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Svolgimento di interpellanze urgenti (ore 9,05).
(Situazione della comunità rom nel comune di Pavia - n. 2-00704)
PRESIDENTE. L'onorevole Gibelli ha facoltà di illustrare la sua interpellanza n. 2-00704 concernente la situazione della comunità rom nel comune di Pavia (Vedi l'allegato A - Interpellanze urgenti sezione 9).
ANDREA GIBELLI. Signor Presidente, ritengo sia utile illustrare l'interpellanza (anche a fronte delle considerazioni che questa mattina anticipano già una parte della risposta) che è rivolta dal nostro gruppo al Governo e che ha dato l'opportunità di estendere un dibattito già abbastanza ampio sui problemi dei nomadi e dei rom in particolare, tenendo conto che vi sono addirittura due interpellanze, una a mia firma e un'altra dell'onorevole Burgio di Rifondazione Comunista, che ha appena terminato il proprio intervento.
Voglio partire da alcune considerazioni che non sono strettamente legate all'interpellanza, anche perché intendo in un'aula parlamentare porgere ufficialmente le scuse ad una comunità, quella di Pieve Porto Morone, che è tutto tranne che razzista, come l'ha definita poc'anzi il collega Burgio di Rifondazione Comunista. Egli sarà andato a trovarli, avrà letto delle scritte, avrà sentito degli slogan, ma io abito a 10 chilometri da Pieve Porto Morone e non prendo lezioni!
Bisogna individuare i motivi che, in una situazione contingente, che non è descrivibile, come abbiamo sentito, hanno condotto un sindaco, alcune amministrazioni e la popolazione locale a iniziare una sorta di rifiuto del campo nomadi che si sono trovati di fronte nel corso di una notte. Essi non erano stati avvertiti, nessuno è stato interpellato: si discorre tanto della democrazia, della partecipazione, del confronto democratico e dell'integrazione, ma tali definizioni astratte, che ho sentito questa mattina, non possono prescindere dal confronto politico e democratico e dalle libere scelte delle comunità. Tutto ciò a Pavia è stato negato, così come a Pieve Porto Morone! Tale circostanza e parte dell'interpellanza riguardano le responsabilità del Ministero dell'interno, nelle funzioni e nei compiti del prefetto di Pavia, e pretendiamo, come Lega Nord, delle risposte precise per evitare che la situazione degeneri proprio in risposta opposta a quanto il collega Burgio ha riferito questa mattina.
Mi dispiace che il collega non abbia il diritto di replica perché la procedura parlamentare relativa alle interpellanze non lo prevede. La mia stima nei suoi confronti rimane assolutamente immodificata, nel confronto politico degli opposti schieramenti, però posso assicurare che la popolazione di Pieve Porto Morone non è descrivibile con le parole a cui faceva prima riferimento, di un pogrom nazista e quant'altro. Si tratta di paura!Pag. 35
Paura è una parola semplice, che non sento mai pronunciare dagli esponenti della sinistra come un motivo razionale (non irrazionale) di domanda di sicurezza.
Abbiamo sentito parlare, nelle interpellanze e anche in questi giorni sui giornali, delle comunità rom catapultate nel nostro Paese, come una filiera storica che viene individuata, secondo me a torto, come appartenente alla comunità nazionale, probabilmente solo in termini storici, ma non di identità (poi si potrebbe parlare di un'identità composita e quant'altro).
Tuttavia, la domanda è un'altra: la popolazione del nostro Paese, che fa i ragionamenti «di pancia», razzisti e ignoranti - come sono stati definiti -, non si pone probabilmente la questione razionale che queste popolazioni, a Pavia, nell'hinterland di Milano e in altre città, sono dedite alla delinquenza?
Ho sentito parlare di integrazione composita delle popolazioni rom nella nostra società. Ma che cosa fanno? Forse, nel lontano Ottocento, con alcuni lavori artigianali sopravvivevano, ma oggi non esiste più questo tipo di rapporto: rubano! Rubano ed è questo il motivo della paura che porta la gente al rispetto della legalità. Si tratta di un fatto culturale. Noi dobbiamo ammettere oggi che, per noi, le popolazioni nomadi, oggi così definite, non esistono più nei fatti; è una scusa per poter passare da un Paese all'altro in maniera impunita a spese dello Stato e della comunità per alimentare la delinquenza. Non ci sono altri motivi per i quali le popolazioni di Pieve Porto Morone, della provincia di Pavia, della Lombardia e di altre zone d'Italia rifiutano tali comunità.
Casi di rapimenti di bambini a Mantova, a Milano e nel Sud sono stati richiamati sui giornali, ma il punto di vista della nostra gente non è mai preso in considerazione. Si sostiene, in maniera errata, il principio che, attraverso la fornitura di campi strutturati e pagati dalle comunità locali (con luce, gas, eccetera), si possa tentare la strada dell'integrazione, ma questa è fallita perché, culturalmente, non esistono più i rom, ma solo la scusa di spostarsi da un posto all'altro per rubare!
Questo è il motivo per il quale le popolazioni si spaventano, rifiutano i rom e ritengono che non vada assolutamente percorsa la strada dell'integrazione, che non esiste: questo è quanto in tutte le occasioni ho sentito, qui e fuori. Le popolazioni coinvolte, guarda caso - questo è il bello che dimostra la verità! -, non si dividono più tra destra e sinistra. Tutti quei moralisti della sinistra per bene, quando hanno il problema sotto casa, sono dalla parte di quei sindaci che stanno dalla parte della legalità e che chiedono al prefetto - come quello di Pavia - di rispettare le regole e di interpellare le comunità.
Sul punto mi aspetto una risposta chiara da parte del Ministero dell'interno, perché esiste questo precedente di un prefetto della Repubblica che ha reso delle dichiarazioni rispetto alle norme che doveva applicare e al confronto che doveva avere con le amministrazioni locali. Vi sono prefetture che possono essere definite quasi delle «monarchie autogestite», figlie di una sorta di solidarietà che non si paga a proprie spese, ma si fa pagare, sui titoli dei giornali, allo Stato.
Perché la solidarietà, signor sottosegretario, appartiene agli uomini e alla responsabilità individuale; non si può dire: «Mi faccio bello, come prefetto, sulla pelle delle comunità locali, tanto non toccherò il mio portafoglio, ma sempre quello di qualche altro cittadino»! Ciò non c'entra nulla con la solidarietà e l'emergenza. Non c'entra nulla, perché le dinamiche dello spostamento da Pavia verso altre comunità sono assolutamente inaccettabili, non avendo coinvolto né le amministrazioni, né le comunità locali.
Purtroppo, c'è una cultura di buonismo. Quando i problemi sono così lontani dai «palazzi», bisogna sempre trovare definizioni astratte e giustificazioni rispetto al fatto che tutto il problema, dimostrato dalle statistiche, di tale incompatibilità, del non voler trovare lavori accettabili o accettati all'interno di una comunità come la nostra, è ben lontano dalle esperienze di tali comunità, che, Pag. 36attraverso la scelta di autoghettizzarsi, continuano a produrre attività criminose: ciò è inaccettabile.
Quindi, l'interpellanza chiede che vengano richiamati - mi aspetto che ciò avvenga - gli obblighi di legge che sottendono ai compiti di un prefetto di una provincia civilissima come quella di Pavia, che non ha nulla a che fare con il razzismo, ma che pretende che lo Stato non definisca in maniera astratta la sicurezza. Fino a qualche settimana fa, infatti, queste popolazioni erano ritenute assolutamente pacifiche: non ci sono mai stati gesti di intolleranza, la democrazia era un aspetto che animava la comunità; e la sinistra è particolarmente rappresentata nella provincia di Pavia. Oggi ci sono le rivolte, non solo di una parte, ma di tutta la comunità.
Poi ci sono le esagerazioni, vi è sempre chi deve individuare un nemico. Quindi, magari c'è qualche responsabilità, qualche esagitato, qualcuno che esagera. Il problema di fondo è che non si può trattare la gente così e non sento mai la riserva di ammettere la possibilità che queste comunità abbiano qualche ragione.
Si è parlato delle comunità rom come se fossero la Silicon Valley della nostra Repubblica e dell'arricchimento culturale. Ciò non appartiene alla realtà delle esperienze quotidiane. Quelli che si verificano alla stazione centrale a Milano non costituiscono dei fatti isolati, ma strutturalmente e culturalmente legati a chi non si vuole e non può integrarsi, perché culturalmente ha deciso che, piuttosto che lavorare, è meglio alimentare attività criminose.
Pretendo le scuse, dunque, rispetto alle accuse che ho colto in alcune interpellanze questa mattina, perché non c'è niente di razzista e le popolazioni per bene, che vogliono la garanzia della legalità nella provincia di Pavia, sono la stragrande maggioranza e mi auguro che sia lo Stato a rispondere, altrimenti ci penseranno i partiti e tutte le persone che si metteranno a fianco di quei partiti che vogliono riportare in ogni caso la legalità (Applausi dei deputati del gruppo Lega Nord Padania e di deputati del gruppo Alleanza Nazionale).
PRESIDENTE. Il sottosegretario di Stato per l'interno, Marcella Lucidi, ha facoltà di rispondere.
MARCELLA LUCIDI, Sottosegretario di Stato per l'interno. Signor Presidente, per esaudire la risposta mi atterrò a ciò che è scritto nel testo dell'interpellanza.
Ovviamente, nell'intervento dell'onorevole Gibelli vi sono aspetti che sollecitano una riflessione di fondo, sulla quale vorrei, con il consenso del Presidente e dell'Assemblea, tentare di interloquire. Trovo, infatti, che tale tema coinvolga davvero la responsabilità politica tutta e, quindi, quella di Governo, fermo restando, onorevole Gibelli, che non c'è un «palazzo» che guarda dall'alto e dall'esterno le dimensioni locali e ciò che lì accade.
Voglio considerare che quando dice «la nostra gente», lo fa perché si considera parte di quella comunità, come lei ha detto, e non in un'accezione di alterità rispetto ad un Governo che, così come quando era guidato dal centrodestra, ora che è guidato dal centrosinistra sente propria l'intera comunità nazionale e, quindi, anche le comunità locali. Parliamo di una «nostra gente» in un'accezione comune all'esperienza politica e che ci chiama ad interessarci dei problemi di tutti coloro che si trovano sul nostro territorio.
Entrando nel merito della questione, ho già detto all'onorevole Burgio che si tratta di una vicenda in divenire, pertanto la situazione che le descrivo è quella che risulta dalle informazioni di cui disponiamo, nulla escludendo che nelle prossime ore e nei prossimi giorni tale situazione possa evolvere, anche attraverso un'ulteriore ricollocazione dei nuclei familiari che sono stati evacuati dall'area dell'ex Snia di Pavia.
La prefettura riferisce che la vicenda ha avuto inizio lo scorso 30 agosto - entrerò un po' più nei particolari di quanto fatto con la precedente risposta - Pag. 37quando, al fine di consentire l'attuazione di un'ordinanza del sindaco di Pavia relativa alla messa in sicurezza di alcuni edifici pericolanti ubicati all'interno dell'area industriale dismessa ex Snia Viscosa, sono stati sgomberati forzosamente circa duecento rumeni di etnia rom che vi dimoravano senza titolo.
In attesa che le persone sgomberate provvedessero autonomamente alla ricerca di soluzioni alloggiative è stato inizialmente offerto loro un servizio di prima assistenza a cura della Croce rossa italiana e della struttura di protezione civile del comune di Pavia, coadiuvato dal comune di Milano.
L'amministrazione del capoluogo, in particolare, si è fatta carico di dare ospitalità ai soggetti in condizione di particolare disagio (disabili, donne in stato di gravidanza) presso propri locali, mentre le altre persone sono state inizialmente ospitate presso una struttura sportiva comunale, dove hanno sostato due giorni.
In considerazione sia della concreta difficoltà a reperire soluzioni alloggiative alternative, sia dello stato di malcontento espresso dalla cittadinanza per il permanere nel capoluogo di tutte le persone sfollate dall'area dell'ex Snia, il 5 settembre si è proceduto ad una ricollocazione sul territorio delle 106 persone che non avevano nel frattempo reperito una diversa sistemazione. Di queste 106 persone, quindici sono state spostate in tre abitazioni libere site nel comune di Pavia (per due delle quali il prefetto di Pavia ha adottato un provvedimento di requisizione della durata di tre mesi); dieci sono state ospitate presso alcuni locali messi a disposizione dalla «Casa del giovane» di Pavia, una struttura di accoglienza gestita da un sacerdote della diocesi locale; trentacinque sono state distribuite in cinque unità abitative da lungo tempo disabitate site nel comune di Albuzzano, anche queste requisite con un provvedimento del prefetto della durata di tre mesi; quarantasei sono state allocate all'interno di una struttura libera messa a disposizione dal vescovo di Pavia, nel comune di Pieve Porto Morone, la Cascina Gandina, già utilizzata come comunità per tossicodipendenti.
I provvedimenti adottati dal prefetto sono stati assunti per far fronte ad una emergenza di tipo umanitario, ma anche per contenere l'esasperazione crescente che si registrava nella città di Pavia, dove la contrapposizione tra i movimenti a sostegno dei rom - gruppi della sinistra radicale, centri sociali - e movimenti di estrema destra rischiava di degenerare.
Alla notizia dell'insediamento sul loro territorio dei rom sgomberati, una parte dei cittadini residenti nei comuni di Albuzzano e Pieve Porto Morone ha dato inizio a manifestazioni spontanee di protesta per chiedere, con toni talvolta esacerbati, il loro immediato allontanamento.
Nel comune di Albuzzano, le manifestazioni lungo l'ex strada statale 235 hanno determinato l'interruzione del traffico veicolare sull'arteria, mentre a Pieve Porto Morone è stato posto un presidio dinanzi alla struttura che alloggia i cittadini rom, con invettive al loro indirizzo e, nella notte del 9, anche con il lancio di alcuni sassi contro una finestra della cascina. Nessuna persona è stata ferita in tale circostanza.
Lo stato di tensione ha reso necessaria l'attuazione di un dispositivo fisso delle forze di polizia in entrambi i comuni interessati dalle proteste. Al momento, il numero dei cittadini rom presenti nelle strutture richiamate si è ulteriormente ridotto, poiché molti di loro hanno scelto di lasciare la provincia. Ciò ha determinato un'attenuazione delle proteste nel comune di Albuzzano, mentre vi sono ancora tensioni a Pieve Porto Morone. La situazione resta tuttora in costante evoluzione e attualmente, secondo i dati forniti dalla prefettura, sedici persone sono ad Albuzzano e ventuno a Pieve Porto Morone.
Quanto all'applicazione del decreto legislativo 6 febbraio 2007, n. 30, la prefettura di Pavia ha adottato quindici decreti di allontanamento nei confronti di cittadini rom dimoranti presso l'area ex SNIA Viscosa, mentre è in fase di avvio il Pag. 38procedimento per l'allontanamento di altre undici persone. Tra i provvedimenti adottati, quattro sono stati impugnati dinanzi alla competente autorità giudiziaria, che ne ha confermati tre e annullato uno. Fin qui i fatti specifici riguardanti la provincia. Rinviando ad ogni valutazione conclusiva la definitiva soluzione della vicenda, aggiungo che i provvedimenti adottati dalla prefettura sono stati dettati dall'urgente e indifferibile necessità di fronteggiare un'emergenza che, al di là delle ragioni di carattere umanitario, che pur non vanno trascurate, comportava oggettivi profili di rischio anche per l'ordine e la sicurezza pubblica. Riprendo il ragionamento iniziale, per affermare che è evidente che tale vicenda non può non essere inquadrata nel più ampio contesto delle problematiche relative all'accoglienza delle popolazioni nomadi, al loro inserimento sociale e alle qualità delle relazioni con le popolazioni residenti, spesso difficili e problematiche.
L'onorevole Gibelli parlava di paura. Credo che l'atteggiamento responsabile sia quello di non sottovalutare mai le paure rappresentate dalle persone che, al contrario, vanno prese sul serio, soprattutto quando manifestano e paventano un'inquietudine rispetto alle condizioni di sicurezza per la loro esistenza; qualunque condizione di sicurezza, anche quella relativa al timore di rimanere vittime di possibili episodi criminali.
Ritengo che la politica abbia il compito di parlare alla paura, di non strumentalizzarla, né di abusarne, per non creare un effetto moltiplicatore della paura stessa che rende poi difficile a tutti i soggetti politici garantire l'obiettivo a loro affidato; ossia il mantenimento all'interno della comunità di un tratto democratico, che sicuramente esiste nella comunità di cui si tratta come in molte altre comunità italiane che oggi si misurano con la problematica della presenza dei rom. Voglio dire che non si può perdere di vista l'ottica generale rispetto alla questione e la necessità di governarla - mi rivolgo anche a lei, onorevole Gibelli - con una prospettiva che sia dinamica e risolutiva.
Penso che tale sia la funzione che la politica, e quindi il Governo in prima persona, deve assumere oggi, come ieri, perché anche in passato sul territorio nazionale vi erano comunità rom e oggi, come ieri, vi sono collettività in stato di disagio e con difficoltà di integrazione, così come permangono comunità nelle quali il tema dei minori è molto presente e forte o nelle quali esiste anche una componente di delittuosità.
Oggi come ieri la politica ha il compito di affrontare una questione che interessa tutto il territorio dello Stato, che non riguarda, quindi, la singola comunità, che pure va rispettata - come lei dice - nelle sue aspettative e attese rispetto al desiderio legittimo di pacifica convivenza. Tuttavia, rispetto a ciò, non possiamo trascurare che esiste un tema che va governato nella direzione, comunque, di possibili soluzioni che si possono individuare. Credo che a partire da questo episodio, da quello di Livorno, abbiamo il dovere di confrontarci e di indicare quali soluzioni possibili immaginare.
Precedentemente affermavo che, per quanto riguarda il nostro Ministero, stiamo ipotizzando una conferenza internazionale che aiuti ad avere anche un confronto sulle best practice adottate in ambito europeo. L'Unione europea, inoltre, ci richiama a non tenere comportamenti discriminatori e su ciò richiama anche gli enti locali che, invece, devo dire - lo ho ricordato anche in precedenza - stanno mostrando prova di grande attenzione alle problematiche relative all'integrazione di queste comunità, investendo risorse.
Credo che tutto ciò debba porsi in un ragionamento complessivo che si può svolgere, e che va svolto, in ambito nazionale, proprio per aiutare da una parte le amministrazioni locali a non essere sole ad affrontare le questioni, e dall'altra le comunità locali a non sentirsi - anche loro - poste in un'ottica solitaria e a doversi confrontare con un problema che, tuttavia, esiste e che verte su comunità che non possiamo assolutamente trascurare nei caratteri di cui sono portatrici e che chiedono Pag. 39davvero attenzione, senza mai trascurare l'ottica di legalità, così come quella di accoglienza positiva e dinamica. Soprattutto, è necessario fornire una risposta al bisogno di sicurezza che i cittadini pongono.
PRESIDENTE. L'onorevole Gibelli ha facoltà di replicare.
ANDREA GIBELLI. Signor Presidente, francamente mi ritengo ampiamente insoddisfatto della risposta. Tuttavia, tenterò di fornire delle spiegazioni. L'intervento del sottosegretario si articola su due capisaldi, di cui devo ammettere di essere particolarmente sorpreso. Ho accettato il confronto, e anche l'invito, a un dialogo che non è possibile affrontare in una interpellanza, forse ci saranno altre occasioni in Parlamento per un confronto più diretto. Tuttavia, signora sottosegretario, non ha avuto nemmeno un sussulto rispetto ad una esposizione, che letteralmente, contiene frasi che mi hanno lasciato sconcertato. Quando lei parla di case requisite ad Albuzzano, non si riferisce ad un episodio normale in un Paese normale. Non è possibile che il prefetto occupi case abbandonate senza fornire spiegazioni se erano di proprietà di qualcuno e che il termine occupazione - tanto caro alla sinistra - debba diventare un fatto-istituzione di un contesto democratico! Si dà per scontato che se vi è una casa abbandonata di fianco alla mia, per necessità e per motivi umanitari - come lei li ha definiti -, si occupa la casa per risolvere un problema, in modo da evitare uno scontro.
È la mancanza del sussulto, ovvero della riserva culturale su tali modalità che mi ha lasciato sconcertato. Capisco la necessità di risolvere il problema, tuttavia siamo passati a Pieve Porto Morone: occupazione di alcuni terreni e di alcuni locali offerti. La comunità della Bassa pavese si era espressa contrariamente, non solo la comunità locale di Pieve Porto Morone, ma tutti i sindaci - compresi quelli di sinistra -, sulle non condizioni di accettabilità.
L'occupazione di terreni da parte del prefetto è un fatto ormai necessario e quindi fa tornare - questa è la terza considerazione da lei svolta - alla «ricollocazione» sul territorio delle ricordate popolazioni. Sottosegretario, lei parla di «ricollocazione» sul territorio: ma non stiamo spostando delle mandrie, bensì delle popolazioni. «Ricollocazione» è un termine che usava Stalin, quando spostava le popolazioni! Non si tratta di una polemica: sono spaventato per il fatto che si dia per scontato che, senza il confronto con le comunità, si abbia l'autorità di spostare e «ricollocare» persone dietro motivazioni di ordine umanitario e di sicurezza, senza fornire risposte in termini di rispetto delle norme. Se, infatti, passa il principio secondo il quale un prefetto, per motivi umanitari e legati alla sicurezza, non rispetta le leggi di questo Stato, non c'è né destra né sinistra che si salvi! Il problema non si risolve così! Ho dedicato l'80 per cento del mio intervento precedente al fine non di aizzare la popolazione, ma di spiegare che, secondo il principio di una parola che oggi è diventato un tabù - la «paura» (nel senso che tutti ne parlano, ma poi la risposta a questa sensazione viene spesso liquidata come una sorta di meccanismo non razionale, di «pancia», di non rispetto, di democrazie non compiute... definizioni tutte astratte) - la soluzione c'è.
Ho impostato l'80 per cento del mio intervento sul fatto che considero i rom una comunità non più collocabile culturalmente rispetto ai presupposti della fine dell'Ottocento e dell'inizio del Novecento, ma una comunità che ha scelto quelle modalità di vita perché ritiene utile per sé praticare attività che si è ampiamente dimostrato essere illegali: ciò non può giustificare qualunque soluzione di tolleranza per motivi culturali. Avendomi lei richiamato alle mie responsabilità, ci ho pensato (non oggi, dal momento che, nei cinque anni di Governo precedente, il metodo che avevamo adottato, pur non avendo risolto tutti i problemi, aveva, comunque, il punto fermo di non individuare Pag. 40mai soluzioni fondate sulla mediazione con culture che ammettono l'illegalità): l'illegalità è il punto fermo.
Ciò non avviene per i motivi culturali e di disagio di cui si parla (motivi che è da dimostrare siano finalizzati ad una reale condizione di impraticabilità di alcune attività di lavoro). Ci troviamo, invece, di fronte ad una «maschera» con la quale, dietro alla definizione di disagio e di culture che praticano da secoli il nomadismo, si tollera l'illegalità. Ciò non è accettabile: è questa la prima risposta che deve fornire uno Stato, che non può trovare assolutamente mediazioni.
Mi aspettavo, francamente, una risposta più netta nei confronti dell'attività del prefetto di Pavia: per noi è grave che, dietro la definizione di sicurezza e di questioni legate a motivi umanitari, le norme siano interpretate in un modo in cui non sono interpretabili, per come oggi le vicende nella provincia di Pavia si stanno susseguendo. Ritengo, pertanto, che questa possa diventare l'occasione per ritornare in maniera articolata sul fatto che oggi ci troviamo di fronte ad una situazione che - come affermavo nel mio intervento iniziale - colloca questo tema in una dimensione non più ai margini, ma ormai come un problema quasi strutturale, perché abbraccia le problematiche di moltissime comunità.
L'unica soluzione, le dicevo, non è quella di capire tutte - e sempre - le ragioni degli altri, ma di capire che vi è solo una forma di legalità, che è quella che noi ci siamo dati: o si vive nella legalità, o non si può stare nella nostra comunità.
Il Prefetto aveva gli strumenti di legge, compresi quelli adottati nel 2007, quindi da qualche mese, per poter allontanare queste popolazioni dalla provincia di Pavia, perché le stesse, nel corso degli anni, hanno dimostrato, di non volersi integrare e di essere comunque legate a una cultura che è stata definita e si è autodefinita incompatibile, per scelta, con la nostra realtà. Poiché ritengo che tutti gli uomini possano scegliere e che non vi siano solo costrizioni, ma anche libertà di scegliere altri modelli di vita, credo che questa scelta non sia stata adottata. Quando dietro la definizione della società multiculturale si ammettono fette di illegalità tollerate, il risultato è questo ed è assolutamente inaccettabile. Quindi, penso che nei prossimi mesi ci saranno le condizioni per tornare su questo argomento e trovare soluzioni.
Abbiamo constatato che anche ministri del centrosinistra hanno inaugurato la cosiddetta «tolleranza zero». Quando l'avevamo proposta noi del Governo di centrodestra, nella precedente legislatura, la definizione era «intolleranza e razzismo». I muri sono stati costruiti in città in cui ci sono sindaci di centrosinistra e le deportazioni e le ricollocazioni fanno parte di una cultura che mi farebbe comunque riflettere un po' di più quando in un'aula parlamentare sento pronunciare il termine «requisite abitazioni» con la leggerezza con cui è stato pronunciato oggi in quest'aula.
Per me, infatti, è comunque un fatto grave, una violenza che tenta di risolvere un problema, perché deportando persone per motivi di sicurezza il problema non si risolve. È solo un modo per spostarlo, esasperandolo, da un'altra parte.