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Allegato B
Seduta n. 201 del 10/9/2007
ATTI DI INDIRIZZO
Mozione:
La Camera,
premesso che:
le linee guida del piano industriale 2008-2010 di Alitalia, approvate dal Consiglio di Amministrazione in data 30 agosto 2007, sono state definite dagli stessi vertici aziendali come misure atte a garantire solo la «sopravvivenza e transizione» dell'azienda allo scopo di mantenere nel breve periodo la continuità dell'operato aziendale. Le stesse in realtà modificano profondamente le strategie aziendali fino ad oggi perseguite, facendo registrare importanti cambiamenti relativi al posizionamento competitivo di Alitalia, che si estendono anche a medio-lungo termine, con effetti dannosi per l'intero sistema del trasporto aereo nazionale;
la scelta di ridimensionare la rete di collegamenti a lungo raggio sull'hub di Malpensa a vantaggio di Fiumicino, come ipotizzato nel nuovo piano industriale prospettato, ha suscitato interrogativi sul futuro della compagnia aerea nazionale, che su Malpensa ad oggi ha concentrato circa il 46 per cento del proprio traffico, e fa ritenere di conseguenza che l'obiettivo oramai dichiarato sia quello di un ridimensionamento che in concreto comporterà una ulteriore e irreversibile marginalizzazione della compagnia aerea nazionale, pregiudicando definitivamente la crescita economica del Paese;
le strategie di intervento rappresentano un chiaro segnale di rinuncia da parte della compagnia aerea nazionale di competere con i grandi vettori europei, allontanando definitivamente l'Italia ed in particolare il Nord con il suo sistema di piccole e medie imprese dai traffici economici mondiali; quest'ultime é bene ricordarlo sono in numero quasi triplo nell'area di Malpensa rispetto ai dati di riferimento dell'area di Fiumicino;
ad avviso dei sottoscrittori del presente atto, il progetto di rilancio prospettato della compagnia aerea Alitalia, in base alle indicazioni contenute nel nuovo piano industriale, risulta poco credibile essendo contrario ad ogni logica di mercato ed in controtendenza rispetto ai dati che indicano una costante crescita dell'aeroporto lombardo;
i dati relativi al traffico intercontinentale di Malpensa indicano chiaramente che il mercato principale per questi voli è concentrato nel Nord del Paese. Infatti, rivolgendo l'attenzione su arrivi e partenze per i Paesi al di fuori dell'Unione europea, i voli di Malpensa sono 18.347 cioè rappresentano il 76 per cento contro i 5.680 di Fiumicino corrispondenti al solo 24 per cento, quest'ultimo caratterizzato per i due terzi del traffico Alitalia da voli nazionali;
l'area aeroportuale di Malpensa raccoglie circa 1.296.800 imprese attive (24 per cento) ed i tassi di crescita dell'hub aeroportuale, che nel periodo 2002-2006 hanno toccato un valore dell'8 per cento sono superiori a quelli di numerosi hub europei ed in particolare di Fiumicino che nello stesso periodo è cresciuto mediamente del 4,5 per cento; una crescita, quella di Malpensa, confermata anche dai positivi risultati vicini al 10 per cento, nel primo semestre 2007. Nello stesso periodo il traffico merci è cresciuto del 23 per cento, facendo vincere a Malpensa il premio Air Cargo of Ecellence 2007 per la qualità dei servizi erogati;
la scelta di puntare sullo sviluppo di Fiumicino per la sopravvivenza della compagnia aerea nazionale sembrerebbe essere dettata più da ragioni politiche piuttosto che industriali, dal momento che il piano di Alitalia non tiene conto di un'evidenza, cioè della grande fetta di mercato concentrata nel Nord del Paese. Circa il 70 per cento dei biglietti business infatti è venduto nel nord-ovest del Paese e solo nel primo semestre 2007 si è registrato un significativo aumento del traffico passeggeri (+ 9,5 per cento) in gran
parte determinato dalle rotte intercontinentali;
secondo le rilevazioni dell'AEA, l'associazione delle compagnie aeree europee, Malpensa nel primo semestre 2007, è risultato l'aeroporto più puntuale d'Europea, mentre l'aeroporto di Fiumicino figura al nono posto; una performance resa possibile anche da un adeguato sistema di smistamento bagagli che gestisce circa 7 mila bagagli l'ora, con 4.700 valigie in transito, frutto questo di ingenti investimenti programmati dalla SEA che non ha corrispondenze significative da parte di AdR;
la compagnia aerea nazionale aveva programmato in passato la sua presenza strategica su Malpensa quale elemento fondamentale e inscindibile della propria strategia industriale, ottenendo da parte di SEA importanti investimenti in termini di infrastrutture proprio per garantire ad Alitalia un appoggio logistico finalizzato a competere con le principali compagnie concorrenti presenti sul mercato, con l'obiettivo di raggiungere uno sviluppo complessivo di tutto il sistema aeroportuale del paese. La scelta, ingiustificata dal punto di vista industriale, di rinunciare al ricco mercato del Nord, comporterà un sottoutilizzo di questi investimenti, riducendo ulteriormente i margini operativi dell'Alitalia a tutto vantaggio delle compagnie aeree concorrenti;
il ridimensionamento delle attività sull'aeroporto di Malpensa rappresenta quindi un serio e reale ostacolo al rilancio competitivo della compagnia aerea Alitalia, che dall'avvio delle procedure di gara per la privatizzazione si è fortemente indebolita, perdendo oltre 400 milioni di euro di liquidità, circa 1,5 milioni di euro al giorno, con un incremento dell'indebitamento netto dell'1,5 per cento nel solo mese di luglio;
tale ridimensionamento rappresenta inoltre un serio e reale ostacolo anche allo sviluppo del gruppo SEA che dovrà tra l'altro valutare, in stretta correlazione con quanto annunciato da Alitalia, il rischio di una riduzione dei propri livelli occupazionali,
impegna il Governo
a respingere in qualità di azionista, gli orientamenti previsti dal piano industriale proposto da Alitalia in quanto incompatibili con logiche industriali, come già evidenziato in premessa, e totalmente al di fuori da criteri di mercato oggettivi, con il rischio che gli effetti conseguenti producano un forte danno economico al sistema paese ed in primo luogo al Nord, ed irrazionali rispetto sia agli investimenti fino ad oggi sostenuti in favore del trasporto aereo nazionale ed in particolare dall'aeroporto di Malpensa, sia in relazione al conseguente e grave deprezzamento del valore industriale di Alitalia in questa delicata fase di privatizzazione.
(1-00216) «Maroni, Gibelli, Caparini, Cota, Dozzo, Alessandri, Allasia, Bodega, Bricolo, Brigandì, Dussin, Fava, Filippi, Fugatti, Garavaglia, Giancarlo Giorgetti, Goisis, Grimoldi, Lussana, Montani, Pini, Stucchi».
Risoluzioni in Commissione:
La XI Commissione,
premesso che:
il processo educativo nella società e nella scuola è caratterizzato da discontinuità e fratture sempre più evidenti. Il tema della «continuità» è più volte richiamato nella normativa scolastica e nei Ccnl. In particolare, nella normativa in vigore, si prevede la permanenza nella sede assegnata ai neoimmessi in ruolo per almeno 2 anni nella stessa provincia e 3 anni nella provincia diversa. Purtroppo tale norma viene sistematicamente disattesa in quanto, in base a una discutibile disposizione ministeriale, per il
primo anno tale assegnazione viene definita «provvisoria» per cui i neoimmessi in realtà sono tenuti alla permanenza solo a partire dall'anno successivo. Va ricordato ancora che la legge n. 53 del 2003 (la cosiddetta riforma Moratti) all'articolo 3, comma 1, lettera a) aveva previsto che «il miglioramento dei processi di apprendimento e della relativa valutazione, nonché la continuità didattica, fossero assicurati anche attraverso una congrua permanenza dei docenti nella sede di titolarità». L'articolo non è mai stato applicato in quanto le organizzazioni sindacali, hanno prodotto ricorso per l'abolizione di tale norma, poiché in base alla legge n. 165 del 2001, la questione è materia di contrattazione. Tale interpretazione ha avuto conferma da parte dell'Aran, per cui l'articolo suddetto, a partire dall'anno 2006, è stato disapplicato;
la citata norma riguarda essenzialmente il personale «non di ruolo», poiché gli insegnanti che intendono usufruire della «mobilità» non sono soggetti a vincoli contrattuali;
pur ritenendo naturale che in materie come questa sia giusto che vengano perseguiti la concertazione o l'accordo con le organizzazioni sindacali, non si può comunque prescindere dall'esigenza di garantire anche gli interessi degli utenti del servizio scolastico: nel Documento di programmazione economica per il triennio 2008-2011, il Governo fa riferimento al proposito di «riesame della disciplina della mobilità», sostenuto dall'obiettivo di adeguare le caratteristiche degli insegnanti alle esigenze delle scuole, condizione necessaria per «ridare al lavoro dell'insegnante quello stato sociale e quella chiarezza di obiettivi richiesti dal difficile compito che la società gli assegna»;
il ricorso alle nomine «fino all'avente diritto» introdotto nella normativa per evitare vuoti nelle cattedre per lungo tempo all'inizio dell'anno, ha finito per diventare un alibi perché le graduatorie annuali di Istituto escano ogni anno a novembre o a dicembre; e così «l'istituto delle supplenze» diventa la norma con grave pregiudizio per la qualità dell'insegnamento, soprattutto nelle scuola di periferia o di montagna, in cui il numero dei docenti precari è elevato;
fino a quando il livello del precariato rimarrà agli attuali livelli non ci sono molte speranze di garantire stabilità all'insegnamento. Ma anche in attesa di una maggiore stabilizzazione del corpo docenti, alcune misure si possono adottare sia per garantire una maggiore qualità del servizio alle famiglie sia per diminuire il tasso di precarietà dei docenti non di ruolo;
la continuità educativa nel processo di integrazione degli alunni portatori di handicap è uno di quei diritti garantiti, anche se scarsamente rispettato. Sul tema della continuità non si può non evidenziare come, negli anni '90, si sia tentato con vari interventi, legislativi e regolamentari, di passare alle concrete azioni educative e didattiche generalizzate. La tematica e l'esigenza della continuità si sono progressivamente imposte nella cultura pedagogica solo quando sono risultati sempre più evidenti i danni della discontinuità del sistema educativo italiano;
il legislatore ha emanato una serie di norme specifiche sulla continuità, quali:
a) la premessa generale ai programmi didattici per la scuola primaria, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 12 febbraio 1985, n. 104;
b) gli articoli 1 e 2 della legge 5 giugno 1990, n. 148, recante la riforma dell'ordinamento della scuola elementare;
c) la parte 11, punto 4, degli orientamenti dell'attività educativa nelle scuole materne statali di cui al decreto del Ministro della pubblica istruzione 3 giugno 1991, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 139 del 15 giugno 1991;
d) il decreto del Ministro della pubblica istruzione 16 novembre 1992 allegato alla circolare n. 339 del 1992 sulla continuità educativa;
le suddette norme e direttive sono state oggetto di varie iniziative di aggiornamento, tra cui il piano nazionale di aggiornamento per le scuole elementari prima e per le scuole materne poi e il piano nazionale di aggiornamento su Continuità e valutazione nella scuola elementare;
il quadro dei problemi implicito nelle questioni della continuità ha una valenza psicologica che non si può sottacere. Negli anni '80 si è teorizzata la «scuola come centro di ricerca» che costituirebbe il perno di un sistema scolastico allargato e integrato in continuità con l'ambiente familiare e sociale; tale integrazione impone evidentemente il principio della «continuità didattica», per evitare che si creino fratture tra via scolastica ed extrascolastica, facilitando, altresì, il legame con i bisogni formativi del territorio, vale a dire la creazione della cosiddetta «continuità orizzontale». Per molti anni, oltre che di continuità tra scuola ed extrascuola, si è discusso anche di continuità curriculare tra i vari ordini e gradi di scuola in cui transita il soggetto in età evolutiva;
la discussione sulla continuità didattica è legata principalmente alla problematica degli stadi di sviluppo studiati da Piaget, autore che ha sempre sostenuto che «negli stadi inferiori dello sviluppo sono, per così dire, già presenti i "prodromi" di quelli che saranno i livelli superiori, i quali ne rappresentano una maturazione in continuità». Da qui la sua insistenza sulla necessità nel far acquisire i cosiddetti «pre-requisiti» e sulla continuità tra i curricoli formativi tra i vari ordini e gradi di scuola. La psicologia dell'apprendimento, sviluppando queste indicazioni, ha progressivamente cercato di informare, attraverso le pubblicazioni più diffuse, la didattica scolastica. Ma le questioni della continuità meritano uno sguardo più a fondo di quanto fino ad oggi si sia fatto nella pubblicistica pedagogica più vicina temporalmente a noi;
da varie parti si percepiscono l'importanza della questione e i pericoli della frammentazione dell'azione educativa; nelle riflessioni della pedagogia moderna, e in particolare quella di John Dewey, viene messo in luce il carattere «della continuità dell'esperienza e di quello che si può chiamare il continuum sperimentale». Per John Dewey è la continuità dell'esperienza che sta alla base della formazione delle abitudini: «ogni esperienza riceve qualcosa da quelle che l'hanno preceduta e modifica in qualche modo la qualità di quelle che seguiranno»; la continuità sta alla base delle abitudini e quindi della formazione;
gli studiosi a noi più vicini, e in particolare Bruner e Gardner, convergono nella stessa direzione: il processo educativo si inserisce nella continuità del processo di apprendimento, il quale trova nelle strutture concettuali degli ambiti disciplinari il fine-mezzo per la sua realizzazione;
nonostante queste chiare determinazioni dell'analisi psicopedagogica, il processo educativo nella società e nella scuola è caratterizzato da discontinuità e da fratture sempre più evidenti;
una di queste «fratture» gravissime è rappresentata per i sottoscrittori del presente atto dalla decisione del Ministero della pubblica istruzione di ridurre 1.800 cattedre, per contenere la levitazione delle spese a favore del comparto scuola, i cui costi avrebbero superato il budget massimo di 626 milioni di euro;
tale riduzione corrisponde all'adozione delle misure di razionalizzazione, previste nel comma 605 della Legge Finanziaria 2007, e inerenti la revisione, dall'anno scolastico 2007/2008, dei parametri per la formazione delle classi e l'innalzamento del valore medio del rapporto alunni/classe dello 0,4 (dall'attuale valore di 20,6 al valore di 21, in misura differenziata per i vari ordini di scuola);
il tipo di razionalizzazione che il Ministro della pubblica istruzione intende
applicare è secondo i sottoscrittori del presente atto caratterizzato da un economicismo di fondo, secondo cui la scuola è la ruota meno importante del meccanismo sociale;
la riduzione delle cattedre colpirà maggiormente i docenti di sostegno e il diritto all'integrazione degli alunni disabili,
impegna il Governo:
a mantenere la clausola di salvaguardia, prevista dalla Finanziaria 2007, almeno per i docenti di sostegno, garantendo la stabilizzazione dei medesimi, con contratto di lavoro a tempo determinato, in possesso del titolo di specializzazione, conseguito ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 31 ottobre 1975, n. 970, e successive modificazioni, con l'obiettivo principale di rendere effettivo il diritto all'integrazione dell'alunno diversamente abile;
prevedere temporaneamente per «gli organici di fatto», nominati per il sostegno agli alunni disabili, nelle scuole a rischio di drastica riduzione di cattedre, l'attribuzione al Ministero dell'economia e delle finanze, della competenza dei pagamenti delle retribuzioni spettanti ai medesimi;
per quanto concerne le operazioni di nomina in ruolo sui posti di sostegno nelle scuole di ogni ordine e grado, a procedere al riconoscimento del diritto di precedenza al personale di cui al comma 1, purché in condizione di garantire la prestazione del servizio in maniera continuativa, assicurando la permanenza effettiva per periodi non inferiori a cinque anni;
per quanto attiene alle operazioni di mobilità, per il servizio effettivamente prestato sui posti di sostegno con continuità didattica per periodi non inferiori a cinque anni, a riconoscere al personale insegnante di ruolo la maggiorazione di un anno di servizio ai fini pensionistici ed economici.
(7-00268) «Grimoldi, Bodega».
La Commissione XII,
premesso che:
è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 10, del 13 gennaio 2007, l'Ordinanza «Tutela dell'incolumità pubblica dall'aggressione di cani»;
accanto ad alcune disposizioni positive previste nella prima stesura dell'Ordinanza contro collari elettrici e menomazioni fisiche, ve ne sono alcune nuove rispetto alle passate Ordinanze del precedente Governo che peggiorano la tutela degli animali e rischiano di stimolarne l'aggressività. Tra queste spiccano: l'articolo 2, comma 2, che obbliga sempre a guinzaglio e museruola i cani delle razze e incroci elencati nell'allegato dell'Ordinanza diminuendo così le possibilità di socializzazione e l'articolo 5, comma 5, dell'Ordinanza per la parte in cui, di fatto, autorizza la soppressione di cani solo per l'appartenenza ad un razza o ad un incrocio di una razza. Quest'ultima disposizione si pone in contrasto con l'articolo 6, comma 2, della legge del 14 agosto del 1991, numero 281, che prevede tale estremo atto solo per i cani di comprovata pericolosità, a prescindere dalla razza d'appartenenza;
l'Ordinanza del 28 marzo 2007, con titolo: «Modifica all'Ordinanza Ministeriale 12 dicembre 2006 "Tutela dell'incolumità pubblica dall'aggressione di cani"», ha eliminato il divieto di menomazioni fisiche, in particolare il taglio della coda, e tolto l'autorizzazione alla soppressione del cane per la mera appartenenza ad una razza. Con le citate modifiche dell'Ordinanza del 13 gennaio 2007 si è quindi compiuto, rispetto al regime previgente, un passo avanti, non essendo più consentita la soppressione per determinate razze, ma anche uno indietro, reintroducendo le menomazioni fisiche;
riconosciuta l'esigenza di adeguare le procedure sanitarie al nuovo contesto di rischio caratterizzato da aggressioni o lesioni a fronte di un rischio infettivo pressoché nullo, vista la scomparsa della rabbia
dal nostro paese, si richiede nelle professionalità delle aziende sanitarie locali una formazione in medicina comportamentale in grado di distinguere tra casi di morsicatura frutto di alterazioni comportamentali e casi di manifestazione del normale repertorio comportamentale privi di pericolosità di lesioni gravi;
la scelta del cane è compiuta spesso per moda e non in base ad una valutazione responsabile del contesto in cui verrà inserito l'animale, tenendo cioè in considerazione le esigenze di quest'ultimo in relazione all'habitat in cui vivrà;
l'individuazione dell'aggressività del cane in base alla razza costituisce un criterio non scientifico e fuorviante, sia perché la scienza veterinario-comportamentalista attesta che non esiste alcuna connessione tra la razza del cane e la sua aggressività, sia per il fatto che l'aggiornamento delle razze «aggressive» provoca gravi problemi di adeguamento e sia perché in Italia la grande maggioranza dei cani è rappresentata da meticci e solo alcune delle razze elencate nell'ordinanza del 13 gennaio 2007 sono effettivamente presenti sul nostro territorio;
da recenti dichiarazioni rese da esponenti governativi si è venuti a conoscenza della prossima stesura di un disegno di legge sulla pericolosità dei cani -:
impegna il Governo:
ad adottare le necessarie iniziative, anche di carattere normativo, prendendo in considerazione le seguenti esigenze e assumendo quale fondamento i sottoindicati criteri:
a) definire la responsabilità del proprietario e/o del detentore del cane in riferimento, in primis, a principi quali: la scelta della tipologia del cane, l'educazione data al cane e la sua mancata sottoposizione ad un intervento correttivo o terapeutico qualora abbia presentato le manifestazioni di un comportamento alterato rispetto a quello socialmente accettabile nel contesto dove vivrà;
b) fare in modo che le aziende sanitarie locali distinguano, nel caso di morsicatura, tra morsicature avvenute come parte del normale repertorio comportamentale della specie canina giustificabile in un determinato contesto senza lesioni gravi e morsicature frutto di una alterazione del normale comportamento nel contesto specifico con lesioni gravi o con il rischio di future lesioni gravi;
c) graduare la responsabilità del proprietario e/o del detentore in considerazione del fatto che la persona è il primo acquisitore dell'animale, o se ne è entrato in possesso successivamente per motivi assistenziali o di rieducazione comportamentale;
d) diffondere un'adeguata informazione tra coloro che si accingono ad acquisire a qualunque titolo un cane circa le caratteristiche dell'animale, tra le quali: il benessere, la salute, l'educazione, la prevenzione dei problemi comportamentali, le esigenze di vita le normative in vigore e gli altri fattori da tenere in conto per una scelta consapevole in considerazione anche dell'ambiente in cui il cane sarà inserito;
e) superare il criterio delle razze nell'individuazione dei cani aggressivi e, allo stesso tempo, ricercare una soluzione stabile e non d'emergenza, come quella delle ordinanze fin qui emanate ricercando criteri oggettivi nell'individuazione del cane pericoloso;
f) individuare le professionalità in grado di affrontare un intervento correttivo terapeutico di medicina comportamentale;
g) confermare, come da premessa dell'Ordinanza del 28 marzo 2007, il divieto di taglio di code e orecchie ai cani per fini estetici nonché la detenzione, la vendita e l'uso di collari o altri dispositivi elettrici;
h) affermare l'esclusività della competenza del Ministero della salute sulla materia a tutela della salute pubblica e per il benessere degli animali;
i) vietare qualsiasi esibizione, gara, addestramento intesi a esaltare la naturale aggressività o potenziale pericolosità di cani;
l) ristabilire il reato previsto, prima delle modifiche apportate dall'articolo 33 della legge di depenalizzazione del 24 novembre 1981, n. 689, nei casi di contravvenzione ex articolo 672 del Codice penale (rubricato: «Omissione di custodia e malgoverno di animali»), confermando le misure previste dal Regolamento di polizia veterinaria contenuto nel decreto del Presidente della Repubblica 8 febbraio 1954, n. 320.
(7-00267) «Poretti, Azzolini, Chiaromonte, Mancuso, Mellano, Alessandri, Gioacchino Alfano, Boato, Cancrini, Cicu, Francescato, Giuditta, Lainati, Moroni, Pellegrino, Rivolta, Sanna, Trepiccione, Zanella, Widmann, Barbieri, Ceccacci Rubino».
La XIII Commissione,
premesso che:
l'ultimo sondaggio Eurobarometro realizzato per conto della Commissione europea evidenzia un elevato livello di sfiducia dei consumatori europei, nei confronti dei cibi contenenti organismi geneticamente modificati: infatti, il 65 per cento dei consumatori europei non li comprerebbe neanche se costassero di meno o contenessero meno grassi;
da un'indagine 2003 Coldiretti-Ispo è scaturito che solo un italiano su dieci (13 per cento) consumerebbe alimenti non esenti da OGM a condizione di ottenere uno «sconto» rilevante, mentre il 53 per cento non li acquisterebbe neanche se costassero «molto molto meno» rispetto a quelli tradizionali. Il 34 per cento del campione ha preferito non rispondere;
interessanti le motivazioni che spingono a tali contrarietà: il 50 per cento degli italiani ritiene che non facciano bene alla salute, il 52 per cento che siano meno salutari di quelli tradizionali ed il 40 per cento che non contengano elementi nutritivi in quantità superiore agli altri prodotti;
non sono solo gli italiani e gli europei ad essere contrari ai prodotti alimentari contenenti OGM ma anche più della metà dei consumatori USA (55 per cento) non li comprerebbe se la loro presenza fosse specificata sulle etichette;
è quanto rileva sempre l'organizzazione agricola Coldiretti sulla base di un sondaggio telefonico della rete televisiva statunitense ABC presentata dal giornalista David Morris nel 2003. Ben il 92 per cento delle persone intervistate negli Stati Uniti auspica che la presenza di OGM negli alimenti venga menzionata in etichetta, una soluzione a cui però si oppone l'industria alimentare USA. Se la presenza di OGM fosse specificata nelle etichette degli alimenti il 55 per cento dei consumatori americani ne eviterebbe l'acquisto, una percentuale che sale al 62 per cento per le donne, la categoria che fa più spesso gli acquisti;
nonostante l'impossibilità di identificare gli OGM sulle etichette, sostiene ABC, un terzo degli americani cerca comunque già adesso di evitare gli alimenti manipolati geneticamente;
il 5 febbraio 2007, Greenpeace ha consegnato al commissario europeo alla salute e alla tutela dei consumatori, Markos Kyprianou, una petizione firmata da un milione di persone. Tale petizione chiede l'etichettatura obbligatoria degli alimenti derivanti da animali nutriti con organismi geneticamente modificati;
Greenpeace Europe fa sapere che questa petizione rappresenta un appello lanciato all'Unione europea affinché non si possa più approfittare delle carenze legislative e tollerare l'entrata degli Ogm nella catena alimentare tramite l'alimentazione animale;
si tratta, dichiara sempre Greenpeace Europe, di garantire ai consumatori
il diritto di scegliere se vogliono mangiare prodotti derivanti da animali nutriti con OGM;
attualmente le norme europee stabiliscono che l'etichettatura deve indicare se gli alimenti contengono almeno lo 0,9 per cento di OGM. Ciò vale anche per i prodotti, come la soia, destinati ad alimentare gli animali;
l'etichetta non è invece obbligatoria per i prodotti derivati da animali di allevamento, come uova, latte o carne;
secondo Greenpeace, l'80 per cento dei 20 milioni di tonnellate di OGM importati in Europa ogni anno vengono utilizzati per nutrire gli animali di allevamento;
l'etichettatura degli alimenti è uno strumento importantissimo per fornire utili informazioni ai consumatori e permettere loro di effettuare scelte consapevoli. In tale contesto, come meglio rilevato dall'indagine Coldiretti-Ispo, si evidenzia che se per il 78 per cento è necessaria indicando il luogo di origine, per il 68 per cento è indispensabile per conoscere la presenza, seppur minima, di ingredienti transgenici;
bisogna concretamente garantire un'effettiva libertà di scelta alle imprese agricole e ai consumatori che chiedono di produrre ed acquistare alimenti non contaminati da OGM, non si tratta di una scelta ideologica, ma puramente economica;
è necessario venire incontro alle richieste dei cittadini in materia di cibi sicuri e di qualità. Un conseguente obiettivo dovrebbe essere quello di valorizzare le produzioni «made in Italy» e difenderle dalla omologazione e dalla delocalizzazione territoriale;
un concetto, questo, che trova riscontro nello stesso rapporto del 2003, alla luce del fatto che 4 consumatori su 10 si sono dichiarati disposti a pagare di più pur di avere certezza della qualità e dell'origine italiana garantita;
la produzione agricola «made in Italy» è tenuta in alta considerazione per varietà dei prodotti (80 per cento), gusto e ricchezza dei sapori (80 per cento), qualità nutrizionale (79 per cento), legame con il territorio (78 per cento) ed affidabile (74 per cento);
il 49 per cento preferisce alimenti tradizionali legati al territorio rispetto ai biologici (18 per cento), ai garantiti Ogm free (8 per cento), agli equo-solidali (5 per cento) ed infine agli «arricchiti» da nutrienti (1 per cento);
l'80 per cento dei consumatori acquista con una certa regolarità prodotti a denominazione di origine, il 78 per cento quelli organici, il 63 per cento quelli privi di OGM, il 54 per cento quelli «arricchiti» e il 50 per cento quelli del commercio equo e solidale;
i cittadini italiani destinano all'alimentazione, seconda voce dopo l'abitazione, il 15,3 per cento delle loro entrate per un valore complessivo di 116 miliardi di euro (3,7 per cento rispetto al 2001) con un importo per famiglia di circa 420 euro/mese. Quanto alla struttura dei consumi, al primo posto spicca la carne (22 per cento), seguita da pane (17 per cento), latticini (13,6 per cento) ed ortaggi (11,5 per cento);
relativamente ai mangimi zootecnici, s'intendono per mangimi geneticamente modificati, quelli che contengono, sono costituiti o prodotti a partire da OGM;
la normativa di riferimento del settore è rappresentata principalmente dai due regolamenti (CE) n. 1829/2003 e 1830/2003, in applicazione dal 18 aprile 2004. Il primo, introducendo nuove regole per i mangimi, definisce fra l'altro la procedura di autorizzazione per l'immissione in commercio di un OGM, stabilisce i requisiti specifici in materia di etichettatura e fissa le soglie di tolleranza della presenza accidentale o tecnicamente inevitabile di OGM. Il regolamento (CE) n. 1830/2003 prescrive nuove regole in materia di tracciabilità
e stabilisce ulteriori prescrizioni di etichettatura da rispettare in tutte le fasi della loro immissione in commercio;
i mangimi OGM possono essere immessi sul mercato solo previo rilascio di un'autorizzazione da parte della Commissione Europea, secondo la procedura stabilita dal regolamento (CE) n. 1829/2003;
i mangimi così autorizzati devono rispettare le condizioni e le eventuali restrizioni riportate nell'autorizzazione. Tuttavia, la presenza nei mangimi di materiale che contenga OGM o sia costituito o derivato da OGM non ancora autorizzati, in proporzione non superiore allo 0,5 per cento, non è comunque considerata una violazione, purché tale materiale sia stato oggetto di una valutazione favorevole da parte dei comitati competenti, la presenza sia accidentale o tecnicamente inevitabile e siano disponibili i metodi di rilevazione;
il regolamento (CE) n. 1829/2003 stabilisce inoltre che tutti i mangimi OGM, debbano riportare in etichetta la dicitura relativa alla presenza di OGM;
tale obbligo non si applica tuttavia ai mangimi che contengono, sono costituiti, o sono prodotti a partire da OGM autorizzati in proporzione non superiore allo 0,9 per cento per mangime, purché tale presenza sia accidentale o tecnicamente inevitabile per stabilire se la presenza di tale materiale sia accidentale o tecnicamente inevitabile, gli operatori devono essere in grado di dimostrare alle autorità competenti di aver preso tutte le misure appropriate per evitarne la presenza;
i mangimi OGM devono rispettare anche le prescrizioni stabilite in materia di tracciabilità;
tali prescrizioni sono state fissate in modo specifico per questo settore dal regolamento (CE) n. 1830/2003, che definisce la tracciabilità come la capacità di rintracciare OGM e prodotti ottenuti da OGM in tutte le fasi dell'immissione in commercio attraverso la catena di produzione e di distribuzione;
secondo le norme relative all'emissione deliberata nell'ambiente (direttiva 2001/18/CE e, in precedenza, direttiva 90/220/CEE), 18 OGM in Europa sono stati finora autorizzati per vari impieghi: per la coltivazione, l'importazione o la trasformazione, alcuni come prodotti per l'alimentazione degli animali, altri come prodotti per l'alimentazione umana;
tra gli OGM vi sono specie vegetali, come il mais, la colza e la soia;
ventiquattro domande di autorizzazione dell'immissione in commercio sono state presentate secondo la procedura prevista dalla direttiva 2001/18/CE; riguardano il mais, la colza, la barbabietola da zucchero, la soia, il cotone, il riso, la barbabietola da foraggio. Undici di queste domande si riferiscono solo all'importazione e alla trasformazione, mentre le altre comprendono anche la coltivazione;
possono essere legalmente commercializzati nell'UE i prodotti derivati da 16 OGM, trattasi di una soia e di un mais geneticamente modificati, autorizzati in base alla direttiva 90/220/CEE, prima dell'entrata in vigore del regolamento sui nuovi prodotti alimentari, nonché degli alimenti trasformati derivati da sette varietà di colza e da quattro varietà di mais geneticamente modificate e gli oli derivati da due varietà di semi di cotone geneticamente modificate;
questi prodotti sono stati notificati come sostanzialmente equivalenti, conformemente al regolamento sui nuovi prodotti alimentari. Attualmente sono in diverse fasi della procedura di autorizzazione nove prodotti alimentari derivati da OGM (tra cui mais, barbabietola da zucchero e soia geneticamente modificati;
prima dell'entrata in vigore del regolamento sugli alimenti e sui mangimi geneticamente modificati, non esisteva una normativa comunitaria sull'uso specifico di materiale derivato da OGM nei prodotti per l'alimentazione degli animali. Otto OGM sono stati autorizzati conformemente
alla direttiva 90/220/CEE per l'uso nell'alimentazione animale; quattro varietà di mais, tre di colza e una di soia;
purtroppo il regolamento non prescrive che siano etichettati come prodotti geneticamente modificati la carne, il latte o le uova ottenuti da animali nutriti con mangimi geneticamente modificati o trattati con prodotti medicinali geneticamente modificati;
la stragrande maggioranza degli OGM che arrivano in Italia sono utilizzati per la preparazione dei mangimi animali;
in tali circostanze le specie OGM autorizzate possono facilmente interferire anche con i prodotti della nostra tradizione e con quelli legati ai territori d'origine;
la soia OGM, modificata per sopportare elevati dosi di erbicida, è sempre più presente nelle stalle italiane. Attraverso il latte può giungere al consumatore finale e può altresì contaminare anche alcuni dei nostri più rinomati prodotti a denominazione di origine protetta;
il rilascio in natura di OGM può produrre effetti irreversibili sugli ecosistemi. Gli OGM sono organismi viventi e possono riprodursi e moltiplicarsi nello spazio che nel tempo, sfuggendo a qualsiasi controllo. Da questo punto di vista non fa differenza se gli OGM vengono impiegati per l'alimentazione animale o per l'alimentazione umana. Ci sono seri dubbi sulla sicurezza degli OGM per l'uomo e per gli animali;
le stesse imprese autorizzate alla produzione delle varietà OGM ammettono che molto spesso gli OGM non vengono adeguatamente testati in termini di sicurezza alimentare;
sono sempre di più i prodotti e i produttori italiani che escludono l'uso di OGM in tutti i passaggi della produzione, sia negli ingredienti che nei mangimi animali;
la produzione legata all'agricoltura biologica non impiega OGM e offre ai consumatori un prodotto garantito da tutti i punti di vista;
diversi allevatori interessati alla realizzazione di prodotti a denominazione d'origine esprimono la propria volontà di utilizzare solo mangimi senza OGM, per poter continuare a produrre un latte sicuro al 100 per cento, senza l'impiego di OGM;
dal 2002, Greenpeace chiede di affrontare il problema degli OGM nelle filiere dei prodotti agricoli ed alimentari di qualità, segnatamente in quelli a denominazione di origine protetta. Le alternative agli alimenti zootecnici OGM ci sarebbero;
la soia certificata non-OGM è disponibile sul mercato in grandi quantità e a costi ragionevoli: abbastanza per tutta la produzione dei maggiori formaggi DOP e per l'intero fabbisogno italiano;
molte proteine nobili per l'alimentazione animale potrebbero ricavarsi, in gran quantità ed a costi ragionevoli, da specie vegetali ad alto potenziale proteico di nazionalità italiana, come l'erba medica, il favino, il pisello proteico ed altre varietà allo scopo individuate e testate dall'Istituto sperimentale per le colture foraggiere di Lodi,
impegna il Governo
a sviluppare azioni volte a favorire la sostituzione dei componenti OGM nei mangimi con colture foraggiere proteiche non OGM, in particolare realizzando interventi ed iniziative capaci di assicurare l'assenza di mangimi OGM nell'alimentazione dei capi da cui si trae il latte destinato alla produzione dei formaggi a denominazione di origine protetta, in tale ambito prevedendo il coinvolgimento dei rispettivi consorzi di tutela, delle organizzazioni professionali agricole più attente a tale questione, nonché delle associazioni per la tutela dell'ambiente di rilievo internazionale e che si battono specificamente per questa causa.
(7-00266) «Lion».
La XIII Commissione,
premesso che:
nella Gazzetta ufficiale dell'Unione europea del 6 luglio 2007, n.2007/C 152/08, è stata riportata la «Pubblicazione di una domanda a norma dell'articolo 6, paragrafo 2, del regolamento (CE) n. 510/2006 del Consiglio, relativo alla protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni d'origine dei prodotti agricoli e alimentari». Trattasi in particolare dell'istanza di registrazione della Indicazione Geografica (IGP) «Aceto Balsamico di Modena»;
tale pubblicazione ha suscitato numerose proteste e contrarietà, sia da parte della maggioranza dei soggetti che in origine hanno presentato la richiesta di registrazione della citata IGP al Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali (si fa riferimento ai due principali consorzi di produttori sui tre che costituiscono l'Associazione presentatrice), sia da parte di singoli produttori, fortemente interessati a riguardo ma non interpellati ed anzi incomprensibilmente negletti, nonché l'intervento di diversi parlamentari italiani che contro il relativo operato del Ministero e del Ministro, hanno presentato pertinenti atti di sindacato ispettivo e atti di indirizzo;
in particolare, i due consorzi ostili hanno provveduto da un lato a far pubblicare su importanti quotidiani a diffusione nazionale i motivi della loro contrarietà rispetto al documento riportato nella Gazzetta Ufficiale dell'Unione europea e la propria presa di distanza dal procedimento che ciò ha preordinato, allo scopo mettendo pesantemente in discussione l'azione del Ministro che rischierebbe, a loro giudizio, di genericizzare in ambito internazionale la denominazione «Aceto Balsamico» e ad ogni modo slegherebbe la produzione della derrata da tutelare dalla zona di origine, dall'altro lato ha depositato presso il tribunale amministrativo regionale del Lazio un ricorso per la revoca degli atti su cui poggia la pubblicazione del disciplinare di produzione annesso alla richiesta della IGP;
il produttore non coinvolto nella procedura di registrazione di questa IGP è il maggior produttore di Aceto Balsamico di Modena presente in Italia ed il principale esportatore dello stesso aceto a livello mondiale, opera in questo comparto del balsamico da oltre trent'anni e sin dal primo momento che si è tentato di vincolare l'approvvigionamento dei mosti necessari per la fabbricazione dell'aceto balsamico di Modena ad ambiti circoscritti del territorio di riferimento della denominazione di origine, si è opportunamente opposto contro tale evenienza depositando ricorsi giuridici pertinenti ed allo scopo ottenendo sentenze con grado di giudizio definitivo che sanciscono la non territorializzazione delle materie prime e dei cicli di produzione dell'aceto balsamico, pur con ciò non precludendo la possibilità di poter giungere ad una tutela della relativa denominazione. Circa la procedura di registrazione comunitaria della IGP, al pari dei due consorzi che oggi dissentono, anche il produttore in oggetto ha presentato contro di essa ricorsi al TAR del Lazio per chiederne l'annullamento;
diverse organizzazioni agricole interessate alla produzione delle materie prime atte all'elaborazione della IGP hanno dichiarato, per motivi differenti e spesso tra loro divergenti, le proprie contrarietà ad una eventuale registrazione di questa specifica disciplina di produzione. Si tratta di associazioni di produttori vitivinicoli che rivendicano finalità territoriali legittime ma che necessitano di un punto d'incontro. Infatti, i produttori enologici della possibile zona d'origine vorrebbero una limitazione della produzione dei mosti necessari all'elaborazione della IGP alle sole uve coltivate nella regione Emilia Romagna, mentre i produttori di mosti del resto d'Italia, soprattutto della regione Sicilia e della regione Puglia (le regioni storicamente maggiori fornitrici dei mosti utilizzati per la produzione dell'aceto balsamico di Modena) chiedono la libertà degli approvvigionamenti e quindi di non essere immotivatamente esclusi dal rifornire i produttori di balsamico;
i produttori di mosti siciliani in particolare, hanno presentato ricorsi amministrativi contro i decreti nazionali che sorreggono l'istanza di registrazione comunitaria della IGP aceto balsamico di Modena anche e soprattutto evidenziando, con dati scientifici ufficiali prodotti da enti autorevoli e non controvertibili, che il luogo di coltivazione delle uve e le varietà ampelografiche dei relativi mosti non determinano le caratteristiche del prodotto finale;
il disciplinare di produzione correlato alla domanda di registrazione della IGP di cui si discute dovrebbe comportare una condivisione di tutti i soggetti interessati alla catena produttiva del relativo prodotto, ad iniziare dai produttori dei mosti, passando per i fabbricatori di aceto ed i relativi confezionatori, per i distributori, fino a giungere agli utilizzatori ed ai consumatori. Purtroppo al momento tale convergenza non sembra esservi ed anzi le distanze tra le singole categorie si accrescono sempre di più, dovendo ritenere che gran parte dei dissidi possano derivare da una frettolosa predisposizione di numerosi disciplinari avvenuta a partire dal 1994 intorno ai quali è mancata la partecipazione delle categorie oggi in reciproca posizione centrifuga;
nel 1994, infatti, al fine di approfittare della registrazione semplificata delle denominazioni di origine nazionali, si predispose una proposta di riassetto normativo sulla disciplina dell'utilizzo della denominazione di origine Modena e della denominazione Reggio Emilia per la designazione dell'aceto balsamico e dell'aceto balsamico tradizionale, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 26 gennaio 1994, in cui si univano in una unica categoria i tre balsamici esistenti: i due aceti balsamici tradizionali di Modena e di Reggio Emilia e l'aceto balsamico di Modena, con ciò però confondendo le due denominazioni del condimento tradizionale con il nome specifico dell'aceto balsamico. Tale proposta non ebbe l'approvazione governativa di merito, ma la parte relativa alla produzione dell'aceto balsamico di Modena fu utilizzata in maniera autonoma per predisporre i disciplinari cartacei che di volta in volta sono stati inoltrati alla Commissione europea per la registrazione della IGP, ma che si allontanavano fortemente dalle uniche e legittime regole di produzione dell'aceto balsamico di cui al pertinente decreto interministeriale del 3 dicembre 1965, recante «caratteristiche di composizione e modalità di preparazione dell'aceto balsamico di Modena»;
ancora oggi le uniche regole di produzione dell'aceto balsamico di Modena e le relative modalità di utilizzazione in commercio della sua denominazione merceologica sono quelle disposte dal citato decreto 3 dicembre 1965, compresi le prerogative ed i diritti che esso ha prodotto in favore di specifici produttori, in particolare uno, che avendo osservato tale decreto anche in sedi impiantistiche non ubicate nel territorio amministrativo delle province di Modena o di Reggio Emilia ma avendo ottenuto sentenze del giudice nazionale in tal senso ad esso favorevoli circa la possibilità di produrre in ambiti territoriali differenti da tali province, andrebbero sempre salvaguardati;
è indispensabile conseguire una tutela rigorosa e formalmente corretta per il prodotto alimentare Aceto Balsamico di Modena, sia se si tratti di conseguire la protezione della omonima denominazione di origine, sia si trattasse di un istituto di protezione legale del nome merceologico di valenza comunitaria come quello allo scopo previsto dal regolamento (CE) n. 509/2006 sulla protezione delle specificità tradizionali che nella versione di cui trattasi permette anche il vincolo della territorialità della produzione dei prodotti relativamente interessati;
sarebbe indispensabile, al fine di raggiungere un concreto e condiviso documento volto alla tutela giuridica dell'aceto balsamico di Modena, revocare gli atti nazionali emessi fino ad oggi su tale materia, compreso il ritiro dell'avvenuta richiesta di registrazione pubblicata nella Gazzetta Ufficiale dell'Unione europea del
6 luglio 2007, in tal senso istituendo delle riunioni tecniche, trasparenti e prive di portatori d'interessi estranei alla tutela dell'aceto balsamico di Modena, partecipate da tutti i soggetti interessati all'argomento, soprattutto tenendo in considerazione la necessità di convocare quei produttori che operano al di fuori del territorio d'origine ma che allo scopo hanno avuto giudizi favorevoli per potervi operare, ed in queste sedi predisporre un disciplinare in linea con le esigenze della filiera e rispettoso del diritto nazionale consolidato e di quello comunitario allo scopo preordinante;
impegna il Governo
a procedere alla revoca degli atti amministrativi che sono alla base della pubblicazione della domanda di registrazione per la IGP aceto balsamico di Modena, come riportata nella Gazzetta Ufficiale dell'Unione europea del 6 luglio 2007, n. 2007/C 152/08, con corrispondente ritiro della stessa domanda dalla Commissione europea, e conseguentemente ad istituire una sede tecnica di concertazione cui far partecipare tutti i soggetti interessati alla produzione dell'aceto balsamico di Modena, sia quelli associati, sia quelli singoli ed in particolare l'impresa campana cui il Giudice nazionale ha riconosciuto il diritto a produrre l'aceto balsamico di Modena presso la propria sede di Napoli, ed in tale sede predisporre un disciplinare di produzione che favorisca, senza creare limitazioni alla circolazione delle merci ed alla concorrenza, l'utilizzo di materie prime originarie della regione Emilia Romagna, che rispetti le disposizioni previste dal decreto ministeriale 3 dicembre 1965 se del caso aggiornate alle esigenze produttive attuali, che tenga altresì conto dei diritti acquisiti dal produttore ricorrente di cui alla sentenza n. 5798 del 14 luglio 2000 del Consiglio di Stato, sezione VI, con la quale l'organo giurisdizionale, decidendo sul ricorso in appello proposto dalla ditta Acetificio Marcello De Nigris, con sede e stabilimento in Afragola (Napoli), per l'annullamento della sentenza del tribunale amministrativo regionale per il Lazio - sez. II-ter - n. 467 del 28 gennaio 2000, riforma la sentenza impugnata annullando il decreto ministeriale 15 novembre 1989, con ciò riconoscendo che tale produttore è libero di produrre aceto balsamico di Modena nella sede campana allo scopo indicata, in tal senso eventualmente applicando le previste deroghe che il regolamento comunitario n. 510/06 per la fattispecie contempla, in particolare la prosecuzione quindicennale di cui all'articolo 13, paragrafo 4, o la compatibilità indicata all'articolo 14, paragrafo 2, ma ad ogni modo per questo solo produttore, e che soprattutto permetta alla denominazione Aceto Balsamico di Modena di conseguire le tutele che il regolamento (CE) n. 510/2006 in tale ambito prevede.
(7-00269) «Fundarò».