Le
norme primarie del diritto comunitario sono in primo luogo le norme
convenzionali, contenute nei Trattati istitutivi delle Comunità europee e negli
accordi internazionali successivamente stipulati, al fine di modificarli. Tra
questi, si ricordano, in particolare:
-
il Trattato istitutivo della Comunità europea
o Trattato di Roma, che è stato, come è noto, più volte integrato e modificato
ed è quindi necessario fare riferimento al testo c.d. “consolidato”,
comprensivo delle novelle apportate dai Trattati di Maastricht, Amsterdam e
Nizza;
-
L’atto unico europeo del 1986 (entrato in
vigore il 1° luglio 1987);
-
Il Trattato sull’Unione europea o Trattato
di Maastricht del 1992 (entrato in vigore il 1° novembre 1993);
-
Il Trattato di Amsterdam del 1997 (entrato
in vigore il 1° maggio 1999);
-
Il Trattato di Nizza del 2000 (entrato in
vigore il 1° febbraio 2003);
-
Il Trattato di Adesione dei dieci nuovi Stati
membri del 2003 (entrato in vigore il 1° maggio 2004);
-
Il Trattato di Adesione di Romania e Bulgaria
del 2005 (entrerà in vigore il 1° gennaio 2007) (v. scheda I Trattati di adesione).
Ulteriori
sviluppi, su questo versante, potranno derivare dalle prospettive future di allargamento dell’Unione europea, in
particolare, verso i Balcani occidentali (v. scheda L’allargamento
e i Balcani occidentali).
Le
norme primarie stabiliscono le procedure per l’adozione degli atti da parte
delle Istituzioni europee, che si pongono pertanto al secondo livello del
sistema giuridico comunitario e costituiscono il c.d. “diritto comunitario
derivato”.
La
creazione del diritto comunitario
derivato avviene secondo procedimenti complessi che si concretizzano in
atti di tipo normativo e non. Tra questi ricordiamo solo i principali:
§ i regolamenti CE e le direttive del
Consiglio o della Commissione (atti normativi);
§ le decisioni della Commissione o del Consiglio
(atti il cui carattere normativo è discusso);
§ le raccomandazioni CE ed Euratom (atti non vincolanti);
§ i pareri (atti non vincolanti).
Vi sono poi i c.d. “ atti atipici”, quali le risoluzioni
e le dichiarazioni del Consiglio, ovvero le decisioni prese in
seno al Consiglio, aventi un carattere preparatorio rispetto a successivi
atti normativi, o dichiarativo, o programmatico.
Per quanto riguarda, invece, il
settore della cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale,
afferente al c.d. Terzo Pilastro, si segnalano:
§ le decisioni-quadro per il ravvicinamento delle
disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri (art. 34, par. 2,
lett. b) TUE);
§ le decisioni aventi qualsiasi altro scopo
coerente con gli obiettivi della cooperazione giudiziaria in materia penale,
escluso qualsiasi ravvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari
degli Stati membri (art. 34, par. 2, lett. c) TUE).
I regolamenti del Consiglio e
della Commissione e le direttive rivolte a tutti gli Stati membri sono
pubblicati nella serie L della Gazzetta Ufficiale della Comunità Europea
(GUCE).
In particolare, i regolamenti comunitari sono atti
normativi a carattere generale,
vincolanti e direttamente applicabili senza bisogno di atti di recepimento
(art. 249, par. 2, TCE) e, quindi, senza che sia necessario un intervento
formale delle autorità nazionali, a meno che non sia richiesto dallo stesso
regolamento. In base alla giurisprudenza della Corte di Giustizia, infatti, è preclusa agli Stati membri la riproduzione in un atto interno del
regolamento, dal momento che ciò potrebbe ritardare l’applicazione dell’atto
comunitario in modo uniforme nell’ambito dell’Unione europea. Tale riproduzione
potrebbe, inoltre, pregiudicare la competenza in via esclusiva della Corte di
Giustizia a svolgere il controllo giurisdizionale dell’atto, sia sotto il
profilo della legittimità che sotto il profilo dell’interpretazione. Tale impostazione
è stata confermata anche dalla Corte costituzionale, che ha evidenziato come
esigenze fondamentali di eguaglianza e certezza giuridica richiedano che le
norme comunitarie entrino in vigore ovunque contemporaneamente, conseguendo
un’applicazione costante ed uniforme nei confronti di tutti i destinatari.
Pertanto, i regolamenti non devono essere “oggetto di provvedimenti statali a
carattere riproduttivo, integrativo o esecutivo, che possano comunque
differirne o condizionarne l’entrata in vigore e tanto meno sostituirsi ad
essi” (sent. n. 183 del 1973).
Le direttive, invece, non
hanno portata generale, essendo
vincolanti esclusivamente nei confronti degli Stati destinatari. Esse vincolano quanto al risultato da
raggiungere, ma non rispetto al mezzo da utilizzare per raggiungerlo.
Analogamente ai regolamenti, le direttive producono effetti obbligatori, ma sono prive
di efficacia diretta (art. 249, par. 3, TCE). Tuttavia la Corte di
giustizia delle Comunità europee ha statuito (e la giurisprudenza dalla Corte Costituzionale ha poi recepito tale
impostazione con la Sentenza
n. 168 del 1991) che anche una direttiva (o singole disposizioni di essa)
possa essere eccezionalmente direttamente applicabile in uno Stato membro,
senza che sia necessario un preventivo atto di trasposizione da parte dello
stesso. Tale diretta applicabilità
può, però, verificarsi solo se ricorrano determinate condizioni, ossia solo se
la direttiva sia incondizionata,
sufficientemente precisa e sia scaduto
il termine per il suo recepimento (v. scheda Giurisprudenza
costituzionale).
E’ importante sottolineare
che, in base alla giurisprudenza della Corte di giustizia - confermata dalla
Corte Costituzionale con la Sentenza n. 168 del 1991 - i privati cittadini hanno il diritto di reclamare
dallo Stato membro il risarcimento dei danni subiti a causa della mancata o
insufficiente trasposizione della direttiva da parte di tale Stato membro, se
si verificano le seguenti condizioni:
§ la direttiva prevede come risultato l'attribuzione di
diritti a dei privati cittadini;
§ il contenuto dei diritti è desumibile dalla direttiva
stessa;
§ esiste un rapporto di causa ed effetto tra la
violazione dell'obbligo di recepimento che incombe allo Stato e il danno subito
dal privato cittadino.
La responsabilità dello Stato
membro non è pertanto vincolata alla colpa. Nell'ipotesi in cui lo Stato membro
disponga di un potere discrezionale, la violazione imputabile all'insufficiente
o mancato recepimento della direttiva deve chiaramente trascendere i tre
criteri citati, essere, cioè, manifesta e grave.
Prima di concludere sul
punto, si ricorda che la giurisprudenza comunitaria ha chiarito che in pendenza
del termine di recepimento delle direttive gli Stati sono, comunque, tenuti a
non adottare misure che possano gravemente compromettere il risultato
perseguito dalla direttiva stessa (c.d. clausola
di standstill).
Per quanto riguarda gli altri
atti, l’art. 249 del Trattato CE ne prevede espressamente altri tre tipologie.
Innanzitutto, al paragrafo 4, le decisioni:
atti emanati dal Consiglio (in genere destinate agli Stati) o dalla Commissione
(es. in materia di concorrenza), ritenuti generalmente aventi carattere
amministrativo (anche se talvolta le decisioni rivolte a Stati sono state
considerate di carattere normativo), che servono a regolamentare fatti concreti
nei confronti di determinati destinatari e sono obbligatorie in tutti i loro
elementi per i destinatari da esse designati, che possono essere Stati membri,
ovvero persone fisiche o giuridiche. Al pari delle direttive, le decisioni
possono implicare obblighi per uno Stato membro a concedere al singolo
cittadino una posizione giuridica più vantaggiosa. Per costituire i diritti di
singoli cittadini occorre - come nel caso della direttiva - un atto di trasposizione
da parte dello Stato membro interessato. Le decisioni possono essere
direttamente applicabili alle stesse condizioni delle disposizioni delle
direttive. Nella prassi si sono avute sia decisioni indirizzate agli Stati,
principalmente dal Consiglio (anche se la Commissione interviene sempre di più
in materia ad esempio di aiuti di Stato, rivolgendosi quindi agli Stati membri)
che a singole persone fisiche o giuridiche (es. le decisioni della Commissione
in materia di concorrenza).
Il principale problema interpretativo posto
da tale categoria di atti è costituito dal riconoscimento o dalla negazione di
una loro efficacia diretta negli ordinamenti interni degli Stati membri: il
Trattato, mentre affronta espressamente tale profilo per i regolamenti e le direttive,
con riferimento alle decisioni tace (articolo 249). In una sentenza del 1970 la
Corte di Giustizia ha sancito la diretta applicabilità nel caso sia imposto
allo Stato un obbligo chiaro, preciso e incondizionato di non fare e la
dottrina ha ritenuto estensibile tale obbligo qualora si tratti di obblighi di
fare sufficientemente precisi e dettagliati. L’orientamento più recente della
Corte di Giustizia conferma tale impostazione e rileva che, stante
l’insussistenza sul piano formale di una
preclusione all’efficacia diretta delle decisioni, anche queste ultime possano
essere suscettive di immediata applicazione laddove contengano statuizioni
sufficientemente precise ed incondizionate[1].
Il Trattato CE (art. 230)
prevede poi la possibilità di esperire ricorso di legittimità di fronte alla
Corte di giustizia per i destinatari di tali atti.
L’art. 249, paragrafo 5, del
Trattato prevede infine le raccomandazioni
del Consiglio o della Commissione ed i pareri. Si tratta di atti non vincolanti,
che possono essere adottati da tutte le istituzioni comunitarie, sebbene un
ruolo privilegiato venga riconosciuto alla Commissione, cui l’art. 211
del Trattato CE conferisce espressamente un potere generale di adozione. In
merito alla prima tipologia, si tratta di atti, destinati in genere agli Stati
o ai singoli individui - in settori quali la libera circolazione delle merci,
la libera circolazione dei servizi e i trasporti - volti ad invitare i
destinatari a conformarsi ad un determinato comportamento. I pareri, invece, hanno
prevalentemente una funzione di orientamento, rappresentando l’atto attraverso
il quale le Istituzioni comunitarie fanno conoscere il proprio punto di vista in
ordine ad una determinata materia o questione. Assumono peraltro una rilevanza
particolare i pareri espressi dalla Commissione sulle domande di adesione di
Stati terzi all’Unione ed i pareri motivati nel caso di supposta violazione
degli obblighi da parte di uno Stato membro. Il fatto che tali atti non abbiano
carattere vincolante non esclude peraltro un loro rilievo giuridico. Infatti,
secondo la giurisprudenza comunitaria, soprattutto le raccomandazioni non
possono essere considerate prive di effetti
giuridici e quindi i giudici nazionali debbono tenerne conto, quanto meno a
fini interpretativi[2].
Venendo ora agli atti
afferenti al c.d. terzo pilastro, di cui all’articolo 34 del Trattato
sull’Unione europea, si ricorda che le decisioni-quadro
sono vincolanti per gli Stati membri quanto al risultato da ottenere, salva
restando la competenza delle autorità nazionali in merito alla forma ed ai
mezzi. Esse hanno dunque caratteristiche analoghe alle direttive ed al pari di
esse non hanno efficacia diretta. Analogamente, le altre decisioni di cui alla lett. c) dell’art. 34 TUE sono
vincolanti e non hanno efficacia diretta. Il Consiglio, deliberando a
maggioranza qualificata, adotta le misure necessarie per l'attuazione di tali
decisioni a livello dell'Unione. Esse si distinguono pertanto dalle decisioni
quadro unicamente per l’oggetto che sono chiamate a disciplinare (per una campo
di applicazione di tali fonti, si veda la scheda Spazio
di libertà, sicurezza e giustizia).
Per quanto riguarda le
procedure di adozione degli atti sopra indicati si veda la scheda Procedure decisionali dell’UE.
Si segnala, comunque, che il
sistema delle fonti del diritto comunitario e la loro stessa denominazione sono
stati ampiamente modificati dal Trattato
che adotta una Costituzione per l’Europa (v. scheda Il Trattato costituzionale).
Da ultimo, si ricorda che
anche le pronunce della Corte di
Giustizia (o del Tribunale di primo grado) possono avere efficacia diretta
nel nostro ordinamento (e, quindi, essere considerate al pari delle fonti del
diritto comunitario), dal momento che l’interpretazione di una norma
comunitaria, resa in una pronuncia della Corte di Giustizia, ha la stessa
immediata efficacia delle disposizioni interpretate. La nostra Corte
costituzionale ha, infatti, chiarito che qualsiasi sentenza che applica o
interpreta le norme dell’UE ha carattere
di sentenza dichiarativa del diritto
comunitario: “la Corte di Giustizia, come interprete qualificato di questo
diritto, ne precisa autoritariamente il significato con le proprie sentenze e,
per tal via, ne determina, in definitiva, l’ampiezza e il contenuto delle possibilità
applicative” (cfr. la sentenza n. 389 del 1989 e la Sentenza
n. 168 del 1991).