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XV LEGISLATURA
Resoconto stenografico dell'Assemblea
Seduta n. 205 di lunedì 17 settembre 2007
Pag. 1PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE GIORGIA MELONI
La seduta comincia alle 15.
SERGIO D'ELIA, Segretario, legge il processo verbale della seduta dell'11 settembre 2007.
(È approvato).
Missioni.
PRESIDENTE. Comunico che, ai sensi dell'articolo 46, comma 2, del Regolamento, i deputati Albonetti, Amato, Bersani, Bindi, Bocchino, Boco, Bonino, Capodicasa, Cento, Chiti, D'Alema, D'Antoni, Damiano, De Piccoli, Di Pietro, Di Salvo, Donadi, Fioroni, Folena, Forgione, Franceschini, Galante, Gentiloni Silveri, Landolfi, Lanzillotta, Letta, Levi, Maroni, Melandri, Minniti, Morrone, Mussi, Leoluca Orlando, Parisi, Pisicchio, Pollastrini, Prodi, Rigoni, Rutelli, Santagata, Sgobio, Tremonti, Visco ed Elio Vito sono in missione a decorrere dalla seduta odierna.
Pertanto i deputati in missione sono complessivamente quarantasei, come risulta dall'elenco depositato presso la Presidenza e che sarà pubblicato nell'allegato A al resoconto della seduta odierna.
Ulteriori comunicazioni all'Assemblea saranno pubblicate nell'allegato A al resoconto della seduta odierna.
Discussione della relazione della VIII Commissione (Ambiente, territorio e lavori pubblici) sulle tematiche relative ai cambiamenti climatici (doc. XVI, n.1) (ore 15,03).
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione della relazione della VIII Commissione (Ambiente, territorio e lavori pubblici) sulle tematiche relative ai cambiamenti climatici.
Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi riservati all'esame della relazione è pubblicato in calce al resoconto della seduta del 12 settembre 2007.
(Discussione - Doc. XVI, n. 1)
PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione.
Ha facoltà di parlare l'onorevole Realacci, presidente della VIII Commissione.
ERMETE REALACCI, Presidente della VIII Commissione. Signor Presidente, la relazione che siamo chiamati a discutere in queste due giornate ha richiesto una fase istruttoria molto intensa. Abbiamo agito su mandato del Presidente della Camera e della Conferenza dei capigruppo e abbiamo cercato di costruire una relazione al Parlamento che affrontasse tale questione nei suoi vari aspetti. Perciò vi è stata un'intensa attività istruttoria, a cui hanno partecipato i colleghi che interverranno anche nel corso del dibattito.
Abbiamo ascoltato rappresentanti di dieci Ministeri, insieme alle Commissioni competenti e, in decine di audizioni, abbiamo sentito esponenti del mondo economico, scientifico, delle istituzioni locali,Pag. 2delle associazioni ambientaliste, ovvero tutti coloro che devono essere coinvolti in una politica che, chiaramente, non riguarda un singolo settore, ma costituisce un impegno strategico, per il nostro Paese, per l'Europa e per il mondo. Proprio oggi, ad esempio, l'ex segretario generale dell'ONU, Kofi Annan, intervenendo in materia di questioni umanitarie, ha rilevato che, anche per tale problema, la vicenda dei mutamenti climatici si presenta come una tra le più delicate per gli effetti che comporta, indirettamente, sui flussi migratori.
Devo inoltre aggiungere che non ci siamo posti il problema della formulazione di previsioni. È stato presentato negli ultimi giorni un importante contributo sui mutamenti climatici da parte della Conferenza nazionale sull'adattamento, organizzata dal Ministero dell'ambiente e ricordo che il Parlamento aveva chiesto che vi fosse una conferenza unica sulle questioni del clima e dell'energia perché pensiamo, appunto, che tali politiche vadano interpretate in maniera complessiva.
Tuttavia, nella nostra relazione non abbiamo voluto assumere scenari di riferimento particolari e devo ammettere, con franchezza, che non penso sia molto utile il dibattito a proposito di quanti gradi si innalzerà la temperatura fra dieci, venti o cinquanta anni. Il fenomeno è chiaramente in atto ed è purtroppo sotto gli occhi di tutti. Nel nostro Paese gli effetti sono misurabili sui ghiacciai, con la minore quantità di neve sulle Alpi, che poi diviene anche un problema per quanto riguarda, ad esempio, la gestione del bacino del Po, e osservando la temperatura dei mari. Infatti, da alcuni anni il mare adiacente a Pisa presenta la stessa temperatura di quello di Algeri e tale fatto, chiaramente, comporta delle mutazioni anche nella flora e nella fauna.
Ma lo sforzo che abbiamo compiuto è stato, soprattutto, di mettere il nostro Paese al passo con l'Europa e con i grandi Paesi europei. Nella scorsa legge finanziaria vi sono state importanti mutazioni di rotta ma, fino ad ora, la situazione dell'Italia in tale materia non è per niente dignitosa, per non adoperare altri vocaboli. Abbiamo assunto degli impegni a livello internazionale per la riduzione dei gas serra. Dovremo ridurre del 6,5 per cento l'emissione di tali gas entro il 2012, mentre li abbiamo aumentati di oltre il 12 per cento, con una lieve inversione di rotta nell'ultimo anno dovuta, probabilmente, anche ad un andamento stagionale favorevole. Pertanto, siamo molto lontani dalla meta che dobbiamo raggiungere tra pochi anni e soprattutto molto distanti dagli obiettivi ambiziosi che si è posta l'Unione Europea - in merito alla riduzione del 20 per cento delle emissioni di gas serra entro il 2020, con il ricorso nella misura del 20 per cento alle fonti rinnovabili e del 20 per cento al risparmio energetico - ma specialmente da ciò che stanno compiendo alcuni grandi paesi europei, peraltro - e tale tema verrà affrontato anche in altre occasioni - governati da esecutivi di segno diverso, in quanto tale sfida, nel mondo, è divenuta politicamente trasversale.
Francamente, mi auguro che l'intenso lavoro, che ha portato la nostra Commissione ad approvare all'unanimità la relazione oggi all'esame dell'Assemblea, venga confermato anche nel dibattito in Parlamento, perché Paesi come la Germania e la Gran Bretagna hanno assunto obiettivi ancora più forti rispetto a quelli assunti dall'Unione europea. La Germania si è impegnata a ridurre del 40 per cento le emissioni di CO2 entro il 2020, peraltro confermando la scelta di fuoriuscire dal nucleare (nella relazione, lo dico subito, è previsto che si debba continuare la ricerca sul nucleare, sia sul fronte della sicurezza, sia sul fronte della chiusura del ciclo, al tempo stesso aspettando fatti nuovi per muoversi in tale direzione). In Gran Bretagna, dove il leader conservatore Cameron spesso prende posizioni più spinte di quelle dei laburisti, il Governo laburista inglese ha preso l'impegno a ridurre di circa il 30 per cento - una forchetta tra il 26 e il 32 per essere precisi - le emissioni di CO2 entro il 2020 e del 60 per centro entro il 2050.
Non voglio qui entrare nel merito delle proposte che in tutti i campi (dalla politicaPag. 3internazionale alla politica dell'innovazione della ricerca, dalla politica energetica alla politica agricola, alla politica fiscale) formuliamo nella relazione in esame, sulla base delle audizioni effettuate e del contributo venuto dalle altre Commissioni permanenti. Sul punto, infatti, meglio di me parleranno gli altri colleghi e, soprattutto, il collega Benvenuto, che ha coordinato il lavoro di stesura della relazione, molto ricca anche nel merito.
Tuttavia, per rimanere nei tempi, vorrei concentrarmi sulle ragioni per cui il tema è molto importante per le istituzioni e per le istituzioni politiche in particolare. Attualmente, nel mondo, il tema oggi al nostro esame ha una grande forza per tre motivi. La prima ragione, lo avevo accennato, è evidente a tutti: la questione esiste e non è più aggirabile. Gli esponenti scientifici possono discutere sui tempi, sui ritmi, sull'incidenza delle attività umane, ma sostanzialmente non c'è contrasto in tal senso nella comunità scientifica mondiale e, anzi, assistiamo anche a inversioni, perfino bizzarre, di rotta e di atteggiamento da parte dei grandi gruppi economici. Cito per esempio, avendola trovata particolarmente divertente, un'intervista ad un esponente di una grande compagnia energetica americana, la Duke Energy, che per dimensione è grande quasi quanto l'ENEL in Italia. Costui è stato interrogato sulla ragione per la quale tanti gruppi, che nel 1992 (la collega Francescato sa bene di cosa parlo), all'epoca della conferenza ONU di Rio de Janeiro avevano speso milioni di dollari per dimostrare che l'effetto serra non esisteva, adesso - e non sto parlando solo di gruppi assicurativi o che lavorano nel campo dell'innovazione tecnologica, ma anche di grandi gruppi energetici o grandi aziende, per esempio, che producono automobili - fanno lobbying per premere l'amministrazione Bush verso impegni più decisi. Questo amministratore delegato ha dichiarato: «Quando è chiaro che c'è una cena, preferisco far la parte del convitato, piuttosto che quella della pietanza». Mi sembra che ciò segnali con chiarezza una mutazione di rotta che è accaduta in tanti mondi, non soltanto legati da sensibilità a tale tema.
Il secondo motivo per cui tale questione è di grandissima rilevanza è perché rappresenta chiaramente anche un terreno di competizione economica. Dietro la scelta dell'Europa e di questi grandi Paesi di essere in prima fila, vi è anche una scelta legata alle innovazioni connesse a tali politiche in questo campo. Sono innovazioni che non riguardano solo la produzione dell'energia, ma soprattutto il risparmio energetico, l'innovazione di processo e di prodotto e, in ultima analisi, il ricorso a quella grande fonte di energia rinnovabile non inquinante che è l'intelligenza umana. È una missione economica e politica per l'Europa. È chiaro che l'Europa punta, attraverso tali politiche, anche ad assumere un ruolo importante nel mondo, perché gli effetti internazionali di queste politiche sono enormi e non parlo soltanto della necessità di fare i conti con i grandi Paesi emergenti, ma mi riferisco anche alle conseguenze geopolitiche dell'emergere di tali fenomeni. Prima accennavo alla questione dei flussi migratori; pensate alla questione dell'acqua.
In un'area delicata come il Medio Oriente il controllo dell'acqua, non solo fra Israele e Paesi arabi, ma anche fra Turchia, Iran e Iraq (ad esempio il controllo del corso dell'Eufrate) può diventare in futuro una causa di tensione di grande rilevanza che bisogna affrontare per tempo, da questo punto di vista. Si tratta pertanto di una questione politica rilevante anzi, se vogliamo, costituisce un banco di prova di quella bella espressione contenuta nel preambolo della Costituzione europea che parla dell'Europa come «spazio privilegiato della speranza umana». Ecco, se l'Europa vuole essere uno spazio privilegiato della speranza umana, assumere questa come una questione chiave è di grande importanza.
Se mi è consentito un divertissement, una battuta, mi ha molto colpito il fatto che il New York Magazine, l'inserto allegato al New York Times, qualche mese fa abbia pubblicato un servizio di apertura ePag. 4una copertina dal titolo: «un Presidente verde». La tesi di questo servizio, paradossalmente, non era ambientalista, ma era piuttosto geopolitica: sosteneva che gli Stati Uniti non hanno tanto bisogno di un Presidente di colore o di un Presidente donna (chiaramente era una battuta sui candidati democratici), ma di un Presidente che collochi l'America nella sfida che le darebbe più carisma e prestigio nel mondo, con il minor costo. Nel servizio si sostiene che gli Stati Uniti hanno perso carisma e prestigio, ma potranno ridiventare una nazione guida se assumeranno con forza la sfida dei mutamenti climatici. Io ritengo che questo concetto, che nel caso specifico era una suggestione legata alle elezioni americane, per noi debba divenire una realtà.
Tutto il lavoro che abbiamo avviato è volto a fare, non solo dell'Europa, ma dell'Italia un Paese guida da questo punto di vista. La nostra relazione, lo dico francamente, è stata scritta guardando anche a quello che stanno facendo gli altri Paesi; è molto simile al documento che ha prodotto il Governo tedesco, a quello che sta facendo il Governo inglese, con delle suggestioni italiane, come il richiamo alla possibilità di una scommessa che si leghi anche al tessuto delle piccole e medie imprese del nostro Paese, a una scommessa sulla qualità e sulla bellezza che può produrre ricchezza, consumando poca energia.
Concludo dicendo che si tratta anche di una suggestione sul senso ultimo della politica. In questi giorni vi è un grande dibattito sulle critiche che vengono rivolte alla politica, alcune giustificate altre eccessive, ma c'è un terreno sul quale la politica misura il proprio consenso: saper affrontare le grandi questioni che interessano il futuro: o la politica si dimostra utile per i cittadini ed è in grado di delineare una possibilità di messa in moto per il Paese, sapendo affrontare le grandi paure, le grandi angosce, le questioni aperte, oppure fallisce.
Da questo punto di vista, il nostro tentativo è di costruire un oggetto che orienti l'attività del Parlamento, influenzi l'attività del Governo, a partire dalla legge finanziaria, e faccia recuperare anche un ruolo alla politica, ad una politica che sappia andare al di là delle divisioni, degli opportunismi e della propaganda del momento.
L'ex Vicepresidente americano Gore, che è molto impegnato su questo terreno, ha recentemente citato in un'intervista un bel proverbio africano che afferma: se vuoi andare veloce vai da solo, se vuoi andare lontano vai insieme agli altri. Penso che il nostro compito, quando produciamo della buona politica, è di far capire che il Paese deve andare lontano e quindi deve muoversi insieme. Questo è lo spirito con il quale abbiamo prodotto questa relazione (Applausi dei deputati dei gruppi L'Ulivo, Rifondazione Comunista-Sinistra Europea e Verdi).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Benvenuto. Ne ha facoltà.
ROMOLO BENVENUTO. Signor Presidente, comincerò citando l'inizio della relazione che sostanzialmente riassume le conclusioni di questa ampia e approfondita ricognizione che abbiamo svolto: «Il riscaldamento globale è effettivo, sta peggiorando assai rapidamente, è causato in buona parte dalle attività umane, dobbiamo intervenire rapidamente per evitare conseguenze peggiori e - infine - non è troppo tardi».
Vi è tutto il senso di un allarme molto forte, ma non di una rassegnazione, della necessità di intervenire per modificare un trend in atto e che registra una concordia sostanziale di tutti gli attori, dal mondo scientifico agli operatori economici, dalle grandi banche ai produttori di energia, dai grandi produttori di automobili alle assicurazioni, dai Governi di destra a quelli di sinistra, di Europa e non solo.
L'effetto serra è in atto, l'aumento di anidride carbonica nell'atmosfera non è mai stato così alto da 650 mila anni a questa parte, la popolazione del mondo passerà da 6 miliardi di persone a 9 miliardi nel 2050, secondo le stime dell'ONU.Pag. 5
La Cina produce già oggi più anidride carbonica degli Stati Uniti d'America; in Cina si apre una centrale a carbone ogni settimana e il cemento che là si utilizza è il 10 per cento in più di quello utilizzato negli Stati Uniti.
L'Unione europea è stretta in una forbice, tra gli Stati Uniti che sostengono sia meglio diminuire la produzione di CO2 dei Paesi emergenti, perché sono quelli che ne producono di più, e la Cina e gli Stati emergenti che giustamente affermano che è meglio ridurre la produzione pro capite perché è molto più elevata nei Paesi dell'Occidente.
In questo settore una grande missione di carattere politico spetta all'Europa e al nostro Paese. Le conseguenze dell'aumento di CO2 e dell'effetto serra sono sotto gli occhi di tutti; un terzo delle specie animali sono a rischio e la distribuzione delle risorse idriche è fortemente sbilanciata.
Anche in Italia si vede con chiarezza che sta accadendo qualcosa: secondo il CNR questa primavera è stata la più calda delle ultime venticinque, la stagione sciistica dell'anno scorso è stata pregiudicata dalla mancanza di neve, nel 2003 vi sono state in Italia 7.600 vittime per il caldo e l'Organizzazione mondiale della sanità sostiene che per ogni grado di aumento della temperatura globale ci si può aspettare un 3 per cento di mortalità in più.
I dati sono già stati richiamati dal presidente della Commissione. L'Italia è in ritardo; aveva degli obiettivi derivanti dal protocollo di Kyoto dai quali è distante. Nel marzo scorso l'Unione europea ha proposto obiettivi ulteriori ancora più ambiziosi; i Presidenti e i Capi di Stato europei hanno, infatti, stabilito che entro il 2020 dovremmo ridurre del 20 per cento l'emissione di anidride carbonica, con un 20 per cento in più di risparmio energetico e un 20 per cento in più di fonti rinnovabili. Quindi, vi è veramente molto da fare attraverso un'azione globale che coinvolga i Paesi del mondo e un'azione forte del nostro Paese di politica economica, industriale e ambientale che coinvolga tutto il Governo. Siamo tutti coinvolti, dagli attori economici, sociali e politici a tutti i comparti della nostra economia: le infrastrutture, i trasporti, l'agricoltura, l'industria, il turismo e l'ambiente; tutta l'economia è coinvolta, e non solo quella del nostro Paese.
Per riassumere, è finita l'era degli idrocarburi facili - lo affermano gli stessi operatori del settore dell'energia - e sta per finire l'era del fossile. È necessaria, quindi, una grande azione internazionale e nazionale, nonché una grande, vera e propria nuova rivoluzione energetica.
Nella relazione abbiamo individuato dieci linee di intervento molto complesse e molto articolate; le cito soltanto, rimandando alla lettura del documento. La prima linea è sicuramente quella del risparmio energetico, che è una grande fonte di energia e non costa nulla. Occorre, allora, intervenire sull'efficienza degli elettrodomestici e dell'illuminazione, sul ciclo dei rifiuti, sui motori industriali (sui quali è già intervenuta l'ultima legge finanziaria), nonché sulle tariffe differenziali che consentano di differenziare il prezzo dell'energia nelle diverse fasce orarie e di premiare chi consuma di meno.
Poi vi è il grande comparto dell'edilizia. Il 30 per cento del consumo di energia nel nostro Paese deriva dal comparto dell'edilizia; occorre, dunque, stabilire un nuovo modo di abitare, di costruire e di ristrutturare le abitazioni. Le prestazioni dei nostri edifici sono molto basse e vi è un grande campo di intervento. Anche sotto tale profilo, la legge finanziaria di quest'anno è intervenuta prevedendo una detrazione del 55 per cento per gli interventi sul risparmio energetico degli edifici; con una risoluzione adottata da due Commissioni congiunte abbiamo impegnato il Governo al fine di rendere continuativa tale previsione nei prossimi anni.
Vi è, inoltre, il campo delle energie rinnovabili; l'eolico, anche off shore, il fotovoltaico e le biomasse. Sull'argomento dobbiamo affermare con chiarezza che, se l'obiettivo è ridurre l'emissione di CO2, non possiamo avere incertezze sul campo delle energie rinnovabili e, quindi, bisogna agire velocemente. Le centrali elettriche esistenti devono essere modernizzate ePag. 6rese più sicure, tendenzialmente con taglie più piccole e inserite meglio sul territorio, sperimentando il sequestro geologico della CO2, per quanto riguarda gli impianti a carbone.
Vi è, inoltre, il grande comparto delle infrastrutture, dei trasporti e dei combustibili. Abbiamo proposto la «cura del ferro» in un Paese in cui l'80 per cento delle merci viaggia ancora su gomma. Da anni sentiamo questo ritornello, ma ancora si stenta a vedere un'azione decisa su tale terreno: più ferrovie, più trasporto su mare, meno trasporto su gomma e meno TIR.
Per quanto riguarda le automobili si è aperto ieri il Salone di Francoforte delle automobili e solo le industrie automobilistiche cinesi ormai non propagandano gli straordinari risultati sulla riduzione dell'emissione di CO2. Non sono più la potenza o i cavalli di un'automobile che creano marketing, mercato e vendite, bensì le prestazioni di carattere ecologico. L'anno scorso la Toyota ha superato la General Motors grazie ad un modello ibrido; quindi, diventa prepotentemente interessante, anche sul piano economico, la ricerca su tale terreno.
Vi è, inoltre, il terreno dell'agricoltura su cui è necessario mettere in atto programmi di adattamento. Infatti, la nostra straordinaria agricoltura made in Italy rischia di soffrire a causa dei cambiamenti climatici e, pertanto, il tema dell'adattamento è molto importante.
Vi è anche il grande terreno delle tecnologie e della ricerca su cui il nostro Paese è particolarmente indietro. È necessaria, infatti, un'azione sulle energie rinnovabili, sui nuovi materiali, sull'idrogeno, sul risparmio idrico, sul nucleare sicuro e perfino sulla fusione nucleare. Le nuove tecnologie e la ricerca possono, anzi devono dare risultati per aiutarci ad uscire dall'era del fossile. Su tale aspetto è necessaria una grande azione culturale ed educativa in cui coinvolgere la scuola italiana.
Il decimo punto, infine, è costituito da una nuova politica internazionale dell'Italia, una politica di pace e di sicurezza basata anche sulla vicenda dei cambiamenti climatici per contrastare e ridurre il fenomeno drammatico delle migrazioni climatiche, già oggi in atto. Quindi, andranno seguiti con attenzione i negoziati internazionali volti ad impegnare i Paesi in via di sviluppo, ma anche quelli avanzati e avanzatissimi, in una grande missione, in una sfida internazionale e globale. A tal proposito, vi è un nuovo ruolo per l'Italia che deve essere esperito fino in fondo.
Vorremmo veder inseriti nella legge finanziaria tutti questi aspetti. Non si tratta di mettere una posta di bilancio in questo o quel capitolo a sostegno di questo o quel piccolo settore, ma si tratta di imprimere alla legge finanziaria del Paese un indirizzo ambientalista, che deve proseguire nel tempo, in quanto sono necessarie azioni profonde e continuate, una costanza e una determinazione che, negli anni passati, non abbiamo visto.
È una grande sfida: parlare dei cambiamenti climatici significa parlare della vita e alla vita delle persone, significa parlare del futuro e, quindi, ai giovani. È una grande sfida su cui si cimentano la politica e la buona politica. Su ciò scateneremo anche l'orgoglio nazionale, mettendo a frutto, da una parte, la creatività, la fantasia e l'originalità del nostro popolo e del nostro sistema economico e, dall'altra, scelte politiche profonde, determinate e lungimiranti con un'organizzazione dello Stato più efficace ed efficiente.
Inoltre, con una forte dose di innovazione e di ricerca potremo fornire un contributo, penso, di grande importanza alla sfida che abbiamo di fronte e che ci deve consentire di uscire da una fase drammatica, piena di rischi, ma anche di grandi opportunità. Già oggi, infatti, il mercato internazionale dell'ambiente è in fortissima espansione e il nostro sistema economico può posizionarsi su tale mercato realizzando grandi risultati e possibilità di avanzamento economico, sociale e civile del nostro Paese (Applausi dei deputati dei gruppi L'Ulivo, Rifondazione Comunista-Sinistra Europea e Verdi).
PRESIDENTE. È iscritto parlare l'onorevole Tortoli. Ne ha facoltà.
ROBERTO TORTOLI. Signor Presidente, la relazione della VIII Commissione risente, con ogni evidenza, delle tesi sostenute dall'Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) dell'ONU che, giova ricordarlo, è un organismo intergovernativo composto da rappresentanti designati dai Governi nazionali (oltre che dall'ONU) e, pertanto, soggetto a condizionamenti di carattere politico.
L'IPCC sostiene che il clima della terra sta attraversando un periodo di riscaldamento e che tale riscaldamento è dovuto ai cosiddetti gas serra, originati dalle attività antropiche. Dopo averlo già notato in Commissione, voglio qui ribadire che questa tesi non riflette l'opinione prevalente nella comunità scientifica mondiale.
In particolare, se sulla prima affermazione la comunità scientifica è dubbiosa, sulla seconda la maggioranza degli esperti internazionali della materia ritiene che, sulla base delle risultanze esistenti, il nesso di causalità emissioni-riscaldamento non sia provato. Lo stesso metodo adottato dall'IPCC non aiuta a maturare un'opinione consapevole in merito.
Il Summary for policy makers, illustrato nella recente Conferenza di Parigi, dovrebbe costituire un compendio degli studi prodotti dall'IPCC, ma il documento è stato preso in considerazione, discusso, emendato e fatto proprio dal sistema politico prima che gli studi che ne sono - o dovrebbero esserne - alla base fossero pubblicati, quindi sottoposti a valutazione indipendente da parte della comunità scientifica allargata.
Così, mentre da un lato il metodo adottato dall'IPCC impedisce di fatto il processo di revisione indipendente da parte della comunità scientifica, dall'altro le tesi dell'IPCC sono state già interiorizzate in alcune comunicazioni dell'Unione europea e stanno per essere travasate negli orientamenti del Parlamento e del Governo italiani.
Non aiuta a fare chiarezza, inoltre, l'operazione essenzialmente mediatica condotta nei giorni scorsi dal Governo con la Conferenza sui cambiamenti climatici, nel cui ambito si è svolto un dibattito pesantemente condizionato da posizioni politiche preconcette e per nulla finalizzato a raggiungere una vera consapevolezza fondata su base scientifica.
Se, da un lato, giudichiamo positivamente l'apertura di un confronto su un tema molto rilevante qual è quello dei cambiamenti climatici, dall'altro non possiamo condividere il metodo adottato. Avremmo preferito che il dibattito in sede politica fosse preceduto da un confronto di tipo esclusivamente scientifico, nel quale si sarebbero dovute investire non persone di fiducia del presente Governo, ma tutte le istituzioni e le associazioni tecnico-scientifiche e gli istituti economici del Paese, al fine di acquisire pareri qualificati, espressi in piena autonomia dal potere politico.
Quale credibilità può avere il frutto di una discussione guidata dal Governo, nella quale si mescolano le voci dei rappresentanti di organi tecnici (ancora di nomina governativa) con quelle delle associazioni ambientaliste schierate a favore del Governo in carica? Si tratta di un metodo che non fa avanzare di un centimetro la consapevolezza e che rischia di portare a scelte ideologicamente orientate pertanto fondamentalmente sbagliate.
Come ho già detto, nei confronti delle tesi dell'IPCC - alle quali la recente conferenza si è limitata a fare da «cassa di risonanza» - la comunità scientifica internazionale ha già mosso in passato rilievi sostanziali di fondatezza, sostenendo che i fondatori della teoria dell'effetto serra hanno ignorato i dati raccolti da alcuni dei più famosi nomi della chimica e della fisica, tra cui diversi premi Nobel. Molti insigni studiosi continuano a portare prove di un'interpretazione orientata delle risultanze scientifiche fornita dall'IPCC, rilevando, tra l'altro, che il modello del clima terrestre sul quale si fondano le tesi dell'IPCC non tiene conto delle variazioni cicliche dell'irraggiamento solare, che sarebberoPag. 8da sole sufficienti a spiegare l'alternarsi periodico sulla terra di glaciazioni e periodi caldi.
In omaggio alle tesi dell'IPCC, l'Unione europea ha già sottoscritto il Protocollo di Kyoto, che impone all'Italia pesanti riduzioni alle emissioni di gas serra, mentre il medesimo Protocollo non impone riduzioni sensibili a paesi come Francia, Germania e Regno Unito e non impegna affatto altri paesi, che rappresentano oltre i due terzi dell'umanità. È scientificamente provato, inoltre, che anche con una piena attuazione del Protocollo di Kyoto non si produrrebbe alcun effetto apprezzabile sul tasso di CO2 nell'atmosfera.
Occorre ricordare che, con motivazioni legate ai cambiamenti climatici, l'Italia ha già assunto l'obbligo di ridurre le emissioni di gas serra del 6,5 per cento entro il periodo 2008-2012, rispetto ai volumi di emissione del 1990, ma, per effetto dell'incremento delle emissioni che si è registrato dal 1990 ad oggi, l'obiettivo di riduzione effettivo, al 31 dicembre 2006, era pari al 19 per cento.
Questo obiettivo è giudicato dagli esperti tecnicamente irraggiungibile. Lo scenario tendenziale delle emissioni, elaborato dal Ministero dell'ambiente scontando le misure di riduzione già avviate, anche attraverso l'incentivazione delle energie rinnovabili e posto che queste risultino efficaci (cosa tutta da dimostrare), evidenzia che, nel periodo 2005-2012, le emissioni supereranno egualmente e di molto gli obiettivi fissati.
L'Italia sarà, perciò, condannata a pagare una sanzione complessiva di circa 55 miliardi di euro, che in parte stiamo già pagando e che dovrà essere ancora una volta spesata sulla fiscalità generale, sul costo dei combustibili e sulle tariffe elettriche. Questa pesante penalizzazione per l'Italia, tra l'altro, è ancora più inaccettabile, se si considera che, quanto a emissioni inquinanti, il nostro Paese è tra i più virtuosi d'Europa, quindi del mondo. Se consideriamo la percentuale di emissioni di CO2 per abitante, troviamo che l'Italia è in coda alla graduatoria con una sola eccezione: la Francia. C'è un però: la Francia usa molto nucleare.
Nel corso dell'audizione di fronte alla Commissione territorio, ambiente e beni ambientali del Senato, svoltasi il 21 febbraio scorso, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle politiche e le misure volte ad affrontare i problemi legati ai cambiamenti climatici anche in vista della Conferenza nazionale su energia, ambiente e attuazione del Protocollo di Kyoto, al professor Carlo Rubbia è stato chiesto se, qualora fosse pienamente attuato il protocollo di Kyoto, ci si potrebbe tranquillizzare e considerare i problemi risolti. La risposta a questa fondamentale domanda è stata: no! Si tratta di una circonlocuzione scientificamente elegante per dire che il protocollo di Kyoto non serve allo scopo.
A fronte di questa realtà complessa, controversa e che rischia di divenire penalizzante per l'economia nazionale, la Commissione europea non esita addirittura a rilanciare - senza che dai rappresentanti italiani venga alcuna obiezione - avanzando le seguenti proposte: una riduzione del 30 per cento, rispetto ai dati del 1990, delle emissioni di gas serra entro il 2020 e del 50 per cento entro il 2050; una riduzione globale del 20 per cento del consumo di energia primaria entro il 2020, cui l'Unione europea dovrebbe contribuire con una riduzione del 13 per cento rispetto alla situazione attuale; il raggiungimento di una percentuale di fonti rinnovabili nel mix energetico dal 7 per cento attuale al 20 per cento entro il 2020.
Secondo le valutazioni condotte dalla stessa Commissione europea, gli investimenti necessari nel periodo 2013-2030, per conseguire i suddetti obiettivi, impegnerebbero lo 0,5 del PIL mondiale e, dato che questi sono gli stessi orientamenti che ritroviamo nella relazione della VIII Commissione, continuo a pormi alcune domande rimaste finora senza risposta.
Perché il Parlamento e il Governo assumono per scontate e portano a conseguenze estreme tesi quanto meno controverse, senza sottoporle preventivamente alla valutazione della comunità scientificaPag. 9nazionale? Come intendono il Parlamento e il Governo finanziare la copertura degli ingenti oneri derivanti dall'ormai sicuramente mancato conseguimento degli obiettivi del Protocollo di Kyoto e tutelare la competitività del sistema produttivo nazionale, qualora gli stessi oneri dovessero gravare sul costo dell'energia elettrica dei combustibili e dei carburanti? Attraverso quali azioni il Governo italiano intende evitare che il sistema produttivo nazionale sia costretto ad affrontare una vera e propria catastrofe economica? Per quale motivo il Governo italiano continua a incentivare, a spese delle bollette elettriche, la realizzazione di impianti fotovoltaici ed eolici, caratterizzati da un costo reale di produzione dell'energia elettrica che è da tre a dieci volte superiore anche a quello già elevatissimo tipico degli impianti termoelettrici convenzionali, alimentati con gas e olio combustibile? Il richiamo alla realtà che è venuto dal presidente dell'Autorità per l'energia elettrica e il gas lo scorso 5 luglio dovrebbe indurre ad una maggiore prudenza.
Nel solo 2006 e il gestore del sistema elettrico ha speso quasi 6,5 miliardi di euro per acquistare, a prezzo politico (leggasi «tariffa incentivata»), l'energia elettrica prodotta dalle fonti rinnovabili e assimilate, a fronte di un valore di mercato della stessa energia pari a 2,7 miliardi. La differenza (3,7 miliardi) è stata addebitata sulle bollette elettriche dei cittadini e delle imprese, sotto la voce «oneri di sistema».
Secondo i calcoli dell'Autorità nel periodo 2008-2020 gli oneri di sistema legati all'incentivazione delle fonti rinnovabili e assimilate costeranno al consumatore elettrico, a legislazione vigente, 25 miliardi di euro, senza peraltro produrre alcun effetto rilevante sulle emissioni.
Pertanto, non possiamo esimerci dall'avvertire che, a prescindere dagli orientamenti emersi nella VIII Commissione, è indispensabile approfondire il problema prima di assumere decisioni impegnative per il Paese.
Ci riferiamo, in particolare, alla necessità e all'urgenza di un confronto con il sistema scientifico nelle sue molteplici componenti, che deve essere libero di esprimere valutazioni approfondite e prive di condizionamenti politici. Mi riferisco, in particolare, alle accademie, alle associazioni e alle società scientifiche, agli istituti economici, all'Autorità per l'energia elettrica e il gas e agli organi tecnici dello Stato, nella speranza che questi ultimi tornino ad essere gestiti secondo logiche di competenza e non di appartenenza politica, come invece sta accadendo, proprio in questi giorni, con la ristrutturazione dell'APAT.
Il sistema tecnico-scientifico ha il diritto-dovere di aiutare il sistema politico a maturare scelte consapevoli e avvedute, evitando salti nel buio, che rischiano di pregiudicare, per decenni, le prospettive economiche e di sviluppo del Paese.
È per i suddetti motivi che il gruppo Forza Italia ha deciso di astenersi riguardo al voto della risoluzione proposta dalla maggioranza e di presentarne una propria, che invita il Governo ad operare, in campo energetico, scelte coerenti con la realtà e i bisogni del nostro Paese; a tenere conto, in via primaria, del contributo e delle competenze della comunità scientifica nazionale e internazionale; a non perseguire obiettivi miracolistici che l'Italia non si può permettere e che graverebbero irreparabilmente sulle tasche degli italiani; a liberare il Paese dalle tante paure ingiustificate che il catastrofismo strumentale del Ministro dell'ambiente alimenta quotidianamente; a predisporre un piano energetico nazionale per mettere «nero su bianco» costi energetici e abbattimento delle emissioni inquinanti, evidenziando realmente le strade percorribili; ad affrontare il problema più serio e complesso, costituito dalla mobilità e dai trasporti pubblici e privati, per il quale occorre una seria politica di rinnovamento della logistica, dei consumi-auto, dell'efficienza del servizio pubblico locale, del trasporto delle merci via mare o attraverso ferrovia (Applausi dei deputati del gruppo Forza Italia).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Mellano. Ne ha facoltà.
BRUNO MELLANO. Signor Presidente, colleghi, signor Ministro, voglio cominciare il mio intervento ringraziando la Commissione ambiente della Camera dei deputati per il lavoro svolto e per la relazione presentata: in particolare, per tutti, ringrazio il presidente della Commissione, Ermete Realacci, che ha utilizzato lo strumento della relazione al Parlamento per costruire un'occasione di dibattito e di discussione, in un momento in cui questi temi sono all'attenzione generale dell'opinione pubblica, sicuramente anche grazie all'attività del Ministro Pecoraro Scanio.
Sono temi di attualità assoluta, sui quali i nostri cittadini e l'opinione pubblica si interrogano e che non possono più essere ignorati in qualsiasi confronto politico.
Pertanto, credo che la relazione presentata - al di là della discussione, certamente lecita e opportuna, sulla matrice culturale e sull'approccio iniziale - sia utile e preziosa proprio perché aiuta il Parlamento ad affrontare, in modo specifico e puntuale, anche una serie di ipotesi di intervento. Questo è l'onere e l'onore della politica: siamo chiamati, per quanto possibile e per quanto è nelle nostre competenze, a ipotizzare interventi, inventare, studiare e costruire politiche di gestione e di controllo del territorio. Su ciò credo che dovremo essere valutati.
Rispetto a questa relazione ho tentato personalmente di introdurre le mie osservazioni (che in parte sono state accolte dalla Commissione agricoltura e recepite anche nella relazione finale dalla Commissione ambiente) volte ad una sottolineatura, che ritengo doverosa e significativa, rispetto a due temi in particolare: il primo riguarda l'acqua e la gestione delle risorse idriche, un elemento fondamentale di qualsiasi gestione del territorio e del paesaggio e caratterizzante l'approccio generale. Anche i cittadini e l'opinione pubblica conoscono e hanno cominciato a misurare l'importanza dei temi del cambiamento ambientale e del governo del territorio proprio in forza dei disastri alluvionali e delle siccità che hanno vissuto sulle proprie spalle e sulla propria pelle in questi anni, con sempre più gravi ricadute ed emergenze e con un impatto territoriale locale molto forte.
L'altro tema, che attiene ad una politica di medio-lungo periodo, è quello dell'intervento sul suolo (in parte recepito dalla relazione). Il tentativo che ho fatto presentando una proposta di legge di modifica del decreto legislativo n. 152 del 2006 (il testo unico Matteoli, che tentava di mettere insieme tutte le leggi sull'ambiente) consiste nel porre un'attenzione particolare rispetto alla gestione del suolo, proprio perché può essere un elemento per fissare l'anidride carbonica e il carbonio organico: si tratta di una strategia di attenzione e di tutela del territorio rispetto alle minacce e ai rischi che esistono anche per il suolo italiano, come la desertificazione, l'inaridimento, la cementificazione e quant'altro, anche in prospettiva di una riduzione complessiva dell'inquinamento.
Ritengo che su tali due temi si possa e si debba lavorare puntualmente: abbiamo cominciato a farlo e lo faremo sicuramente con le proposte di modifica del decreto legislativo n. 152 del 2006. Lo abbiamo tentato di fare, rispetto all'acqua, con il Piano irriguo nazionale: è un argomento che necessita di un lavoro quotidiano, sul quale davvero è importante misurarci, seppur con opinioni diverse, per valutare in modo preciso e puntuale gli obiettivi che la politica si deve dare.
È per tali motivi che intendo sottolineare - non in chiave polemica, ma per una lettura parzialmente diversa - che il capitolo 2.9 della relazione, intitolato «Agricoltura amica del clima», sia più uno auspicio che una realtà. Credo che ancora adesso l'agricoltura italiana sia in molta parte responsabile di un disastro ambientale e di una gestione dell'ambiente che, a scapito del suolo e in molti casi dell'interesse generale, è responsabile della nostra situazione di difficoltà e di disagio.
L'agricoltura può e deve essere amica del clima, del suolo e dell'ambiente, ma in Italia non lo è. L'agricoltura intensiva, chePag. 11continuiamo ad avere in gran parte nella pianura Padana, che assorbe moltissima acqua, utilizza moltissimi diserbanti e produce agenti inquinanti è un elemento di rischio su cui dovremo lavorare con maggiore impegno e attenzione, sapendo che è un settore delicato e sensibile.
Non è facile parlare con le associazioni di categoria e lei, signor Ministro Pecoraro Scanio, è stato anche Ministro dell'agricoltura in passato, quindi sa che il rapporto con le associazioni di categoria è prezioso, ma anche che è difficile parlare di agricoltura come di un rischio o di un elemento critico rispetto alla gestione dell'ambiente. È difficile ma occorre affermarlo: occorre cambiare alcune pratiche antiquate e modernizzare un settore, quale il comparto agricolo, che è fondamentale e che deve fare anche in Italia grandi passi in avanti per essere davvero amico del clima, del paesaggio e del territorio.
Credo che la relazione, il dibattito e il confronto di questi giorni siano importanti proprio perché, come è detto nella citazione di Shakespeare all'inizio del documento, siamo all'interno di una «marea montante» di attenzione e di sensibilità nell'opinione pubblica rispetto al tema in esame. Dobbiamo cavalcare quella marea non per non giungere ad un approdo concreto, ma proprio perché sappiamo che bisogna intervenire con puntualità e con il rigore della politica per costruire percorsi concreti, attuabili e misurabili e con una strategia di lungo periodo che ci deve guidare. Ritengo che su questi temi, attraverso l'azione del Governo, potremo realizzare e si dovranno realizzare molte cose.
Abbiamo detto che l'attuale Governo rappresentava l'alternanza nel gioco centrodestra-centrosinistra, ma anche che doveva costruire, per quanto riguardava La Rosa nel Pugno e i Radicali, un'alternativa di governo di politiche. Nel costruire alternative di politica in campo ambientale, nei prossimi giorni - mercoledì e giovedì - abbiamo organizzato un convegno nazionale a palazzo San Macuto dal titolo «Energia ed ambiente», nel quale, come Radicali italiani, offriremo le nostre riflessioni e il nostro contributo per portare alla politica del Governo e del Paese elementi ulteriori di ragionamento e di approfondimento.
Nei giorni scorsi ho reso pubblico - il «pubblico» che è clandestino nel caso dei Radicali - un decalogo di iniziative che si possono realizzare rispetto all'agricoltura e all'acqua e che metterò a disposizione delle Commissioni competenti. Disponiamo sostanzialmente di uno spazio di lavoro nel quale dovremo agire assieme e il nostro contributo, anche votando la relazione in esame, deve però essere quotidiano, attivo e dimostrare un'attenzione vera e una reale sensibilità rispetto a questo argomento, perché giustamente non solo rappresenta il tema del momento, ma anche la sfida del futuro su cui saranno misurate le capacità politiche per le prossime generazioni.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Dussin. Ne ha facoltà.
GUIDO DUSSIN. Signor Presidente, partecipiamo favorevolmente all'iniziativa della VIII Commissione (Ambiente, territorio e lavori pubblici) di sottoporre all'Assemblea la relazione in esame.
Tuttavia, per quanto riguarda il merito, siamo favorevoli da sempre ad alcuni punti del documento, su altri siamo ben disposti ad un franco dialogo, mentre, riguardo ad altri aspetti, infine, non siamo favorevoli.
La Lega Nord ha sempre espresso la propria posizione sulle grandi tematiche a livello mondiale e lo ha fatto in modo ben chiaro, indicando situazioni che possono essere prese come modello ed esempio; quindi, su tali argomenti facciamo leva anche su alcune linee che già rappresentano una tendenza e che possono dirsi l'elemento portante di azioni che partono dal basso.
L'azione che va svolta sull'ambiente deve partire dal basso: è questa la prima proposta che la Lega avanza e ha sempre avanzato. Le grandi iniziative che partono dall'alto determinano tutta l'azione dell'uomoPag. 12per pure e specifiche convenienze di grandi lobby e multinazionali.
Dobbiamo stabilire una linea di riferimento per quanto riguarda tutta la produzione di energia nel mondo e la conseguente riduzione delle emissioni, di qualunque tipo esse siano. Negli ultimi tempi i giornali hanno riportato una serie di notizie allarmanti per i cittadini italiani, da una parte, sui cambiamenti climatici e, dall'altra parte, sui mezzi a disposizione dell'Italia per combattere tali cambiamenti. È proprio su questo tema, ossia sull'opportunità per il Paese di combattere i cambiamenti climatici, che possiamo incidere.
Tempo fa, in questa Camera, abbiamo trattato alcuni temi, come, ad esempio, quello dello smaltimento dei rifiuti, che era il più evidente e il più palese. Abbiamo notato che tale problema è tipico dell'Italia e quasi esclusivamente italiano.
In questo periodo, vi è stata un'azione catastrofista che ha demonizzato alcuni modelli di smaltimento, come l'inceneritore e la discarica. Condividiamo la posizione a favore di una riduzione dei rifiuti e riconosciamo parte di queste evidenze, frutto non solo dell'espressione governativa, ma anche parlamentare. Tuttavia, siamo convinti che, oltre alla riduzione dei rifiuti - che abbiamo proposto ed attuato - vi debbano essere anche i giusti bacini, in forma di discarica, che devono ospitare il rifiuto tal quale (così denominato non vorrei che venisse frainteso), ossia il rifiuto in generale.
Per quanto riguarda, inoltre, la possibilità di produrre energia attraverso il trattamento dei rifiuti, questo deve avvenire in modo tale da fornire un'ulteriore opportunità a tutta la comunità. A monte di tutto ciò - come abbiamo affermato - siamo favorevoli alla riduzione dei rifiuti.
Per partire dagli esempi che aveva sottolineato il collega Benvenuto, fra i dieci citati vi è anche quello dell'edilizia. Abbiamo proposto il «casa-clima», fortemente apprezzato, approvato, spinto, proposto, finanziato e sostenuto in provincia di Bolzano, ma che costituisce anche una bellissima esperienza in Lombardia e in Toscana.
Sono esempi che devono essere presi come riferimento a livello locale, senza voler spaziare sulle grandi tematiche mondiali, e che possono benissimo partire dall'Italia, ma che, soprattutto, devono essere sostenuti in primis a livello finanziario. Questa, pertanto, è la proposta che avanziamo al Governo e allo Stato italiano.
Se volete che i progetti vengano avviati, devono essere finanziati, cofinanziati ed essere sgravati, soprattutto, dal punto di vista fiscale: la fiscalità italiana oggi rende impossibile proporre un'alternativa e in questo settore (che è nuovo) occorre far sì che alcune linee di tendenza, che sfruttano le energie rinnovabili e le energie di cui il nostro Paese abbonda, vengano intercettate per il bene comune della collettività.
Al catastrofismo del Ministero dell'ambiente, che vede concentrato in Italia un insostenibile aumento di temperatura, si contrappongono le notizie riferite dai giornali, negli ultimi giorni, in merito ad allarmi di black out invernali, ancora più massicci di quelli del 2003 e del 2006, che esporrebbero al rischio di restare al buio e al freddo in particolare le zone settentrionali dell'arco alpino. Si tratta per noi di una grande preoccupazione, perché, se così fosse, sicuramente ci troveremmo in una situazione di blocco di tutta l'economia nazionale. Ci auguriamo che ciò non avvenga; tuttavia, vi sono dei sentori e delle informazioni di dominio pubblico che imputano la responsabilità di questa situazione al fatto di non aver stoccato le necessarie risorse di gas nelle nostre riserve nazionali.
Le reciproche accuse e le risposte intervenute tra produttori e distributori di energia e le affermazioni del Ministro dello sviluppo economico e del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare circa l'opportunità di incrementare le scorte energetiche del Paese, come anche la necessità di riduzione dei consumi, aumentano la preoccupazione degliPag. 13utenti in merito alle linee strategiche che il Governo intende adottare per far fronte a situazioni di crisi.
Dal documento conclusivo della Conferenza nazionale sui cambiamenti climatici, dal contenuto dei tredici punti delle azioni del Ministro dell'ambiente, si evince un'attenzione sui temi nobili e ambientalisti, come l'approfondimento della ricerca e del monitoraggio ambientale, l'attenzione per la non variazione delle linee di costa dei litorali italiani, la gestione sostenibile delle risorse marine, la gestione consapevole del patrimonio naturalistico della montagna, l'istituzione di un «clima day» e l'attuazione della contabilità ambientale.
È senz'altro lodevole un impegno volto a far sì che vi sia una sensibilizzazione su tali temi, ma è anche altrettanto necessario che vi siano risposte per quanto riguarda le situazioni normali. Invito il Ministro qui presente a fornire, ad esempio, una risposta sui temi delle infrastrutture: un altro dei punti testé citati dal collega Benvenuto riguarda il fatto che dobbiamo dare una risposta alle nostre infrastrutture; esse devono essere approvate con un iter che sia chiaro e che abbia una temporalità ben precisa.
Molte volte abbiamo visto che le nostre infrastrutture sono rimaste ferme solamente per ragioni ostruzionistiche anziché propositive. Ricordo a tutti, ad esempio, che l'altro giorno è stata posta una prima pietra con l'approvazione della realizzazione del lotto 29 dell'autostrada A28. Ciò è l'esempio di come si costruisce un'autostrada oggi, con la raccolta delle acque piovane, con il loro trattamento e, quindi, con un trattamento a latere, con una riforestazione lungo i percorsi, oppure come avviene sul passante di Mestre. Tutto ciò è possibile, basta volerlo, basta proporre iniziative e far sì che vi siano approvazioni certe: molte volte, infatti, è anche grazie alla forza dell'azione amministrativa che si può dare un grande aiuto al nostro territorio, il quale può ricevere un ingente contributo dall'azione politica e politico-amministrativa.
Le preoccupazioni degli operatori nel settore energetico riguardano, in particolare, il congelamento dei progetti per gli impianti di rigassificazione (altro tema su cui vi è una discussione nazionale), le lentezze registrate nella produzione degli impianti di stoccaggio di gas ed il rifiuto delle centrali a carbone pulito, lo «stop» da parte del Ministro dell'ambiente e del Ministro dello sviluppo economico, le linee ad alta tensione e gli impianti di produzione energetica da fonti rinnovabili quale l'eolico, le lentezze registrate nello sviluppo e nell'ammodernamento della rete dei metanodotti: sono tutti temi che vanno di pari passo.
Ovviamente, la linea del Governo che propone di portare il trasporto prevalente su rotaia anziché su strada è una scelta. Tuttavia, sicuramente, anche le infrastrutture riguardanti i settori che menzionavo poc'anzi devono essere portate a compimento. Le cifre riportate sui giornali indicano in un ammontare dai 40 ai 200 miliardi di euro l'entità dei danni per le infrastrutture non realizzate: non li possiamo imputare a nessuno, però potremmo imputarli benissimo a questa parte del Parlamento e, soprattutto, al Governo in carica in questi anni che ha fatto sì che tale danno vada, poi, ad incidere sui costi finali sostenuti dall'utente, e non solamente su di essi, ma anche sull'inquinamento ben superiore che si è verificato.
Alle preoccupazioni degli operatori, si aggiungono i richiami del Ministro dello sviluppo economico sulle carenze infrastrutturali dell'Italia che non è riuscita a far fronte all'aumento dei consumi con investimenti appropriati; richiami, questi ultimi, che contrastano con le rassicurazioni del Ministro dell'ambiente. Mi auguro che dalla risposta possa venire una certezza che vada nel senso opposto a quello indicato dal Ministero dello sviluppo economico; potremmo così dirimere tale questione che mi sembra sia emersa anche nell'ultimo periodo.
Anche l'Authority per l'energia elettrica e il gas ha definito pericolosamente insufficiente la capacità di stoccaggio del gas importato. Ciò, ovviamente, preoccupa le nostre aziende del nord che, oltre a vedere rincarate le bollette, si trovano nella difficoltàPag. 14di dovere, poi, competere sul mercato, in particolar modo con le aziende tedesche poiché la Germania sta compiendo un'azione importante dal punto di vista ambientale, ma ha anche, però, rassicurato le proprie aziende. Senz'altro, il corretto utilizzo delle risorse naturali rappresenta il punto di partenza per l'attuazione dello sviluppo sostenibile integrato con lo sviluppo economico.
Senza cadere in inutili allarmismi - che sembrano piuttosto basati su ragioni di opportunità politica intese a celare l'inspiegabile immobilismo ed il fermo relativo alle infrastrutture da parte del Ministero dell'ambiente -, occorrono azioni concrete e mirate alla conservazione delle risorse terrestri, all'incentivazione dell'utilizzo delle fonti rinnovabili, alla semplificazione e facilitazione dei processi autorizzativi per la produzione di energia da fonti rinnovabili (che rendono realizzabile un reale incremento di produzione) all'incentivazione dell'utilizzo di migliori tecnologie per la diminuzione delle emissioni inquinanti in aria, acqua, suolo, senza tuttavia penalizzare lo sviluppo economico e i diritti alla tranquillità dei cittadini per un sufficiente approvvigionamento energetico del paese.
Le politiche ambientali sono legate, da una parte, al sistema di informazione, educazione e sensibilizzazione del cittadino verso tematiche ambientali e, dall'altra, al controllo delle emissioni, con particolare riferimento all'abbassamento delle emissioni degli inquinanti atmosferici da parte di impianti industriali, mezzi di trasporto, impianti termici ed energetici.
A sostegno di una crescita economica galoppante dall'inizio degli anni Novanta, con aumenti dei consumi mondiali di petrolio superiori al 20 per cento e aumenti della domanda di energia superiori al 60 per cento entro il 2030, occorrono azioni dirette a garantire la sostenibilità futura, in particolare in ordine al contenimento delle emissioni di gas serra, al miglioramento della qualità dell'aria, specialmente nelle aree urbanizzate e in quelle naturali protette, alla gestione sostenibile delle risorse naturali, alla sicurezza energetica con particolare riferimento alle dimensioni della dipendenza dell'Italia dalle importazioni.
Tale situazione implica la necessità di una politica di rinnovo delle fonti energetiche del paese - e in ciò consiste la nostra linea -, dagli odierni sistemi energetici, basati su combustibili fossili, a futuri sistemi energetici sostenibili, come ad esempio l'utilizzo di idrogeno per la produzione di energia elettrica su vasta scala.
Proprio in termini di energia all'idrogeno occorre sostenere e finanziare progetti e iniziative, ossia la ricerca e l'azione anche di soggetti privati, volti all'individuazione di tecnologie per la produzione e stoccaggio di idrogeno, incentivando la ricerca in questo settore. Inoltre - in linea con quanto detto poc'anzi dal presidente Ermete Realacci -, siamo favorevoli alla ricerca nel settore dell'energia nucleare, affinché si possa verificare qual è il percorso possibile per l'Italia e per valutare tale fonte energetica.
La Lega Nord Padania chiede al Governo interventi concreti per rispondere all'emergenza clima, come ad esempio l'istituzione di appositi fondi per il finanziamento della ricerca in tema dei sistemi energetici alternativi ambientalmente sostenibili, con particolare riferimento alla ricerca per l'utilizzo dell'idrogeno, per la produzione di energia elettrica su vasta scala nazionale e alla ricerca per la concezione di impianti nucleari finalizzati solamente alla fase di ricerca e su scala europea.
Tuttavia, gli incentivi devono incrementare le opportunità per le imprese e per l'iniziativa privata e non fossilizzarsi su ricerche aride e senza sbocchi concreti, che non hanno altro scopo che «sostenere i calzoni» delle associazioni ambientaliste!
PRESIDENTE. La invito a concludere.
GUIDO DUSSIN. Concludo.
La nostra proposta sicuramente considera l'opportunità per il Parlamento di trovare le condizioni per un' intesa affinché non vi sia più divisione - come èPag. 15avvenuto nell'ultima fase - ma vi sia invece un' accordo a favore dello sviluppo, che fornisca certezza alla nostra realtà produttiva e, nel contempo, dia l'opportunità alla popolazione, soprattutto nelle aree maggiormente popolate, di alleviare i gravi problemi di fronte ai quali ci troveremo tra qualche mese. Questo faremo con la nostra insistenza, tipica delle regioni del nord, conoscendo qual è il grave pericolo per tali realtà industriali e fortemente urbanizzate.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Cacciari. Ne ha facoltà.
PAOLO CACCIARI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, signor Ministro, in primo luogo dichiaro che Rifondazione Comunista ha contribuito all'elaborazione e si riconosce nella relazione predisposta dalla Commissione ambiente, il cui grande merito va ricondotto al lavoro paziente e rigoroso svolto dal relatore.
Essa non si limita a ripetere le opinioni prevalenti e ormai generalmente condivise dalle agenzie dell'ONU, dalla comunità scientifica internazionale e finalmente anche dai Governi europei sulla catastrofe climatica in corso, sugli sconvolgimenti epocali degli ecosistemi provocati dal surriscaldamento del pianeta.
La relazione non elude il problema dell'individuazione delle cause antropiche che stanno contribuendo alla rottura dei cicli climatici. Come diceva Edward Wilson noi siamo la prima specie ad essersi trasformata in una sorta di «forza geofisica in grado di alterare il clima della terra». Ciò ha suggerito ad altri di ribattezzare l'era geologica che stiamo vivendo col nome di «antropocene». In altre parole, il successo biologico della specie umana è andato a discapito di altre specie e ora anche degli equilibri climatici. L'homo sapiens ha dimenticato che in ultima istanza è pur sempre la natura la fonte di ogni valore d'uso e che la produzione industriale e l'economia tutta sono sottosistemi dell'economia terrestre.
Usciamo anche da un'importante Conferenza nazionale sul clima - per la cui organizzazione dobbiamo essere grati al Ministro Pecoraro Scanio - che ribadisce l'allarme e insiste sulla necessità di un approccio integrato, sociale ed economico oltre che ambientale, nel disegnare le politiche di rientro nella sostenibilità biofisica.
Sono contento che il Ministro abbia ripreso un'idea, contenuta nella relazione, di un new deal ispirato alla sostenibilità ambientale, alla tutela del clima e alla salvaguardia del nostro futuro. Come ignorare i ripetuti appelli di Papa Ratzinger per promuovere, come ha detto ieri, «il bene comune, lo sviluppo e la salvaguardia del creato». Nessuno stupore se uso questi termini: anche Engels un secolo e mezzo fa usava il termine «creato» per indicare l'universo naturale.
Tali ampie condivisioni sulla relazione e sulle conclusioni della Conferenza sul clima mi consentono di entrare subito nel merito delle problematicità che rimangono e che ritengo debbano essere assunte dallo stesso Governo e concretamente risolte.
In primo luogo, come affermava ottimamente anche l'onorevole Realacci, dobbiamo riconoscere che il Paese ha accumulato ritardi preoccupanti nella tabella di marcia stabilita dal protocollo di Kyoto. Solo nel 2006 il nostro apparato energetico industriale-civile ha cominciato a ridurre di un punto percentuale l'emissione di gas clima-alterante; ne rimangono però altri diciassette, mentre il nostro piano nazionale di assegnazione delle quote di CO2 è ancora sovrastimato e sotto il giudizio dell'Unione europea. Non solo siamo in ritardo nell'incentivazione del risparmio energetico e nella produzione di energia pulita (di fatto avviata solo quest'anno con la legge finanziaria per il 2007); non solo manca del tutto un'iniziativa imprenditoriale seria nell'ideazione e nella produzione di sistemi tecnologici industriali low carbon sull'efficienza energetica e sulle fonti alternative quali il solare, l'eolico e la microcogenerazione; manca anche, a mio avviso, una sensibilità generale in quanto mi sembra vi sia un ritardo culturalePag. 16complessivo, sia nell'opinione pubblica italiana sia nella comunità scientifica accademica sia tra le forze politiche.
È come se su queste tematiche il Governo procedesse con il freno a mano tirato; la solenne autocritica del Presidente del Senato Marini è esemplare, ma totalmente ignorata; al riconoscimento storico-politico della centralità delle questioni ambientali non sono seguiti atteggiamenti coerenti. Se noi guardiamo al dibattito avvenuto quest'ultimo anno nel mondo, dalla pubblicazione citatissima del quarto rapporto dell'IPCC fino al documentario di Al Gore, dalla pubblicazione dei cinque volumi del Millennium Ecosystem Assessment per arrivare fino ai piani di Schwarzenegger in California - per citare solo quanto avvenuto in questo ultimo anno - ci rendiamo conto che negazionisti e minimalisti sono stati finalmente spazzati via.
Perfino Bush, a suo modo e con la soluzione sbagliata dei biocombustibili, ha dovuto riconoscere che c'è un problema nell'approvvigionamento energetico della way of life del modello nordamericano. Persino gli economisti liberisti della Banca mondiale - vedi il rapporto Stern - sulla base di un banale calcolo costi-benefici, riconoscono oggi, con trenta o quaranta anni di ritardo sulle previsioni del club di Roma, che è più economico prevenire con piani di mitigazione e di adattamento proattivi che non subire le conseguenze di un'eccessiva pressione antropica.
Le compagnie di assicurazione non coprono più i danni provocati da cause naturali. In Italia, quando si affronta il problema, capitale per l'umanità moderna, della capacità di carico degli ecosistemi e dei limiti biofisici allo sfruttamento dei beni comuni naturali, il dibattito scivola a «baruffa di pollaio» contro i gruppi ambientalisti, contro il partito del non fare, contro chi pensa che il maiale sia fatto tutto di prosciutto - ho anche sentito questo ed altro -, banalizzando miseramente.
Colgo l'occasione per portare la solidarietà di Rifondazione Comunista al Ministro Pecoraro Scanio, non solo per le dichiarazioni degli «sceriffi razzistit» che sono state fatte in questi giorni, e per le paginate di insulti su Libero, ma anche per gli attacchi di dirigenti di aziende pubbliche che, invece di essere di esempio quanto a rispetto delle leggi italiane, se la pigliano con queste ultime e con il Ministro, perché devono rispettare correttamente anche loro le procedure di realizzazione degli impianti, come tutti i cittadini e gli imprenditori italiani. Sono loro gli ecoterroristi che manipolano l'opinione pubblica a fini, a dir poco, aziendali! Sono quasi tutte operazioni che mirano a esorcizzare il problema.
Se prendessimo in questi giorni i giornali di Londra, vedremmo che il tema principale della competizione tra Gordon Brown e David Cameron è su come raggiungere e superare i traguardi di Kyoto. La Merkel e tutta l'Europa si stanno già preparando all'appuntamento di Bali per tracciare il dopo Kyoto, con un grande progetto energetico europeo.
Sono tutti Verdi? Sono nichilisti? Sono tutti antisistema? Non credo proprio! E non credo che lo facciano per amore dell'orso polare, dopo avere fin qui ignorato il panda e le altre migliaia di specie animali e vegetali ormai estinte. E nemmeno solo in ossequio delle ultime e inoppugnabili acquisizioni scientifiche.
Le nuove politiche ambientaliste dei Governi europei vengono proposte - come direbbero molti di voi - per una convinzione riformista forte, per calcolo economico e per convenienza politica, che a noi di Rifondazione Comunista non convince del tutto, ma di cui non vi è traccia in Italia.
Da dove partono i riformisti europei? Dalla constatazione che i bisogni e i desideri sono infiniti, ma le risorse naturali sono limitate. In duecento anni abbiamo consumato la metà del petrolio esistente: a questi ritmi la seconda metà sarà bruciata in pochi decenni!
Trovare alternative è impegnativo e soggetto ad un forte grado di incertezza. C'è bisogno di nuova ricerca di base, di nuove tecnologie, di nuove infrastrutture, di nuove relazioni geostrategiche globali e, soprattutto, di colossali risorse finanziarie.Pag. 17
C'è chi le ha calcolate in 20 mila miliardi di dollari. È stato scritto che nella storia non c'è mai stato un progetto industriale di queste dimensioni: eliminare 175 miliardi di tonnellate di CO2 dall'atmosfera senza smettere di crescere.
Le tecnologie pulite saranno la prossima grande industria globale. Il barile di petrolio a ottanta, novanta, cento dollari non è solo una conseguenza del gioco del mercato, ma è la conseguenza di un'operazione di nuova accumulazione originaria ad opera delle quattro o cinque majors petrolifere.
The Observer ha scritto che la Shell sta stanziando 350 milioni di dollari all'anno per i carburanti non fossili, mentre la BP 100 miliardi: quanti ne stanno stanziando la nostra ENI e la nostra ENEL? Ce lo devono dire le nostre aziende di Stato!
In Europa, ma anche negli USA, in Giappone, ovunque vi è la convinzione che in gioco vi sia il mantenimento della supremazia dell'Occidente sul resto del mondo: chi prima riuscirà a sviluppare le nuove tecnologie ed i nuovi sistemi di risparmio di energia fossile maturerà un vantaggio competitivo per quanto riguarda il loro trasferimento nei Paesi emergenti. Nel nostro paese, invece, gli industriali pensano alla produttività sul versante dei costi e si ritroveranno a competere, perdendo, con la Cina.
Vi è un'altra forte convinzione tra i riformisti europei: per compiere questa terza rivoluzione industriale, come ha ricordato Prodi, per rendere redditevoli le fonti rinnovabili, il mercato da solo non basta; torna a grande richiesta in tutta Europa lo Stato, quello «duro», prescrittivo, capace di comandare e controllare; le nuove leggi in discussione in Gran Bretagna e in Germania hanno questo sorprendente taglio. Soprattutto sono necessarie pubbliche istituzioni sufficientemente autorevoli per imporre tasse di carbon tax, incentivi, defiscalizzazioni e sovvenzioni generose, mirate a finanziare la riconversione degli apparati energetici industriali. Solo la signora Marcegaglia e pochi altri incalliti neocon credono che il libero mercato sia in grado di sviluppare una competizione virtuosa per riposizionare spontaneamente le imprese sull'energia postfossile. Dobbiamo sapere che i cosiddetti costi climatici, il finanziamento della riconversione ecologica degli apparati produttivi, dei piani di adattamento, l'internalizzazione dei costi ambientali nei prezzi delle merci, in ultima istanza, devono essere scaricati e distribuiti sulle spalle dei cittadini, come contribuenti, consumatori, abitanti e lavoratori.
È in tale contesto che si apre il grande spazio della politica, la responsabilità delle scelte: a chi e con quali criteri di giustizia e di equità sociale distribuire oneri e benefici della transizione al dopo-petrolio, al dopo-carburanti fossili? I grandi gruppi economici transnazionali, le compagnie multinazionali sanno bene cosa vogliono. L'amministratore delegato della Wal-Mart ha così affermato: diventare verde è un nuovo modo per tagliare i costi ed aumentare i profitti.
Sono molti quelli che non perdono occasione per affermare che l'ambiente è un'opportunità, un driver si dice, per aumentare il business: ciò che Laura Marchetti ha chiamato, giustamente, «redditivizzazione della catastrofe» e che Naomi Klein, nel suo ultimo libro, ha chiamato «shock economy».
Dal lato opposto, sappiamo però anche bene - ce lo hanno spiegato alla Conferenza sul clima i funzionari delle agenzie ONU, della FAO, dell'UNEP e dell'Alto Commissariato per i rifugiati - che gli sconvolgimenti climatici colpiscono più duramente i poveri del pianeta: il 25 per cento degli abitanti di New Orleans non sono più tornati; sono semplicemente dispersi. Un miliardo e mezzo di persone non ha accesso all'acqua a causa della desertificazione e della salinizzazione dei fiumi. Milioni di profughi ambientali si mescolano ai rifugiati per guerre e per epidemie. In mezzo a questi, cioè all'amministratore delegato della Wal-Mart ed ai profughi ambientali, ci stiamo noi, minoranza di Paesi ricchi che detengono però i saperi e le risorse finanziarie necessarie per andare in una o in un'altra direzione.Pag. 18
In un mondo sempre più interconnesso, la sicurezza ambientale, così come quella energetica e di ogni altro tipo, è interdipendente: dovremo abituarci a capire che la qualità dell'aria che respiriamo nelle nostre città dipende dalle emissioni delle centrali a carbone cinesi, così come dalle foreste equatoriali; che il riscaldamento invernale ed il raffreddamento estivo delle nostre case è una gentile concessione degli Ogoni del Delta del Niger o delle popolazioni caucasiche, a cui siamo legati da una ragnatela di oleodotti, metanodotti, rotte petrolifere; che lo smaltimento dei nostri supergiocattoli elettronici ci è assicurato da qualche villaggio indiano, e così via.
Insomma, desidero dire che la sicurezza ambientale è un bene indivisibile, come la pace e la vita; non possiamo pensare di possederla solo noi a discapito di altri: o è assicurata a tutti, o si aprono conflitti insanabili! La cooperazione tra i popoli, la reciprocità negli scambi, la libera diffusione delle tecnologie pulite, la preservazione il più a lungo possibile delle risorse naturali, ovunque esse si trovino, corrispondono, infatti, ad un comune interesse.
Durante la Conferenza sul clima, per merito del ministro Mussi, si è aperta una bella questione: il capitalismo sarà in grado di risolvere la sfida alla sopravvivenza del pianeta (o, più modestamente, della specie umana, poiché il pianeta può sopravvivere anche senza di noi)? Non credo, signor Presidente, di avere in questa sede il tempo per svolgere una riflessione su questo tema, cui ho anche dedicato un libricino. Credo, tuttavia, che serva un modello di società diverso da quelli che abbiamo fin qui sperimentato. Vi sarebbe un'alternativa di modello: quella che Wolfgang Sachs chiama «della sufficienza», che Enrico Berlinguer - in tempi lontani - chiamava «dell'austerità», che altri chiamano «della sobrietà» e altri ancora «della decrescita». Si tratta di idee e modelli di società fondati su cicli corti e chiusi nell'utilizzo delle risorse naturali: le tecnologie del solare consentono la produzione energetica diffusa ed indipendente, tale da rovesciare la piramide dei modelli di distribuzione tradizionali; la bio-edilizia e la mobilità intelligente tagliano i fabbisogni; la gestione integrata del ciclo di vita delle merci elimina lo spreco di materie prime; l'aumento della qualità e della durata delle merci fa diminuire i consumi e, quindi, il fabbisogno di materie prime e di flussi di energia.
Concludo, affermando che la prossima legge finanziaria dovrà in ogni caso costituire per tutti un banco di prova ed un primo passo. Gli obiettivi contenuti nel programma della coalizione di Governo sono, infatti, chiari: il 25 per cento di energia rinnovabile entro la fine della legislatura; l'80 per cento degli obiettivi di riduzione di CO2 di Kyoto, ricorrendo a misure interne (senza fare cioè ricorso al mercato dei titoli di emissione); un nuovo programma energetico ambientale nazionale e regionale; un nuovo consiglio superiore per l'energia ed un'Agenzia nazionale dedicata.
Alla luce di tali intenti, preannunzio l'orientamento favorevole da parte del gruppo di Rifondazione comunista sulla relazione presentata dalla Commissione.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Rampelli. Ne ha facoltà.
FABIO RAMPELLI. Signor Presidente, cari colleghi, signor Ministro, credo che, paradossalmente, la Conferenza nazionale sul clima, al cui svolgimento abbiamo assistito nei giorni scorsi, abbia modificato in senso negativo la sensibilità comune che si era manifestata nel corso del tempo e rispetto alla quale tutte le forze politiche - tanto di centrodestra quanto di centrosinistra - hanno tentato di elaborare una sintesi. Tutto ciò si è verificato, a mio giudizio, poiché tale Conferenza non ha avuto chiari gli obiettivi da perseguire; peraltro, credo che non possa durare 48 ore scarse una Conferenza nazionale su una materia così importante e preoccupante, su cui sono accesi i riflettori dell'intero pianeta e dei maggiori e più qualificati organismi scientifici.
Credo che ci si sarebbe dovuti applicare di più per garantire serietà e capacità diPag. 19ascolto nei confronti della comunità scientifica, ma anche per consentire alla stessa di esibirsi in un contraddittorio pubblico. Quando si evoca il principio del contraddittorio è ovviamente fondamentale che vi sia una controparte, altrimenti non si può parlare tanto di una Conferenza nazionale sul clima, ma semplicemente di una sorta di conventicola settaria, animata da spirito di fazione, che presuppone non già una volontà di approfondimento, di ricerca e magari di soluzione, ma il desiderio di anteporre soluzioni precostituite e, dunque, ideologiche ad un sano e doveroso pragmatismo.
Lasciamo, quindi, perdere tutto ciò che è deflagrato nelle polemiche giornalistiche e accantoniamo per un attimo anche lo scivolone del Ministro Pecoraro Scanio, quando ha invertito alcuni numeri, gettandoci nel terrore, perché ha immaginato che di qui a qualche mese l'Italia potrebbe essere sommersa dal Mediterraneo e che tutti, quindi, potremmo più o meno essere tentati di salvarci a bordo di qualche pattino, raggiungendo coste di Paesi più fortunati.
Sono incidenti di percorso che possono capitare ed io, sinceramente, non me la sento di accanirmi; ritengo, comunque, che il Ministro abbia fatto tutto quanto era nelle sue forze.
Vorrei attenermi al contenuto della Conferenza nazionale; vorrei cioè che, in sede di replica sul lavoro svolto dalla Commissione, il Ministro potesse anche incidentalmente soffermarsi su tali considerazioni, per spiegare la ragione per la quale non ci siamo potuti intrattenere - ripeto - almeno per sette giorni per svolgere approfondimenti, tavole rotonde, anche in termini di coinvolgimento della società.
Vorrei conoscere la ragione per la quale il Governo, anche a prescindere dalle nobili questioni sulle alterazioni climatiche, non faccia un passo senza ricercare la concertazione, in alcune materie specifiche, con alcune forze sociali, salvo poi ignorare, forse quando non gli conviene o vuole anteporre obiettivi di carattere propagandistico ad altri di carattere scientifico, che esiste comunque un dibattito.
Chi parla sa bene che il dibattito nella comunità scientifica tra i negazionisti dei mutamenti climatici ed i cosiddetti realisti o, dall'altra parte, i catastrofisti, è fortemente sbilanciato in favore delle ultime due categorie citate.
Sappiamo tutti molto bene, cioè, che le suggestioni comparse, anche in questi giorni, su alcuni organi di informazione sono un po' caricate e forse sopravvalutate.
Sappiamo bene che da un po' di tempo a questa parte in ordine alla gravità delle condizioni climatiche mondiali sono state espresse affermazioni non soggettive, ma oggettive, provenienti da organismi più che autorevoli, che vanno a perorare alcuni atteggiamenti ed alcune affermazioni, presentando dati incontestabili, che peraltro non mettono nemmeno in dubbio l'eventualità di un mutamento climatico dovuto a cause cosiddette naturali.
Sappiamo che tale circostanza potrebbe anche verificarsi, ma sappiamo anche che essa può essere meditata e quantificata in una percentuale comunque non rilevante ai fini della possibilità da parte dell'uomo di intervenire sui mutamenti climatici in senso positivo.
Vorrei dire qualche cosa di più al riguardo, ragionando per paradossi: se valesse il contrario di quanto affermato, ossia se queste proporzioni potessero essere invertite e la capacità di incidenza dell'uomo e della sua attività sui mutamenti climatici fosse pari al 10 per cento, piuttosto che al 90, l'uomo dovrebbe comunque cogliere questa percentuale per tentare di lavorare positivamente, quindi allungare i tempi nell'attesa che qualche fenomeno naturale, uguale e contrapposto, possa intervenire, allungando così la vita e consentendo alla biodiversità di perdurare sul nostro pianeta, nelle sue variegate forme e nella sua ricchezza.
Quindi, anche o forse solo per sensibilità individuale, mi sento, da questo punto di vista, di spezzare una lancia in favore di questa mentalità che non dà mai niente per scontato e ritiene, comunque,Pag. 20che l'uomo, nel bene e nel male, possa essere protagonista dei processi universali.
Non possiamo evidentemente chiuderci in una sorta di dimensione dell'ineludibile: se vi fosse una guerra ed essa determinasse, eventualmente, una carestia o, comunque, una carenza di cibo, non credo che l'uomo, che ha affrontato mille guerre, si metterebbe in un angoletto per attendere semplicemente, pregando e genuflettendosi, la fine della guerra per mangiare di nuovo.
Ritengo che appresterebbe - è di tutta evidenza - delle politiche di risparmio, di accantonamento, di accumulo e quindi di costruzione delle riserve. Penso che sia un dato assolutamente normale, così come considero che nel dibattito in corso la sensibilità di chi ritiene la percentuale di influenza e condizionamento dell'attività antropica irrilevante o minoritaria sia una posizione che vada in ogni caso sondata, perscrutata, nobilitata, e che ad essa occorra concedere dignità, anche nella misura in cui dovesse essere combattuta. Non si può cancellare, ma bisogna mettere allo scoperto anche i nervi laddove vi siano problemi di comprensione e di confronto. Penso si tratti di un comportamento sano, non ideologico, aperto, disponibile all'arricchimento reciproco, perché ogni cosa è possibile, almeno secondo la mia cultura politica e la mia sensibilità personale, fuorché eliminare a priori una persona o un'area di riferimento che ha opinioni diverse rispetto alle proprie.
Ritengo che tale errore debba essere colmato, ma, purtroppo, la Conferenza nazionale sui cambiamenti climatici già si è svolta, pertanto nell'immediato non vi sono altre grandissime possibilità per dare altrettanta visibilità. Tuttavia, signor Ministro e onorevoli colleghi, la cultura del sospetto si alimenta nella misura in cui non si è avuta la forza di svelare tali problemi e di affrontarli con comune cognizione di causa, perché siamo consapevoli - siamo uomini di mondo - che talvolta, in alcune fasi della storia italiana e mondiale, dietro il negazionismo ed i negazionismi si sono nascosti interessi inconfessabili. Vi è stato anche tale aspetto, di cattivo lobbismo, di condizionamento inconfessato, di lavoro trasversale, sotterraneo, teso ad alterare anche la realtà scientifica per poter produrre, viceversa, solo e soltanto dei profitti e perciò un arricchimento personale, individuale, lobbistico. Però, se è vero che talvolta dietro i negazionismi si sono nascosti i comitati d'affari, è una ragione in più per concedere tribuna ai negazionisti, per metterli nelle condizioni di spiegarsi o meno, di uscire allo scoperto e quindi di essere contraddetti piuttosto che da un deputato della Repubblica da un Ministro, dalla comunità scientifica nel suo complesso.
Pertanto, signor Ministro e onorevoli colleghi, sono convinto che se l'obiettivo fosse stato sano e non propagandistico, quindi speculativo, vi sarebbe stato un modo migliore e diverso per gestire tale scadenza, che peraltro - posso garantirlo - anche l'opposizione ha atteso con una certa curiosità e, tutto sommato, anche con uno spirito assolutamente costruttivo. Tale circostanza potrà essere confermata dai colleghi della Commissione e dal presidente Realacci, in quanto abbiamo licenziato, con voto unanime, la relazione su cui oggi ci stiamo interrogando e che stiamo approfondendo nella discussione generale. Si tratta evidentemente della prova testimoniale di un approccio assolutamente costruttivo e positivo, che purtroppo è stato comunque disatteso, forse perché malamente interpretato come un atto di debolezza dal Ministro, da una Conferenza costruita evidentemente in fretta e furia, nella quale la presenza dei politici era preponderante rispetto a quella dei tecnici e degli scienziati, della comunità scientifica in genere (si è trattato comunque di un numero proporzionale, altrimenti si sarebbe trattato sic et simpliciter di un convegno di partito).
Vi è stato davvero di tutto e di più. Si è parlato, molto e troppo, di politica e poco di problemi reali e cogenti, tali da suscitare una preoccupazione che non può e non deve diventare catastrofismo (certamente non accadrà per coloro che sono schierati dalla mia parte). Viceversa, ritengo che qualche preoccupazione in piùPag. 21debba sopraggiungere quando la parola è consegnata ad esponenti, signor Ministro, del suo gruppo e della sua coalizione, non fosse altro perché vi è un partito che si ispira all'ecologia e, forse, il catastrofismo può procurare anche una rendita di posizioni da un punto di vista meramente quantitativo ed elettorale.
%Purtroppo, in alcune fasi della nostra storia politica (ahimè!) ci si può difficilmente discostare da quest'affermazione, perché ritengo sia veritiera, almeno tanto quanto un simile ragionamento possa valere per aprire una sana discussione da questo punto di vista.
La relazione è ampia in buona sostanza, davvero onnicomprensiva e per certi aspetti equilibrata. Essa affronta anche temi di attualità, come la perplessità manifestata (anche da chi parla) in ordine al CIP6, presente nell'ultima legge finanziaria, che offre l'opportunità, a chi produce fonti assimilate, di usufruire di finanziamenti, che forse non dovrebbero essere propriamente indirizzati verso questa realtà. Si tratta, quindi, di una relazione - lo ripeto - che arriva a toccare anche temi di attualità.
Nella relazione vi è anche un aspetto che a mio giudizio, è particolarmente positivo e che dovrebbe essere richiamato in modo più esplicito, non perché sia più importante in termini di merito, ma per il contesto stesso in cui collochiamo le alterazioni climatiche (è un suggerimento che fornisco in questa fase, prima di confrontarmi con i colleghi dell'opposizione, con i capigruppo ed i colleghi che in quest'aula hanno manifestato una propria sensibilità, svolto un'attività ed assunto un impegno solerte e puntuale su questi temi): si tratta della questione, attinente alla politica estera, del rapporto con le altre nazioni, specialmente con quelle - mi riferisco in particolare alla Cina - con le quali si intraprendono relazioni commerciali.
Circa un anno fa una nostra delegazione particolarmente cospicua, capitanata personalmente dal Presidente del Consiglio, si è recata in Cina. Non mi risulta che siano stati ottenuti particolari risultati, da questo punto di vista, eppure sappiamo che la Cina ormai ha superato l'Europa e, di recente, anche gli Stati Uniti, per quantità di anidride carbonica immessa nell'atmosfera. Sappiamo, infatti, che il CO2 non conosce barriere fisiche o geografiche, ma attraversa gli oceani e le terre arrivando tranquillamente, dopo aver attraversato gli Stati Uniti d'America, anche in Europa.
Svolgiamo un'azione importante e, talvolta, persino imponente, nel tentativo di dar seguito alla firma in calce al Protocollo sulle quote di Kyoto, che - lo vorrei rammentare - fu apposta dal Governo Berlusconi attraverso il Ministro dell'ambiente di Alleanza Nazionale, il senatore Altero Mattioli. È necessario ed indispensabile far seguire a quella firma comportamenti e politiche coerenti e, se occorre, faticosi da sostenere, soprattutto per il nostro sistema economico ed industriale.
Tuttavia, a cosa può servire - si tratta di una domanda che ci poniamo in quest'aula, ma che si diffonde nella società - fare simili sacrifici se poi questi ultimi, a qualche centinaia o migliaia di chilometri di distanza, vengono immediatamente vanificati da paesi di cui, oggi, insistentemente si parla (Cina, India, Brasile), mentre non si parla ancora di altri paesi cosiddetti «poveri», che non sono ancora diventati emergenti, ma che fanno parte di quell'80 per cento di popolazione che non consuma il 75 per cento di energia che viene prodotta dal pianeta? È di tutta evidenza che se accadesse - non credo che ciò possa accadere, perché corrisponderebbe, probabilmente, alla fine del mondo - che l'80 per cento di popolazioni escluse dal sistema energetico mondiale volesse, anche vagamente, avvicinarsi ai nostri consumi e al nostro regime di produzione e consumo di energia, probabilmente non saremmo in grado di reggere, come sistema-pianeta, per più di qualche settimana.
Dunque, esiste il problema del dialogo, non soltanto fine a se stesso, di carattere filosofico, ma politico, fatto di protocolli, di accordi e di una sensibilità che, così come viene manifestata in questa sede, attraverso un dibattito parlamentare cui seguirà l'approvazione di una risoluzione,Pag. 22dovrebbe essere altrettanto concreta quando si incontrano i governi dell'India, della Cina e del Brasile.
Si devono assumere posizioni vincolanti, per una questione di coerenza rispetto agli impegni manifestati dall'Italia e dall'Europa, al di là della destra e della sinistra. Rammento, solo a me stesso, che l'ultimo G8, da tale punto di vista, si ricorderà nella storia dei rapporti tra popoli perché l'Europa è stata protagonista, non solo e non tanto da un punto di vista politico, ma proprio sui temi delle alterazioni climatiche. Questo protagonismo è stato esercitato - guarda un po' il caso - proprio dal Presidente della Repubblica francese, Sarkozy, supercitato ormai da tutti, da destra e da sinistra (noi forse siamo un po' più titolati a citarlo, magari sulle questioni ambientali potremmo essere un po' meno titolati, quindi la ruota gira!). Dunque, Sarkozy, che è certamente una delle persone più citate del momento, da questo punto di vista ha avuto uno spirito di iniziativa fenomenale anche nel rapporto con gli Stati Uniti d'America. Ho affisso nel mio ufficio la dichiarazione di Sarkozy, laddove nel desiderio e nella volontà manifestata, acclarata e certificata di riprendere un dialogo positivo e costruttivo, quindi di riconsolidare un'alleanza con gli Stati Uniti d'America, ha anche dichiarato, sulla questione del clima e della mancata firma del protocollo di Kyoto: «Cari amici e alleati americani, vi abbiamo aspettato anche troppo». Ritengo che sia una posizione particolarmente importante, di notevole rilevanza.
Che dire di Angela Merkel, che fino a prova contraria dovrebbe far parte del Partito popolare europeo? È a capo di un altro Governo di centrodestra e da questo punto di vista è perfino, se possibile, più determinata e più categorica. Quindi, c'è evidentemente una sensibilità importante che l'Europa sta attivando, su cui ci stiamo tutti misurando, che fa anche da shock per la società multiforme italiana in tutte le sue componenti culturali, scientifiche, sindacali, politiche e in tutto il sistema delle autonomie. Tuttavia, è necessario fare attenzione, perché se l'Europa è foriera di questi shock e di questa capacità di essere avanguardia e laboratorio, non possiamo cantarcela in un modo a casa nostra e rinnegare il regime che imponiamo al nostro sistema industriale ed economico quando stipuliamo gli accordi commerciali. Sappiamo che la Cina, ad esempio, sempre per tornare ad uno dei soggetti più inquietanti che stanno prepotentemente affacciandosi sul proscenio della storia contemporanea, apre una centrale a carbone ogni settimana. Sappiamo che non si tratta certamente delle centrali a carbone a tecnologia avanzata, sulle quali si discute in Europa e anche in Italia, ma di tecnologie desuete ed involute, quindi fortemente inquinanti. Ritengo non si possa accettare che la Cina renda in tal modo competitivo il proprio sistema industriale, fino al punto di diventare catalizzatore e attrattore di industrie italiane ed europee, cioè di favorire la delocalizzazione delle stesse, perché lì comunque si risparmia, non ci sono diritti sociali e sindacali, non c'è rispetto dei minori che lavorano fino a tarda ora, mentre qui fortunatamente ancora questa prospettiva è lontana dal tornare, perché l'abbiamo sconfitta qualche decennio fa. Non ci sono diritti ambientali, quindi non si possono stipulare degli accordi commerciali, come ha confermato il Governo Prodi, con la Cina senza porre al centro dell'attenzione il rispetto in primo luogo dei diritti umani - tale questione non riguarda le alterazioni climatiche - ma anche dei diritti fin qui menzionati, che devono rendere competitivo il sistema economico ed industriale italiano ed europeo anche con il sistema cinese.
Signor Ministro, non ricordo sinceramente se lei abbia fatto parte di quella delegazione o meno, ma penso che comunque, in qualità di autorevole Ministro del Governo Prodi, debba porre tale tema all'ordine del giorno nell'agenda del Governo, altrimenti si lavorerebbe contro l'Italia e contro il nostro sistema economico. Ripeto, se è vero - ed è evidentemente manifesto - che le alterazioni climatiche dipendono in buona sostanza e particolarmente dall'emissione di CO2 nelPag. 23pianeta quindi dal cosiddetto effetto serra, e che tali emissioni provengono in buona sostanza dagli Stati Uniti d'America, che fortunatamente stanno modificando la propria posizione, non vorrei che dopo che Bush avrà organizzato questa grande conferenza sull'ambiente, torni, per così dire, un grande clima di collaborazione in Italia.
Abbiamo espresso la stessa posizione, abbiamo votato in Commissione la relazione, quindi la nostra sensibilità da questo punto di vista è al di sopra di ogni sospetto. Però, al di là degli Stati Uniti d'America, che comunque si stanno ponendo fortunatamente il problema perché sono un paese democratico, ci sono i paesi emergenti, ai quali ci si deve rivolgere da parte del Governo e se possibile anche attraverso il lavoro di quest'Assemblea, magari con una sottolineatura al riguardo nel testo della risoluzione con la quale si approva la relazione della Commissione ambiente (tale relazione peraltro è stata esaminata da tutte le Commissioni permanenti, pertanto il contributo che ha dato il Parlamento è stato, già in fase istruttoria, di notevole rilievo).
Mi permetto di suggerire al presidente Realacci l'inserimento nel testo della risoluzione di un passaggio su questo aspetto, perché ritengo assolutamente ipocrita riassumere, seppur brevemente, le posizioni contenute nella relazione senza porre in evidenza la grande questione dell'effetto serra, che non dipende certamente solo e soltanto dal nostro sistema, ma sulla quale è indispensabile che ciascuno faccia la propria parte. Ricordo che il Governo Berlusconi e il Ministro Matteoli da questo punto di vista hanno fatto per intero il loro dovere, con la solidarietà da parte di tutte le forze politiche della scorsa legislatura. Bisogna inchiodare le altre nazioni, gli altri sistemi politici, le altre istituzioni alle loro responsabilità, perché a nulla può valere essere così rigidi a casa propria se poi, in buona sostanza, altro non si fa in ogni altro paese d'Europa, attraverso questa rigidità, che favorire la fuga delle nostre industrie in quei paesi in cui l'energia e la manodopera costano poco, c'è lo sfruttamento, non sono riconosciuti i diritti umani, e men che meno i diritti ambientali.
Pertanto facciamo attenzione, perché se accadesse, anche in questa discussione, che la maggioranza e il Governo si dovessero distinguere per leggerezza, superficialità, distrazione rispetto a questo argomento, sarebbe davvero una volta ancora, se possibile, manifesta la mera intenzione di fare demagogia spicciola, di richiamare in vita ideologie morte e sepolte e di porre anche la questione dei mutamenti climatici non come una grande questione e una grande criticità del nostro tempo, su cui chiamare a raccolta tutto il Parlamento e tutta la Nazione, ma come una piccola questione per guadagnare qualche voto (ritengo che sarà ben difficile, ma ci potete provare, perché se non ci provate neanche su questo argomento temo che per voi la strada sia segnata!). Ripeto che è impossibile sottrarsi a questo confronto, sarebbe la manifesta volontà di strumentalizzare una causa, che è assolutamente nobile.
Questa è l'intenzione che intendo manifestare in sede di discussione generale. Mi riservo di precisare e di rendere nota ai colleghi, in modo particolare a quelli della Commissione VIII, la posizione sulla risoluzione dell'onorevole Realacci e su quella del gruppo di Forza Italia. Le linee fondamentali sono senz'altro quelle illustrate, cui si aggiunge la questione del nucleare: sarebbe ipocrita non affrontare anche tale argomento, che abbiamo già introdotto in Commissione, come il Ministro forse ricorderà. Ritengo che il nucleare debba essere assolutamente sottratto ad una logica altrettanto strumentale e che ci si possa avvicinare al nucleare di quarta generazione con una grande discussione sulla sua opportunità e possibilità, anche in considerazione del fatto che acquistiamo energia da chi la produce attraverso il nucleare. Abbiamo citato la Francia di Sarkozy, che produce energia nucleare per una quota oscillante tra l'80 e il 90 per cento: se fossimo davvero e assolutamente contrari, dovremmo esserePag. 24coerenti e non importare energia da coloro i quali la producono attraverso il nucleare.
PRESIDENTE. Onorevole Rampelli, la invito a concludere.
FABIO RAMPELLI. Concludo, Presidente. Così come forse dovremmo interrogarci, caso mai volessimo mantenere in vita la posizione espressa nel 1987 con il referendum popolare sul nucleare, su quanto la nostra comunità nazionale e scientifica sia in grado di collaborare al possibile accesso all'energia nucleare pulita da fusione, che è molto difficile e complessa, ma su cui non dobbiamo assolutamente perdere le speranze.
È un argomento complesso, che però va affrontato con grande pragmatismo, compreso ovviamente il tema delle scorie nucleari, che solleva incertezze. Non si può affrontare tale materia come ha fatto lei, signor Ministro, solo e semplicemente convocando per due giorni una conferenza che avrebbe potuto essere indetta tranquillamente dal suo partito, facendovi partecipare fior fior di Ministri, sottosegretari, il Presidente della Repubblica e il Presidente del Consiglio. Il 35 per cento del tempo stabilito è stato consumato in chiacchiere, senza alcun contributo scientifico e con l'assenza totale di un contraddittorio.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Gentili. Ne ha facoltà.
SERGIO GENTILI. Signor Presidente, voglio esprimere un vivo apprezzamento per la relazione sui cambiamenti climatici presentata, a nome di tutta l'VIII Commissione, dal suo presidente, l'onorevole Ermete Realacci. Vorrei rivolgere anche un ringraziamento a colui che ha coordinato i nostri lavori in Commissione e li ha presentati in Assemblea, l'onorevole Benvenuto. Voglio anche sottolineare come gli uffici della nostra Commissione abbiano svolto un lavoro ottimo e puntuale, che ci permette di disporre di un materiale serio e abbondante, utile non solo ai lavori della Camera, ma anche al nostro Paese.
Oggi con questa relazione la Camera, le forze politiche e sociali e i giovani - anche quelli che assistono ai nostri lavori, ai quali rivolgo un saluto e un ringraziamento - sono tutti posti nelle condizioni di valutare con serietà sia la portata dei cambiamenti climatici in atto, sia le puntuali e chiare proposte d'intervento. Sono tutte proposte realizzabili, non campate in aria e in sintonia con gli orientamenti europei, su cui si è ragionato e discusso attraverso un'opera di coinvolgimento ampio di tante forze della scienza, dell'impresa e del mondo dei lavori.
Leggendo la relazione e valutando le autorevolissime fonti scientifiche di riferimento, ci si rende conto dei profondi mutamenti climatici in atto e si prende coscienza anche del fatto che occorre far maturare una nuova etica della politica, che deve riuscire a considerare nel suo insieme l'intreccio tra la vita e il lavoro quotidiano di miliardi di persone, ossia l'intreccio del genere umano con le altre specie del pianeta e l'intreccio tra queste e gli equilibri biofisici, entro cui si svolge non solo la nostra vicenda umana, ma anche quella della natura.
I dati e i fenomeni sono ben descritti nella relazione - pertanto non li riprenderò - e, purtroppo, vengono rispecchiati ogni giorno nelle cronache nazionali e in quelle del mondo globalizzato: siccità e alluvioni, scioglimento dei ghiacciai, innalzamento dei mari, deforestazione, incendi boschivi e riduzione della biodiversità, cementificazione del suolo e dei corsi d'acqua, acutizzarsi della fragilità del suolo, inquinamento delle acque, riduzione della possibilità di avere acqua potabile e crisi dei sistemi marini. Sono titoli, ma sappiamo che in queste parole c'è la vita nostra e del nostro pianeta.
Leggendo la relazione ci si accorge che ci si trova di fronte ad una grande novità: l'umanità, per la prima volta nella sua storia, vive una crisi ecologica su scala mondiale, un'emergenza planetaria dovuta al fatto che la forza della specie umana è diventata enorme, tanto da mutare il suo rapporto con la natura. A questo riguardo, infatti, quasi la totalità - lo ripeto: quasiPag. 25la totalità - della comunità scientifica mondiale è concorde nell'individuare nella contraddizione ecologica la sfida per il presente e per il futuro della nostra specie ed è convinta, nella quasi sua totalità, che la gran parte delle cause risiedano nelle attività economiche e sociali e nel modo di vivere dell'uomo su questa terra.
Comprendiamo tutti che se continueremo ad usare la scienza, la tecnologia, le nostre capacità produttive e il nostro lavoro, senza assumere la responsabilità sociale e ambientale come dato di fondo, questa sfida sarà da noi persa disastrosamente.
Alle attuali generazioni - lo voglio dire in quest'aula a tutti noi - spetta il compito di accettare tale sfida e di iniziare un cammino di cambiamento. Spetta a noi un atto di responsabilità e a malincuore vedo le posizioni assunte dal gruppo di Forza Italia, che si ritrae, torna indietro e non si vuole assumere tale responsabilità. Non servono allarmismi e utopie verso un irrisorio ritorno al passato; serve, invece, una grande idea di futuro, con adeguate strategie e politiche concrete di cambiamento di modelli energetici e produttivi, della qualità delle infrastrutture e dei nostri consumi.
Il cambiamento, se dobbiamo ridurre l'impronta ecologica dell'uomo sul pianeta - come dobbiamo - dovrà necessariamente essere ispirato ai principi dello sviluppo sostenibile, ovvero produrre di più con meno materia ed energia; un uso sociale e responsabile della scienza e della tecnologia per tutta l'umanità; una nuova responsabilità dell'impresa; una valorizzazione dei valori e della vita delle persone. Lo sviluppo sostenibile è la vera modernità, in quanto è l'unico in grado di avviare il superamento del divario tra il nord e il sud del mondo e di dare alla globalizzazione i caratteri della solidarietà e della convivenza pacifica.
È pura illusione, anzi assoluta malafede, continuare a far credere che sia possibile estendere gli attuali consumi dei Paesi ricchi a tutte le popolazioni del mondo (a miliardi di persone) e che ciò sia addirittura possibile attraverso il mercato liberista, che ha nel suo DNA la negazione di ogni responsabilità sociale e ambientale. Del resto, è proprio un rapporto dell'ONU (di qualche anno fa) che afferma che ci vorrebbero due pianeti e mezzo per soddisfare, ai livelli dei Paesi ricchi e con i sistemi produttivi di oggi, i bisogni dell'intera umanità.
È sotto gli occhi di tutti, da anni, che gli attuali modelli di sviluppo ancora basati su concezioni economiche quantitative, liberiste o di dirigismo statalista, hanno fallito e stanno fallendo, in quanto vecchie ed inadeguate: non è questa la via. Il mondo della cultura e dell'istruzione, quindi la politica e le forze sociali, noi tutti abbiamo la grande responsabilità di far mutare velocemente la consapevolezza dei nuovi rapporti che intercorrono tra il genere umano, le sue forme sociali e la natura. Tutti - nessuno escluso - siamo chiamati a fornire il nostro contributo per indicare possibili ed immediati cambiamenti, indispensabili per far decollare la nuova qualità dell'economia e della vita sociale, costituita da nuovi modelli economici, da comportamenti individuali sobri e responsabili.
Possiamo affrontare questo compito con sicurezza, perché oggi ne sussistono le condizioni. Le conoscenze scientifiche e le innovazioni tecnologiche, infatti, offrono gigantesche possibilità e opportunità. È possibile soddisfare i nostri bisogni e quelli delle future generazioni con sistemi produttivi e con nuove merci e nuovi servizi, inquinando di meno e consumando meno materiali ed energia.
La relazione e i fatti che essa raccoglie mostrano che ci troviamo di fronte a nuovi scenari della globalizzazione, che sono stati ricordati. L'ideazione, la gestione e l'applicazione delle ecotecnologie e degli ecoprodotti rappresentano, già oggi, il nuovo terreno della competizione internazionale.
Non è un caso che l'Unione europea abbia posto la questione di promuovere ed affermare una nuova rivoluzione industriale nel solco della sostenibilità ambientale. La leva sta anche negli obiettivi che l'Unione europea si è data per il 2020: laPag. 26riduzione dei gas inquinanti e di CO2 almeno del 20 per cento, l'aumento del risparmio energetico del 20 per cento e l'aumento della produzione energetica da fonti rinnovabili del 20 per cento, in un quadro strategico di mezzo secolo (ossia entro il 2050) di riduzione dei gas serra del 60-80 per cento.
Non è un caso, quindi, se in quest'ultimo anno i leader politici dei più importanti Paesi occidentali (da Blair a Zapatero, da Sarkozy alla Merkel, da Clinton ad Al Gore, fino allo stesso Bush, che da sempre ha combattuto - e, a malincuore, si rende conto di non poterlo più fare con forza - la sua battaglia contro i trattati di Kyoto) hanno posto al centro dei loro programmi la questione ambientale. È evidente, quindi, che ci troviamo di fronte ad una nuova fase della competitività economica mondiale, giocata non sulla diminuzione del costo del lavoro, sulla precarietà del lavoro o sull'irresponsabilità ambientale, bensì sulle tecnologie per le fonti rinnovabili, sull'energia solare, sull'energia eolica, sulle biomasse, su un inedito rapporto tra agricoltura ed energia, basato sulla tecnologia di produzione e di consumo dell'idrogeno e sulla qualità ecologica delle merci, dei servizi e dei consumi.
Si è aperta una nuova fase della globalizzazione. È questa la risposta che la politica deve dare al nostro Paese, con responsabilità e coscienza. Le strategie sulle quali operare sono molto semplici, anzi - direi - quasi ovvie. Ricordo, al riguardo, cinque indirizzi: bisogna riformare il sistema energetico e il modello della nostra mobilità, incentivare fortemente l'efficienza degli impianti industriali e delle abitazioni, emanare piani di riforestazione e incentivare lo sviluppo della ricerca scientifica, trasferendola alle piccole e medie imprese.
La riforma energetica, quindi, dovrà affrontare la transizione dall'era del carbonio - con diminuzione, in particolare, dell'uso del petrolio e del carbone - a quella delle fonti rinnovabili. Nella transizione, importanza strategica avranno le tecnologie, gli impianti, le merci e i comportamenti individuali miranti al risparmio e all'efficienza energetica. Tutto ciò dovrà inserirsi nel mix, che abbiamo individuato, di riduzione del petrolio, aumento dell'uso del gas e potenziamento delle fonti rinnovabili.
In questo quadro che guarda al futuro, l'attuale nucleare non solo è costoso, ma semplicemente improponibile. In un quadro di forte innovazione scientifica e industriale, il raggiungimento degli obiettivi di Kyoto - come stabiliti dall'Unione europea - vanno considerati non un costo, ma un'opportunità per le imprese e per il nostro Paese. Un costo netto, anzi «a perdere», sarebbe pagare le penali sui mancati obiettivi e ridurre le emissioni senza cambiare nulla. Le scelte compiute e gli incentivi predisposti con la legge finanziaria per il 2007 hanno aperto la strada all'innovazione. Dobbiamo dire le cose come stanno: è stata indicata una strada nuova e alternativa, ma ora occorre consolidarla e andare più avanti, come viene indicato dalla recente Conferenza sul clima, svolta dal Ministero dell'ambiente, della tutela del territorio e del mare, intorno alla quale si è tenuta una discussione che, da una parte, è seria e, dall'altra parte, sinceramente, malevola e ingiusta.
La politica del Governo è intervenuta, quindi, positivamente sul risparmio energetico, sulle ristrutturazioni degli edifici, sul ricambio degli elettrodomestici e dei motori elettrici, per incentivare l'illuminazione sostenibile. La politica è intervenuta sullo sviluppo delle fonti rinnovabili: il solare, il termico e l'elettrico, le biomasse e l'eolico. Queste sono tutte scelte che la legge finanziaria per il 2007 ha compiuto e che oggi, con il disegno di legge finanziaria per il 2008, devono fare un passo in avanti.
Gli effetti ottenuti da queste politiche, anche se in pochissimo tempo, sono eloquenti e positivi: è aumentata la domanda di pannelli solari, per gli incentivi alle ristrutturazioni delle abitazioni e per il ricambio degli elettrodomestici. Le famiglie e le imprese potranno a breve cominciare a verificare i benefici nelle proprie bollette e nei propri bilanci economici.Pag. 27
Le nuove scelte energetiche compiute dal Governo, però - dobbiamo esserne consapevoli - chiamano anche l'impresa italiana a soddisfare questa nuova domanda. Vi sono vuoti e ritardi nell'offerta, che vanno recuperati al più presto. L'impresa italiana deve dare segnali di vivacità, di ricchezza, di dinamismo e di responsabilità. Un aiuto di fondo alle imprese dovrà venire ovviamente dalla ricerca scientifica e dal trasferimento di tecnologie, anche perché solo così la nostra impresa verrà messa nelle condizioni di competere nei mercati globalizzati. Anche il modello della mobilità dovrà essere riformato, reso meno inquinante e congestionato, più sicuro e razionale. Esso dovrà essere incardinato sulle ferrovie e il cabotaggio, su metropolitane regionali, su tram e piste ciclabili, su mezzi pubblici e auto meno inquinanti.
Per concludere, desidero solamente ricordare, tra le ampie ed importanti indicazioni e proposte della relazione della VIII Commissione, alcuni punti, perché è utile che vengano inseriti anche nel disegno di legge finanziaria.
Il primo punto è estremamente banale: occorre assumere gli obiettivi europei, potenziare e coordinare la ricerca scientifica, facendone un sistema. Il Governo deve adottare un atto di indirizzo che ponga al centro delle proprie politiche la questione dei cambiamenti climatici, anche perché su questo punto intervengono diversi ministeri, quali i Ministeri dell'ambiente, dello sviluppo economico, dell'agricoltura, delle infrastrutture ed altri, che devono essere orientati con scelte e indirizzi comuni.
Va definito, inoltre, un piano preciso di riduzione dei gas serra, settore per settore, regione per regione, città per città, seguendo l'esperienza dei tedeschi, che hanno stabilito dei limiti. Bisognerebbe fare la stessa cosa, se non vogliamo parlare solo in astratto. Ci vorrebbe una task force per velocizzare le informazioni, sburocratizzare e rendere celeri e certi i tempi per l'utilizzo degli incentivi e va rafforzato, riformandolo, il sistema delle incentivazioni.
Questi obiettivi sono possibili e costituiscono una parte del passo in avanti che dobbiamo compiere. Spero che domani la Camera compia un atto di responsabilità collettiva, accogliendo gli indirizzi della relazione in discussione, sapendo che, su come procedere, ci sarà ovviamente il confronto politico tra posizioni politiche diverse. Credo, però, che il lavoro della Commissione ponga tutti noi davanti ad una scelta ed anche a una grande occasione: questo ramo del Parlamento italiano deve dare un segnale di unità e di responsabilità al nostro Paese.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Picano. Ne ha facoltà.
ANGELO PICANO. Signor Presidente, signor Ministro, colleghi deputati, il mio partito, l'UDEUR, si riconosce pienamente nella relazione approntata e voglio esprimere il mio ringraziamento al presidente, l'onorevole Realacci, e all'estensore, l'onorevole Benvenuto.
La materia in esame richiede, da parte del Governo, del Parlamento e dell'opinione pubblica in generale, un grande impegno, perché non è una tematica che riguarda solo una parte delle istituzioni, ma riguarda complessivamente l'attività della Parlamento e del Governo, poiché incide sugli stili di vita delle persone e sul modo di produrre e sull'organizzazione della società.
Dunque, si tratta di una riflessione molto vasta, che deve coinvolgere tutti, anche se spesso ci rendiamo conto di una disattenzione da parte dell'opinione pubblica nel suo complesso rispetto a queste tematiche, che invece sono di grande rilevanza e, addirittura, stanno diventando sempre più drammatiche, per le conseguenze che il surriscaldamento dell'atmosfera sta provocando in molti campi e settori.
In merito vi sono due scuole di pensiero, una delle quali afferma che non è tutta colpa dell'antropizzazione, ma sicuramente l'antropizzazione riveste una rilevanza notevole nell'aumento della temperatura - soprattutto in seguito all'emissionePag. 28di CO2 - che bisogna assolutamente contenere.
La comunità internazionale, riunita nelle Nazioni Unite, ha stipulato una Convenzione-quadro sui cambiamenti climatici, sottoscritta e ratificata da 189 Paesi, che individua due strategie di azione: quella della mitigazione (che ha l'obiettivo di ridurre le cause dei cambiamenti climatici di origine umana e, in particolare, di ridurre le emissioni e l'accumulo di gas serra in atmosfera, proveniente dalle nostre attività) e quella di adattamento (che ha l'obiettivo di minimizzare le conseguenze negative e i danni derivanti dai possibili futuri cambiamenti climatici e di sfruttare le nuove opportunità che dovessero sorgere).
La prima strategia ha trovato una prima fase di attuazione nel Protocollo di Kyoto, mentre la seconda fase avrà inizio a partire dal 2012.
Rispetto agli obiettivi fissati dal Protocollo di Kyoto, l'Italia appare in forte ritardo: infatti, a fronte di un obiettivo nazionale - da raggiungere entro il 2010 - di riduzione del 6,5 per cento delle emissioni di gas serra, rispetto ai livelli del 1990, l'Italia ha fatto registrare un costante aumento delle emissioni.
Anche l'Unione europea ha messo in mora il nostro Paese con 64 procedure giurisdizionali precontenziose al 30 giugno 2007: tali procedure erano molto più numerose e va dato atto al Ministro di essersi adoperato per una loro riduzione, per far sì che l'Italia si trovi sempre di più nell'ambito del rispetto delle direttive comunitarie.
Poiché le infrazioni, però, non sono da addebitare solo allo Stato centrale, è opportuno integrare le regioni e gli enti locali in un disegno di politica nazionale, perché è indispensabile che le autonomie territoriali esercitino le loro competenze e le loro iniziative nel rispetto dei vincoli che derivano dagli impegni internazionali assunti dal nostro Paese.
Si dovrebbero istituire forme di monitoraggio stabile sull'attività espletata dalle regioni in materia di politica energetica e di controllo delle emissioni.
Solo di recente, con il disegno di legge atto Senato n. 691 del 2006, è stata proposta l'introduzione di obiettivi regionali di promozione delle fonti rinnovabili e di contenimento dei gas serra.
È necessario, inoltre, arrivare ad un'organica azione di riordino degli incentivi e degli strumenti di sostegno alla produzione di energia.
I Capi di Stato e di Governo dell'Unione europea hanno assunto, il 9 marzo 2007, una decisione storica sulla futura politica climatica: l'integrazione tra politica energetica e tutela del clima, insieme ad ambiziosi obiettivi e misure di ampio respiro. Si è stabilito che, entro il 2020, le emissioni di gas ad effetto serra, in ambito europeo, debbano essere ridotte del 20 per cento rispetto ai livelli del 1990.
Rispetto al livello del 1990 i Paesi industrializzati tutti insieme in una seconda fase dovranno ridurre le loro emissioni dal 60 fino all'80 per cento entro il 2050. L'obiettivo finale è che le emissioni globali si stabilizzino entro il 2050 sul 50 per cento del livello del 1990 e la Commissione europea ha chiesto all'Italia di ridurre di un ulteriore 6,3 per cento quanto stabilito nel piano. Sulla base dei dati esposti, il ritardo nei tagli costerebbe all'Italia tra il 2008 e il 2012 circa 3,8 miliardi di euro tenuto conto delle multe applicate pari a 40 euro per tonnellata di CO2 emessa. In caso di assenza di interventi, a partire dal 2008, l'inadempimento costerebbe oltre 9 miliardi di euro (100 euro per ogni tonnellata in più di CO2). Tali oneri coerentemente con il principio «chi inquina paga» dovranno essere sostenuti dalle imprese che non abbiano rispettato il Piano nazionale delle assegnazioni relativamente alla parte non coperta dai crediti di carbonio spettanti alle stesse ovvero acquistate sullo specifico mercato. L'Italia presenta una particolare fragilità di sistema nel campo energetico: abbiamo tra le più alte bollette che pesano sulle famiglie e sulle imprese, corriamo rischi importanti di black out e siamo molto lontani dagli eco-obiettivi di Kyoto.
PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE CARLO LEONI (ore 17,20).
ANGELO PICANO. Noi ricaviamo elettricità bruciando per il 50 per cento gas naturale e determinando una dipendenza da aree geografiche abbastanza instabili. La nostra dipendenza dall'estero è infatti superiore all'80 per cento, molto diversa da quella dei principali partner europei. In Francia, Sarkozy rilancia il nucleare, lo stesso fa Brown in Gran Bretagna; carbone e nucleare oggi rappresentano il 60 per cento del mix di generazione di elettricità in Europa. Il costo del petrolio, ma anche la prospettiva che i suoi giacimenti possano inaridirsi, hanno riportato l'attenzione di tutto il mondo verso il nucleare che in Europa è massicciamente presente. Noi abbiamo rinunciato al nucleare nel 1987 perdendo molto della cultura tecnologica che gestisce il sistema nucleare. Ora però sembra che le ricerche stiano portando al nucleare di terza generazione che garantisce minori costi e maggiore sicurezza. Con questa tesi concordano due illustri scienziati, Umberto Veronesi e Franco Prodi, e quest'ultimo mette anche in dubbio che l'aumento della temperatura della terra sia tutta colpa dell'uomo. Veronesi in una recente intervista afferma che la scelta fatta dall'India sul nucleare ci deve far riflettere anche perché attualmente questa tecnologia per la produzione di elettricità si presenta come una fonte di energia pulita con rischi pressoché azzerati perché la sicurezza ha fatto enormi passi avanti.
Rimangono però certamente due problemi: quello dello smaltimento delle scorie radioattive e lo smantellamento delle centrali quando diventano obsolete. Sono problemi sui quali la ricerca scientifica può essere di grande aiuto, bisogna impegnarsi per perfezionare il nucleare e questa potrebbe essere la strada maestra. Il professore Prodi fa poi notare con riferimento all'energia nucleare che si tratta di una scelta inevitabile se si vuole continuare a vivere nella società civile con gli attuali ritmi crescenti di consumo dell'elettricità.
Gli incendi per lo più dolosi scoppiati in tutta Italia, ma specialmente nel Mezzogiorno, ci fanno capire come nuovi fenomeni di natura criminosa possano alterare in poco tempo gli equilibri ambientali apportando danni spesso irreversibili alla natura e mettendo in pericolo la vita umana. Abitare nei boschi o ai suoi limiti è sempre stato considerato un privilegio; però, dopo le esperienze di fuoco in tutta Italia durante questa estate, chi vive nel verde vive nell'ansia di un pericolo permanente. Il caldo e la mancanza di pioggia hanno incoraggiato i piromani a distruggere la natura e indirettamente le persone che vi abitano. È una vera emergenza nazionale da mettere al primo posto della prossima legge finanziaria per approntare gli strumenti umani e tecnologici che permettano di monitorare via satellite tutto il territorio nazionale, centimetro per centimetro, e di intervenire rapidamente allorché dovessero scoppiare gli incendi. Ma la criminalità non sta provocando danni solo ai boschi, sta saccheggiando, al di fuori di qualsiasi norma, vaste aree del Paese con il mancato trattamento di rifiuti di ogni genere. I rifiuti non trattati danneggiano l'ambiente, l'agricoltura e quindi l'alimentazione umana e animale.
La sicurezza ambientale perciò è uno degli obiettivi da perseguire con maggiore impegno e decisione. I problemi ambientali richiedono una visione planetaria. L'inquinamento non rispetta i confini, e per combatterlo dobbiamo cooperare con i popoli vicini, ma anche con quelli lontani. In nessun campo come in quello ambientale vi è una piena interdipendenza tra gli Stati.
Tutto ciò richiede una politica estera di pace e di collaborazione per uno sfruttamento razionale e condiviso delle risorse mondiali.
Gli aiuti allo sviluppo fanno crescere i Paesi poveri e stabilizzano quelli ricchi, perciò è necessaria una diffusa alfabetizzazionePag. 30ambientale, attraverso la quale ogni cittadino abbia dimestichezza con i principi dell'ecologia.
L'alfabetizzazione ambientale può aiutare a creare un'etica della gestione e un senso del dovere che spinga ad amministrare con cura e saggezza il nostro ambiente naturale e le nostre risorse produttive sul lungo periodo.
L'educazione ambientale si riduce ad un unico tassativo comandamento: prepararci a vivere e a far vivere nel prossimo secolo.
Abbiamo perciò bisogno di pensare globalmente, ma di agire localmente, e la scuola deve costituire il perno dell'educazione ambientale. La scuola deve modificare i nostri valori, le nostre istituzioni e i nostri stili di vita, e dobbiamo realizzare tutto ciò se vogliamo guardare al futuro con tranquillità e lasciare alle nuove generazioni un mondo che sia vivibile e tranquillamente abitabile.
PRESIDENTE. È iscritta a parlare la deputata Francescato. Ne ha facoltà.
GRAZIA FRANCESCATO. Signor Presidente, signor Ministro, colleghe e colleghi, non ho mai amato la retorica, quindi starò molto attenta alle parole, ma non ho remore oggi nel definire «storica» questa seduta.
Certo, siamo quattro gatti, ma comunque i felini, anche quando sono pochi, sono bravi a lasciare il segno, e la cosa importante è che questo climate day oggi si stia tenendo in Parlamento, perché comunque costituisce un tassello importante di una svolta epocale.
La relazione che la VIII Commissione (Ambiente, territorio e lavori pubblici) ha redatto, con un forte impegno del relatore, del nostro presidente che ringrazio, nonché con i contributi preziosi di colleghe e colleghi di maggioranza ed opposizione - mi riferisco sia a quelli che hanno partecipato, sia a quelli che hanno dato un apporto (il nostro relatore è attentissimo, quindi avrebbe sicuramente dato spazio all'osservazione di Rampelli se fosse stato presente) - costituisce infatti un elemento di svolta nelle politiche del nostro Paese.
Si tratta di una svolta che ci colloca nella direzione indicata dall'Europa. Mi riferisco al rapporto «La via da percorrere fino al 2020 e oltre», alla risoluzione del Parlamento europeo del 14 febbraio 2007, nonché alle misure sul mercato elettrico che proprio in questi giorni la Commissione europea sta adottando.
Una svolta che ci permetterà - speriamo - di essere in prima linea all'avvio della fase due del Protocollo di Kyoto, che dovrebbe decollare a Bali nel dicembre di quest'anno, alla conferenza delle parti, appuntamento cui la Commissione ambiente, territorio e lavori pubblici sarà sicuramente presente, con i suoi rappresentanti di maggioranza e opposizione, a riprova del grande interesse e della grande attenzione che diamo ai temi internazionali, come chiaramente si rileverà da quello che andrò dicendo.
Il 2007 è stato, non a caso, l'anno del consenso globale, in cui tutti o quasi hanno riconosciuto la portata della sfida del cambiamento climatico.
Per quanto mi riguarda posso dire che aspettavo questo 2007 da trentacinque anni, da quando, giovane ambientalista, ho sentito per la prima volta il termine «sviluppo sostenibile» pronunciato da un guru dell'ambientalismo, Barry Commoner (era il giugno del 1972 e si teneva la famosa prima Conferenza ONU su ambiente e sviluppo a Stoccolma).
Tuttavia, anche se ufficialmente definita nel rapporto Brundtland nel 1987, e sancita con solennità al Vertice della Terra di Rio de Janeiro nel 1992, la sostenibilità è rimasta sostanzialmente un mantra, invocata in ogni documento, conferenza, convegno nelle ultime decadi, ma molto spesso disattesa nella realtà.
Poi, trentacinque anni dopo, improvvisamente, la sostenibilità da optional è diventata un must. Perché? Perché nel biennio 2006-2007 il cambiamento climatico, che noi ambientalisti avevamo previsto e predetto da tre decenni, è esploso davanti ai nostri occhi. Pensiamo all'uragano Katrina, all'inverno desaparecido inPag. 31Europa, all'esodo degli abitanti di alcune isole del Pacifico, già ingoiate dall'innalzamento dei mari.
In seguito è intervenuto il rapporto di sir Nicholas Stern, concomitante non a caso con l'aggravarsi del global warming; quindi, il mondo intero, in particolare quello economico, ha capito che era ora di fare questo matrimonio tra ecologia ed economia, e di farlo subito, per parafrasare il Manzoni alla rovescia, se vogliamo attenuare le drammatiche conseguenze della febbre del pianeta.
Il 2007 quindi è stato l'anno nel consenso. Persino l'amministrazione americana ha dovuto cambiare rotta.
Nel febbraio di quest'anno il collega Mereu ed io, a nome della Commissione ambiente, territorio e lavori pubblici, siamo stati a Washington al Senato degli Stati Uniti e ad una riunione di Globe (che è un network di parlamentari dei Paesi del G8 e delle cinque nazioni cosiddette emergenti, network di cui il Parlamento italiano ovviamente fa parte).
In questa occasione, quasi tutti i senatori, sia democratici sia repubblicani - ha ragione Realacci, qui vi è una trasversalità, che è anche un elemento estremamente interessante e nuovo del panorama politico mondiale - hanno ammesso che «the times of denial are over» (cioè, i tempi del diniego sono finiti), che non solo il Governo statunitense deve riconoscere la realtà del cambiamento del clima, ma che dovrà anche prendere le leadership per contrastarla e tornare, in qualche modo, nell'alveo del Protocollo di Kyoto. Questa sarà la grande sfida che la prossima amministrazione americana sicuramente raccoglierà.
Si tratta di un cambiamento di strategia politica che il G8 di Heiligendamm ha sancito agli inizi di giugno. Rimando i colleghi e le colleghe (in particolare l'onorevole Rampelli) al documento - inserito nella nostra relazione - che i parlamentari di Globe hanno firmato congiuntamente a Berlino il 3-4 giugno e che, poi, è stato consegnato ai leader del G8 proprio per fornire loro le linee guida delle politiche da effettuare nell'ambito del cambiamento climatico. Tale documento invita a far decollare un'economia low carbon (quindi a basso contenuto di anidride carbonica), a puntare con decisione su efficienza energetica e sulle energie rinnovabili, a rafforzare la ricerca sulle nuove tecnologie (anche su quelle controverse e lontane dall'essere mature, come la cattura e il sequestro della CO2, su cui noi nutriamo molti dubbi) e a fare in modo, comunque, che sia i Paesi in via di sviluppo sia quelli industrializzati vengano coinvolti in questa nuova rivoluzione industriale, sulla base del principio della responsabilità differenziata, a seconda che siano più o meno responsabili dell'emissione di gas serra.
Il piano d'azione è stato firmato a Berlino - caro collega Rampelli - non soltanto dai rappresentanti del G8, ma anche dalle cinque nazioni cosiddette emergenti, Cina ed India in testa. Non devo spiegare quanto sia politicamente rilevante questa rapida inversione di rotta. Nel frattempo, anche il mondo del business ha compreso che la lotta al cambiamento climatico può tradursi in una grande opportunità di sviluppo davvero sostenibile e in una rivoluzione verde globale, che dovrà mutare il nostro modo di produrre, di consumare, di vivere.
A questo punto, la domanda non è più se esiste il cambiamento climatico, ma come uscirne, come affrontarlo. Essa verte, quindi, sugli ingredienti. Tutti hanno capito che questo sviluppo è ormai insostenibile a livello sociale e ambientale. Ricordo i dati del WWF International secondo i quali, negli ultimi trent'anni, ci siamo «ingoiati» il 30 per cento delle risorse naturali (foreste, acqua, suolo) mettendo a rischio la base stessa dell'economia. Ricordiamo la frase di Engels «i prodotti sono una natura trasformata»: è una fase lapalissiana, ma che tendiamo, purtroppo, a dimenticare. Comunque - ripeto - il mondo del business inizia ad ascoltare queste tematiche. La conversione ecologica può derivare più dall'amore del profitto che da quello per madre terra, maPag. 32non importa, perché, in questa rivoluzione assolutamente epocale, è essenziale avere accanto il mondo delle imprese
Il dibattito, quindi, ora si incentra sugli ingredienti della ricetta. Non mi dilungherò in questa sede a discorrere di quali siano (rimando ai documenti strategici europei che già ho indicato), tuttavia, ricordo che, in seguito alla pubblicazione dell'IPPC report, tutti hanno capito che per fronteggiare la febbre del pianeta occorre puntare sia alla strategia di mitigazione sia a quella di adattamento. Ritengo che si tratti di una necessità particolarmente sentita dai Paesi più vulnerabili (ricordo, per esempio, il Bangladesh e le isole del Pacifico, già «bastonati» in maniera rilevante dal cambiamento del clima).
Sul fronte della mitigazione, l'imperativo categorico è il cambiamento radicale del nostro sistema energetico. Dobbiamo dire addio definitivamente all'era dei combustibili fossili. In questa sede, colgo l'occasione - repetita iuvant - per ribadire la nostra posizione riguardo al carbone: è un «no» netto, perché vanificherebbe completamente i nostri sforzi sul fronte delle fonti rinnovabili e dell'efficienza energetica; è un «no» anche al revival del nucleare, che viene «ricicciato» in versione anti-CO2. Qualcuno ci deve spiegare come si risolveranno i problemi, ancora sul tappeto, che il nucleare comporta: le scorie in primis, i costi pazzeschi, i tempi (bisognerebbe costruire due centrali nucleari ogni mese, per decenni, per arrivare ad una quota che possa, in qualche maniera, contrastare il cambiamento del clima), per non parlare, poi, dei problemi della sicurezza. Pertanto, il nostro è un «no» chiaro - ripeto - a questo revival del nucleare. Dobbiamo, quindi, dire addio all'era dei combustibili fossili, per entrare con decisione nell'era dell'efficienza energetica, dell'uso delle rinnovabili, dell'innovazione tecnologica e della ricerca.
Tra gli strumenti da utilizzare, che l'Unione europea elenca, sicuramente riveste molta importanza la promozione di un global carbon market, cioè di un mercato del carbone (è necessario dare un prezzo al carbon). Si tratta di un mercato basato su un sistema di scambio di quote di emissione (quello che in inglese viene chiamato Emission trading skin che - ricordo - è entrato in vigore il 1o gennaio 2005 e che è disciplinato dalla direttiva 2003/87/CE, cui fanno riferimento anche i piani di allocazione nazionale che ogni Stato deve presentare.
Naturalmente il sistema di scambio di quote - siamo i primi a dirlo - dovrà subire una necessaria revisione, per esempio ampliando il campo di applicazione ad altri settori come quello dei trasporti aerei e marittimi, che pesano parecchio, fino al 25-30 per cento sulle emissioni di CO2, varando un più rigoroso controllo sull'implementazione. Tuttavia, è comunque importante che esso vi sia e che possa fungere da modello per sistemi analoghi in altre regioni del mondo. Infatti, è cruciale ed ovvio che la fase due di Kyoto veda coinvolti, tra i Paesi cosiddetti emergenti, la Cina in primis, la quale, come sappiamo, ha già superato gli Stati Uniti nell'emissione di gas serra con un larghissimo anticipo rispetto al previsto.
Di fronte a questi velocissimi cambiamenti, che qualcuno avrebbe ritenuto utopici solo fino a qualche anno fa, mi torna spesso in mente una frase di Aurelio Peccei, che non era un ambientalista, né un Verde della prima ora: era il fondatore del Club di Roma, un businessman molto lungimirante, il quale, quando l'ho intervistato, nell'ormai remoto 1972, prima della pubblicazione in Italia del testo I limiti dello sviluppo, alla mia domanda se non fosse un'utopia pensare di poter cambiare rotta e di arrivare davvero allo sviluppo sostenibile, mi rispose: allo stato attuale delle cose, il coraggio dell'utopia è l'unico modo di essere realisti. E si tratta della parola di un businessman, per quanto lungimirante, non di un Verde ante litteram.
Tradurre questo coraggio dell'utopia in politiche concrete ed efficaci, a livello internazionale, europeo, nazionale e locale è un compito che spetta in primis a noi politici. Si tratta di un compito a cui noi Verdi italiani ed europei (ricordo che facciamo parte di una costellazione di unaPag. 33quarantina di partiti in altrettanti Paesi, dalla Finlandia alla Turchia, dal Portogallo alla Russia) ci siamo dedicati con un anticipo di decenni. Penso all'intenso lavoro del nostro gruppo Verde al Parlamento europeo ed al lancio della campagna comune sul cambiamento climatico che abbiamo varato in tutta Europa nel 2004.
La nostra capacità di anticipare i tempi, dopo che, per dieci anni, ci avevano esorcizzato con epiteti quali «Cassandre», «catastrofisti» (e ancora qualcuno continua a farlo ma, pazienza, non ci facciamo caso), ci viene finalmente riconosciuta da molti, da tanti. Basti pensare al riconoscimento espresso dal Presidente del Senato Marini durante la conferenza nazionale sul clima che il nostro Ministro dell'ambiente ha promosso il 12 e 13 settembre scorso.
Ma noi Verdi, noi ambientalisti, non ci accontentiamo di aver dato l'allarme per primi, di essere stati, con tutti i nostri limiti, tra i più lungimiranti e pronti ad affrontare questa grande sfida del terzo millennio. Dopo aver denunciato il problema, vogliamo essere parte attiva, protagonisti della sua soluzione o, perlomeno, della sua attenuazione.
Abbiamo quindi lavorato, nei mesi scorsi, con grande determinazione per fare in modo che il DPEF prendesse atto di questa urgenza epocale e per la prima volta, grazie anche al contributo dei Verdi e degli ambientalisti presenti nelle altre forze politiche, questo DPEF affronta davvero la necessità di mettere insieme ed integrare a tutto campo dimensioni economiche, sociali ed ambientali.
Purtroppo, vi è una contraddizione vistosa, una forte spinta «disviluppista» che ancora si snoda nel DPEF; penso, per esempio, all'allegato Infrastrutture ove, per le nostre note critiche, rimando agli interventi che abbiamo svolto alla Camera e al Senato sul DPEF stesso. Tuttavia, bisogna essere realistici, prendere quel che c'è di verde nel DPEF e trasferirlo nella prossima finanziaria; questo sarà il vero banco di prova.
Pertanto, noi Verdi abbiamo promosso un percorso, denominato «verso una finanziaria verde», che si snoda attraverso il varo di un patto per il clima la cui paternità è del nostro presidente di gruppo Angelo Bonelli; tale patto ha già ricevuto migliaia di adesioni di cittadini, associazioni, movimenti della società civile, settori della nuova economia verde, forze politiche e sindacali.
Il 4 e 5 maggio abbiamo promosso a Genova, in concomitanza con il lancio del patto per il clima, una Conferenza nazionale intitolata «Ecologia è economia», in cui abbiamo messo a confronto tre «tribù» che raramente si parlano, ma che dovranno ora confrontarsi in maniera sistematica: ecologisti, economisti e imprenditori innovativi, nel settore dell'efficienza energetica, delle fonti rinnovabili, della mobilità sostenibile, del biologico e della tutela della biodiversità.
Tra pochi giorni, il 22 settembre, vi sarà un'altra tappa importante che vedrà lavorare insieme Rifondazione comunista, Sinistra democratica per il Socialismo europeo e noi Verdi, in un'iniziativa congiunta che abbiamo battezzato «Una finanziaria per il clima. Percorso unitario della sinistra plurale». In tale sede, verrà rivolta molta attenzione anche al tema dell'occupazione verde, dei lavori verdi che possono scaturire da tale cambiamento; essi sono già più di 300-400 mila in tutta Italia e siamo convinti che l'albero dei lavori verdi possa crescere ancora molto.
Non voglio certo dimenticare la grande conferenza sul clima che il nostro Ministro Alfonso Pecoraro Scanio ha promosso nei giorni scorsi e che, al di là delle polemiche spesso strumentali, ha fornito un quadro completo della situazione, indicazioni di percorso chiare ed efficaci, e che dovrà diventare un appuntamento fisso che ci permetterà di monitorare, ogni tre, quattro o cinque anni, le risposte che cerchiamo di dare per frenare la febbre del pianeta. Vorrei inoltre chiarire che non si trattava di una conferenza scientifica: nonostante fossero presenti novanta relatori di grande rilievo della comunità scientifica, i capi dell'IPCC e dell'UNEP, si trattava,Pag. 34comunque, di una conferenza che doveva servire a dare un indirizzo politico; questo è un elemento di cui bisogna assolutamente tenere conto.
Vorrei anche precisare che si tratta di una Conferenza alla quale sono stati invitati tutti: a tutti è stato consentito il libero accesso e tutti sono stati ascoltati. La stessa disponibilità si è manifestata da parte della Commissione ambiente. Abbiamo svolto un lavoro attentissimo in termini di audizioni capillari; abbiamo ascoltato e recepito le indicazioni di tutti. Vorrei proporre un esempio, non scelto a caso: a pagina 26 della relazione in discussione, laddove si parla di ricerca, si può constatare che sono state recepite le indicazioni fornite dal professor Franco Prodi e naturalmente anche da tutti gli altri.
In conclusione, vorrei fare brevemente presente, in relazione alla Conferenza sul clima, che adesso si può parlare propriamente di boom di conferenze, convegni e seminari: da quello promosso dall'Unicredit group il 21, 22 giugno scorso, al convegno di Pontignano - dal quale sono reduce ieri - tra esponenti di rilievo del Governo e della cultura britannica e del Governo e della cultura italiana; si tratta di un fiorire di appuntamenti che segnala che il clima è ormai diventato, a livello planetario (si veda il caso di Al Gore) ma anche nazionale, l'argomento caldo - è il caso di dirlo - dei nostri tempi.
Naturalmente, come Commissione ambiente, saremo in prima fila al Congresso mondiale dell'energia organizzato dall'11 al 15 novembre di quest'anno dal World Energy Council e lo ripeto, non mancheremo di essere presenti a Bali dove la nostra Commissione parteciperà alla conferenza per il rilancio della fase due di Kyoto.
Concludo, ricordando che vi sono due fattori che lavorano contro di noi. Il primo è il fattore «T», cioè il tempo. Il cambiamento climatico galoppa a velocità esponenziale e mai, nella storia dell'umanità, abbiamo dovuto fronteggiare una tale accelerazione degli eventi. Siamo in terribile ritardo e non possiamo più permetterci indugi.
L'altro è il fattore «C», cioè la complessità delle variabili in gioco, estremamente difficili da individuare e ancor più da governare. Vi è bisogno di molta umiltà e capacità di dialogo, perché nessuno ha la ricetta in tasca.
La relazione della nostra Commissione ha ben presente questi ritardi e ostacoli, ma ha il grande merito di iniziare a fornire risposte complesse al problema, forse il più complesso che l'umanità si trova ad affrontare. Soprattutto ha il merito di portare alla vostra attenzione la necessità, non solo di politiche concrete a livello sociale, ambientale ed economico, ma anche l'urgenza di un salto culturale, di un balzo in avanti della coscienza collettiva, senza il quale la sfida sarà persa in partenza. Per questo motivo, noi Verdi domani saremo felici di dire il nostro «sì» alla risoluzione sulla relazione in discussione.
PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione.
(Annunzio di risoluzioni - Doc. XVI, n. 1)
PRESIDENTE. Avverto che sono state presentate le risoluzioni Realacci ed altri n. 6-00021, Barani ed altri n. 6-00022 e Leone ed altri n. 6-00023 (Vedi l'allegato A - Risoluzioni sezione 1).
(Intervento e parere del Governo - Doc. XVI, n. 1)
PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare Alfonso Pecoraro Scanio.
ALFONSO PECORARO SCANIO, Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. Signor Presidente, vorrei ringraziare gli onorevoli deputati presenti,Pag. 35anche a fronte dell'ottimo lavoro svolto dalla Commissione ambiente con il contributo di tutti i gruppi parlamentari (peraltro, come mi è sembrato di verificare, il documento è stato approvato in Commissione con un'ampia convergenza).
Pertanto, a nome del Governo - posso già anticipare - è abbastanza naturale - l'espressione di un parere favorevole sulla risoluzione proposta dalla maggioranza, che comunque riguarda una questione su cui si è registrata un'ampia condivisione, in quanto riassume e fa proprie le valutazioni della relazione.
Al contrario, a mio avviso, non posso che esprimere un parere contrario sulle altre due risoluzioni presentate: in particolare, la risoluzione Barani ed altri n. 6-00022 propone sostanzialmente solo la soluzione del nucleare. La risoluzione Leone ed altri n. 6-00023 è, in qualche modo, in contraddizione con il lavoro realizzato dalla Commissione ambiente: mette cioè in dubbio anche il lavoro svolto dal Parlamento negli ultimi anni - peraltro anche con il precedente Governo di centrodestra -, a fronte di una forte preoccupazione sui cambiamenti climatici e sulle cause antropiche, unanimemente riconosciute dalla comunità scientifica e dalle autorità internazionali come le cause prevalenti (le cause cosiddette naturali si attestano molto al di sotto del 10 per cento).
Devo dire, con molto rispetto per un'istituzione autorevole come il Parlamento che il dibattito su una relazione di questo tipo avrebbe richiesto, a mio avviso, molto più opportunamente, la presenza di molti altri esponenti del Governo e, non dico di tutta l'aula di Montecitorio, ma di una rappresentanza più larga rispetto alle poche unità presenti, data la rilevanza dell'argomento.
Sappiamo, però, che molto spesso il dibattito viene condizionato da ciò che viene riportato sulla stampa - o meglio da una parte del mondo dell'informazione - molto più che dalla realtà dei fatti. Penso che chi è intervenuto in Assemblea sulla Conferenza nazionale sui cambiamenti climatici non solo non abbia partecipato alla stessa, ma non l'abbia seguita nemmeno su Internet, come invece hanno fatto circa centomila italiani (non poche persone, considerato che il sito è andato più volte in tilt per il numero enorme di link: si chiamano così i contatti); inoltre, non possiamo essere condizionati dalle false notizie apparse che non hanno nulla a che vedere con la realtà e con ciò che è avvenuto.
La Conferenza nazionale sui cambiamenti climatici ha avuto un focus specifico, pubblico, sull'adattamento sostenibile; in particolare, il documento, che sarà inviato ovviamente al Parlamento (mi farò carico io stesso di farlo inviare a tutti i parlamentari), propone un manifesto per l'adattamento sostenibile ai cambiamenti climatici e la sicurezza ambientale del paese, da cui scaturiscono tredici azioni. Tali azioni (che sono state anche riprese dall'onorevole Dussin nel corso del suo intervento) sono molto mirate, precise e specifiche: ad esempio, il 16 febbraio verrà organizzato il cosiddetto climate day, in considerazione della ratifica del Protocollo di Kyoto (tale Protocollo è stato ratificato sulla base di una volontà unanime del Parlamento). Credo e spero che le pesanti pressioni di alcune lobby, legittime, non creino ostacoli; è chiaro che se affermiamo che vogliamo ridurre il consumo del petrolio, del carbone e che vogliamo investire sul solare è noto a tutti che il sole non ha royalties, che nessuna società dispone di giacimenti sul sole e, quindi, è chiaro che intaccare, seppure in una progressione purtroppo molto lenta, i grandi poteri crea evidentemente difficoltà.
PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE GIORGIA MELONI (17,46).
ALFONSO PECORARO SCANIO, Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. È noto che la Commissione mondiale IPCC, Intergovernmental Panel on Climate Changes (si tratta della commissione mondiale dell'Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU)), è composta da esperti nominati da tutti i governi delPag. 36mondo, anche quelli che erano perplessi sul problema del cambiamento climatico!
Credo che vada sottolineato il fatto che la Conferenza italiana nasce dalla volontà di studiare esattamente le conclusioni scientifiche della commissione delle Nazioni Unite. Nessuno ha mai pensato in Italia di riaprire un dibattito scientifico: se avessimo voluto farlo avremmo individuato un'altra soluzione (il Ministro dell'ambiente non avrebbe convocato tale Conferenza, ma probabilmente lo avrebbe fatto il Ministro della ricerca scientifica). Non abbiamo aperto un dibattito scientifico-accademico sui cambiamenti climatici, ma invitato a dibattere sulla tematica in oggetto gli autori dello studio dell'IPCC internazionale (abbiamo anche fatto economia di costi, perché sarebbe stato inutile spendere altri milioni di euro dei contribuenti per ulteriori studi e analisi su fatti stranoti, avendo tutti questi studi a disposizione), verificando la situazione con comunità scientifiche internazionali, con il direttore dell'UNEP (un'organizzazione delle Nazioni Unite per l'ambiente), il professor Steiner, e con coloro che hanno lavorato per l'Italia nel panel internazionale sui cambiamenti climatici.
Si sono iscritti 2.500 partecipanti: la partecipazione su Internet era libera e tutti gli interessati potevano registrarsi e partecipare, tant'è vero che abbiamo chiesto alla FAO di mettere a disposizione altre sale per consentire la più ampia partecipazione e mi riferisco sia ai singoli momenti di dibattito, sia agli eventi generali.
Quanto agli eventi generali, trattandosi di una conferenza del Governo che proponeva di spiegare agli attori politici ed istituzionali i risultati dell'IPCC, è normale che siano state invitate le personalità politiche; è stato invitato l'ex Ministro dell'ambiente, il capogruppo di Alleanza Nazionale al Senato, Altero Matteoli, che ha partecipato attivamente ai lavori svolti; sono stati invitati tutti i principali leader sindacali italiani (CGIL, CISL, UIL e UGL) che hanno a loro volta partecipato con piena disponibilità al dibattito.
Nelle varie fasi è stato svolto un grande dibattito, peraltro preceduto - mai come questa volta nella storia delle conferenze nazionali in questo Paese - da ben sei eventi preparatori organizzati in tutta Italia negli ultimi tre mesi, in varie parti del Paese e aperti a tutti, ed altri dieci o dodici eventi realizzati anche da realtà accademiche e scientifiche, che hanno coinvolto altre migliaia di persone.
Sfido a trovare, nella storia delle conferenze nazionali di vari settori, organizzate da questo e dai precedenti Governi, una gestazione ed un'organizzazione di una Conferenza nazionale così partecipata ed evidentemente, proprio per tale motivo, così osteggiata in seguito, perché è andata bene. Se si fosse trattato della solita conferenza semiclandestina organizzata da qualche ministero per fare parlare qualche giornalista, probabilmente nessuno l'avrebbe attaccata, perché sarebbe stata la conferenza tipica, magari tesa ad attribuire qualche incarico a qualcuno per fare un po' di uffici stampa.
Ho affidato questa Conferenza all'Apat per risparmiare: invece che a service esterni, in considerazione dei costi della politica, è stata affidata all'Agenzia per la protezione dell'ambiente e per i servizi tecnici (si tratta quindi di un organo tecnico), che ha svolto questo lavoro, facendoci risparmiare molti soldi. È esattamente così! Peraltro - lo volevo dire all'onorevole Tortoli, ma vedo che non è presente - proprio l'Apat si è distinta quest'anno per avere tagliato drasticamente consulenze e spese. Per fortuna si tratta di dati pubblici!
Per concludere, la Conferenza nazionale sui cambiamenti climatici ha avuto un focus specifico ed il presidente della Commissione lo sa bene, perché ne ha parlato (la Commissione ha chiesto di organizzare anche una conferenza sull'energia, ma ho più volte sostenuto che, per tale settore, la gestazione sarebbe stata molto più lunga, tant'è vero che ancora non siamo riusciti a realizzarla, nonostante esista una commissione che vede il coinvolgimento anche del Ministero dello sviluppo economico); si doveva discuterePag. 37solo di energia e non di adattamento, mentre, invece, tale questione ha caratterizzato ampiamente questa Conferenza. In particolare, in essa si è parlato di dissesto idrogeologico, del problema dell'erosione delle coste, dei temi dello stato di salute del mare, cioè di una serie di temi che, ovviamente, vanno poi integrati e ragionati anche insieme ai temi dell'energia.
Questi ultimi, non a caso, fanno sempre la parte del leone, perché diventano i temi inevitabilmente più di attualità e più attenzionati, tanto è vero che in questo Parlamento, mentre dovremmo rilevare che la sfida lanciata dalla Conferenza sul cambiamento climatico è sui problemi del dissesto idrogeologico, delle frane, e i dati economici che abbiamo citato sono legati a ciò, tutto il dibattito, anche per quanto riguarda le mozioni, è incentrato ancora una volta, molto spesso, su temi molto futuribili - vedi il nucleare - e non su temi estremamente di attualità, come quello dell'erosione costiera, della siccità, della difficoltà dei nostri fiumi, degli interventi da realizzare sul mare, della messa in sicurezza del territorio nazionale.
Spero che prima o poi di questi temi si possa discutere, come siamo riusciti a fare il 12 e il 13 settembre, non di fronte ad un disastro ambientale (i giornali ci sono sempre per i disastri); una volta tanto, invece, abbiamo lanciato il tema dell'erosione costiera e del surriscaldamento, anche del nostro Paese, prima e non dopo i problemi.
Voglio anche sfatare il dibattito ridicolo che si è svolto sull'aumento della temperatura. Noi teniamo una Conferenza in cui precisiamo, nonostante vi sia stato un refuso in alcune notizie date, che in Italia negli ultimi cinquant'anni - i dati provengono dal CNR italiano - la temperatura è aumentata quattro volte più velocemente della media mondiale.
Ora è stato chiarito: molti giornali, quelli in buona fede, hanno scritto che è aumentata quattro volte più velocemente (ed è così!); altri hanno lasciato intendere che qualcuno aveva detto che la temperatura in Italia era quattro volte superiore alla media mondiale, cioè di ottanta gradi!
È evidente che nessuno ha affermato una cosa così assurda; nessuno di buonsenso ed in buona fede può pensare che si cercava di affermare ciò. Anche ammesso che in qualche titolo fosse apparso un refuso, era evidente che non poteva essere quello il dato; inoltre, nessuno ha affermato che l'Italia veniva sommersa dopodomani dalle onde: non è stato affermato da alcuno, se non da qualche scienziato, cosiddetto negazionista (ha ragione l'onorevole che ha svolto questa osservazione).
Il governatore Schwarzenegger, repubblicano, americano di destra, ha affermato che, se la figlia si sente male e 99 medici dicono che bisogna aiutarla, ricoverarla e farla curare, mentre secondo un altro medico non ha alcun problema, preferisce dare retta ai 99 medici. Noi vogliamo ascoltare anche il medico secondo il quale il problema non esiste, ma quest'ultimo deve avere l'1 per cento e non la metà degli spazi, perché conta esattamente come una posizione marginale ed emarginata nella comunità scientifica mondiale; è evidente che, quando le commissioni delle Nazioni Unite affermano all'unanimità che il riscaldamento climatico corre sempre più velocemente, si tratta di un problema vero e la causa è antropica e, pertanto, bisogna ascoltarle. D'altra parte, anche coloro che svolgono tali osservazioni, prima affermano che non sussiste il cambiamento climatico e poi propongono il nucleare per ridurre le emissioni di CO2. Bisogna mettersi d'accordo: probabilmente, a meno che non sia solo per sponsorizzare la lobby del nucleare, è evidente che il problema c'è e si sviluppa molto velocemente; anche i giornali che, in questi giorni, si sono dilettati nel cercare di dimostrare che avevamo lanciato un allarme eccessivo sul surriscaldamento e lo scrivevano su una pagina, alla pagina a fianco poi riportavano la notizia dello scioglimento del Polo Nord mai avvenuto nelle dimensioni che abbiamo verificato in questi ultimi mesi.
È la dimostrazione di quanto sia penosa la pressione di alcune lobby pubbliche e meno pubbliche, le quali, evidentemente, sapendo che chiediamo semplicementePag. 38di usare meno combustibili fossili e di investire sul solare e sull'innovazione, cercano di utilizzare e strumentalizzare qualunque discussione, senza offrire un contributo positivo (si possono anche proporre delle soluzioni diverse; io successivamente motiverò le ragioni per cui penso che il nucleare non rappresenti una soluzione). Tuttavia, non si può dire che non sussiste il cambiamento climatico e che non vi è bisogno di intervenire, quando abbiamo votato l'anno scorso all'unanimità alcune mozioni al Senato e alla Camera, per fare in modo che si andasse a Nairobi ad insistere, perché altri Paesi si aggiungessero all'impegno internazionale per ridurre le emissioni. Aggiungo - voglio a tale proposito rassicurare l'onorevole Rampelli - che mi sono recato personalmente a Ginevra, in sede WTO (credo di essere stato l'unico Ministro a partecipare) per porre il tema del cambiamento climatico in termini di non alterazione della concorrenza internazionale, proprio per evitare il seguente paradosso: noi chiediamo di ridurre le emissioni ai produttori ed alle imprese europee, ma non vogliamo ottenere il risultato di creare semplicemente un dumping ambientale a favore di altri Paesi.
È quindi chiaro che dobbiamo introdurre le problematiche di uno sviluppo meno dipendente da fonti fossili in un dibattito planetario. E va dato atto che nell'ultimo anno la Cina ha cambiato posizione rispetto al precedente atteggiamento di indifferenza al Protocollo di Kyoto, e ha sottoscritto in sede asiatica finalmente i primi impegni, perché si rende conto che un proprio sviluppo che ripercorra i nostri modelli di sviluppo fa collassare completamente il pianeta. Vi sono, pertanto, segnali incoraggianti in quella direzione.
Ritengo, quindi, che dobbiamo fare chiarezza: lasciamo da parte la propaganda. Questa volta non è stata fatta dal Governo, né dagli ambientalisti, neppure, come si evidenzia negli interventi autorevoli che si sono svolti nella Conferenza sui cambiamenti climatici, dal Presidente della Repubblica, dal Presidente della Camera, dal Presidente del Senato, dal Presidente del Consiglio, dai rappresentanti di tutti i sindacati del nostro Paese: o si tratta di un abbaglio collettivo o è evidente che il problema è reale.
Mettiamo dunque da parte la propaganda ideologica, sostenuta in modo diretto o indiretto - presumibilmente - dalle lobby del carbone o da altri tipi di lobby. Facciamo in modo che, quando vi sono dibattiti scientifici, vi siano anche i «negazionisti»: ma teniamo conto che la comunità mondiale sta andando avanti ben oltre questo punto. Non stiamo infatti ancora discutendo se il problema del cambiamento climatico c'è o non c'è: stiamo discutendo della sua soluzione.
E ne discutono tutti, come hanno giustamente osservato il presidente Realacci e molti altri che sono intervenuti, fra cui l'onorevole Cacciari: il già citato Schwarzenegger, in California ha lanciato la sfida per una riduzione della CO2 e per avere le auto ad idrogeno entro il 2012; Sarkozy, per parte sua, afferma che il cambiamento climatico è una priorità assoluta. Ciò detto, è chiaro che la Francia ha centrali nucleari: ma la Francia ha anche la bomba atomica! Ed è stato il sistema militare in Francia a sostenere la svolta atomica. E ancora: quando Sarkozy ha offerto ad Angela Merkel la tecnologia nucleare, la Germania ha rifiutato, confermando la propria scelta di uscire dal nucleare (lo diceva anche il presidente Realacci) e confermando il taglio della CO2 e gli investimenti sul solare e sulle energie rinnovabili. Dunque, se Angela Merkel (che è autorevole esponente del Partito popolare europeo) e la Germania (che è la terza economia del mondo) compiono questa scelta strategica, ebbene, o sono utopisti, o da noi si è irrealisti quando si afferma che non è necessario investire sull'innovazione.
Occorre poi ricordare che, nel Parlamento europeo, tutti gli esponenti della destra, oltre a quelli della sinistra, hanno firmato la risoluzione proposta dal professor Rifkin, che parla di terza rivoluzione industriale basata sul pilastro delle energie rinnovabili, dell'idrogeno e dellaPag. 39produzione diffusa dell'energia. Ebbene, tale risoluzione è stata votata a maggioranza assoluta dal Parlamento europeo, con le firme di Pottering, che ne è Presidente, e di tutti i leader del centrodestra europeo. Occorre dunque chiedersi dove sono non dico tutti, ma almeno alcuni degli esponenti del centrodestra italiano, come l'ex Presidente della Camera Casini, che parla nuovamente di nucleare, dopo aver invitato Jeremy Rifkin a discutere qui alla Camera dell'innovazione dell'idrogeno e dopo aver fatto un giro sulla macchina innovativa.
Dobbiamo avere la capacità di essere credibili nel contesto internazionale: non possiamo essere il Paese che prima sostiene la strategia dell'Unione Europea «venti-venti» (entro il 2020, taglio del 20 per cento delle emissioni, 20 per cento di energie rinnovabili e riduzione del 20 per cento attraverso l'efficienza energetica) e poi, per mera tattica politica locale, iniziamo a dire: beh, forse, però, vediamo, non si sa... E poi si accusa il Governo, nel tentativo di creare confusione sull'aumento della temperatura! Mi pare davvero che siamo al di là del bene del male: credo dunque che abbiamo il dovere di riportare questo nostro dibattito nei termini della serietà.
Ho ascoltato l'onorevole Tortoli dire che Rubbia ha affermato che Kyoto non basta. Intanto, come sapete, Rubbia è il consigliere per le energie rinnovabili, che io ho recuperato alla collaborazione con il nostro Paese, considerato che mi sembra sia una grande autorità. Ebbene, certo Rubbia afferma, come faccio anch'io, che il Protocollo di Kyoto non basta: ma ciò non per dire che il Protocollo di Kyoto non va bene; piuttosto, per dire che esso prevede una riduzione della CO2 che è troppo poco rispetto a quel che è necessario. Poi si dice che si fa propaganda: è meglio citare Attila che citare Rubbia per fargli affermare che il Protocollo di Kyoto non va bene! Naturalmente, sosteniamo che è necessario un nuovo protocollo, più energico, per il post-2012, e che - come osservato dall'onorevole Francescato - dobbiamo andare a Bali con un impegno importante non solo italiano ma europeo: deve infatti partire una diversa capacità di azione.
Quanto al carbone e al nucleare, dobbiamo essere molto franchi: il carbone è, in assoluto, il fossile che produce più CO2, ed è evidente che sia così. A livello mondiale, prima Chirac e ora Sarkozy hanno chiesto addirittura che si introduca una sorta di tassa planetaria sul carbone al fine di renderne esplicito il costo reale in termini di danno all'ambiente.
In Italia, come sapete, facciamo un dibattito sulle tasse (siamo molto originali!), quindi è inutile aprire un dibattito, ma il carbone non risolve. Diverso è aver scritto nella relazione che si devono fare le ricerche sulla trasformazione e il «sequestro chimico» della CO2, ma questa è la ricerca. È come la ricerca sulla fusione nucleare: ma chi è contrario? Certo che siamo favorevoli! Come potrei vedere negativamente il nucleare non radioattivo?
È evidente che stiamo parlando di questioni sulle quali è inutile alimentare una polemica, perché si tratta di ricerca, è una cosa ben diversa; ed è evidente, comunque, che abbiamo, come Paese, l'interesse strategico a investire sulle rinnovabili - anche come interesse nazionale -, perché abbiamo il sole, il vento e le maree, così come possediamo la capacità tecnologica di usare ciò per trasformarlo in energia. Quindi, questa possibilità è forte nel nostro Paese, mentre è altrettanto vero che il nucleare (come dimostrano anche oggi i dati che venivano forniti) presenta numerosi problemi, ed infatti non è un caso che non si costruiscano centrali e che nessun privato investa.
Bisogna dire inoltre, con molta semplicità, che il nucleare non ha risolto il problema - drammatico - delle scorie. Ogni volta che in Italia qualcuno propone di riaprire le centrali bisogna domandarsi: con quali tecnologie? Chi ci dà queste risposte? Qual è la compagnia di assicurazione che assicura una centrale nucleare in Italia contro il rischio nucleare? Infatti, il rischio c'è ed esiste (non a caso gli incidenti in Giappone e in Inghilterra hanno bloccato anche i tentativi,Pag. 40che erano ripresi, di cercare di realizzare nuove centrali). Sapete - è un dato di oggi - quanta acqua consuma la Francia per l'uso necessario alle centrali nucleari? Il 55 per cento di tutta l'acqua fresca disponibile in Francia è destinata al nucleare.
Allora, per chi ha già le centrali (perché si tratta di vecchie centrali) e le sta utilizzando, si porrà il problema di come utilizzarle e ridurre i danni. Ma il nostro Paese ha fatto una scelta, secondo me, di grande lungimiranza e di grande risparmio: infatti, nessuno dice che tutti questi impianti vengono costruiti dallo Stato, che il tema delle scorie e della gestione dei residui nucleari è statale e che - come dicono gli esperti francesi, non italiani - il costo per kilowattora del nucleare, considerando i costi di costruzione della centrale, di decommissioning (che poi non si riesce a fare) e delle scorie nucleari, è infinitamente superiore a quello delle rinnovabili.
Concludo ricordando un aspetto contenuto nella risoluzione Leone ed altri n. 6-00023, nella quale si attacca dicendo che si spendono troppi soldi per sostenere le energie prodotte da fonti rinnovabili - ma voglio ricordare che anche nella scorsa legislatura si cercò di avviare un conto energia per sostenere le energie prodotte dalle rinnovabili - e, addirittura, si arriva a scrivere che carichiamo sulla bolletta dei cittadini delle cifre molto alte, quando sappiamo che la gran parte di questi soldi, da più di dieci anni, non viene data alle fonti rinnovabili, ma alle grandi compagnie petrolifere per bruciare con il CIP6 i residui delle raffinerie: ciò è veramente un insulto all'intelligenza delle persone! Il nostro problema è come ciò verrà restituito: su questo punto si modifichi la risoluzione e ci dicano come restituire alle fonti rinnovabili il denaro sottratto da più di dieci anni - e sono decine di miliardi di euro - per essere destinato, invece, a quelle che si chiamano fonti assimilate, ma che non hanno niente a che vedere con le rinnovabili. Ci vorrebbe, piuttosto, la restituzione alle energie rinnovabili.
Peraltro, in tutta Europa ci sono normative per incentivare queste scelte, e noi andiamo in Europa, nei vari gruppi parlamentari europei (tutti i gruppi di tutti gli schieramenti), a dire che bisogna sostenere l'energia solare e l'innovazione, mentre qui iniziamo addirittura ad affermare che, forse, diamo troppo alle fonti rinnovabili, quando per anni abbiamo dato troppo poco e quando, come ha detto il Presidente del Consiglio proprio alla conclusione della Conferenza nazionale sui cambiamenti climatici, siamo indietro, non avanti.
Pertanto, credo che occorra ottenere innanzitutto un'onesta conoscenza condivisa di quelli che sono i problemi ed affrontare le questioni con capacità. Sono d'accordo con l'appello dell'onorevole Dussin che, al di là delle considerazioni sui singoli argomenti, sosteneva che servirebbe un'intesa larga. Credo che sia necessario controllare dove sia l'intesa, ma è evidente che essa potrà esserci se si riconosce che il clima si sta surriscaldando e vi è una responsabilità generale e condivisa; possiamo allora avere dei dubbi su come compiere alcune scelte. Si può cominciare a riscontrare che su alcune di esse vi è un'ampia condivisione e ci si può spingere in tale direzione. Diversamente accadrebbe se non lo facessimo, sia in buona fede, sia per le forti pressioni di alcuni settori che, lo ripeto, hanno una posizione legittima. L'OPEC, l'organizzazione mondiale dei produttori di petrolio, si è schierata palesemente contro le energie rinnovabili; ma è normale che l'OPEC sia contro le energie rinnovabili, poiché rappresenta gli sceicchi e i Paesi che possiedono i grandi giacimenti di petrolio! Il problema consiste nel comprendere, in Italia, chi deve andare a sottoscrivere le posizioni dell'OPEC in un Paese, come il nostro, che non ha riserve petrolifere o di altre fonti fossili e che avrebbe un interesse, anche nazionale, ad investire sulle energie rinnovabili, sull'efficienza energetica e sull'innovazione.
Pertanto, non diciamo che tutti sono d'accordo: vi sono grossi interessi che sono contrari alla svolta verso le fonti rinnovabiliPag. 41e all'efficienza energetica. Il problema è se il Parlamento della Repubblica italiana, che rappresenta il popolo italiano, trova una convergenza ampia, come l'ha trovata sempre indicando almeno le strategie, salvo non riuscire a realizzarle, per compiere delle scelte innovative e nell'interesse del popolo italiano: questo è il problema. Credo che nel lavoro svolto dalla Commissione ambiente vi sia l'interesse del popolo italiano e non solo quello dell'ambiente, vi sia l'esercizio corretto del compito di rappresentanza che il Parlamento ha nei confronti del popolo che lo ha eletto, che consiste nell'individuare quali siano le esigenze ed il bene comune. Spero che possiamo creare su tale punto almeno un margine di consapevolezza e di conoscenza condivisa, visto che l'Organizzazione mondiale delle Nazioni Unite, che rappresenta più di 100 Stati, ha trovato un'intesa su tale punto, perché altrimenti il quarto rapporto mondiale dell'IPCC non sarebbe stato unanime in questa materia, e che si riesca a trovare la capacità di realizzare quegli obiettivi che abbiamo indicato spesso in molti documenti, facendo in modo che già dal disegno di legge finanziaria, come è accaduto nel DPEF, vi siano segnali concreti in tale direzione, ovviamente essendo consapevoli che è necessario coinvolgere numerosi Ministeri.
Il Ministero dell'ambiente può avere un ruolo di pungolo e di stimolo: avremo occasione di spiegare come su molte vicende stiamo cercando di andare avanti; anche sulle infrastrutture, colleghi, cerchiamo di sbloccare e non di bloccare. Infatti, se alcune opere sono state sbloccate, anche progetti fatti male, è grazie al lavoro che abbiamo svolto per cercare di andare in una direzione più sostenibile e compatibile. Ciò vale per tutti i provvedimenti, come vale per le infrazioni comunitarie. Quelle che abbiamo ereditato, più di 80 in materia ambientale, sono scese, ma, nel frattempo, ed anche purtroppo a causa di attività che non sempre collimano con l'indirizzo che il Ministero fornisce in materia di ambiente, vi sono regioni e situazioni che aumentano il volume di infrazioni. Spero che vi possa essere una consapevolezza comune ed eliminare anche tale primato, che non ci fa onore e che dobbiamo cancellare.
Credo, quindi, che sia molto importante e quanto mai opportuno il lavoro che la Commissione ambiente ha realizzato in questo periodo, e spero che con la piena disponibilità, anche in termini scientifici e tecnici, a dare tutti i chiarimenti necessari, si possa porre fine al chiacchiericcio, in cui si parla per sentito dire, e si affrontino i problemi guardando i dati e la realtà e avendo la capacità di compiere lo scatto fondamentale per una classe politica e di Governo, per affrontare i fenomeni con incisività e con determinazione, e anche con la passione necessaria, perché se il cambiamento climatico è considerato la priorità dal Segretario delle Nazioni Unite e da tutti, ormai, i Governi del mondo, dobbiamo dare seguito a quel famoso slogan che molte associazioni citano, act now, agire. A tal proposito, voglio anche difendere l'associazionismo: non è necessario dire dell'associazionismo ambientalista. Infatti, non vi sono ricerche affidate alle associazioni ambientaliste. Hanno partecipato gratuitamente, perché erano contenti di farlo.
Evitiamo che ogni volta vi siano sospetti, assolutamente inaccettabili, su persone che fanno del volontariato e che cercano di lavorare rilanciando alcuni temi. Ricordo che il Presidente del Senato Marini, proprio intervenendo alla Conferenza sui cambiamenti climatici, ha detto, da sindacalista, che, probabilmente, se qualche anno prima ci fossimo posti il problema di uno sviluppo sostenibile, forse molti errori e molti problemi li avremmo evitati. Spero che non ci si trovi oggi a discutere e poi, tra dieci anni, a doverci pentire di non aver adottato quei provvedimenti e intrapreso quelle azioni immediate che sono indispensabili e fondamentali.
Ringrazio ancora non solo la Commissione ambiente ma tutti i parlamentari per l'attenzione che vorranno dedicare a questo tema, ben sapendo che abbiamo l'esigenza di rimetterci a lavorare con molta determinazione.Pag. 42
Mi hanno consegnato adesso il testo di un'ulteriore risoluzione che non ho il tempo di vedere e quindi...
PRESIDENTE. È esatto, signor Ministro. Ho evitato di interromperla; tuttavia, essendo stata presentata l'ulteriore risoluzione n. 6-00024, sarebbe necessario avere il parere del Governo anche su questa risoluzione, fermo restando che, se preferisce, possiamo procedere ad una breve sospensione dei lavori per consentirle di prendere visione del testo.
ALFONSO PECORARO SCANIO, Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. Posso rispondere rapidamente, perché vedo che, nonostante la premessa di rispettare il Protocollo di Kyoto, il testo ripropone, come centralità, il tema della scelta nucleare, divergendo dal risultato del lavoro svolto dalla Commissione ambiente della Camera. Quindi, coerentemente, avendo espresso parere favorevole sulla risoluzione che approva il documento della Commissione ambiente, non posso che dare parere negativo su una risoluzione che, in alcuni punti, lo smentisce in modo palese. Pertanto il parere su questa risoluzione è contrario, perché essa è in contraddizione con il lavoro e la relazione dell'VIII Commissione (devo esprimere pareri che rispondano anche ad un criterio di coerenza).
PAOLO CACCIARI. Diteci di chi è la risoluzione!
PRESIDENTE. Chiedo scusa, onorevole. Si tratta della risoluzione Volontè ed altri n. 6-00024
(Vedi l'allegato A - Risoluzioni sezione 1).
Prego signor Ministro.
ALFONSO PECORARO SCANIO, Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. Si tratta di una risoluzione in cui vi è la richiesta di riprendere la scelta del nucleare considerandola un fattore strategico. È evidente che ciò che prima ho detto e ciò che è scritto nella relazione dell'VIII Commissione sono in contraddizione con il contenuto di tale risoluzione; pertanto - stavo concludendo - credo che, acquisendo anche quest'altro elemento, posso confermare l'appello al Parlamento a concentrarsi sulle scelte che, anche negli anni scorsi, erano largamente condivise, e lo sono anche dai nostri cittadini.
La grande richiesta di installare pannelli fotovoltaici e la grande azione a favore dell'energia solare, che si è registrata dopo una modifica del conto dell'energia introdotta il 19 febbraio scorso, dimostrano che i cittadini italiani vogliono usare energie pulite, non pericolose e rinnovabili e, nello stesso tempo, con l'efficienza energetica avere anche bollette meno care. È questo, in fondo, l'obiettivo di tutti noi: cercare di dare un'energia pulita, che sia anche a basso costo per i cittadini.
PRESIDENTE. Il seguito del dibattito è rinviato alla seduta di domani.
Discussione delle mozioni Maroni ed altri n. 1-00216 e Airaghi ed altri n. 1-00217 sui contenuti e sulle conseguenze economiche complessive del nuovo piano industriale dell'Alitalia, con particolare riferimento al ruolo dell'aeroporto di Malpensa (ore 18,20).
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione delle mozioni Maroni ed altri n. 1-00216 e Airaghi ed altri n. 1-00217 sui contenuti e sulle conseguenze economiche complessive del nuovo piano industriale dell'Alitalia, con particolare riferimento al ruolo dell'aeroporto di Malpensa (Vedi l'allegato A - Mozioni sezione 1).
Ricordo che lo schema recante la ripartizione dei tempi riservati alla discussione delle mozioni è pubblicato in calce al resoconto stenografico della seduta del 12 settembre 2007.
Avverto che è stata altresì presentata in data odierna la mozione Barbi ed altri n. 1-00219
(Vedi l'allegato A - Mozioni sezione 1), che verte sullo stesso argomentoPag. 43delle mozioni all'ordine del giorno. La discussione si svolgerà pertanto anche su tale mozione.
(Discussione sulle linee generali)
PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali delle mozioni.
È iscritto a parlare l'onorevole Fava, che illustrerà anche la mozione Maroni ed altri n. 1-00216, di cui è cofirmatario. Ne ha facoltà.
GIOVANNI FAVA. Signor Presidente, parlare di Malpensa in questi giorni è estremamente facile e, contestualmente, un esercizio complicato, perché con ogni probabilità in quest'aula, lontano dalla parte del Paese che sta vivendo con apprensione le decisioni prese in questi giorni dal consiglio di amministrazione di Alitalia, può risultare difficilmente comprensibile quale sia il livello di attenzione dedicato alla vicenda di cui parliamo. Vi garantisco, però, che è altrettanto incomprensibile l'atteggiamento che il Governo ha tenuto sino ad ora sulla questione.
Nella nostra mozione partiamo da un presupposto, ossia che il Tesoro, con la propria partecipazione nell'ambito di Alitalia, debba prima o poi prendere una decisione in merito ad un piano industriale che in tutte le aziende normali viene presentato ai soci non per un dovere di conoscenza, quanto per essere sottoposto ad un vaglio e ad una valutazione che portino poi lo stesso consiglio ad assumere delle decisioni, che vanno nella direzione auspicata dall'azionista di riferimento, che in questo caso è il Tesoro stesso.
Dal 30 agosto ad oggi abbiamo assistito a tutto e al contrario di tutto, in un copione che ormai è consueto nell'atteggiamento di questo Governo e che ha visto esponenti dell'Esecutivo particolarmente attivi anche in questi giorni sul fronte della sostanziale bocciatura del piano di cui stiamo parlando. La voce del Ministro Di Pietro, che ritengo decisamente autorevole, questa mattina, su un importante quotidiano nazionale, ci ricorda che su Malpensa sono stati investiti circa 20 miliardi di euro negli ultimi anni e che una scelta strategica di questo tipo, prima che una scelta di politica industriale, sia da considerare una scelta politica, per la quale la politica è chiamata a compiere valutazioni e a prendere decisioni.
Continuiamo a pensare che il problema di Malpensa non sia ascrivibile ad una tematica meramente territoriale, che riguarda la provincia di Varese e il suo hinterland, e che non sia possibile ragionare in tali termini, perché vorrebbe dire non conoscere quale sia l'impatto, dal punto di vista socio-economico, che lo scalo varesino ha su tutto un territorio che, di fatto, è il motore del Paese. Chiudere definitivamente o parzialmente lo sviluppo dell'aeroporto di Malpensa significa voler definitivamente abbandonare il nord al suo destino, togliendo la linfa vitale di questo territorio e di questa parte del Paese che fin qui è riuscita non solo a sopravvivere tra mille difficoltà, ma anche a tirare avanti la carretta per tutti gli altri.
Crediamo che sia fondamentale l'analisi dei numeri, ma che sia altrettanto fondamentale compiere valutazioni specifiche su ciò che i numeri rappresentano e possono rappresentare in termini di ricadute. Abbiamo ben presente la situazione della SEA, che potrebbe avere ripercussioni negative da tale decisione, e abbiamo altrettanto ben presente quale sia l'incapacità oggi della SEA, che si trova a dover operare scelte di tipo strategico in assenza di indicazioni politiche precise del Governo.
Abbiamo, quindi, inteso presentare questa mozione per sollecitare il Governo affinché dica chiaramente cosa intende fare e ci auguriamo che l'Esecutivo voglia respingere al mittente un piano industriale che penalizza fortemente lo scalo varesino e il nord.
Abbiamo anche appreso con una certa felicità - ma non è una sorpresa - che rispetto ad un'ipotesi strategica che vede il rilancio di Malpensa, laddove non arrivi la politica romana, possa arrivare qualche intelligente imprenditore del nord Europa.Pag. 44
Tale dato è sicuramente positivo, ma difficilmente è possibile pensare, in questo momento, di compiere delle scelte da parte degli amministratori coinvolti in questa vicenda, in assenza di certezze. Pertanto, riteniamo che il Governo debba dire, una volta per tutte, che cosa intenda fare e deve farlo in questa sede, in questi giorni di discussione, chiarendo la propria posizione. Ci auguriamo che la sua posizione sia quella di mantenere inalterato lo stato delle cose e, anzi, di rilanciare Malpensa.
Non abbiamo mai pensato che si potesse arrivare a discutere dei destini di un'azienda di Stato, pur malconcia, creando una concorrenza interna, una specie di guerra tra fazioni, con i sostenitori di Malpensa, da un lato, e quelli di Fiumicino, dall'altro lato, con una di quelle iniziative che tendono ad allargare ulteriormente il fossato che divide il Paese ormai in modo ineludibile. Però, pensiamo che, essendo questa la sede delle scelte, queste vadano fatte: fino a questo momento non c'è stata chiarezza.
Pensiamo anche che, in materia di trasporto aereo, qualcuno non abbia le idee chiare, tant'è vero che abbiamo ritenuto fin dall'inizio che la trattativa alla quale abbiamo assistito, a partire dalla gara iniziata lo scorso dicembre 2006, fosse una pantomima che è durata circa sette mesi (molto meno del previsto, perché alla fine, uno alla volta, sostanzialmente sono scappati tutti). Noi abbiamo assistito, da spettatori che si lamentavano dall'atteggiamento del Governo, ad una situazione che non ha portato da nessuna parte.
Siamo venuti diligentemente ad ascoltare in audizione il Ministro, insieme a molti colleghi presenti questa sera in aula, per sentirci dire nulla. Abbiamo resistito fino ad ora, ma credo che a questo punto delle risposte vadano date. Abbiamo tollerato che su Alitalia si sia continuato a speculare dal punto di vista politico, anche se sapevamo bene - lo abbiamo denunciato in molte sedi - che intorno al titolo di Alitalia, ad esempio, c'è stata una bolla speculativa di un certo tipo e sappiamo bene che qualcuno, in questi mesi di altalena, è riuscito a guadagnarci. Eravamo addirittura arrivati a chiedere che si sospendesse la quotazione del titolo e ci è stato risposto che non ne sussistevano i requisiti, poiché le oscillazioni non erano tali da portare alla sospensione.
Nel frattempo, un mucchio di piccoli risparmiatori, che avevano creduto e investito su quel titolo sciagurato, si sono visti deprezzare i propri risparmi dalla mattina alla sera, con una continua altalena di emozioni da brividi che hanno portato a far sì che oggi, di fatto, la valorizzazione del titolo sul mercato non corrispondesse alla realtà. Lo sappiamo bene: tutti sappiamo che essa è fortemente condizionata dalle notizie che ciclicamente vengono lasciate trasparire in ordine sparso da alcuni Ministri e da alcuni rappresentanti del Governo.
Ebbene, in un contesto di questo tipo, riteniamo sia giunto il momento di operare, una volta per tutte, attraverso una presa di posizione netta, una scelta di campo. Una scelta di campo non può prescindere dal fatto che lo sviluppo dell'hub aeroportuale varesino sia legato in modo indissolubile allo sviluppo del nord che, di fatto, è l'unica area di questo Paese che si sviluppa; non possiamo negarlo perché, altrimenti, continuiamo a raccontarci bugie.
Credo che non ci siano nemmeno problemi di tipo gestionale: le infrastrutture si stanno realizzando e molte sono già state realizzate. Addirittura, questa estate abbiamo visto che lo scalo milanese ha ricevuto dei premi per la sua efficienza, ben diversa da quelle scene che abbiamo visto invece a Fiumicino, sempre nel periodo estivo e delle ferie. Voi sapete che la consistenza, soprattutto in tema di smistamento dei bagagli, è ben diversa nelle due circostanze.
Noi, come movimento politico, abbiamo trovato contraddittorio un atteggiamento incerto anche da parte di molti esponenti delle istituzioni lombarde, che in questo momento si sono trovati disorientati nel dover gestire partite ben diverse e che non sempre hanno tenuto la barra dritta ePag. 45ferma su questo tema - come, invece, abbiamo cercato di fare noi -, cercando di privilegiare soluzioni alternative che di fatto non ci sono, perché vi è una strada maestra rappresentata da Alitalia. Noi continuiamo a considerare questa la strada maestra; tuttavia, crediamo anche che diventi difficile realizzarla se il Governo, nello stesso momento in cui cerca di sostenere fortemente la candidatura di Milano a sede della prossima Esposizione universale (come, onestamente, ritengo stia facendo, insieme al comune di Milano e alla regione Lombardia), permette che una delle aziende di Stato nell'ambito delle quali le decisioni del Governo pesano in modo significativo, possa decidere di disinvestire proprio su quella che dovrebbe essere «la porta» attraverso la quale accogliere tutte le persone che ci auguriamo possano essere attese dalla città di Milano in occasione di uno degli eventi che dovrebbe caratterizzare la vita socio-politica e socio-economica del nostro Paese e del nostro territorio nei prossimi anni.
Quindi, anche in questo caso, ci chiediamo come sia possibile che il sindaco Moratti vada all'estero a sostenere la candidatura di Milano nello stesso momento in cui il Governo sta dando la sensazione di voler depotenziare le infrastrutture che portano a Milano! Com'è possibile candidarsi ad avere un ruolo importante a livello europeo se l'azione portata avanti dall'attuale Governo dal punto di vista politico va in tutt'altra direzione? Crediamo che a tutte queste domande vadano date delle risposte con una certa fermezza e in tempi rapidi. Abbiamo la convinzione che se ciò avvenisse ci sarebbero ancora lo spazio e i tempi per recuperare una situazione che sta andando verso una deriva difficile da comprendere.
Siamo assolutamente certi che sia giunto il momento delle scelte e che sia assolutamente non condivisibile l'atteggiamento di un consiglio di amministrazione che, per sua stessa ammissione, presenta un piano industriale di sopravvivenza nel momento in cui si tratta la dismissione del pacchetto di maggioranza. Riteniamo che tale atteggiamento abbia ulteriormente deprezzato e svalutato i cespiti di cui stiamo parlando.
Siamo partiti da una gara con la quale, riguardo alla partecipazione, si aveva addirittura la pretesa di realizzare non una plusvalenza - questo non l'ha mai pensato nessuno -, ma almeno «qualcosina»: questo è quanto abbiamo letto nelle dichiarazioni di importanti esponenti del Governo. Siamo arrivati ad una situazione in cui, strada facendo, tutti i competitori sono scappati; non abbiamo risolto nessuno dei problemi fondamentali e, soprattutto, non abbiamo risolto il nodo della questione, che è legato all'assetto occupazionale di questa azienda. È bastato che, nello scorso mese di giugno, uscisse la notizia che nel fantomatico piano di Air One (fantomatico perché nessuno, ad eccezione di qualche addetto ai lavori, ovviamente, ha avuto modo di prenderne visione, come del resto è accaduto per gli altri piani), si ipotizzassero 2.350 esuberi - perlomeno, questa era la cifra riportata dai giornali - per assistere a una levata di scudi da parte della maggioranza che governa il Paese, a seguito della quale anche l'ultimo dei competitori ha scelto di andarsene!
Questa è un'azienda che va risanata partendo dalla struttura interna, non certo dal ridimensionamento delle rotte! Non credo che il bene del sistema Paese parta dal depotenziamento delle strutture!
Credo, tuttavia, che, come molto spesso accade in molte aziende, una volta che siano state risanate dal punto di vista organizzativo interno e una volta che si sia stabilito con certezza - credo che su tale punto non ci siano dubbi - che nell'ambito della struttura aziendale esistono degli esuberi, questi vadano, con tutte le cautele del caso in ordine alla tutela occupazionale, risolti e, quindi, vada trovata una soluzione che permetta ad un investitore di operare in modo che l'azienda possa non dico produrre utili, ma quanto meno evitare di perdere quasi 2 milioni di euro al giorno, come si sta verificando.Pag. 46
Cercare di contrabbandare il fatto che, riducendo i voli dall'aeroporto di Malpensa, si riuscirebbe ad ottenere qualche beneficio dal punto di vista della tenuta dei bilanci dell'azienda, significa fare un'affermazione falsa e lo sappiamo bene. L'azienda ha un problema diverso, strutturale e interno, che deve essere risolto all'interno. Tutto il resto è fantasia.
Crediamo anche che la politica in questi anni abbia contribuito a tale situazione, in quanto sappiamo bene con quali criteri si è assunto il personale e si è provveduto alla nomina dei dirigenti e con quale insistente presenza della politica partitica si sia operato in una logica di spartizione che non ci è appartenuta, non ci appartiene e alla quale non vogliamo prendere parte. Sappiamo anche, tuttavia, che se in una situazione di questo tipo si persegue la strada sbagliata, cercando scorciatoie che portano in un'altra direzione, non si giungerà mai dove vorremmo arrivare.
Quindi, abbiamo pensato che, giunto il momento delle scelte - lo ripeto -, queste debbano essere prese tenendo conto delle valutazioni di ordine aziendale e non di ordine politico. Questo è un piano industriale «politico», ma non si è mai visto un piano industriale politico in un'azienda seria. Le aziende private non tengono conto, se non in minima parte, delle esigenze della politica.
In questo caso siamo di fronte ad un consiglio di amministrazione totalmente asservito, che ha anteposto le esigenze politiche a quelle imprenditoriali, che ha scelto di abbandonare completamente una parte del Paese e di concentrarsi laddove la politica risiede, ovvero a Roma - perché a Roma si trova di tutto e di più - e, soprattutto, che ha scelto di non scegliere, cercando di sopravvivere - non si sa fino a quando - in una logica che avrebbe dovuto, comunque, indurre il Governo in questi giorni, in questi mesi e in queste settimane, a trovare una soluzione al problema. Le soluzioni, però, non le abbiamo né viste né sentite.
Questo, dunque, è l'altro enigma: a oggi non sappiamo se un piano industriale di sopravvivenza, datato il 30 agosto, andrà bene o no. Noi ci auguriamo che non vada bene e che il Governo voglia respingerlo, ma di certo non abbiamo ancora ricevuto una risposta chiara su cosa succederà e, contestualmente, non vi sono stati passi avanti - per quanto ci risulta - nella logica che ha governato e animato tutte le decisioni della maggioranza in quest'ultimo anno, ovvero quella della dismissione della partecipazione.
Mi chiedo se stiamo vendendo e a chi. Ci siamo divertiti per mesi a discutere - qualcuno si è divertito, qualcun'altro ovviamente un po' meno - sul futuro dell'azienda e sul futuro compratore, ma mi chiedo se esista un compratore e se è possibile che una questione di tal genere venga gestita in questo modo. Vi sono, infatti, due possibilità: o non esiste alcuna trattativa e, quindi, il Governo brancola nel buio, non sa che pesci prendere e, nell'imbarazzo generale, evita di affrontare il problema...
PRESIDENTE. La invito a concludere.
GIOVANNI FAVA. Concludo, signor Presidente. Oppure - ed è anche peggio - si stanno conducendo trattative per le quali si è ritenuto di non dover mettere a conoscenza i cittadini italiani, il Parlamento e le istituzioni di quale possa essere il destino futuro di questa sciagurata compagnia di bandiera e, soprattutto, di quale debba essere il destino futuro delle infrastrutture del Paese, soprattutto di quelle che ci stanno più a cuore, ovvero quelle del nord del Paese.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Airaghi, che illustrerà anche la sua mozione n. 1-00217. Ne ha facoltà.
MARCO AIRAGHI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, il consiglio di amministrazione di Alitalia, in data 30 agosto 2007, ha approvato le linee guida per il piano industriale 2008-2010, nelle quali ha definito misure tese a mantenere la continuità aziendale di Alitalia. In queste misure vi sono importanti cambiamenti che, nel medio e nel lungo termine, prePag. 47vedono notevoli modifiche alla struttura aziendale della compagnia. La più drastica delle misure oggi in discussione è la scelta di ridimensionare pesantemente la rete dei collegamenti a lungo raggio dell'hub di Malpensa, con un concreto ridimensionamento della compagnia di bandiera nazionale e una notevole diminuzione dei voli aerei intercontinentali dall'aeroporto lombardo.
Si tratta di una scelta politica che sembra avere il consenso di Palazzo Chigi: dobbiamo considerare, infatti, che il 49,9 per cento di Alitalia è di proprietà del Governo. Alitalia, quindi, decide di voltare le spalle all'aeroporto lombardo, a favore di quello di Fiumicino, per continuare a tutelare gli stessi e insostenibili privilegi corporativi dei suoi dipendenti, che sono, poi, la ragione prima della grave situazione in cui versa, oggi, la compagnia di bandiera.
Alleanza Nazionale ritiene che si tratti di una scelta folle e suicida per la compagnia stessa e, di conseguenza, ha deciso di presentare la mozione oggi in esame, agendo di concerto con il nostro gruppo presso la regione Lombardia (che, con la Casa delle Libertà, ha presentato un ordine del giorno che sarà discusso nei prossimi giorni) e con il nostro gruppo al Parlamento europeo (il quale, in data 31 agosto 2007, ha presentato un'interrogazione parlamentare sulla medesima questione).
Il Ministro dei trasporti Alessandro Bianchi ha recentemente affermato, in proposito, che il derby Milano-Roma non lo appassiona affatto. È troppo comodo e semplice cercare di spostare la questione in termini di sfida campanilistica Milano-Roma, Lombardia-Lazio, Nord-Centro: è un modo di sfuggire alle proprie responsabilità. Se il Governo, invece di giocare la partita come attore principale, decidesse di assumere il ruolo di arbitro, dovrebbe riconoscere che oggi il mercato guarda a Malpensa e non a Fiumicino. Ciò avviene perché il numero dei passeggeri del nord d'Italia nel 2005 si è attestato a circa 52,6 milioni, con una distribuzione nel Paese che vede concentrarsi il 46 per cento del totale nel nord Italia, il 33 per cento nel centro e il 21 per cento nel sud; perché gli studi relativi alle previsioni di crescita del trasporto aereo sostengono che il traffico dei passeggeri del nord Italia passerà, nel giro di sedici anni, dai 49 milioni del 2004 a ben 101 milioni nel 2021; perché la propensione al traffico internazionale del nord Italia e, particolarmente, dell'area milanese è pari a più di un quarto del totale nazionale.
Oggi Malpensa è il quinto hub d'Europa, con trentotto destinazioni servite. Negli ultimi tempi sono stati conseguiti importanti traguardi, in termini sia di traffico, sia di aumento delle destinazioni, sia di acquisizione di nuove compagnie aeree, tanto per il sistema aeroportuale lombardo nel suo complesso, quanto per il singolo scalo di Malpensa. Ciò ha portato ad una crescita del traffico tra il 2002 e il 2006 del 23,8 per cento, di cui ben l'11 per cento nel solo 2006: più del doppio rispetto alla media europea.
Ricordo anche la crescita del 39 per cento, tra il 2002 e il 2005, del traffico di merci dell'aeroporto di Malpensa, con nuovi voli cargo diretti su importanti scali come Taipei, Abu Dhabi e Kuala Lumpur: ciò si aggiunge ad una rete di collegamenti diretti ali cargo, comprendente, tra gli altri, anche Hong Kong, Seul, Tokyo, New York, Dubai, Shanghai, con la presenza dei maggiori operatori internazionali.
A Malpensa operano le principali compagnie aeree di tutto il mondo: negli ultimi anni le compagnie estere stanno incrementando le destinazioni e la frequenza verso l'aeroporto milanese, che attrae anche i passeggeri che attualmente scelgano altri hub europei, situati sulle rotte che passano per il nord Atlantico, la Siberia e le rotte polari.
Una dimostrazione dell'attività di Malpensa è, per esempio, l'annuncio che in questi giorni ha fatto un'importante compagnia come Ryanair, che, appena ha «fiutato» la possibilità di un disimpegno di Alitalia dall'aeroporto di Malpensa, ha offerto di investire ben 840 milioni di euroPag. 48nell'aeroporto milanese, basando dodici nuovi aeroplani nell'aeroporto e aprendo cinquanta nuove rotte internazionali.
Lo scalo di Malpensa, attualmente, riveste una grande rilevanza: vi sono operative 175 destinazioni di linea, settantacinque delle quali intercontinentali con 360 voli settimanali, vi sono oltre cento destinazioni charter, tredici vettori cargo, settantacinque vettori di linea passeggeri, sessanta vettori charter, con un aumento, dal 2005 al 2006, ben dell'8,4 per cento dei movimenti totali.
Non possiamo e non dobbiamo dimenticare o ignorare che il trend di sviluppo del sistema aeroportuale Linate-Malpensa, dal 1995, ha sempre registrato un andamento crescente, con una percentuale pari al 97 per cento del totale che, pur con discontinuità interne, ha comunque visto una crescita continua di Malpensa dal 1996 al 2000, pari al 500 per cento.
Dobbiamo ricordare che l'area geografica di riferimento dell'aeroporto di Malpensa produce il 31 per cento del prodotto interno lordo nazionale; nell'area geografica di riferimento dell'aeroporto di Malpensa è attivo il 24 per cento delle imprese italiane; l'area geografica di riferimento dell'aeroporto di Malpensa genera il 47 per cento dell'import e il 41 per cento dell'export della nostra intera nazione; la sola regione Lombardia, fondamentale bacino di produzione e di consumo, concentra sul proprio territorio il 36 per cento dell'import e il 28,5 per cento dell'export italiano, il 51 per cento degli investimenti esteri in Italia, una capacità di investimento italiano all'estero pari al 40 per cento, una presenza del 36 per cento di imprese italiane con partecipazione in imprese estere pari a circa 900 imprese con 206 mila addetti, oltre a una presenza del 35 per cento di imprese italiane a partecipazione estera pari a oltre 800 imprese con 250 mila addetti.
L'aeroporto di Malpensa, nel 2007, ha anche guadagnato il premio air cargo of excellence per la qualità dei suoi servizi: puntualità, costumer service e affidabilità contrattuale.
Dobbiamo anche considerare che l'azienda che gestisce l'aeroporto milanese, la SEA, accompagna ormai da anni lo sviluppo dell'hub, con fortissimi investimenti che, nel quinquennio 2007-2012, prevedono addirittura oltre un miliardo di euro per l'ampliamento del terminal 1 dell'aeroporto e lo sviluppo delle infrastrutture.
Questi investimenti della società aeroportuale milanese consentiranno un'ulteriore stabilizzazione dei movimenti a terra e un incremento della qualità dei servizi, sia nei tempi sia nella sicurezza. Tutto ciò porterà a una riduzione dei tempi «taxi» degli aeromobili e ciò permetterà alle compagnie aeree di ridurre i costi dei carburanti, ottimizzandone il lavoro.
Bisogna anche dire che questi investimenti, per oltre il 75 per cento, andrebbero proprio a favore di Alitalia.
Ricordiamo anche che il 22 aprile 2002 regione Lombardia, provincia di Milano, comune di Milano, Alitalia e SEA avevano siglato un accordo, che era anche condiviso dal Ministero dei trasporti, che articolava gli obblighi dei soggetti coinvolti in tre successive fasi e nel quale si erano condivisi: l'incremento delle destinazioni internazionali e del numero degli aerei di lungo raggio, lo sviluppo dell'offerta sui settori domestico e internazionale, con conseguente incremento delle frequenze complessive, nonché - importantissimo - il riequilibrio delle basi operative del personale navigante operante su Malpensa e Fiumicino, fino ad arrivare al 35 per cento a Milano nel 2006.
Oggi tale accordo, improvvisamente, diventa carta straccia.
La scelta del rilancio della compagnia di bandiera, di ridurre drasticamente lo scalo milanese, sembra dettata oggi più da ragioni politiche che industriali, dal momento che non tiene conto, in alcun modo, del mercato economico del nord del Paese, di cui prima ho citato i numeri: circa il 70 per cento dei biglietti business è venduto nel nord-ovest e, nel primo trimestre 2007, il traffico passeggeri di Malpensa è aumentato ben del 9,5 per cento (e tutti sappiamo che è il traffico business chePag. 49permette a una compagnia aerea la profittabilità e la chiusura del bilancio in positivo).
Questa mia lunga premessa alla mozione appare un'elencazione fredda di dati impersonali ma in realtà ha la forza irresistibile dei numeri, è la dimostrazione inconfutabile che per Alitalia serve un piano economico-industriale che non penalizzi Malpensa, non penalizzi l'Italia e non comprometta definitivamente il futuro industriale della compagnia di bandiera. È per tali motivi che Alleanza Nazionale chiederà domani alla Camera dei deputati di approvare questa mozione per impegnare il Governo, se veramente crede nella sopravvivenza di Alitalia, a respingere nella sua funzione di azionista di riferimento gli orientamenti previsti dal piano industriale approvato dal consiglio di amministrazione. Tali orientamenti rischiano, infatti, di affossare definitivamente le possibilità di rilancio della compagnia di bandiera, di penalizzare l'economia dell'intero Paese, non solo della Lombardia o della provincia di Varese, di produrre un danno economico irreversibile per tutta la nostra nazione.
Alla luce di tali considerazioni, se il Ministro Bianchi ha affermato che non è interessato al derby Milano-Roma, ciò significa che non ha capito nulla della politica dei trasporti e rivela la sua inadeguatezza a dirigere il Dicastero rispecchiando, altresì, l'inadeguatezza anche del Presidente del Consiglio Prodi e del suo Governo a guidare il nostro Paese verso la modernizzazione, a farlo stare al passo con il progresso del resto d'Europa, con il grave rischio di isolamento che incombe a causa del blocco di tutte le opere infrastrutturali che il nostro precedente Governo aveva messo in campo per sostenere il Paese e le imprese nella competizione con il resto del mondo.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Barbi, che illustrerà anche la sua mozione n. 1-00219. Ne ha facoltà.
MARIO BARBI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, la mozione che mi accingo ad illustrare non condivide l'impostazione delle mozioni poc'anzi presentate le quali, con dovizia di dati, tendono a dimostrare tesi a nostro avviso non esatte quali l'esistenza, ad esempio, di un pregiudizio di questo Governo verso un particolare scalo aeroportuale (Malpensa) e di un disinteresse, sempre del Governo, verso il nord del Paese. Riteniamo, invece, che i fatti, le decisioni assunte proprio sul terreno degli investimenti infrastrutturali, la prospettazione di una soluzione per le questioni basilari del collegamento di Malpensa da parte di questo Governo provino il contrario; soprattutto, pensiamo che la questione che dobbiamo affrontare sia più vasta. Essa, infatti, riguardando l'intero Paese, certamente concerne anche la Lombardia, cuore produttivo della nostra nazione, ma rappresenta un tema generale, relativo alla situazione del trasporto aereo e, in tale contesto, alla compagnia di bandiera, Alitalia. Peraltro, abbiamo già affrontato tali temi tra fine novembre e inizio dicembre dello scorso anno; il fatto che ne riparliamo oggi rappresenta il segno che la questione che trattammo allora e che trattiamo ora non è soltanto di grande rilievo strategico per il Paese ma continua ad essere irrisolta e a rappresentare, sotto certi aspetti, un vero e proprio rompicapo per il quale non esistono soluzioni semplici; non vi è il bianco, non vi è il nero, non vi è la verità da una parte né l'errore dall'altra.
Riteniamo che tre siano le questioni che si intrecciano e che nella nostra mozione affrontiamo: la condizione della nostra compagnia di bandiera (Alitalia), il destino dei due principali aeroporti italiani (Malpensa e Fiumicino) e il sistema complessivo del trasporto aereo nel nostro Paese e la sua connessione con le altre modalità di trasporto. A me sembra che siano questioni serie, troppo serie perché noi ci possiamo accontentare di svolgere qui, ancora una volta, un dibattito segnato addirittura da elementi ideologici o da posizioni particolaristiche, come se il problema - è stato ricordato ora - fosse di tipo agonistico, quasi un derby sportivo!Pag. 50
A me pare che i fatti siano sufficientemente evidenti e i dati abbastanza incontrovertibili perché in questa sede, questa sera, non ci accontentiamo di ripetere cose già dette, ma tentiamo di fare almeno una operazione di verità e di discontinuità.
Partiamo da due novità.
Le novità sono costituite dall'insuccesso - ad oggi - della procedura di privatizzazione di Alitalia, che pure fu una decisione coraggiosa e di grande rilievo del Governo, e dal piano industriale, presentato dal nuovo amministratore delegato della compagnia, descritto, senza troppi giri di parole, come un piano di sopravvivenza.
Noi non ne conosciamo i dettagli, ma sappiamo che si tratta di un piano che non fa concessioni, un piano duro, che noi dell'Ulivo ed i gruppi che con l'Ulivo hanno firmato questa mozione (Rosa nel pugno, Popolari-UDEUR, Sinistra democratica e le componenti autonomiste del gruppo Misto) non riteniamo sia affatto il caso di respingere a priori, come suggeriscono le mozioni presentate da alcuni gruppi dell'opposizione.
Ci pare che molte delle osservazioni fatte in questi giorni, sui giornali, nelle interviste di questo o quel rappresentante delle istituzioni (anche di quelle regionali), non tengano conto della reale situazione di Alitalia, dell'assetto del sistema aeroportuale italiano, nonché della peculiarità degli scali coinvolti.
Alitalia - sembrerebbe persino superfluo ricordarlo, però forse è il caso di farlo - ha perso 625 milioni di euro nel 2006, in altri termini 1,7 milioni di euro al giorno: si tratta di una cifra ragguardevole e sta continuando così. Alitalia ha disfunzioni organizzative e gestionali tali per cui su alcune rotte più vola, più perde, anche a pieno carico.
Le cose non possono continuare in questo modo. Il piano cui alludiamo - non di cui parliamo nel dettaglio, perché non ne conosciamo i particolari - è un piano, che dopo un quindicennio di non scelte, ovvero di scelte apparenti, ovvero di scelte disattese (potremmo discutere a lungo anche di quali fossero le scelte giuste e quelle sbagliate, che peraltro non ci porterebbe molto lontano) ha il coraggio di dire che Alitalia, nelle condizioni date, nella situazione attuale del mercato italiano e internazionale, non è in grado di reggere e di alimentare, come vettore di riferimento, i due principali aeroporti italiani.
Se non assumiamo questo elemento di verità, non faremo molti progressi nella nostra discussione, non forniremo elementi utili all'orientamento dell'opinione pubblica, né alla soluzione dei problemi di fondo.
Una compagnia come l'Alitalia, che ha una grande storia e una grande tradizione, si è avvitata su se stessa, ha perduto occasioni, stretto alleanze internazionali andate male, coltivato modelli organizzativi invecchiati e usato capitali e aumenti di capitali per ripianare perdite, anziché per fare investimenti e rinnovare la flotta comunità. È dilaniata da conflitti interni e microcategoriali, cosicché la cultura di impresa di quella compagnia è rimasta indietro come se il tempo si fosse fermato alle carrozze a cavalli.
A noi pare sia giunto il tempo di chiudere quella storia e di voltare pagina. Lo faccia il nuovo management, dando prova della volontà di cambiare gli orizzonti dell'organizzazione aziendale e nella gestione dei rapporti industriali.
Non è un realistico che Alitalia possa essere un grande vettore in grado di competere, da sola, sul mercato mondiale, ma non è nemmeno accettabile e non è soddisfacente l'idea che Alitalia si riduca ad una subcompagnia regionale.
Non se lo può permettere il nostro Paese, che è un grande Paese industriale e i dati ricordati dai colleghi dell'opposizione, della Lega Nord e di Alleanza Nazionale, giustamente ricordano questa realtà, ossia quella di un Paese industriale con un sistema di imprese che esporta in tutto il mondo, con una domanda di mobilità crescente e che è un polo straordinario di attrazione turistica. È evidente che un Paese come il nostro non può accettare di rimanere orfano e di non essere soggetto di una politica del trasporto del settore aereo.Pag. 51
Mentre penso che dobbiamo rispettare l'autonomia gestionale del management di Alitalia, incoraggiandone, per quanto nelle nostre possibilità, il realismo e la capacità di scegliere, credo che dobbiamo anche sollecitare l'azionista di maggioranza, l'azionista di controllo, il Governo, a non indugiare oltre.
Per tale motivo, noi lo sollecitiamo a completare le procedure di vendita di Alitalia. Ci si chiede chi sarà il compratore. Io non vorrei partecipare alle congetture, ma è bene che Alitalia sia inserita in un contesto di alleanze interne ed internazionali, che risponda alle necessità del Paese. Se ci saranno operatori e capitali prevalentemente italiani, bene, ma, comunque, non c'è più tempo da perdere e non si possono più seguire illusioni.
Il fattore tempo riveste un'importanza centrale: se la Camera bocciasse, prima ancora di conoscerlo, il piano di emergenza di Alitalia, l'effetto sarebbe il discredito della nuova dirigenza e un colpo ulteriore alla credibilità dell'impresa, con ripercussioni sul mercato azionario fino al fallimento della compagnia, peraltro non perseguito, non voluto, come pure avvenne, invece, in altri Paesi, come la Svizzera e il Belgio. Di una situazione del genere approfitterebbero altri soggetti, non italiani, giovandosi della possibilità di mettere le mani, a costo quasi zero, sul ricco mercato aereo italiano.
Veniamo, così, al secondo punto del ragionamento che svolgiamo nella nostra mozione. Alitalia, a quanto pare, intende concentrare a Fiumicino il traffico intercontinentale e - si dice - tagliare (uso questo termine, perché i dati direttamente ed ufficialmente non li conosciamo) 150 voli da e per Malpensa. Gli slot, ossia i permessi di decollo e di atterraggio che Alitalia controlla a Malpensa, hanno un grandissimo valore economico e commerciale. Malpensa, che è stato pensato e voluto come un grande aeroporto intercontinentale del Nord, non può - ce ne rendiamo conto - non risentire e non può non ripensarsi alla luce di questa novità, che è drammatica. È vero che Alitalia pensa di sviluppare a Malpensa voli cargo, servizi low cost e voli punto-punto, ma saremmo miopi se non ammettessimo che la vocazione di Malpensa e le sue ambizioni erano, sono e restano diverse. Il secondo grande aeroporto italiano, che ha mostrato importanti tassi di crescita, non intende rinunciare alla sfida di un ulteriore sviluppo.
Ritengo che su ciò dobbiamo essere chiari e dobbiamo avere il coraggio di affermare che se Alitalia, per ragioni aziendali, deve avere la possibilità di scegliere la propria strada - che, magari, è una strada che va in un'altra direzione - dobbiamo riconoscere a Malpensa la stessa possibilità di perseguire diverse strategie. Si è tanto parlato di hub: uno o due, Fiumicino o Malpensa. È stato ricordato nel dibattito di novembre e di dicembre - al quale mi richiamo in questa sede - che hub è un termine improprio. È stato detto che hub è quello di Dubai, con settanta milioni di passeggeri l'anno, senza un mercato di riferimento nel territorio circostante, una piattaforma che raccoglie i passeggeri provenienti da tutte le parti del mondo. Hub è quello di Singapore o quello di Francoforte, ma non lo sono, in senso proprio, i nostri due principali aeroporti con un traffico passeggeri sopra i venti e sotto i trenta milioni di persone trasportate.
Eppure, c'è un senso nella parola hub che, credo, sia necessario tenere fermo anche in questo dibattito: è quello che associamo a quel termine, ossia l'offerta di voli intercontinentali. Alitalia sembra aver deciso per Fiumicino. Ciò non significa che Malpensa e che il territorio di Milano e del settentrione industriale d'Italia debbano rinunciare ad uno scalo che offra, anch'esso, voli intercontinentali. Lo fa Monaco di Baviera: basta andare a controllare sul sito Internet e a vedere i voli e le destinazioni che vengono offerte. Perché non dovrebbe farlo Malpensa? La Lombardia non è certamente meno ricca o meno importante della Baviera.
Quella che si è rivelata un'illusione è che Alitalia potesse farlo sia per Fiumicino che per Malpensa. Quello che il Paese non deve più fare è non decidere. Anche conPag. 52riferimento a Malpensa, tuttavia, dovremmo ammettere gli errori che sono stati fatti: le due piste che si incrociano, la non volontà di decidere su Linate, vi sono ancora strozzature infrastrutturali importanti. Eppure, Malpensa è pensata come parte integrante, nel Corridoio n. 5, di un sistema intermodale che comprende alta velocità ferroviaria e autostrade.
Ritengo, davvero, che non sarebbe intelligente operare per impedire a Malpensa di cercare la sua prospettiva nel mercato. Dobbiamo, anzi, chiedere al Governo di favorire questo sviluppo.
Vi facevo riferimento poc'anzi: i dati del traffico passeggeri e merci dell'intero sistema aeroportuale italiano sono inferiori a quelli dei principali hub continentali, per cui parlare di doppio hub appare un po' fuorviante. Tuttavia, realizzando gli investimenti infrastrutturali cui facevo riferimento, Malpensa potrà affermarsi come uno snodo internazionale ancora più importante di quanto non sia ora. Come dicevo all'inizio, ricordo che questo Governo, in carica da poco più di un anno, ha individuato le risorse per importanti opere del Nord, come la «pedemontana», senza le quali ogni discorso su Malpensa sarebbe puro esercizio retorico; lo stesso vale per i collegamenti ferroviari.
Arrivo, quindi, all'ultimo punto: il rapporto con il sistema aeroportuale italiano. Si tratta di una questione che richiede la massima attenzione da parte del Governo, perché questo sistema, tanto vivace quanto poco organizzato e specializzato, si è sviluppato a partire dalla fine del monopolio e dall'inizio della liberalizzazione del mercato, secondo quanto stabilito dalle direttive europee, ma presenta molti punti di criticità.
Qualcuno dice che Malpensa soffrirebbe della concorrenza dei tanti aeroporti dell'Italia settentrionale, da Orio al Serio, a Venezia, a Torino ed altri. La verità è che cresce la domanda e, conseguentemente, l'offerta dei collegamenti aerei e i passeggeri sono ben contenti di poter trovare non lontano da casa propria un aeroporto che offre il volo di una compagnia low cost, che li porta nella capitale o nella città europea che desiderano raggiungere.
Proprio per tale motivo - è, infatti, ai consumatori che dobbiamo pensare nell'immaginare un processo di riordino e riequilibrio del sistema aeroportuale - dovremmo evitare di pensare ad azioni autoritative che scavalchino le realtà locali. Sollecitiamo, quindi, il Governo a presentare quel piano degli aeroporti di cui ha parlato, anche in questi giorni, il Ministro dei trasporti e immaginiamo che tale piano si concentri nel definire requisiti omogenei e condizioni paritarie per tutti gli operatori interessati, in modo da evitare che vi siano condizioni di vantaggio per taluni e di svantaggio per altri, in un processo di progressiva specializzazione del sistema (Applausi dei deputati del gruppo L'Ulivo).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Picano. Ne ha facoltà.
ANGELO PICANO. Signor Presidente, signor rappresentante del Governo, onorevoli colleghi, come è a tutti noto, la difficile situazione finanziaria che sta attraversando la compagnia di bandiera non è certo dell'ultima ora, ma è il risultato di anni di scelte gestionali errate.
Siamo, dunque, chiamati a confrontarci su un tema sul quale, ormai da mesi, è in atto una riflessione che ha coinvolto, a diversi livelli, partiti, sindacati e associazioni e che oggi si concentra sull'approvazione delle linee guida per il 2008-2010, predisposte dal consiglio di amministrazione dell'azienda lo scorso 30 agosto.
D'altronde, se il piano approvato dal consiglio di amministrazione di Alitalia è stato definito quale misura di sopravvivenza e transizione, un motivo ci sarà. È infatti questo l'indubbio segnale che, fino ad ora, si sono perseguite strategie aziendali a dir poco fallimentari. Ricordiamo, infatti, che i dati del primo semestre 2007 hanno fatto registrare perdite per un totale di 211 milioni di euro e che, per il secondo semestre, si prevede un peggioramento dei risultati.Pag. 53
Bisogna fare, quindi, un passo indietro e studiare il problema attraverso un punto di vista scevro da pregiudiziali «ideologico-territoriali». Alitalia è la compagnia di bandiera del nostro Paese e non di questa o quella regione, o, ancor peggio, di questa o quella città. Voler risolvere la crisi che sta travolgendo Alitalia facendone uno scontro tra Nord e Centro, o meglio, tra Malpensa e Fiumicino o, ancora meglio, tra Roma e Milano, mi sembra francamente non solo strumentale, ma anche piuttosto semplicistico. Alitalia, infatti, prima ancora di essere la compagnia di bandiera del nostro Paese, è innanzitutto un'azienda di grandi dimensioni e, come tutte le aziende, deve lavorare non per favorire questa o quella città, questa o quella regione, questa o quella parte politica, ma essenzialmente se stessa. Essa deve essere guidata da criteri tecnici ed economici, in funzione di un maggior ricavo possibile, e non da criteri che nulla hanno a che fare con le ragioni dell'economia.
La riorganizzazione di Alitalia, dunque, deve passare attraverso la ricerca di partner che puntino ad un serio risanamento dei conti e degli sprechi e su alleanze coerenti che sviluppino le iniziative industriali.
Oggi possiamo dire che, in forte discontinuità con il passato, sono state riprese le fila del confronto, si inizia ad intravedere qualche punto di intesa e soluzioni migliori rispetto a quelle intraprese nella scorsa legislatura. Finalmente, infatti, si è compreso che per trovare partner che intervengano in Alitalia investendo denaro per un piano di sviluppo, è necessario presentare un piano di risanamento dell'azienda per fare in modo che tale vettore sia appetibile per l'acquirente e sempre che l'attuale management di Alitalia intenda muoversi in tale direzione.
Proprio nei giorni scorsi si è svolta una riunione tra i rappresentanti dell'Alitalia e dei principali sindacati di categoria nella quale le parti hanno concordato il trasferimento di 14-17 voli intercontinentali da Malpensa a Fiumicino. La decisione è stata presa anche in considerazione del fatto che l'hub di Malpensa non è di destinazione, ma di transito. Nel corso dei colloqui, infatti, è stato chiarito che le ore di volo complessive non diminuiranno, perché ci sarebbe un aumento dell'impiego dei velivoli e tale aspetto è stato apprezzato molto dai piloti, i quali hanno espresso soddisfazione per la decisione assunta dal nuovo presidente Prato.
È stato prospettato, inoltre, un piano di salvataggio e risanamento di medio termine che deve consentire l'apertura di un confronto con gli eventuali compratori. Chi sostiene questo progetto di sopravvivenza varato da Alitalia sia un suicidio finanziario perché ridurre la presenza di Alitalia nell'aeroporto di Malpensa comporterebbe la perdita di enormi profitti, a mio avviso, afferma una cosa inesatta. Oppure, pensiamo sul serio che i vertici di Alitalia intendano affossare definitivamente la propria compagnia?
Inoltre, se Malpensa fosse realmente in grado di attrarre traffico, non si dovrebbe aver paura se una compagnia come Alitalia, definita fatiscente, abbandona Malpensa. Vi saranno altre compagnie che ne prenderanno il posto, come ha dimostrato la Ryanair con la propria offerta. Ciò, senza considerare che se non si riesce a risolvere il problema della presenza dell'aeroporto di Linate, dove scalano gli stessi vettori internazionali presenti a Malpensa, è pacifico che questo stesso aeroporto non avrà un grande sviluppo.
Questo è il punto che viene evidenziato e al quale si vuole trovare una soluzione adeguata attraverso il piano predisposto dall'Alitalia. Sebbene, dunque, non sia nelle nostre intenzioni abbandonare lo scalo di Malpensa, è anche vero che, per far sì che Alitalia torni ad essere una grande compagnia, è fondamentale, se non vitale, che cambino del tutto le strategie aziendali fin qui perseguite.
Solo lavorando in tale direzione Alitalia potrà trovare, nel più breve tempo possibile - questo è il nostro auspicio - una più adeguata soluzione al problema relativo all'uso ottimale delle principali strutture aeroportuali nazionali.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Mario Ricci. Ne ha facoltà.
MARIO RICCI. Signor Presidente, come ha ricordato anche il collega Barbi, a distanza di sette mesi torniamo ad affrontare la vicenda Alitalia. Questa volta lo facciamo nell'ambito di un tentativo di contrapposizione territoriale che credo non ci aiuti a sviluppare un'attenta riflessione sulle prospettive della compagnia di bandiera e, soprattutto, sulle inadeguatezze e, pertanto, sulla necessità di uno sviluppo del sistema aeroportuale italiano, perché questo è il cuore della questione.
È vero che Alitalia ha rappresentato lo strumento della politica del trasporto aereo nel nostro Paese per molti, tanti anni, per decenni, mantenendo una posizione di monopolio fino alla metà dei primi anni Novanta. Questa è la verità. Anzi, in virtù di quella posizione di monopolio, probabilmente tendevamo a sopravvalutare le capacità manageriali di Alitalia se è vero, come è vero e come ha ricordato l'onorevole Barbi, che, alla luce dei mutamenti dello scenario internazionale anche nel settore del trasporto aereo e, soprattutto, sulla spinta di una liberalizzazione derivata dalle procedure e dalle politiche comunitarie, avremmo dovuto adeguare le nostre scelte e i nostri indirizzi sia dal punto di vista della programmazione del sistema aeroportuale, sia dal punto di vista dello sviluppo di politiche industriali per quanto riguardava la compagnia di bandiera.
Ciò non è stato fatto. È un punto della riflessione che ha accompagnato per molti versi la politica di Rifondazione Comunista rispetto ad Alitalia, e non è un caso. Vorrei ricordarlo non come ritorno nostalgico alle battaglie contro Malpensa 2000, che Rifondazione Comunista ha condotto contro corrente nel territorio della Lombardia e nel Paese, ma per dire che in qualche modo abbiamo perso ulteriore tempo contribuendo ad affondare, probabilmente in maniera definitiva, le sorti della compagnia di bandiera, e comunque a ripartire quasi dal livello zero nella ricostruzione di un sistema aeroportuale italiano, inadeguato ma soprattutto segnato, negli ultimi tempi, dalle politiche di proliferazione per eccesso degli scenari cambiati a livello internazionale nel settore aereo: una proliferazione degli scali al fine di attrarre nuove compagnie, soprattutto le compagnie low cost, credendo in tal modo di essere in grado di dare una risposta ad un aumento crescente di mobilità dei cittadini nel nostro Paese, anche attraverso il segmento del trasporto aereo.
Siamo quindi di fronte a una crisi fallimentare della compagnia e a una crisi del sistema aeroportuale italiano che è la risultanza della vicenda di questi giorni, dinanzi ad un piano industriale - annunciato, ma di cui non si conoscono nel dettaglio le linee - che a nostro avviso (approfondiremo la questione, se ne avremo l'occasione e la possibilità) è l'accompagnamento della compagnia di bandiera sotto le ali di Air France, come immaginavamo dall'inizio della trattativa per la cessione del pacchetto di controllo pubblico che era proprio della compagnia di bandiera Alitalia.
Colgo l'occasione della presenza del sottosegretario Tononi per chiedere chi, come e quando ha mutato l'indirizzo e gli orientamenti per una presenza pubblica, comunque, nella compagnia di bandiera nel processo di cessione del pacchetto di controllo; chi, quando e come ha contraddetto l'indirizzo votato da questa Assemblea il 6 dicembre 2006; vogliamo, anche da questo punto di vista, denunciare la mancanza di collegialità all'interno della coalizione della maggioranza di Governo, se è vero, come è vero, che noi non solo non siano stati coinvolti a tutti i livelli nel ridefinire questa scelta, ma addirittura ne siamo completamente all'oscuro.
Veniamo ai due problemi che sono connessi: la crisi di Alitalia ed il ridimensionamento dell'aeroporto di Malpensa e la cancellazione del suo ruolo di hub. Il collega Barbi ha svolto un ragionamento di carattere tecnico, teso in qualche modo a nascondere ancora una linea di ambiguità su tale questione. Vede, onorevole Barbi, è vero che di fronte alle grandi capacità di attrazione di hub internazionali e intercontinentali,Pag. 55da Dubai a Francoforte, la statistica di traffico aereo che abbiamo sia su Fiumicino che su Malpensa non consente di definire queste due realtà come hub. Però un dato è indiscutibile, vale a dire che per hub si intende quello scalo dal quale partono e arrivano voli intercontinentali. Aggiungo che la scelta di Malpensa non solo è stata fallimentare (e dopo sette anni ne paghiamo il prezzo) ma è anche stata aggravata da scelte di carattere locale in merito alla pianificazione territoriale e alla complicità e all'ambiguità sulle scelte di carattere nazionale.
Ad esempio, sarà un'indicazione del piano industriale per uscire dal buco nero la necessità del rinnovo della flotta.
Il rinnovo della flotta in un hub - teniamo conto che Alitalia ha a disposizione oggi 179 velivoli, di cui meno della metà sono in grado di volare - comporta l'investimento di circa tre miliardi di euro. È una scelta di sistema, una scelta di mercato, e mi duole il fatto che ad accanirsi contro di essa siano proprio i fautori della scelta su Malpensa 2000, soprattutto coloro che hanno accarezzato i nuovi scenari internazionali come elemento vitale per il rilancio e l'adeguamento del trasporto aereo italiano, lasciando al mercato la regolamentazione e l'attrazione per lo sviluppo di questo settore di trasporto.
Se l'Alitalia continuasse a perseguire la scelta dei due hub, dovrebbe fare un piano di investimenti che, dal punto di vista del rinnovamento della flotta, avrebbe la necessità di mettere nelle voci di bilancio 6 miliardi di euro, cioè 12 mila miliardi delle vecchie lire. Si tratta di una scelta che oggi non è in grado di fare, non solo dal punto di vista finanziario, ma probabilmente anche dal punto di vista degli assetti organizzativi. Se una volta, tempo fa, il buon senso ci aveva fatto assumere una posizione contraria alla definizione di Malpensa 2000, oggi si tratta di una scelta di sistema che si impone, di una scelta obbligata, con tutte le contraddizioni che si sono determinate nel corso di questi anni.
Da una parte si è fatta la scelta di Malpensa 2000, dall'altra, però, su pressioni anche territoriali degli enti locali e della stessa regione Lombardia, non si è portata avanti una politica di ridimensionamento dell'aeroporto di Linate, come conseguenza della scelta di Malpensa 2000. Anzi, da una parte la regione Lombardia urla contro il Governo romano mentre pensa a trattare con quest'ultimo su risorse in grado di sviluppare e migliorare l'accesso, e quindi per lo sviluppo dell'aeroporto di Linate; dall'altra, punta a far credere ai cittadini che si possa salvare e rilanciare Malpensa con la dimensione di hub attraverso accordi fantomatici con Ryanair, che non potrebbe garantire, per le ragioni che conosciamo bene sul terreno della regolamentazione internazionale, i voli intercontinentali.
Questo significa cavalcare la protesta e non far vedere ai cittadini altre necessità, altre scelte di indirizzo, che vanno fatte nel contesto del sistema aeroportuale italiano, con un piano integrato per quanto riguarda gli aeroporti del Nord Italia, in particolare della regione Lombardia. Mi si dice che lo sviluppo delle compagnie low cost ha consentito di dare un servizio qualitativo ai cittadini e alle cittadine del nostro Paese, di rispondere a quei segmenti di trasporto verso i quali Alitalia non è mai stata in grado di offrire alcunché. Questo è vero, ma - anche qui - ci sono le responsabilità dei gruppi manageriali di questa compagnia di bandiera, che, a differenza di altre grandi compagnie europee, come Lufthansa o Air France, non ha voluto e non ha saputo strutturarsi nel senso del rilancio del segmento low cost, dei voli nazionali e dei voli punto-punto. È arrivata molto tardi con Volare.
Sottolineo ciò, per dire che non bisogna perdere di vista quelli che sono stati, da una parte, gli errori dei diversi gruppi manageriali di Alitalia, e, dall'altra, anche le responsabilità, i ritardi e i silenzi colposi dei Governi che, nell'arco di quindici anni, non hanno dato nessun orientamento e indirizzo per quanto riguarda la riorganizzazione del sistema aeroportuale italiano. Hanno lasciato il mercato a regolamentare questo importante segmento del trasporto nel nostro Paese, credendoPag. 56che il mercato risolvesse di per sé i bisogni di mobilità dei cittadini e dei territori.
Cosa è successo? È successo che senza una capacità di programmazione, ovviamente di concerto con gli enti locali e le regioni interessate, di un sistema aeroportuale che sapesse relazionarsi con la specializzazione di aeroporti, si è sviluppata una concorrenza sregolata, come ad esempio è avvenuto per alcuni aspetti nello stesso sistema aeroportuale lombardo: pensiamo alla situazione di Malpensa. Non dico che Alitalia dovesse godere di un privilegio e quindi di un riconoscimento in primis nello sviluppo del mercato del trasporto aereo, ma quanto meno essere messa nelle stesse condizioni di altre compagnie, che in alcuni scali hanno avuto praticati costi, servizi e tariffe molto più bassi rispetto alla compagnia di bandiera, quindi con una concorrenza sleale; mentre riterremmo giusto che il sistema aeroportuale del nostro Paese supportasse in qualche modo, pur stando dentro le regole della concorrenza, la compagnia di bandiera. Ciò non è avvenuto, e lo dimostra il fatto che la seconda compagnia dopo Alitalia in quel di Malpensa, Easy Jet, ha avuto questi benefici attraverso rapporti diretti e accordi conclusi con la società di gestione dell'aeroporto. Quindi vi è la necessità di ridisegnare il sistema aeroportuale italiano e soprattutto, per quanto riguarda la Lombardia e il nord, di un piano integrato che sappia rispondere ad alcune esigenze.
C'è un piano integrato che abbiamo smarrito proprio nel momento in cui fu dato il via a Malpensa 2000, ed è evidente che la situazione data non può rilanciare oggi la proposta di un piano integrato del nord Italia, in cui definire diversi scenari e stabilire di conseguenza i ruoli e le capacità delle singole infrastrutture presenti sul territorio. Appunto per ciò che concerne gli aeroporti settentrionali, possono essere ad essi riconosciute vocazioni non esaustive ma prevalenti, nel quadro di una specializzazione e di un armonico sviluppo: Linate deve essere un city airport, con collegamenti nazionali e continentali punto-punto; Orio al Serio pùo ospitare collegamenti charter; Malpensa voli continentali ed intercontinentali. Infatti, non è vero che la scelta di un unico hub per quanto riguarda la compagnia di bandiera Alitalia esaurisce completamente il servizio di voli intercontinentali praticato e organizzato da essa a Malpensa: ci saranno delle scelte, ci saranno dei tagli a determinate rotte, ma non finisce la presenza anche di tale segmento della compagnia di bandiera. Torino, invece, con Caselle, può rivestire un ruolo strategico per tutto il nord Italia per quanto riguarda il trasporto delle merci.
Ma, sottosegretario Tononi, non si può continuare a sollecitare il Governo ad assumere con celerità politiche di programmazione per un moderno sistema aeroportuale; ad ogni circostanza noi ribadiamo ciò. Comunque, non si può separare il piano industriale, il piano di salvataggio della compagnia di bandiera da questa capacità e titolarità, che va recuperata, di programmazione del Governo; infatti, non si possono scaricare le responsabilità per la situazione esistente, anche se portano la loro grande e grave responsabilità, sui gruppi dirigenti dell'azienda Alitalia che si sono succeduti nel corso di questi ultimi venti anni, senza guardare anche a quelli politici e istituzionali, che hanno appunto, come dicevo prima, abbandonato esclusivamente al mercato la capacità di programmare il servizio del trasporto aereo nel nostro Paese.
La definizione di un piano integrato nel sistema aeroportuale nel nord Italia, a nostro avviso, potrebbe intanto consentire la riduzione degli impatti sulle popolazioni e sull'ambiente; perché questo è un punto: si parla tanto di sviluppo delle potenzialità di Malpensa, teniamo conto che queste potenzialità di sviluppo devono fare i conti con le incompatibilità ambientali e territoriali. Si tratta di una delle rivendicazioni anche di quei cittadini che probabilmente in queste settimane e in questi giorni saranno in piazza per protestare contro il ridimensionamento di Malpensa a secondo hub nel nostro sistema aeroportuale italiano.Pag. 57
Ciò consentirebbe inoltre l'integrazione fra le infrastrutture aeroportuali ed il territorio, nonché una maggiore funzionalità del sistema dei trasporti nel loro complesso, attraverso l'integrazione fra gli aeroporti e le altre infrastrutture di trasporto (viabilità e ferrovie); non invece - come ancora afferma (lo dicevo prima) Formigoni - un'infrastrutturazione più avanzata attraverso la velocizzazione del raccordo fra l'aeroporto di Linate e la città (appunto per privilegiare ancora quanto dicevo prima, cioè una politica di sviluppo anche di Linate che va immediatamente a detrimento di Malpensa). Ancora, ciò consentirebbe la distribuzione, lo sviluppo e la promozione della nuova occupazione nel settore, e infine la difesa del diritto degli utenti unitamente al diritto al lavoro.
In ultimo, desidero parlare di Alitalia e del suo piano industriale.
PRESIDENTE. La invito a concludere.
MARIO RICCI. Concludo, signor Presidente. Sono convinto che il piano industriale di Alitalia continui a perseguire vecchi indirizzi ed obiettivi, che non sono adeguati a trarre questa compagnia dal buco nero in cui essa si trova. A suo tempo, avanzammo proposte precise per un piano industriale serio, non piegato alla logica esclusivamente finanziaria della compagnia e dotato della capacità, in primo luogo, di mantenere una gestione unitaria della società (senza spacchettamento) e, in secondo luogo, di svilupparne le professionalità attraverso il rilancio della costruzione di un polo manutentivo. Nel nostro Paese la ricerca e l'innovazione nel senso di una politica industriale dell'aeronautica sono infatti importanti: non vogliamo che l'azienda Italia sia sanata solo dal punto di vista della prestazione di un servizio sociale qual è quello del diritto alla mobilità; viceversa, un tale programma può avere un ruolo importante anche nello sviluppo delle politiche industriali del sistema economico del nostro paese. Ad oggi, non ci pare che queste indicazioni siano nette.
Concludo, poiché non voglio tornare indietro. Noi, se potessimo, bloccheremmo i processi di privatizzazione. Ciò non si può fare; quantomeno, però, una presenza pubblica come quella garantita dalla mozione approvata lo scorso 6 dicembre da questa Assemblea costituisce una garanzia anche per gestire il nuovo piano industriale senza grandi e gravi massacri sociali.
PRESIDENTE. Constato l'assenza dell'onorevole De Corato, iscritto a parlare: s'intende che vi abbia rinunciato.
È iscritto a parlare l'onorevole Attili. Ne ha facoltà.
ANTONIO ATTILI. Signor Presidente, noi del gruppo Sinistra Democratica Per il Socialismo europeo crediamo che, in questo dibattito, sia necessario sforzarsi di partire dai fatti e dalle cose, eliminando pregiudizi e discorsi tendenti a dimostrare teoremi: ciò non sempre è stato fatto, anche nelle molte dichiarazioni che sono state rese ai giornali (devo dire in modo abbastanza bipartisan, sia da destra che da sinistra) spesso con informazioni imprecise, a volte con riflessioni poco meditate.
Credo anche che sarebbe stato opportuno che questo dibattito si svolgesse dopo che il Parlamento fosse stato messo in grado di discutere ed approfondire complessivamente il piano del consiglio di amministrazione di Alitalia, che di fatto non conosciamo. Discutiamo perciò di un punto abbastanza ben definito, ma è chiaro che, decontestualizzando una proposta dal piano generale, si rischia di prendere degli abbagli. Purtuttavia, questa è la situazione in cui ci troviamo: vi sono spesso notizie che vengono fornite ai giornali e non al Parlamento e, per quanto ne so, nemmeno al Governo. Questa procedura non può essere accettata, poiché può inficiare lo stesso discorso che andiamo a sviluppare.
Ancor più pesante è chi ha provato e prova - qualche eco ne abbiamo sentita anche nel dibattito di oggi - a sviluppare il ragionamento di un nord sacrificato contro un sud che, invece, sarebbe privilegiato, per cui la difesa di Fiumicino sarebbe la difesa dei privilegi dei lavoratoriPag. 58di Alitalia, i quali, se essa rimanesse al nord, non avrebbero più tali privilegi. Mi pare un modo molto singolare di ragionare, al limite del corto circuito mentale.
Le cose non stanno così. I fatti sono gravi e pesanti; in parte, sono stati ricordati e vi torno rapidamente: Alitalia perderà, alla fine dell'anno, oltre 600 milioni di euro; i management, che vengono sostituiti uno dietro l'altro, non riescono a trovare la «quadra» di questa complessa situazione, di questo rompicapo, come lo ha definito l'onorevole Barbi; la gara, che abbiamo cercato di portare avanti mettendo paletti chiari che puntassero al rilancio della compagnia, è fallita.
Il nuovo management non poteva che fare un piano di transizione e di sopravvivenza - è una definizione dura, ma è così -, che ha peggiorato profondamente le condizioni rispetto al primo piano, che è fallito probabilmente per tanti motivi, ma anche perché è evidente l'asimmetria tra chi è obbligato a vendere perché perde 2 milioni di euro al giorno e chi può comprare aspettando che i tempi maturino.
È evidente che tutto ruota intorno alla crisi di Alitalia, ma non ne voglio parlare, perché le cause sono molteplici, ne abbiamo discusso tante volte e, probabilmente, ci torneremo. Quindi, cerchiamo di mantenerci al punto preciso di cui stiamo discutendo: un pezzo di questo piano, è la presa d'atto - credo, dolorosa - che il vettore, la compagnia di bandiera, come si continua a chiamare, non è in grado di alimentare due aeroporti, i quali - è stato detto e lo ribadisco - non sono degli hub: non sono degli hub per i numeri, né per le caratteristiche; questo è il punto.
Gli hub hanno una caratteristica tecnica: i passeggeri arrivano e da lì fanno il balzo verso le destinazioni. Non è l'aeroporto, ma è il vettore che fa l'hub. Se noi abbiamo un vettore in grado di assicurare trecento prosecuzioni, possiamo realizzare l'aeroporto anche al centro della Sardegna, altrimenti non funziona: Dubai si trova in mezzo al deserto e non ha intorno nessun mercato. Per questo motivo il discorso del ricco mercato del nord è una sciocchezza!
Così com'è vero che i costi del personale, il problema dell'assenza di economie di scala, il problema del rinnovamento della flotta, il costo e la perdita delle rotte feeder che oggi portano i passeggeri a Malpensa costituiscono per Alitalia un peso insostenibile.
Il punto, a mio parere, è però il seguente: ciò significa che per salvare Alitalia bisogna sacrificare Malpensa? Non lo credo assolutamente: non è questo che vogliamo, ma dobbiamo trovare una strada che tenga conto delle giuste esigenze della compagnia e delle giuste esigenze e delle necessità dell'aeroporto di Malpensa e dei cittadini della Lombardia, a patto, però, che non si dica che il nord non è presidiato. Ci sono nove aeroporti su quattrocento chilometri lineari: più presidiato di così, insomma, non può esserlo!
Il motivo potrebbe consistere, come ricordava l'onorevole Mario Ricci, nel fatto che tutto è nato attraverso una logica di mercato, senza che nessuno si sia preoccupato di fare una politica dei trasporti, ma sono cose vecchie: in Italia la politica del trasporto aereo l'ha fatta per trent'anni Alitalia - questa è la verità - ed oggi si pagano le conseguenze anche di questo lungo, eccessivo, costoso e dannoso monopolio.
Alitalia non soffre di eccessiva concorrenza - onorevole Mario Ricci, non sono d'accordo -, ma soffre perché non c'è stata la concorrenza e, quindi, ha sviluppato una sua filosofia che oggi mostra tutti i suoi limiti, anche per gli errori del management e per lo scarso coraggio a prendere decisioni quando erano necessarie (e non sarebbe nemmeno difficile ripercorrere la storia e ricostruire tale questione).
Bisogna però precisare che Alitalia nel suo piano, per quanto lo conosciamo, non decide di abbandonare Malpensa, circostanza che non avremmo accettato, che è inaccettabile, ma decide di specializzarla, sostenendo che i voli punto-punto, i voli low cost e anche lo sviluppo del cargoPag. 59possono essere una valida alternativa e significano, comunque, una presenza importante, sostanzialmente riducendo il suo impegno al taglio, nemmeno eccessivo (ho tutti i numeri e li potrei citare) dei cosiddetti voli di lungo raggio e intercontinentali. Tale è la situazione.
Questa vicenda danneggerà in maniera irreparabile Malpensa? Credo di no. Danneggerà il mercato del nord? Credo di no, anche per i motivi che ho sostenuto e perché vi è una risposta molto differenziata e articolata nel territorio. Insomma, non vi è il deserto intorno a Milano, né nel nord, e la cancellazione del numero di rotte, abbastanza limitate, previsto è un problema, ma non mi pare che da tale circostanza si debba concludere con una visione così catastrofica.
Non bisogna continuare a perseverare negli errori che nel passato sono stati commessi. È stato detto che le scelte politiche vanno compiute nell'interesse generale del Paese. Ricordo - non per polemizzare, ma è bene fare presente certe vicende - che una decina di anni fa in Commissione trasporti alla Camera, nel corso della XIII legislatura, gli amministratori lombardi vennero in massa a sostenere che Linate non poteva essere toccata, che doveva essere un city airport da 12-13 milioni di passeggeri e appoggiarono il ricorso della compagnie europee contro Alitalia, quando si decise di spostare i voli a Malpensa. Alleanza Nazionale, la Lega, dove erano quando questo avveniva? Non è che ognuno inventa la storia e la ricostruisce dal punto in cui gli fa comodo. Formigoni dov'era? Lui venne a dire che questo non si poteva e non si doveva fare, e purtroppo vinse anche lui, perché i TIR che avevano iniziato a spostare i materiali si fermarono a mezza strada e tornarono indietro. Si arrivò molto faticosamente al cosiddetto decreto Bersani, che ha distribuito i voli, gli slot, fra Linate e Malpensa. Pertanto, ognuno faccia un po' di seria riflessione e vada a vedere gli errori che ha commesso, perché è chiaro che tale risultato è figlio di tanti errori e di tante scelte, o di tante non scelte, se preferiamo.
Quindi, stabilito che il presupposto di due grandi aeroporti non specializzati è non sbagliato, ma attualmente insostenibile per Alitalia, ciò, lo ripeto, non significa che il destino di Malpensa debba essere quello di un ridimensionamento o di un piccolo aeroporto. Non lo credo affatto. Non lo reputo possibile perché il trasporto aereo, a livello mondiale, è uno dei settori più dinamici, perché le stime di incremento che anche in questo ambito sono state fornite, a meno che non accadano fatti oggi imprevedibili, sono attendibili e quindi vi è spazio per tutti. Malpensa può rivestire un ruolo e lo avrà, a parere mio, da grande aeroporto che potrà svolgere anche i voli intercontinentali, affidandosi anche ad altri vettori, ma non a Ryanair, e l'onorevole Ricci lo ha sottolineato bene, perché non potrebbe, secondo le regole, realizzare voli intercontinentali, perché deve essere un vettore italiano e per tutta una serie di motivi.
Tuttavia, non escludo che altri vettori, proprio perché si tratta di un mercato così ricco ed importante, sulla base dei dati che sono stati esposti anche nelle mozioni dei colleghi del centrodestra, possano invece essere interessati a mettere base in quell'aeroporto e a sviluppare i suoi traffici. Una cosa però è certa: al di là di questa prospettiva i voli punto-punto sono una realtà vera e il sistema degli hub, a mio giudizio, è un sistema che si avvia ad essere superato. È un sistema vecchio, perché costringe il passeggero a compiere delle deviazioni e ad allungare il tragitto. Cosa vuole il passeggero? Egli desidera arrivare, da casa sua alla destinazione, nel più breve tempo possibile. Quindi, i voli punto-punto rappresentano il futuro, non il passato.
Quindi i voli punto-punto sono il futuro, non il passato. È il sistema degli hub che andrà in via di superamento, tant'è che ormai saranno pochissimi (tre o quattro hub mondiali giganteschi) quelli che rimarranno in piedi e che potranno fare, attraverso le tariffe, una concorrenza spietata.
Ci sarà un'ulteriore aggregazione anche a livello europeo. Queste sono, almeno, lePag. 60tendenze che gli esperti riferiscono. Quindi, tutto sommato, è una battaglia di retroguardia quella di chi vuole, a tutti i costi, difendere questo pezzettino di hub, come viene impropriamente definito, così come Fiumicino non è un aeroporto che ha un futuro da hub perchè ha altre caratteristiche.
Quindi il problema serio - che è stato accennato, ma voglio spendervi anch'io una riflessione - è che bisogna avviare una grande discussione nel Nord tra le diverse società di gestione dei diversi aeroporti, che sono tutte società per azioni, ed hanno ormai tutte le concessioni, con azionisti pubblici o privati; lì si apre, anche per la politica, una grande prospettiva per fare ciò che non si è fatto fino ad ora, come ha osservato l'onorevole Ricci, vale a dire una razionalizzazione ed una specializzazione.
Si tratta di un passaggio ineludibile che riguarderà tutto il sistema italiano, e il Governo si deve sbrigare a presentare - così inizia finalmente questa riflessione - il piano nazionale di sviluppo aeroportuale che è atteso, è stato sollecitato e che, però, non abbiamo.
PRESIDENTE. Onorevole Attili, concluda.
ANTONIO ATTILI. Concludo, Presidente. Quindi, Malpensa deve, e ne ha il diritto, completare il suo programma infrastrutturale, e deve anche aprirsi e favorire la presenza di altri vettori in una logica di reale concorrenza. Le condizioni di base - lo ripeto - ci sono, però bisogna lavorarci senza attardarsi in battaglie di retroguardia.
Svolgo un'ultima considerazione. Mi auguro, a questo punto, che ci venga presentato al più presto il piano del consiglio di amministrazione di Alitalia, perché deve essere approfondito e discusso. Della presenza pubblica ha parlato l'onorevole Ricci, ma a me interessa sapere come affrontare le questioni del lavoro, se ci sono esuberi o meno.
Non vorrei cioè che alla fine pagassero, come quasi sempre, i lavoratori, e che l'emergenza, cattiva consigliera, portasse poi ad approvazioni dettate dalla necessità. Questo non va bene.
Abbiamo il diritto e il dovere di approfondire il piano del consiglio di amministrazione di Alitalia. Su questo punto ci siamo espressi in modo netto, e quindi la nostra adesione alla mozione Barbi ed altri n. 1-00219 è convinta e su di essa esprimeremo voto favorevole; tuttavia, credo che abbiamo il diritto di conoscere il piano del consiglio di amministrazione, di discuterlo e, in quella sede, di svolgere le nostre riflessioni e di cercare di fornire il nostro contributo (Applausi dei deputati dei gruppi Sinistra Democratica. Per il Socialismo europeo e L'Ulivo).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Beltrandi. Ne ha facoltà.
MARCO BELTRANDI. Signor Presidente, onorevoli colleghe e colleghi, a nome della Rosa nel Pugno esprimo una posizione contraria sulle mozioni Airaghi ed altri n. 1-00217 e Maroni ed altri n. 1-00216 e, invece, sottoscrivo convintamente la mozione Barbi ed altri n. 1-00219.
Abbiamo espresso parere negativo sulle mozioni presentate dai colleghi del centrodestra perché chiedono al Governo di respingere il piano industriale di Alitalia, mentre noi crediamo che non debba spettare al Parlamento di impegnare il Governo a respingere un piano industriale, ma che debba essere il management della compagnia a pronunciarsi su questo soltanto su basi industriali e di mercato e non su indicazioni politiche, ancorché espressione legittima di interessi regionali, anche quando, come in questo caso, la compagnia è pubblica.
Quindi, c'è una posizione di principio su questo. Ricordo, infatti, che è stata proprio l'invadenza partitica, da una parte, e sindacal-corporativa, dall'altra, in un contesto di mercato altamente competitivo, ad aver portato Alitalia, nel giro di poco più di un decennio, a questo stato di crisi.
È stata ancora tale invadenza sindacal-partitica ad aver affondato anche la garaPag. 61della privatizzazione della compagnia lanciata lo scorso dicembre un po' a sorpresa dal Ministro dell'economia con una decisione dal nostro gruppo fortemente condivisa (si è trattato di una sorpresa positiva). Sono stati, infatti, posti paletti, com'era prevedibile, troppo rigidi per gli acquirenti, che hanno portato al graduale ritiro di tutti i concorrenti in gara. A tal proposito, mi preme ribadire come il gruppo della Rosa nel Pugno sia favorevole ad una privatizzazione della compagnia di bandiera, qualunque sia l'acquirente, sia italiano che straniero, ritenendo la non vendita di Alitalia, come propedeutica pressoché unicamente al fallimento della compagnia. Lo voglio dire con chiarezza: meglio che Alitalia fallisca, nel caso in cui non venga venduta, piuttosto che si continui a sperperare le risorse degli italiani. Credo, tuttavia, che sia ancora possibile trovare un acquirente, magari senza quei paletti posti in precedenza.
D'altro canto, anche le vicende di questi giorni dimostrano quanto i sindacati abbiano in Alitalia un comportamento poco responsabile: con una compagnia sull'orlo del fallimento lo sciopero bianco di molti piloti Alitalia, che ha portato alla cancellazione di molte decine di voli nei giorni scorsi, dimostra come non solo non si abbia tutela dell'interesse dell'azienda e della collettività, ma anche come non si comprenda il proprio interesse di categoria, in quanto non si possono dissociare gli interessi dell'azienda da quelli dei suoi piloti, scaricando ancora una volta i costi sui consumatori e sull'economia generale del Paese.
Quanto, invece, alle comprensibili preoccupazioni per Malpensa, per quanto riguarda gli interessi della SEA, se essa riterrà di essere stata lesa rispetto ad accordi precedenti, naturalmente potrà avere tutela nelle aule di giustizia. Viceversa, l'offerta di Ryanair, su cui ho sentito molti colleghi esprimere perplessità, quantomeno dimostra che il destino di Malpensa - e anche dell'economia del nord - non sia fortunatamente legato a quello della compagnia di bandiera, naturalmente nel caso in cui Alitalia decida di cedere gli slot richiesti, nel caso in cui anche questo piano proposto dall'amministratore delegato dovesse fallire.
Gli italiani si troveranno così a volare di più, con minori costi anche al centro sud. Oggi i costi per tali biglietti sono altissimi e ciò è fondamentale per il Mezzogiorno. Senza continui scioperi più o meno selvaggi e senza dover sperperare denaro pubblico, Malpensa avrà lo sviluppo che merita.
Abbiamo sottoscritto la mozione Barbi ed altri n. 1-00219, perché contiene tutto ciò che per noi è essenziale e che è stato già ampiamente illustrato in particolare dal collega Barbi. Se avessimo potuto lavorare con più calma su tale testo, avremmo forse evidenziato soltanto un aspetto nella parte dispositiva, traendo le logiche conseguenze di una delle premesse, molto condivisibile, della mozione Barbi. Mi riferisco a quella relativa alla questione degli slot. Infatti, nella parte dispositiva si sarebbe potuto anche impegnare il Governo a valutare la possibilità di far sì che, nel caso di fallimento o di non realizzazione del piano industriale, Alitalia sia nelle condizioni di cedere gli slot. Detto questo, però, è una mozione che condividiamo e che, quindi, ci apprestiamo a votare.
PRESIDENTE. Avverto che è stata presentata la mozione Leone ed altri n. 1-00220
(Vedi l'allegato A - Mozioni sezione 1).
Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali delle mozioni presentate.
(Intervento e parere del Governo)
PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il Sottosegretario di Stato per l'economia e le finanze, Massimo Tononi.
MASSIMO TONONI, Sottosegretario di Stato per l'economia e le finanze. Signor Presidente, ho ascoltato con grande attenzione il dibattito fin qui svolto e devo direPag. 62che il Governo davvero comprende e in grande misura condivide le preoccupazioni espresse in questa Assemblea circa il futuro del settore del trasporto aereo nel nostro Paese, un settore cruciale per l'economia e per l'esigenza di mobilità dei cittadini. Allo stesso modo, però, il Governo, anche nella sua veste di azionista di maggioranza relativa, nutre una profonda preoccupazione per il futuro della principale compagnia di trasporto aereo del nostro paese, l'Alitalia.
Del resto, le valutazioni del Governo sul piano industriale di Alitalia recentemente annunciato non possono prescindere da un'analisi oggettiva e realistica del posizionamento competitivo e finanziario di Alitalia, anche alla luce delle problematiche che investono il settore del trasporto aereo e quello aeroportuale nel nostro Paese.
Proprio al fine di consentire una valutazione pienamente articolata, non parziale o distorta, dell'orientamento del Governo, consentitemi di ripercorrere quanto accaduto nei mesi scorsi, a partire dalla decisione assunta, nel dicembre del 2006, di privatizzare Alitalia, avendo constatato l'impossibilità di uno stabile e proficuo risanamento dell'azienda nel contesto attuale.
In tale occasione fu constatato - devo dire che tale analisi era ed è condivisa dai più, come ho ascoltato anche in questa Assemblea - che la situazione di gravissima difficoltà in cui versa Alitalia è l'effetto di molte cause che nel tempo si sono venute a sovrapporre e ad accentuare. Cito in particolare: anni di risposte inadeguate da parte del Governo, dei sindacati, dell'azienda e del management alla crescente concorrenza del mercato; ed ancora, un assetto del sistema aeroportuale caratterizzato da un numero molto elevato di aeroporti, in alcuni casi carenti quanto ad infrastrutture di collegamento; una regolamentazione inefficiente, spesso non trasparente; una sempre più ampia prevalenza di interessi locali su quelli del sistema Italia; la presenza pervasiva della politica e, da ultimo, un'elevata frammentazione e conflittualità sindacale.
Come ha avuto modo di indicare il Ministro dell'economia e delle finanze nel corso di una sua audizione, il Governo ha quindi deciso di vendere perché ha giudicato che ormai Alitalia dovesse essere gestita pienamente come un'impresa, con criteri unicamente imprenditoriali e ha riconosciuto che, a tal fine, un investitore privato fosse senz'altro preferibile allo Stato-imprenditore. Si è rilevato, infatti, come il passaggio ai privati del controllo della società fosse l'unico modo per superare una fase di impasse derivante dal controllo dello Stato sull'azienda, per realizzare in futuro ulteriori rafforzamenti patrimoniali della società, attesi i noti vincoli dell'Unione europea in tema di intervento degli Stati in favore di aziende partecipate e, infine, per incidere proficuamente nel rapporto tra azienda ed organizzazioni sindacali.
Pertanto, la ricerca dei soggetti terzi che potessero consentire ad Alitalia di perseguire un rafforzamento industriale, finanziario e competitivo, e di beneficiare dello sviluppo di sinergie operative è apparsa in un certo senso la via naturale, per altri versi obbligata, per la salvaguardia della società e per la realizzazione di un piano industriale che potesse concretamente individuare prospettive di sviluppo effettivamente perseguibili.
Tale scelta è stata generalmente condivisa, come dicevo prima, e per quanto riguarda il Governo la determinazione in tal senso ad oggi viene confermata e, se possibile, risulta ulteriormente rafforzata.
Quali erano, e quali sono ancora, gli obiettivi che il Governo intende perseguire attraverso la privatizzazione? In primo luogo, come ho ricordato, quello di collocare Alitalia in mani capaci dal punto di vista imprenditoriale e patrimoniale, in grado di consentire la realizzazione di un piano industriale di risanamento, sviluppo e rilancio dell'azienda. Ma certamente non secondari sono poi gli obiettivi di salvaguardia dei profili di interesse generale riassumibili in una adeguata offerta dei servizi e copertura del territorio, in livelli occupazionali coerenti con le iniziative industriali programmate - ripeto:Pag. 63coerenti con le iniziative industriali programmate -, nel mantenimento dell'identità nazionale della società, del suo logo e del suo marchio, oltre che nell'assicurare la stabilità del futuro assetto azionario.
Tali obiettivi tengono conto del fatto che una forte compagnia di bandiera è desiderabile anche in un mercato concorrenziale, che compagnia di bandiera e proprietà pubblica sono cose diverse, che l'interesse pubblico e nazionale non coincide con il controllo pubblico del capitale, che Alitalia non è solo una realtà industriale ma risulta componente essenziale del sistema Paese e che, infine, l'occupazione può essere salvaguardata solo da una azienda competitiva in un mercato concorrenziale.
Sulla base di tali obiettivi, il Ministero dell'economia e delle finanze avvia, dunque, una procedura di vendita della propria partecipazione di maggioranza relativa in Alitalia, pari al 49,9 per cento, nel pieno rispetto della normativa che, in generale, regola nel nostro Paese le dismissioni delle partecipazioni detenute dallo Stato in società per azioni: la legge n. 474 del 1994, che prevede che tali operazioni vengano condotte con modalità trasparenti e non discriminatorie.
Tale disposizione, la cui ratio risiede nella finalità voluta dal legislatore di assicurare, da un lato, la salvaguardia dei beni pubblici e, dall'altro, la tutela del mercato e dei soggetti che in esso operano, non è comunque il solo vincolo operativo al quale il Ministero azionista deve attenersi nell'impostare e realizzare le proprie operazioni di vendita di partecipazioni. Il Ministero deve, infatti, contemperare l'obiettivo del buon esito della procedura anche con i vincoli derivanti dalla normativa europea in tema di aiuti di Stato, per cui, come sapete, non è possibile conferire una «dote» alla società posta in vendita. Il Ministero ha, inoltre, la necessità di assicurare la piena autonomia gestionale ed imprenditoriale dei soggetti coinvolti.
Nel caso specifico, sebbene controllate dallo Stato, Alitalia, Fintecna e Alitalia Servizi sono società per azioni, i cui organi di governo, come richiamavo in precedenza, sono tenuti a perseguire unicamente gli interessi aziendali e non quelli più generali che può porsi il Ministero dell'economia e delle finanze o il Governo.
È con tali premesse e in un tale contesto che il Ministero ha dovuto impostare e realizzare la procedura di vendita di Alitalia che, avviata nel dicembre 2006, come tutti sanno, lo scorso luglio è stata purtroppo conclusa con esito negativo.
Senza voler ripercorrere in dettaglio le diversi fase in cui la procedura si è svolta, voglio solo brevemente fare chiarezza su un punto sul quale da più parti sono pervenute le maggiori critiche. Mi riferisco ai cosiddetti paletti che il Governo avrebbe imposto ai potenziali acquirenti; questi sarebbero stati così numerosi e di entità tale da impedire l'emergere di seri e concreti interessi da parte del mercato. Quali erano in sostanza questi vincoli? In estrema sintesi, venne richiesto all'acquirente del controllo di Alitalia, innanzitutto, un impegno a rispettare le iniziative previste nel piano industriale di risanamento e rilancio della società, presentato dagli acquirenti in sede di offerta vincolante per un periodo di tre anni. Questo è l'impegno che veniva richiesto, non quindi un obbligo di effettuare scelte aziendali o operative indicate dal Governo, ma un naturale impegno a perseguire quanto lo stesso acquirente avrebbe indicato come necessario per il risanamento e il rilancio dell'azienda. Ed ancora, tra i cosiddetti paletti, vi era un impegno a rispettare quelli che il Governo ha individuato fin dall'inizio quali requisiti di interesse generale: l'identità nazionale, intesa come mantenimento della sede legale principale della società in Italia; il mantenimento sostanziale; la salvaguardia del marchio e del logo attualmente in essere di Alitalia e del portafoglio di diritti di traffico e il loro sfruttamento in coerenza con gli impegni di copertura territoriale del servizio.
E ancora, tra i requisiti di interesse generale, figurava il livello quantitativo e qualitativo del servizio, inteso come garanzia di un livello adeguato in termini qualitativi e quantitativi su tratte nazionaliPag. 64e internazionali. Anche con riferimento a tale punto occorre un chiarimento: il Ministero non ha mai imposto ai partecipanti alla procedura un livello minimo di rotte e frequenze da e per l'Italia, ma si è riservato solo la facoltà di verificare, con il proprio advisor industriale, che le iniziative declinate nel piano industriale presentato dei potenziali acquirenti garantissero un'adeguata copertura del territorio. Peraltro, ricordo che, relativamente ai tre piani presentati dai potenziali acquirenti in sede di offerte preliminari, tale verifica ha dato esito positivo.
Ed ancora, tra i paletti, vi era un impegno a non cedere la partecipazione acquisita per un periodo di tre anni e, infine, un impegno a mantenere i livelli occupazionali indicati nei piani industriali. Anche a tal proposito è necessario un chiarimento importante: si trattava di un impegno a mantenere non i livelli occupazionali attuali o quelli minimi che il Ministero avrebbe potuto indicare in via autonoma, ma proprio quelli che lo stesso acquirente avrebbe ritenuto congrui in relazione alle iniziative previste nel piano e, quindi, tali da risultare coerenti con gli obiettivi di risanamento e di rilancio dell'azienda.
Se, quindi, si ripercorrono e si analizzano con serenità e obiettività i vincoli che il Ministero ha ritenuto di prevedere nell'ambito della precedente procedura di privatizzazione, spero che ciascuno di voi possa non soltanto convenire sul fatto che questi paletti non appaiono tali da risultare inaccettabili per il mercato, ma anche sull'opportunità e sulla legittimità delle finalità sottostanti. Il mantenimento dell'identità nazionale, di un'adeguata copertura territoriale e la garanzia di una stabilità azionaria sono probabilmente il minimo che si potesse prevedere nel momento in cui si doveva privatizzare una società d'impatto così rilevante per la nostra economia e per la vita quotidiana del Paese.
Purtroppo, però, l'esito della procedura è stato, come detto e noto, negativo. Non solo i principali operatori europei del settore hanno ritenuto di non partecipare alla procedura ma, soprattutto, tra i soggetti che, invece, vi hanno preso parte, nessuno ha presentato un'offerta vincolante. Ciò nonostante il Governo confermi - come dicevo prima - la ferma intenzione di realizzare tempestivamente la privatizzazione di Alitalia, proprio perché la privatizzazione appare l'unico percorso capace di condurre ad un risanamento stabile dell'azienda, sotto il profilo sia competitivo sia finanziario.
Sulla base di tale convincimento, in data 31 luglio 2007, il Ministero dell'economia e delle finanze ha designato il dottore Maurizio Prato quale nuovo presidente di Alitalia e, nel confermare, inoltre, nuovamente la decisione del Governo di cedere il controllo dell'azienda, il Dicastero esprimeva l'auspicio che il nuovo vertice aziendale - cito quanto comunicato all'epoca - «provveda ad individuare tempestivamente soggetti industriali e finanziari disponibili ad acquisire il controllo della società. Tali soggetti dovranno essere impegnati a promuovere il risanamento, lo sviluppo e il rilancio di Alitalia, tenendo conto dei profili di interesse generale ritenuti imprescindibili da parte del Governo, in un'ottica di continuità e adeguatezza di servizio del trasporto aereo in Italia», riservandosi di valutare «con piena disponibilità, le modalità tecniche di cessione del controllo che la società formulerà ai propri azionisti».
Allo stesso tempo, ed anche allo scopo di creare le necessarie condizioni di contesto, il Governo ribadisce la propria disponibilità ad intraprendere le più opportune iniziative per rendere maggiormente appetibile l'operazione, sia con riferimento alla particolare situazione dell'azienda - e si pensi, in tal senso, all'effettiva concessione di ammortizzatori sociali come annunciato, peraltro, lo scorso mese di maggio - sia con riferimento alla specifica situazione del settore industriale di riferimento, avviando una politica di sviluppo razionale che riguardi tutti i protagonisti del settore, ad iniziare dal sistema aeroportuale.
In tale ambito il Governo è impegnato alla tempestiva definizione dell'annunciatoPag. 65piano degli aeroporti e alla realizzazione degli interventi infrastrutturali necessari per lo sviluppo del sistema aeroportuale italiano e, in primo luogo, di Malpensa. Il Governo conferma, altresì, la piena disponibilità a riconsiderare, in qualche misura, i requisiti richiesti nell'ambito dell'operazione di privatizzazione, non potendo, tuttavia, prescindere dalla finalità di salvaguardare gli interessi generali.
Nel passare, nello specifico, al piano industriale recentemente approvato dal consiglio d'amministrazione di Alitalia ovvero alle linee guida del 30 agosto e, poi, ai contenuti più quantitativi che sono stati oggetto di un comunicato stampa del 7 settembre, ritengo sia opportuno soffermarmi sulle motivazioni che hanno indotto la società a predisporre un nuovo piano industriale, ritenendo che tale adempimento non fosse ulteriormente procrastinabile. Fino allo scorso mese di giugno, infatti, l'azienda, considerata la procedura di vendita in corso da parte del Ministero dell'economia, non aveva ritenuto di effettuare la revisione del precedente piano industriale e aveva rinviato ogni ulteriore valutazione al riguardo a data successiva all'acquisizione di tutti gli elementi necessari.
In seguito però, preso atto del mancato esito della procedura di privatizzazione da parte del Ministero dell'economia, la società, già prima del rinnovo del vertice aziendale, aveva ritenuto ormai non più procrastinabile l'impostazione di un nuovo documento programmatico che, da un lato, definisse tempestivamente le più opportune iniziative in grado di contenere l'emorragia patrimoniale e finanziaria che continua ad indebolire l'azienda e, dall'altro, assicurasse l'imprescindibile mantenimento dei presupposti di continuità aziendale, il cui venir meno determinerebbe una rapida accelerazione in una già grave situazione finanziaria di Alitalia.
Nell'impostazione delle linee guida del nuovo piano industriale, l'azienda, e in particolare il nuovo management, ha comunque sempre evidenziato come lo stesso piano si incardina nel più volte confermato intendimento del Governo di cedere il controllo di Alitalia, risultando, quindi, come lo ha definito la società, un piano di transizione e sopravvivenza, in attesa che si realizzi l'ingresso del nuovo azionista di controllo.
Consentitemi, prima di esporre alcune considerazioni in merito al contenuto del piano, di menzionare brevemente quali siano, nella nostra prospettiva evidentemente, i diversi ruoli che rivestono la società e il Ministero azionista.
Alitalia è una società quotata e, in quanto tale, è soggetta ad obblighi informativi e ad un comportamento vigilato dalla Consob: informative periodiche e continue, regole di governo societario e di organizzazione.
Se, quindi, il Ministero, nel rispetto delle regole di mercato, deve necessariamente limitarsi all'esercizio dei diritti connessi alla partecipazione detenuta - sebbene la stessa sia di maggioranza relativa - da parte loro, gli amministratori di Alitalia devono operare per il perseguimento degli interessi non del solo socio pubblico di riferimento, ma esclusivamente della società e, quindi, di tutti gli azionisti. Essi, pertanto sono tenuti, con responsabilità diretta e personale, a rispettare i principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale e a perseguire unicamente finalità economiche di sana e corretta gestione e, ove possibile, di creazione di valore per gli azionisti. Tengo a rilevare, in questa sede, che il Ministero non esercita, ai sensi della normativa vigente, attività di direzione e coordinamento né su Alitalia né sulle altre società controllate e, in quanto soggetto pubblico, è tenuto al rispetto degli obblighi derivanti dalla normativa nazionale e comunitaria (ad esempio, in tema di trasparenza e non discriminazione per quanto attiene alle procedure di dismissione di partecipazione e, in tema di aiuti di Stato, relativamente al fabbisogno, al sostegno finanziario che intende assicurare alle società partecipate).
Ritengo che poche precisazioni siano essenziali per precisare in modo chiaro quanto l'intervento del Ministero - ma direi dell'intero Governo - in tema diPag. 66partecipazioni pubbliche, specie se quotate, debba necessariamente e obbligatoriamente mantenersi in una logica di pieno e totale rispetto del mercato e di scelte gestionali che competono agli amministratori, che sono eletti dagli azionisti e che, con il loro operato, agli stessi azionisti - e non ad uno solo di loro, anche se di maggioranza - devono rispondere.
Tornando, quindi, ai contenuti del piano industriale di Alitalia, rilevo che gli obiettivi di fondo che lo stesso intende perseguire sono senz'altro condivisibili. Tali obiettivi possono così essere riassunti: innanzitutto, modificare e ridimensionare l'assetto di business della compagnia nel periodo transitorio, in modo da renderlo più sostenibile da un punto di vista economico, in un contesto di migliore efficienza operativa; in secondo luogo, preservare il valore del brand Alitalia, attraverso la ridefinizione della missione industriale e di un profilo competitivo distinto; infine, realizzare un miglior posizionamento industriale, in grado di favorire l'ingresso di soggetti terzi in possesso di competenza specifica e risorse finanziarie da destinare allo sviluppo della compagnia.
È confermata, inoltre, l'esigenza di un consistente apporto di risorse finanziarie mediante aumento di capitale. In tale visione complessiva, quindi, il piano appare del tutto coerente sia con l'esigenza di definire le più opportune iniziative, da avviare nel più breve tempo possibile, per preservare il ruolo della azienda e rallentare il trend di perdita e di erosione della liquidità, sia con il percorso di privatizzazione, confermato dal Governo, per la tempestiva individuazione di soggetti industriali e finanziari disponibili ad acquisire il controllo della società.
La finalità sottesa è, infatti, perseguire prioritariamente condizioni di sostenibilità e continuità dell'attività aziendale nel breve e nel medio periodo, con le sole risorse disponibili e gli interventi attuabili con immediatezza, per realizzare un modello aziendale più efficiente e flessibile, in un contesto di relazioni industriali orientate al massimo sforzo comune di management e lavoratori. Tutto ciò in attesa di decisioni in ordine al futuro assetto proprietario della compagnia ed al conseguente assetto industriale definitivo.
Come la società lo ha correttamente definito, il piano industriale è un piano di sopravvivenza e transizione, caratterizzato, come ricordavo prima, dalle esigenze improcrastinabili e prioritarie di contenimento delle perdite e dell'assorbimento di cassa. Deve essere chiaro che l'alternativa ad un intervento di questo genere è molto più penalizzante di quello che stiamo qui contemplando sul contesto sociale ed economico del nostro Paese.
Le azioni previste, quindi, derivano da scelte obbligate - dettate da aspetti di carattere tecnico-economico dell'azienda - sulle quali spero che tutti possano convenire. In primo luogo, il trend di perdite accumulate e prospettiche di Alitalia, nell'attuale assetto, è assolutamente insostenibile; in secondo luogo, la compagnia, nell'attuale stato, non può, sotto il profilo competitivo ed economico, alimentare in modo efficiente e produttivo due hub; infine, è conseguentemente indifferibile l'esigenza di ridimensionamento del posizionamento della società e di modifica del suo assetto industriale, attraverso interventi sulla rete, sulla qualità del prodotto, sui costi operativi e sull'organizzazione dell'azienda.
Naturalmente, alla luce della confermata volontà del Ministero dell'economia e delle finanze di procedere in tempi brevissimi alla dismissione della partecipazione e del controllo ed alla luce della connessa volontà dell'azienda di individuare soggetti industriali e finanziari disponibili ad acquisire tale controllo, il piano potrà e dovrà essere oggetto di modifiche e affinamenti in relazione alle scelte di tipo industriale che l'acquirente del controllo del capitale di Alitalia intenderà effettuare, ferma restando - ripeto - l'irrinunciabile esigenza per il Governo che le stesse scelte siano in grado di perseguire requisiti di interesse generale che risultano irrinunciabili per lo Stato.Pag. 67
Del resto, va sottolineato come il piano, ad eccezione di alcune prime e propedeutiche azioni, si avvierà sostanzialmente dalla prossima summer season, ovvero a partire dall'aprile 2008.
In conclusione, alla luce delle considerazioni fin qui svolte - che spero abbiano evidenziato in particolare come il piano di Alitalia sia volto prioritariamente a consentire il contenimento delle perdite e, quindi, ad assicurare la sopravvivenza dell'azienda, nell'attesa che si completi il processo di privatizzazione -, il Governo esprime parere contrario sulle mozioni Maroni ed altri n. 1-00216 e Airaghi ed altri n. 1-00217, mentre esprime parere favorevole sulla mozione Barbi ed altri n. 1-00219. Non ho, invece, ancora esaminato la mozione Leone ed altri n. 1-00220 testè presentata e quindi mi riservo, sulla medesima, di esprimere il parere.
PRESIDENTE. Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.
Ordine del giorno della seduta di domani.
PRESIDENTE. Comunico l'ordine del giorno della seduta di domani.
Martedì 18 settembre 2007, alle 10:
1. - Seguito della discussione congiunta dei documenti (per la sola discussione):
Conto consuntivo della Camera dei deputati per l'anno finanziario 2006 (Doc. VIII, n. 3).
Progetto di bilancio della Camera dei deputati per l'anno finanziario 2007 (Doc. VIII, n. 4).
2. - Seguito della discussione della relazione della VIII Commissione (Ambiente, territorio e lavori pubblici) sulle tematiche relative ai cambiamenti climatici (Doc. XVI, n. 1).
3. - Seguito della discussione delle mozioni Maroni ed altri n. 1-00216, Airaghi ed altri n. 1-00217, Barbi ed altri n. 1-00219 e Leone ed altri n. 1-00220 sui contenuti e sulle conseguenze economiche complessive del nuovo piano industriale dell'Alitalia, con particolare riferimento al ruolo dell'aeroporto di Malpensa.
4. - Seguito della discussione del disegno di legge:
Modernizzazione, efficienza delle Amministrazioni pubbliche e riduzione degli oneri burocratici per i cittadini e per le imprese (2161-A)
e delle abbinate proposte di legge: PEDICA ed altri; NICOLA ROSSI ed altri; LA LOGGIA e FERRIGNO (1505-1588-1688).
- Relatore: Giovanelli.
La seduta termina alle 20,15.