto tra caccia e ambiente, senza apportare a quest'ultimo alcuna concreta ulteriore tutela; laddove si imponessero divieti generalizzati che contrastano con il variegato panorama dei «siti», del tutto diverso tra regione e regione, e facendo venir meno così l'obbiettivo della biodiversità, intesa dall'UE come fondamentale risorsa umana ed economica per la valorizzazione delle attività agricole, sportive, piscatorie, ricreative, venatorie, eccetera;
relativamente al settore agricolo per quanto possano essere introdotti miglioramenti normativi in connessione con gli obblighi di condizionalità previsti dalla PAC resterebbero evidenti elementi gravemente invasivi delle competenze regionali;
nel settore della pesca va assolutamente corretto quanto previsto in tema di divieti dalla versione italiana dei Regolamenti (CE). 1967/06 (articolo 4, comma 1), il quale contiene errori importanti di traduzione rispetto all'originale testo in inglese, e ciò per evitare che vi sia disparità di trattamento tra pescatori italiani e quelli comunitari;
per quanto riguarda le attività venatorie, infine, non ci si dovrebbe scontrare con gli indirizzi della Commissione Europea, recentemente ribaditi a tutti gli
Stati membri dove, ad esempio, la caccia non è il problema, ma rappresenta la soluzione dei problemi atteso che lo scopo delle ZPS è la protezione di determinate specie di uccelli (quelle dell'allegato 1 della Direttiva n. 79/409/CEE) e quello delle ZSC sono gli habitat e gli habitat di specie di animali (quali rettili, anfibi, eccetera) e vegetali;
fine ultimo del decreto è dunque quello di evitare che la disciplina di queste zone possa risolversi in una fittizia protezione di una determinata specie ai danni di altre specie ed attività consolidate insistenti nelle stesse, dotate di rilevanza economica, sociale, culturale, tradizionale, agricola che vanno invece garantite attraverso una corretta integrazione secondo i principi della biodiversità;
è necessario intervenire con urgenza per evitare molti dei problemi sopraesposti anche in relazione all'avvio imminente della stagione di caccia;
per quanto sopra, un decreto ministeriale sarebbe dirompente sulla predetta normativa senza alcun riflesso pratico e cogente a difesa dell'ambiente per la sovrapposizione di inconferenti interventi tutto a discapito della buona gestione dell'amministrazione pubblica e della credibilità dei cittadini nei confronti delle istituzioni,
impegna il Governo
a presentare una circolare di indirizzo del Ministero delle Politiche alimentari e forestali, maggiormente rispondente all'attuale situazione legislativa regionale, verificando le eventuali mancanze applicative delle singole regioni con misure di salvaguardia minime «cedevoli», applicabili cioè solo nei casi di inadempienza.
(7-00259)
«Misuraca, Luciano Rossi, Giuseppe Fini, Grimaldi, Iannarilli, Licastro Scardino, Marinello, Minardo, Romele, Paolo Russo, Lupi, Tortoli, Germanà, Pili».
La III Commissione,
premesso che:
la situazione in Darfur continua a peggiorare sotto il profilo della sicurezza delle popolazioni locali per cui i ricorrenti attacchi e scontri aumentano ulteriormente il numero delle vittime e dei profughi, che ha già ampiamente superato rispettivamente le stime di 200.000 e 2.000.000 di persone;
il Darfur Peace Agreement (DPA), siglato a Abuja il 5 maggio 2006, con la partecipazione di una sola delle fazioni ribelli, non solo non è stato sostanzialmente attuato, ma si è rivelato inadeguato a fronteggiare la crisi in atto soprattutto per quanto concerne la condizione delle popolazioni sfollate, a cui è impossibile il ritorno ai luoghi di origine senza che sia stata peraltro prevista a loro vantaggio alcuna forma di compensazione;
è in corso presso il Consiglio di Sicurezza dell'ONU la redazione di una nuova risoluzione per autorizzare la dislocazione di una «forza ibrida» di circa 26.000 unità ad integrazione del già operante contingente dell'Unione africana;
la Conferenza internazionale svoltasi a Tripoli il 15-16 luglio scorsi, per iniziativa degli inviati speciali dell'ONU e dell'UA, ha prefigurato una road map per l'inclusione dei movimenti che non hanno sottoscritto il DPA nel processo negoziale;
la soluzione del conflitto in Darfur non può che fondarsi sul riconoscimento dei diritti delle popolazioni locali alla condivisione del governo e delle risorse in un contesto territoriale che, pur ricco di riserve petrolifere, è sempre più minacciato dalla desertificazione;
rilevato che a fronte del quotidiano aggravarsi dell'emergenza umanitaria in Darfur, l'accesso degli aiuti da parte della comunità internazionale è ancora problematico, anche per i rischi cui sono esposti gli operatori in loco, spesso fatti oggetto di attacchi indiscriminati perché senza adeguata protezione;
l'afflusso ai campi-profughi prosegue incessantemente nonostante che essi siano ormai al limite della loro potenzialità, anche a causa delle incursioni che, nonostante l'apporto dell'AMIS, si susseguono nei villaggi, come da ultimo denunciato dall'Alto Commissario dell'ONU per i diritti dell'uomo, sulla base dell'episodio verificatosi a Bir Dagig, a trenta chilometri da Genina;
l'insicurezza delle popolazioni locali e la difficoltà di accesso degli aiuti umanitari sono ulteriormente accentuate dalla frammentazione crescente dei movimenti ribelli, oltre che dalle tensioni con i paesi confinanti;
l'embargo delle armi disposto dalle Nazioni Unite non sembra aver conseguito l'obiettivo di ridurre la pressione della violenza sulla regione, per cui appare opportuna una riflessione sull'impianto sanzionatorio al riguardo, nonché sulla no fly zone;
la recente visita nei tre stati del Darfur del presidente della Repubblica del Sudan può costituire un segnale di rinnovata apertura di quel governo alla soluzione del conflitto, ove non si contrapponga alle istanze umanitarie sostenute dalla comunità internazionale e all'aspirazione a forme di autogoverno da parte delle popolazioni locali;
auspicato che la dislocazione della cosiddetta della «forza ibrida» ONU-UA avvenga in tempi più rapidi di quelli sinora previsti, a fronte dell'escalation dell'instabilità e dell'insicurezza nella regione, grazie al pieno sostegno di tutti i membri permanenti e non permanenti del Consiglio di sicurezza;
l'Unione europea accresca il suo coinvolgimento nella crisi del Darfur, sia sotto il profilo dell'assistenza umanitaria che sotto quello della ricostruzione economica;
le autorità di Khartoum, da un lato, e i movimenti ribelli firmatari e non firmatari del DPA, dall'altro, si conformino agli impegni richiesti dall'ONU, rendendosi disponibili agli ulteriori negoziati, così da giungere ad un accordo globale che consenta nei fatti il ritorno dei profughi alle loro case ed ai loro beni e garantisca loro una concreta possibilità di ripresa e di sviluppo sociale ed economico in un quadro istituzionale rispettoso dell'autonomia regionale del Darfur;
i Paesi confinanti con il Sudan contribuiscano al processo di pace, facendo prevalere le ragioni della solidarietà e del dialogo tra le parti;
l'emergenza ambientale nella regione, con particolare riguardo alla scarsità dell'acqua, sia affrontata con il supporto della comunità internazionale anche al fine di attenuare una delle concause del conflitto;
impegna il Governo:
ad accelerare, in seno al Consiglio di sicurezza dell'ONU, l'approvazione di una risoluzione che consenta di dislocare al più presto, entro il corrente anno, nel Darfur una forza militare e di polizia in grado di tutelare la sicurezza delle popolazioni locali e l'accesso degli aiuti internazionali;
a promuovere, nell'ambito della UE, il massimo appoggio all'iniziativa congiunta dell'ONU e dell'UA, assicurando adeguate risorse finanziarie alla missione dell'Unione africana presente nella regione ed al prossimo dispiegamento della «forza ibrida» ONU-UA, nonché a sostenere una possibile futura azione dell'Unione europea nelle zone confinanti di Ciad e Repubblica centrafricana per la protezione dei profughi del Darfur dagli sconfinamenti di milizie e bande armate, secondo le modalità stabilite dal Consiglio affari generali e relazioni esterne il 23 luglio 2007;
a proseguire ed intensificare gli aiuti umanitari sia grazie ai voli diretti che attraverso il contributo alle agenzie dell'ONU che operano sul territorio nonché per il tramite del supporto alle ONG;
a sviluppare il ruolo assunto nel processo di stabilizzazione complessiva del Sudan dall'Italia, come Paese testimone del Comprehensive Peace Agreement (CPA), nell'ottica di contribuire alla sua piena attuazione con particolare riferimento al consolidamento democratico in vista delle prossime scadenze elettorali;
a sostenere diplomaticamente, in particolare nelle relazioni bilaterali con il Sudan, la road map delineata a Tripoli per l'allargamento e l'integrazione del DPA al fine di renderlo pienamente rappresentativo delle istanze delle popolazioni del Darfur.
(7-00257)
«Ranieri, De Zulueta, Mantovani, Paoletti Tangheroni, Zacchera».
La IV Commissione,
premesso che:
le bande musicali militari sono regolate da appositi decreti legislativi;
la banda musicale dell'Arma dei Carabinieri, per quanto concerne l'ordinamento, il reclutamento e l'avanzamento, è disciplinata dal decreto legislativo 27 settembre 1991, n. 78;
l'organico della banda è composto da 102 orchestrali, professori in discipline musicali ed inquadrati nei ruoli apicali degli ispettori;
all'interno della banda esiste il C.A.M. (Centro di Addestramento Musicale), reparto costituito l'8 aprile 1965 con regolamento del Comandante Generale Gen. C.A. Giovanni De Lorenzo, ufficialmente nato per «curare la preparazione dei militari dell'arma che aspirano a partecipare ai concorsi per l'ammissione nella banda e costituire una fonte di alimentazione della banda e delle fanfare» ma che in realtà serviva solo per giustificare la presenza, all'interno della banda, di 38 musicanti divenuti improvvisamente in eccedenza per effetto del nuovo organico, costituito ai sensi della legge 1o marzo 1965, n. 121, che fissava gli orchestrali in 102 unità;
gli stessi 38 musicanti, a seguito della decisione del Consiglio di Stato n. 105/1969-70, furono tutti inquadrati come «effettivi in eccedenza» con decreto ministeriale 24 febbraio 1971;
tuttavia, tale sentenza ha risolto solo parzialmente il problema, in quanto ha lasciato in essere il C.A.M., divenuto oramai inutile, pur se alimentato ancora con «allievi orchestrali»;
dal 1991 ad oggi sono stati banditi solo pochissimi concorsi, ed i 15 militari ancora in forze al C.A.M. in quelle rare occasioni di concorso pubblico non vi hanno potuto partecipare per mancanza di posti o titoli professionali (impossibili da possedere in quanto militari) o accademici (in dieci anni si è passati dalla richiesta di terza media alla laurea di 1o livello in discipline musicali);
ad oggi vi è una carenza di personale nella banda di 20 unità, ripianata in parte dai 15 militari dei C.A.M. che di fatto sostituiscono continuativamente anche le prime categorie, contribuendo con la loro alta professionalità ed esperienza a portare lustro all'Arma nelle numerose tournee italiane ed estere;
a causa di questa vacanza di organico lungamente protrattasi dovranno assolutamente essere banditi dei concorsi pubblici, come del resto hanno appena fatto l'Esercito, bandendo sei posti (Gazzetta Ufficiale 4a serie speciale, n. 60, del 29 luglio 2005) e la guardia di Finanza, bandendo ventisei posti (Gazzetta Ufficiale, 4a serie speciale, n. 3, del 13 gennaio 2006);
in caso di un concorso pubblico, tuttavia, solo pochi di questi orchestrali considerati di «serie B» potrebbero accedervi, a causa soprattutto della non corrispondenza tra le posizioni vacanti e gli strumenti suonati, e quei pochi fortunati sarebbero svantaggiati anche sotto il profilo
fisico, in quanto oramai non più giovani freschi e fisicamente preparati;
l'articolo 22 del decreto del Presidente della Repubblica 18 settembre 2006, n. 276, concernente il «Regolamento della Banda musicale del corpo di Polizia penitenziaria» riconosce l'anzianità di servizio prestato in un reparto particolarmente atipico nonché altamente specializzato, permettendo ai suoi componenti di essere inquadrati a domanda nella terza categoria A e B prescindendo dai titoli e dalla qualificazione strumentale;
sembrerebbe esistere, come evidenziato da una delibera del CO.BA.R. dello scorso 6 marzo, da parte delle rappresentanze militari la volontà di prevedere una possibilità analoga anche per i militari;
in caso di concorso pubblico verrebbero arruolati tra i 12 e i 16 nuovi orchestrali e, posto che un orchestrale vincitore di concorso in prima nomina, inquadrato nel ruolo ispettori a seconda della categoria vinta con il grado di maresciallo ordinario, maresciallo capo, maresciallo A.S. UPS, costa all'amministrazione circa 60.000,00 euro l'anno, mentre i 15 militari del C.A.M. essendo già appuntati e brigadieri, transitando nel grado di maresciallo non costerebbero praticamente nulla all'amministrazione, appare evidente il risparmio di spesa che risulterebbe dall'impiego di questi ultimi -:
se per la Banda dei carabinieri fosse prevista una norma analoga a quella contenuta nell'articolo 22 del decreto del Presidente della Repubblica 276/2006, ed i 15 militari effettivi al C.A.M. venissero inquadrati, si ripianerebbe quasi interamente la vacanza organica della banda a costo zero, facendo risparmiare all'amministrazione oltre 900.000,00 euro all'anno;
se fosse soppresso il C.A.M. si aumenterebbe il numero dei militari a disposizione della Scuola Allievi Carabinieri per i servizi d'istituto (ad oggi i 15 militari in forza al C.A.M. dipendono numericamente dalla Scuola Allievi Carabinieri di Roma) e verrebbe eliminato un reparto inutile e costoso -:
impegna il Governo
ad assumere le opportune iniziative, anche legislative, per regolare l'inquadramento dei quindici militari ancora in forza al CAM e per disporre lo smantellamento della stessa struttura.
(7-00258) «Ascierto».