Parità di trattamento nel lavoro

Il divieto di discriminazione ha senza dubbio raggiunto di recente un livello di interesse molto elevato soprattutto nella costruzione dell’ordinamento giuridico sopranazionale, con l’introduzione dell’articolo 13 nel Trattato di Amsterdam, con il quale si afferma, che il Consiglio, su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento, può prendere opportuni provvedimenti al fine di contrastare le discriminazioni fondate sul sesso, la razza, l’origine etnica, la religione o le convenzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali.

In questo contesto, è da sottolineare l’emanazione di alcune direttive che hanno disciplinato la parità di trattamento e la salvaguardia della dignità nei luoghi di lavoro.

Più specificamente, nel corso della XIV legislatura sono state recepite nel nostro ordinamento tre importanti direttive concernenti la tutela dei principi in precedenza richiamati[1]:

 

§      la Direttiva 2000/43/CE del 26 settembre 2000, del Consiglio, attuativa del principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica (cd. Direttiva “razza”). Tale Direttiva è stata recepita con il D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 215 (al riguardo, v. scheda Non discriminazione – Il decreto legislativo n. 215 del 2003);

 

§      la Direttiva 2000/78/CE del 27 novembre 2000, del Consiglio, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro indipendentemente dalla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali (cd. Direttiva “quadro”). Tale Direttiva è stata recepita con il D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 216 (v. scheda Parità nel lavoro – Il decreto legislativo. n. 216 del 2003);

 

§      la Direttiva 2002/73/CE del 23 settembre 2002, del Parlamento europeo e del Consiglio che modifica la Direttiva 76/207/CEE del Consiglio relativa all'attuazione del principio della parità di trattamento tra gli uomini e le donne per quanto riguarda l'accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro. Tale Direttiva è stata recepita con il D.Lgs. 30 maggio 2005, n. 145 (v. scheda Parità tra uomini e donne nel lavoro).

 

Per quanto attiene ai primi due provvedimenti, essi sono stati emanati in esecuzione del disposto della legge comunitaria per il 2001 (legge 1° marzo 2002, n. 39). Al riguardo il legislatore italiano ha delegato il Governo all’emanazione dei due decreti, limitandosi, per la Direttiva 2000/78/CE, a dettare semplici criteri direttivi generali senza prevedere principi quadro speciali, mentre per la direttiva 2000/43/CE oltre ai principi generali ha predisposto criteri direttivi speciali all’articolo 29.

Più, specificamente, le due direttive, come riportato nel Rapporto annuale 2005 su uguaglianza e non discriminazione della Commissione europea[2], sono state adottate nel 2000 “per fissare standard minimi comuni nelle leggi in vigore negli Stati membri UE contro la discriminazione fondata sulla razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale. L’obiettivo è creare un quadro giuridico generale per combattere queste forme di discriminazione e tradurre così nella pratica il principio della parità di trattamento”.

E’ opportuno rilevare come il legislatore italiano abbia scelto di mantenere separati i contenuti e i principi di attuazione delle due direttive, invece di unificare in un unico provvedimento le tutele predisposte. Tale scelta ha portato, secondo parte della dottrina, ad una serie di disparità di tutela tra soggetti discriminati in ragione della razza e dell’origine etnica e soggetti discriminati in ragione della religione, convinzioni personali, handicap, età e orientamento sessuale.

Entrambi i provvedimenti di attuazione introducono, con riferimento all’ambito dell’intervento normativo, le definizioni di discriminazione diretta e discriminazione indiretta, ampliando contestualmente l’operatività della tutela antidiscriminatoria rispetto al dettato delle direttive. In tale contesto di particolare rilevanza è la disposizione che introduce, seppure in maniera indiretta (e con valenza limitata all’ambito di intervento del provvedimento), nell’ordinamento nazionale una definizione del c.d. mobbing (v. capitolo Il mobbing), individuato nell’attuazione di molestie ovvero di comportamenti indesiderati con lo scopo e l’effetto di violare la dignità personale creando un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo. Anche tali “molestie” vengono considerate come comportamenti discriminatori. Contro gli atti discriminatori (e quindi anche contro il mobbing) si prevedono una serie di tutele anche sul piano giurisdizionale. In primo luogo, sono considerati nulli, in materia di lavoro, i patti o atti volti a discriminare per i motivi suddetti. Per agevolare la prova dei fatti discriminatori, si ammettono le presunzioni semplici anche sulla base di dati statistici. Inoltre, oltre a prevedersi la possibilità di ottenere il risarcimento del danno anche non patrimoniale, si attribuisce al giudice il potere di ordinare la cessazione del comportamento discriminatorio, nonché la rimozione degli effetti.

 

Con il terzo provvedimento si sono codificati i concetti di molestia sessuale e molestia in ragione del sesso nei luoghi di lavoro, colmando parzialmente un vuoto normativo. In particolare il citato D.Lgs. n. 145/2005, novellando la legge n. 125/1991[3], dopo aver riformulato le nozioni di discriminazione diretta e indiretta in ragione del sesso, considera espressamente come discriminazioni anche le molestie sessuali e le molestie per ragioni connesse al sesso (v. scheda Parità tra uomini e donne nel lavoro). A tal riguardo le molestie vengono definite come quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo. Le molestie sessuali invece vengono individuate in quei comportamenti indesiderati a connotazione sessuale, espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo.

Per tutelare i lavoratori da tali pratiche si prevede espressamente che gli atti, i patti o i provvedimenti concernenti il rapporto di lavoro dei lavoratori o delle lavoratrici vittime dei comportamenti di molestie di cui sopra sono nulli se adottati in conseguenza del rifiuto o della sottomissione ai comportamenti medesimi. Inoltre, si è introdotta per la persona discriminata per motivi connessi al sesso (e quindi anche nel caso di molestie) la possibilità del risarcimento del danno anche non patrimoniale (cd. danno esistenziale).

 

È pacifico osservare che i provvedimenti richiamati operano in realtà strettamente collegate. Si pensi al concetto di “molestia in ragione del sesso nei luoghi di lavoro”, che presenta attinenze sia con il fenomeno delle molestie sessuali sia con il mobbing. Al riguardo è opportuno ricordare che progressivamente, prima che lo stesso legislatore si occupasse della materia, sia le analisi sociologiche sia l'elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale hanno enucleato le due fattispecie delle molestie sessuali nei luoghi di lavoro e del mobbing. Nonostante le differenze, tra i due fenomeni esistono significative analogie, non solo quanto alla loro natura, ma anche per le problematiche connesse a un intervento legislativo volto a reprimerli o prevenirli, in considerazione della difficoltà di tipizzare condotte che si possono esplicare in una grande varietà di atti e comportamenti e in cui entrano in gioco elementi soggettivi di carattere psicologico difficilmente riconducibili sul piano di una rigorosa analisi probatoria.

 

In particolare, il tema delle molestie sessuali nei luoghi di lavoro è ormai da qualche anno all'attenzione degli operatori e del legislatore.

In questo contesto, il Parlamento nella XIII Legislatura ha affrontato - senza peraltro giungere alla loro approvazione definitiva - una serie di proposte di legge[4] che si proponevano di dettare una disciplina organica volta a prevenire il fenomeno delle molestie sessuali nei luoghi di lavoro, anche attraverso azioni informative, e di indicare idonei strumenti per la tutela in sede giudiziale. Nel corso della XIV legislatura sono state presentate una serie di progetti di legge, il cui esame non è stato però avviato prima della conclusione dei lavori parlamentari

 

Per quanto riguarda l’attività legislativa relativa al mobbing, si ricorda che nella precedente legislatura presso la 11.a Commissione del Senato si è giunti a redigere un testo unificato volto a introdurre specifiche tutele per i lavoratori, che tuttavia non è giunto all’approvazione definitiva (v. capitolo Il mobbing)

 

Nello scorcio finale della legislatura, il Governo ha trasmesso alle Camere per il prescritto parere lo schema di decreto legislativo recante il Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, in attuazione della delega di cui all’articolo 6 della legge n. 246/2005 (legge di semplificazione 2006), per il riassetto delle disposizioni vigenti in materia di pari opportunità. Nell’ambito delle disposizioni relative alle pari opportunità tra uomo e donna nei rapporti economici, lo schema tra l’altro provvede al riassetto della disciplina relativa alle pari opportunità nel lavoro (con riferimento anche alla relativa tutela giurisdizionale) e alle azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro[5].

 



[1]     Tali direttive talvolta riguardano la parità di trattamento in un ambito generale e quindi si applicano anche alla materia del lavoro (è il caso della direttiva 2000/43/CE), in altri casi si riferiscono esclusivamente alla parità di trattamento per quanto riguarda l’occupazione e le condizioni di lavoro (si tratta invece delle direttive 2000/8/CE e 2002/73/CE).

[2]     Commissione europea, Direzione generale dell’Occupazione, degli affari sociali e delle pari opportunità: Uguaglianza e non discriminazione - Rapporto annuale 2005 (aprile 2005).

[3]     Recante Azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro.

[4]     Alla Camera, l'esame è stato condotto sulle proposte A.C. n. 4817 (approvata dal Senato, che riproduceva un testo già approvato in prima lettura nel corso della XII Legislatura), n. 601 (Cordoni ed altri) e n. 5090 (Prestigiacomo ed altri). Le proposte n. 4817 e 601 presentavano contenuti in larga parte coincidenti, mentre se ne distingueva nel merito - pur nell'identità della materia - la proposta n. 5090, che, secondo quanto affermato nella relazione, riprendeva le indicazioni comunitarie in materia, soprattutto al fine di prevenire e scoraggiare il fenomeno.

      Nel testo approvato dal Senato, ai fini delle dimissioni per giusta causa rilevano le molestie poste in essere direttamente dal datore di lavoro, mentre la pdl C. 5090 contempla, ai medesimi fini, anche quelle poste in essere dai superiori gerarchici. Differente è anche la misura dell'indennizzo (tra le 2 e le 12 mensilità nel primo caso, tra le 6 e le 24 mensilità nel secondo, 12 mensilità, in misura fissa, nella pdl C. 601).

[5]     Alla data del 10 maggio 2006, il decreto legislativo in questione non risulta ancora pubblicato nella Gazzetta Ufficiale.